Codice Civile art. 2564 - Modificazione della ditta.Modificazione della ditta. [I]. Quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può creare confusione [2598 n. 1] per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla [2568]. [II]. Per le imprese commerciali [2195] l'obbligo dell'integrazione o modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore [2188]. InquadramentoLa ditta, comunque sia formata, deve contenere, a norma dell'art. 2563, comma 2, almeno il cognome o la sigla dell'imprenditore, salvo quanto è disposto dal successivo art. 2565. Tuttavia, in base all'art. 2564, comma 1, — applicabile anche all'insegna in virtù dell'art. 2568 —, allorché la ditta sia uguale o simile a quella usata da un altro imprenditore e possa creare confusione per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa venga esercitata, essa «deve essere integrata o modificata con indicazione idonee a differenziarla» (Cass. n. 12136/2013). In tema di confondibilità della denominazione sociale, il giudice, nel dare attuazione al disposto dell'art. 2564, non incontra alcun limite nell'imporre la modifica necessaria a differenziare la ditta da quella usata da un altro imprenditore eliminandone una parte, restando salva la facoltà dell'impresa di adottare una denominazione diversa, purché non faccia uso del termine, o dei termini, il cui uso è stato inibito dal giudice (Cass., n. 12136/2013). Nell'ambito della ditta, il nome ed il patronimico devono essere utilizzati esclusivamente in funzione identificativa della titolarità dell'impresa e non come elementi distintivi della ditta stessa, a tutela dei quali vige il principio della priorità dell'uso. Ne consegue che, quando il patronimico costituisca il cuore della denominazione di altra ditta già operante nel medesimo settore commerciale, l'inclusione del nome e del patronimico nella ditta, richiesti dall'art. 2563, comma 2, non possono svolgere una funzione caratterizzante, ma devono essere inseriti nel contesto di ulteriori indicazioni idonee a prevenire il rischio di confusione. A tal fine, non costituisce idoneo elemento distintivo la mera aggiunta, in diretta continuità lessicale con il patronimico, della categoria di prodotti commercializzati (Nella fattispecie, la Corte, confermando la sentenza di secondo grado, ha ritenuto insufficiente al fine di escludere al confusione la mera indicazione, accanto al patronimico, della parola «gioielli») (Cass. n. 16283/2009). Ai sensi dell'art 2564, nel conflitto fra i titolari di ditte uguali o simili, legittimamente usate per effetto dell'identità o similarità dei cognomi dei rispettivi titolari, il giudice può disporre modificazioni, aggiunte o soppressioni, fino alla eliminazione del cognome dalla ditta sorta successivamente, ove quel conflitto sia tale da creare confusione per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa e esercitata. A tal fine, deve tenersi conto non solo della specifica attività e della zona nella quale l'impresa opera in un determinato momento, ma anche delle attività complementari ed affini a cui l'impresa medesima abbia attitudine, nonché delle sue potenziali capacita di penetrazione economica in altre zone (Cass. n. 3084/1978). In tema di segni distintivi dell'impresa, chi abbia registrato una ditta individuale (registrazione divenuta possibile solo a seguito della l. n. 580/1993) non prevale su chi lo abbia preceduto per il solo fatto di avere adempiuto alle relative formalità rispetto al titolare del medesimo segno che ne abbia fatto uso in precedenza, atteso che - con riferimento al conflitto tra il preutente da epoca anteriore al 1993 ed il successivo registrante - la sola registrazione non determina automaticamente l'acquisto del diritto, né la sua prevalenza rispetto al segno in conflitto. Inoltre, il preutente prevale nei confronti del primo registrante quando la coesistenza tra i due segni (quello preusato e quello registrato) possa determinare confusione con riferimento alla classe merceologica o dei servizi e al contesto territoriale di impiego dei segni confliggenti (Cass. n. 971/2017). Qualora due società di capitali abbiano la medesima denominazione il conflitto tra i segni distintivi deve essere risolto attribuendo prevalenza all'iscrizione nel registro delle imprese, o nel registro delle società per il periodo che precede l'entrata in vigore della l. n. 580/1993, che è intervenuta per prima, senza che assuma rilievo né il mero pregresso utilizzo della stessa denominazione da parte di altra società, che ha cessato da tempo di operare e che faceva capo a familiari del socio di una della società registrata per seconda, né il fatto che la denominazione di quest'ultima coincida col cognome di uno di tali soci (Cass.n. 21403/2019). Tutela della dittaLa ditta, comunque sia formata, deve contenere, a norma dell'art. 2563, comma 2, almeno il cognome o la sigla dell'imprenditore, salvo quanto è disposto dal successivo art. 2565. Tuttavia, in base all'art. 2564, comma 1, applicabile anche all'insegna in virtù dell'art. 2568 — allorché la ditta sia uguale o simile a quella usata da un altro imprenditore e possa creare confusione per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa venga esercitata, essa «deve essere integrata o modificata con indicazione idonee a differenziarla» (Cass. 12568/2004; sul potere del giudice di ordinarie integrazioni o modificazioni della ditta cfr. Cass. n. 2740/1993, Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 361, con nota di Scassellati Sforzolini, Sulla sopprimibilità dl patronimico nel caso di ditte confondibili). Qualora la denominazione dell'impresa altrui venga da altri usata per contraddistinguere un'attività in un settore merceologico radicalmente diverso da quello in cui operi tale impresa e non riconducibile neppure nell'ambito di prevedibili espansioni future dell'esercizio di quest'ultima, resta esclusa la configurazione di atti di concorrenza sleale ovvero di atti di lesione dei diritti inerenti all'uso della ditta (Cass. n. 10521/1994). I principi elaborati in ordine alla capacità distintiva e alla novità dei marchi — per i quali esiste una specifica disciplina —, in quanto rispondenti alla «ratio» di assicurare al segno distintivo originalità e, appunto, novità, e perciò la indispensabile attitudine alla sua funzione, sono applicabili, per analogia, in difetto di un'espressa disciplina, anche alla ditta e alla denominazione sociale — beninteso, nei limiti della compatibilità con la specifica disciplina e la funzione di queste —, segni distintivi propri, rispettivamente, dell'imprenditore individuale e delle società. Pertanto, anche in tema di denominazione sociale — ove non siano ravvisabili elementi ostativi —, parole di uso comune e denominazioni geografiche, ovvero aggettivazioni delle stesse, che di per sé non hanno capacità distintiva, possono acquistarla, se combinate fra loro o con parole fantastiche o non di uso comune, come, del pari, possono acquistarla per il semplice fatto che siano diventate notorie come denominazione di una determinata società operante in un determinato territorio ed avente un certo oggetto sociale. Ai fini della rilevanza della confondibilità delle denominazioni sociali, alla stregua dell'art. 2564, inoltre, non devono considerarsi tanto le attività svolte in concreto dalle società che abbiano denominazioni simili, quanto la potenziale concorrenzialità fra di esse, desumibile dall'oggetto sociale, quale espressione dell'ambito complessivo di attività che le società, anche in futuro, potrebbero svolgere nel mercato di riferimento (Fattispecie nella quale una società richiedeva tutela in base all'anteriorità dell'uso della denominazione «Tranceria ligure» nei confronti di altra, operante nella medesima Regione ed in un settore merceologico similare, che utilizzava la medesima denominazione, poi modificata in «Nuova tranceria ligure»; nell'affermare il principio suindicato, la giurisprudenza, ha ritenuto correttamente motivata la ritenuta confondibilità delle denominazioni, anche con la modifica apportata dalla seconda società, con la conseguente inibizione a quest'ultima dell'uso del termine «ligure») (Cass. n. 7651/2007). Ai fini della valutazione della possibilità di confusione tra le denominazioni di due società, alla stregua dell'art. 2564, per l'oggetto delle imprese ed il luogo in cui esse sono esercitate, non è necessario prendere in considerazione le attività effettivamente svolte dalle società, essendo sufficiente il rapporto fra i rispettivi oggetti sociali, risultanti dagli atti costitutivi sottoposti a pubblicità; l'oggetto sociale costituisce, infatti, non solo la sfera di azione tecnica della società, ma anche l'esteriorizzazione della sua potenzialità espressiva ed espansiva, immediatamente percepibile da tutti i soggetti che entrino in rapporto con essa, in forma negoziale o concorrenziale (Cass. n. 10587/2009). Si è precisato che con riferimento ai segni distintivi, la scissione parziale societaria dà luogo ad una vicenda non meramente organizzativa, ma sostanzialmente traslativa dei beni inclusi nel patrimonio attribuito alla società beneficiaria della scissione, con la conseguenza che, essendo il marchio e la denominazione sociale dei segni distintivi autonomi - avendo il primo la funzione di identificare i prodotti fabbricati o commercializzati od i servizi resi da un imprenditore, la seconda quella di individuare la società come soggetto di diritto - l'attribuzione del marchio non implica anche il trasferimento della denominazione sociale, la quale può essere oggetto di valido trasferimento inter vivos, anche ove assimilata alla ditta sociale, solo nel caso in cui sia ceduta l'intera azienda, previo espresso consenso dell'alienante (Cass. n. 11104/2023). Giudizio di confondibilitàI principi elaborati in ordine alla capacità distintiva e alla novità dei marchi — per i quali esiste una specifica disciplina —, in quanto rispondenti alla «ratio» di assicurare al segno distintivo originalità e, appunto, novità, e perciò la indispensabile attitudine alla sua funzione, sono applicabili, per analogia, in difetto di un'espressa disciplina, anche alla ditta e alla denominazione sociale — beninteso, nei limiti della compatibilità con la specifica disciplina e la funzione di queste —, segni distintivi propri, rispettivamente, dell'imprenditore individuale e delle società. Pertanto, anche in tema di denominazione sociale — ove non siano ravvisabili elementi ostativi —, parole di uso comune e denominazioni geografiche, ovvero aggettivazioni delle stesse, che di per sé non hanno capacità distintiva, possono acquistarla, se combinate fra loro o con parole fantastiche o non di uso comune, come, del pari, possono acquistarla per il semplice fatto che siano diventate notorie come denominazione di una determinata società operante in un determinato territorio ed avente un certo oggetto sociale. Ai fini della rilevanza della confondibilità delle denominazioni sociali, alla stregua dell'art. 2564, inoltre, non devono considerarsi tanto le attività svolte in concreto dalle società che abbiano denominazioni simili, quanto la potenziale concorrenzialità fra di esse, desumibile dall'oggetto sociale, quale espressione dell'ambito complessivo di attività che le società, anche in futuro, potrebbero svolgere nel mercato di riferimento (Fattispecie nella quale una società richiedeva tutela in base all'anteriorità dell'uso della denominazione «Tranceria ligure» nei confronti di altra, operante nella medesima Regione ed in un settore merceologico similare, che utilizzava la medesima denominazione, poi modificata in «Nuova tranceria ligure»; nell'affermare il principio suindicato, la giurisprudenza ha ritenuto correttamente motivata la ritenuta confondibilità delle denominazioni, anche con la modifica apportata dalla seconda società, con la conseguente inibizione a quest'ultima dell'uso del termine «ligure») (Cass. n. 7651/2007). FallimentoQuand'anche dichiarata fallita, una società ha interesse alla tutela della propria denominazione sociale, in primo luogo perché essa non si estingue a causa della dichiarazione di fallimento; in secondo luogo perché conserva il diritto esclusivo sul segno distintivo fino alla estinzione che avviene successivamente alla dichiarazione di fallimento; in terzo luogo perché tale diritto esclusivo si traduce in un interesse concreto sia nella prospettiva di un esercizio provvisorio fallimentare, ipoteticamente sempre possibile, sia soprattutto quale elemento atto a favorire la liquidazione fallimentare; ed infine ove il fallimento avesse disposto della denominazione sociale trasferendola a terzi, perché persisterebbe l'interesse ad agire per la tutela della validità e dell'efficacia dell'alienazione effettuata, e a copertura di una eventuale responsabilità (Cass. n. 1994/2755). BibliografiaAscarelli, Teoria della concorrenza e dei beni materiali, Milano, 1960, 399; Auteri, voce Ditta, in Enc. giur., Roma, 1989, 3; Campobasso, Diritto commerciale, I, Torino, 2013, 164; Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, 244; Greco, I diritti sui beni immateriali, 76; Mangini, voce: Ditta, in Dig. comm., V, Torino, 1990, 79; Martorano, Manuale di diritto commerciale, a cura di Buonocore, Torino, 2013, 503; Salandra, Manuale di diritto commerciale, I, Milano, 1996, 87; Vanzetti, La nuova legge marchi, Milano, 2001, 38. |