Codice Civile art. 2598 - Atti di concorrenza sleale.

Roberto Amatore
aggiornato da Francesco Agnino

Atti di concorrenza sleale.

[I]. Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi [2563 ss., 2569 ss.] e dei diritti di brevetto [2584 ss.], compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;

2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;

3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda [1175] (1).

(1) V. art. 6 2 d.P.R. 6 aprile 2001, n. 218 in tema di vendita sottocosto.

Inquadramento

Oggetto di protezione delle norme di legge volte a reprimere la concorrenza sleale non sono i prodotti del soggetto passivo della concorrenza, non esistendo un diritto assoluto del soggetto medesimo alla tutela ed avendo l'azione di concorrenza sleale carattere personale (Cass. n. 3292/1971). In tema di concorrenza sleale, va esclusa la configurabilità di un illecito «per denigrazione» nella ipotesi di spedizione, ad una ditta concorrente, di una diffida dal proseguire la produzione o commercializzazione di un prodotto in assenza di prova della comunicazione (o della potenziale comunicabilità) al pubblico dell'atto predetto, mentre legittima è la configurazione, quanto alla medesima vicenda, di una fattispecie residuale di illecito per «violazione del criterio della correttezza professionale», ex art. 2598, n. 3, qualora sussista la prova della consapevolezza, da parte del diffidante, della assoluta infondatezza dell'atto di diffida, che si appalesi, per l'effetto, come inequivocabilmente idoneo a cagionare danno all'azienda nei confronti della quale esso illegittimamente vien mosso, in forza di una asserita (quanto inesistente) pretesa brevettuale relativa al prodotto oggetto della contestata produzione o commercializzazione (Cass. n. 11859/1997). La ragione della assunzione della «concorrenza» a valore da proteggere consiste nella esigenza di consentire una competizione che premi l'efficienza assicurando la sostituibilità, da parte del consumatore, dei prodotti che soddisfano la medesima esigenza. Sotto un tal riguardo, la scelta di abbassare i costi di produzione di uno specifico bene aggredisce legittimamente la clientela del concorrente, se è conseguita attraverso mezzi leciti. Non è legittima, invece, se adopera mezzi che escludono la consapevolezza del consumatore nella scelta, e se fa premio sull'handicap costituito, per i concorrenti, dall'osservanza delle norme che regolano l'offerta di quello specifico prodotto (Cass. n. 10684/2000). La concorrenza sleale deve, comunque, consistere in attività dirette ad appropriarsi illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela del concorrente, che si concretino nella confusione dei segni prodotti, nella diffusione di notizie e di apprezzamenti sui prodotti e sull'attività del concorrente o in atti non conformi alla correttezza professionale; con la conseguenza che l'illecito non può derivare dal danno commerciale in sé, né nel fatto che una condotta individuale di mercato produca diminuzione di affari nel concorrente, in quanto il gioco della concorrenza rende legittime condotte egoistiche, dirette al perseguimento di maggiori affari, attuate senza rottura delle indicate regole legali della concorrenza (affermando tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che non ha ritenuto configurabile un illecito concorrenziale nell'attività di un'impresa di vendite per corrispondenza, la quale, acquistati legittimamente all'estero diversi capi d'abbigliamento di una casa italiana d'alta moda, li ha messi in vendita mediante catalogo postale, non determinando tale attività una scorretta ingerenza nella diffusione selettiva e nell'organizzazione d'impresa della casa di moda (Cass. n. 6887/1996).

Sussiste la competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ai sensi dell'art. 3 d.lgs. n. 168/2003, allorché, ai fini della decisione sulla domanda di repressione della concorrenza sleale o di risarcimento dei danni, debba verificarsi se i comportamenti denunciati interferiscano con un diritto di esclusiva (concorrenza sleale c.d. interferente) avendo riguardo a tali fini alla prospettazione dei fatti da parte dell'attore ed indipendentemente dalla loro fondatezza (Cass. ord.  n.  2680 /2018).

In tema di concorrenza sleale, una volta dimostrata l'esistenza del danno da essa derivato è consentito al giudice l'utilizzo del criterio equitativo per la relativa liquidazione (Cass. ord.  n.  30214/2017: nella specie la S.C. ha confermato la sentenza con la quale la Corte territoriale, accertata l'esistenza del danno derivato dall'utilizzazione parassitaria della banca dati della danneggiata ed il conseguente forte incremento del fatturato da parte della società responsabile del fatto, legittimamente aveva fatto ricorso all'utilizzo del criterio equitativo nella liquidazione del danno).

La concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall'art. 2598, n. 3, consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell'imprenditore concorrente attraverso l'imitazione non tanto dei prodotti ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest'ultimo, mediante comportamenti idonei a danneggiare l'altrui azienda con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale; essa si riferisce a mezzi diversi e distinti da quelli relativi ai casi tipici di cui ai precedenti nn. 1 e 2 della medesima disposizione, sicché, ove si sia correttamente escluso nell'elemento dell'imitazione servile dei prodotti altrui il centro dell'attività imitativa (requisito pertinente alla sola fattispecie di concorrenza sleale prevista dal n. 1 dello stesso art. 2598), debbono essere indicate le attività del concorrente sistematicamente e durevolmente plagiate, con l'adozione e lo sfruttamento, più o meno integrale ed immediato, di ogni sua iniziativa, studio o ricerca, contrari alle regole della correttezza professionale (Cass.  n.  25607/2018).

Nella cosiddetta concorrenza parassitaria, l'imitazione può considerarsi illecita soltanto se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza parassitaria diacronica) o dall'ultima e più significativa di esse (in quella sincronica), là dove per "breve" deve intendersi quell'arco di tempo per tutta la durata del quale l'ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari (di incassi, di pubblicità, di avviamento) dal lancio della novità, ovvero fino a quando essa è considerata tale dai clienti e si impone, quindi, alla loro attenzione nella scelta del prodotto. Ciò in quanto la creatività è tutelata nel nostro ordinamento solo per un tempo determinato, fino a quando l'iniziativa può considerarsi originale, sicchè quando l'originalità si sia esaurita, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commerciare sia divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di quanti operano nel settore, l'imitazione non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l'altrui azienda (Cass. n.  25607/2018 ). Può configurarsi un atto di concorrenza sleale in presenza del trasferimento di un complesso di informazioni aziendali da parte di un ex dipendente di imprenditore concorrente, pur non costituenti oggetto di un vero e proprio diritto di proprietà industriale quali informazioni riservate o segreti commerciali, ma è necessario che ci si trovi in presenza di un complesso organizzato e strutturato di dati cognitivi, seppur non segretati e protetti, che superino la capacità mnemonica e l'esperienza del singolo normale individuo e configurino così una banca dati che, arricchendo la conoscenza del concorrente, sia capace di fornirgli un vantaggio competitivo che trascenda la capacità e le esperienze del lavoratore acquisito. (Nella specie la S.C. ha ritenuto che l'apporto di conoscenze, c.d. know how aziendale, assicurato al nuovo datore di lavoro da un dipendente precedentemente occupato presso impresa concorrente, non possa comportare l'integrazione di atti di concorrenza sleale a danno di quest'ultima, a meno che non risultino trasferiti dati protetti oppure una intera banca dati che trascenda le competenze ed i ricordi del lavoratore acquisito: Cass. n. 18772/2019). In materia di concorrenza sleale, qualora risulti prospettata la ricorrenza di un illecito concorrenziale tra imprenditori posto in essere valendosi delle informazioni fornite da un lavoratore, prima dipendente dell'uno e poi dell'altro, è ammissibile la prosecuzione dei giudizio nei confronti del lavoratore dipendente, uno dei corresponsabili solidali originariamente individuati, sebbene la controversia tra gli imprenditori sia cessata, avendo essi raggiunto un accordo transattivo (Cass. n. 18772/2019). Gli atti di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 presuppongono un rapporto di concorrenza tra imprenditori, sicché la legittimazione attiva e passiva all'azione richiede il possesso della qualità di imprenditore; ciò, tuttavia, non esclude la possibilità del compimento di un atto di concorrenza sleale da parte di chi si trovi in una relazione particolare con l'imprenditore, soggetto avvantaggiato, tale da far ritenere che l'attività posta in essere sia stata oggettivamente svolta nell'interesse di quest'ultimo, non essendo indispensabile la prova che tra i due sia intercorso un "pactum sceleris", ed essendo invece sufficiente il dato oggettivo consistente nell'esistenza di una relazione di interessi tra l'autore dell'atto e l'imprenditore avvantaggiato, in carenza del quale l'attività del primo può eventualmente integrare un illecito ex art. 2043 , ma non un atto di concorrenza sleale. (Cass. n. 18772 /2019 ).

Illecito extracontrattuale

In tema di brevetto per modello di utilità, l'imitazione servile del prodotto di impresa concorrente può configurare atto di concorrenza sleale a prescindere dalla circostanza che il prodotto imitato costituisca oggetto di privativa; tuttavia, il danno cagionato dalla commercializzazione in tale ipotesi non è in re ipsa, ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore dell'illecito di violazione di privativa rispetto alla distorsione della concorrenza, richiede di essere provato secondo i principi generali che regolano le conseguenze del fatto illecito, solo tale avvenuta dimostrazione consentendo al giudice di passare alla liquidazione del danno (Cass. n. 1000/2013). In relazione a comportamenti antigiuridici atti a protrarsi nel tempo, l'esperibilità dell'azione inibitoria, rivolta cioè a conseguire una pronuncia del giudice che precluda la prosecuzione dei comportamenti medesimi, non configura espressione di un principio generale dell'ordinamento, e può essere riconosciuta soltanto nelle materia in cui è specificamente contemplata dalla legge. Peraltro, nell'ambito di tali materie, deve ammettersi la possibilità di una applicazione analogica della norma che preveda l'inibitoria (art. 12, comma 2, disp.), con riguardo a casi simili, per i quali non si giustificherebbe una deteriore tutela del soggetto a fronte del probabile ripetersi del fatto dannoso. Pertanto, nella ipotesi di comportamento lesivo della sfera patrimoniale dello imprenditore, il quale, pur difettando dei requisiti per essere qualificato come atto di concorrenza sleale, integri un illecito aquiliano, deve ritenersi esperibile l'indicata azione, facendo applicazione per analogia dell'art. 2599 in tema di concorrenza sleale (Cass. n. 4755/1986). Le azioni derivanti dalla concorrenza sleale sono soggette alla prescrizione quinquennale stabilita dall'art 2947 (Cass. n. 1754/1974).

In tema di risarcimento del danno da atti di concorrenza sleale, la relativa azione è soggetta alla prescrizione quinquennale ex art. 2947; tuttavia, la costituzione di parte civile nel processo penale produce, come ogni altra domanda giudiziale, un effetto interruttivo permanente della prescrizione del diritto al risarcimento del danno scaturito dal reato per tutta la durata del processo, nei confronti tanto di coloro contro i quali viene rivolta espressamente la costituzione, quanto dei coobbligati solidali, ancorché rimasti estranei al processo penale, e il termine di prescrizione riprende a decorrere dal momento in cui è divenuta irrevocabile la sentenza penale che ha definito il giudizio (Cass. n. 28456/2017).

Presupposto applicativo: il rapporto di concorrenza

In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell'illecito è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno. La sussistenza di tale requisito va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l'attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l'offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale (Cass. n. 17144/2009). La nozione di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 va desunta dalla «ratio» della norma, che impone, alle imprese operanti nel mercato, regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna si possa avvantaggiare, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l'adozione di metodi contrari all'etica delle relazioni commerciali; ne consegue che si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni. Infatti, quale che sia l'anello della catena che porta il prodotto alla stessa categoria di consumatori in cui si collochi un imprenditore, questi viene a trovarsi in conflitto potenziale con gli imprenditori posti su anelli diversi, proprio perché è la clientela finale quella che determina il successo o meno della sua attività, per cui ognuno di essi è interessato a che gli altri rispettino le regole di cui alla citata disposizione (Cass. n. 4739/2012). In tema di concorrenza sleale tra due o più imprenditori, presupposto indefettibile dell'illecito è la comunanza di clientela, la cui sussistenza va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l'attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l'offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale (Cass. n. 22332/2014). L'astratta configurabilità della concorrenza sleale tra due o più imprenditori presuppone il contemporaneo esercizio della stessa attività, industriale o commerciale, in un ambito territoriale potenzialmente comune, sicché gli articoli di stampa che denigrino un gruppo imprenditoriale non sono neppure giuridicamente inquadrabili negli atti di concorrenza sleale tra la testata giornalistica, pur di rilievo nazionale, ed un gruppo imprenditoriale, la cui attività sia estremamente ampia e ramificata, e non riconducibile al solo settore dell'informazione (Cass. n. 2081/2015).

In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall'identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall'imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno (Cass. n. 12364/2018).

Uso di nomi e segni confondibili

Ai fini della concorrenza sleale per confusione tra segni distintivi (art. 2598, n. 1), alle espressioni contenute in una denominazione sociale, anche se singolarmente generiche, può essere riconosciuta in concreto capacità individualizzante in ragione della connessione tra di esse (nella specie, trattavasi delle espressioni «centro acustico» presenti nelle denominazioni di due società operanti nello stesso settore commerciale e nella stessa città) (Cass. n. 8691/1991). In tema di concorrenza sleale, il cosiddetto «illecito confusorio», di cui all'art. 2598, n. 1, non postula la antecedente o parallela violazione delle regole poste a tutela dei segni distintivi e delle invenzioni, ragion per cui, in tema — ad esempio — di attività imprenditoriale di pubblicità, qualora la mancanza di novità di una determinata iniziativa renda inconfigurabile una tutela brevettuale, non resta nondimeno escluso che possa configurarsi l'illecito in questione, dovendosi in realtà accertare, caso per caso, se, con qualunque mezzo, siano stati posti in essere atti idonei a creare confusione con i prodotti e le attività del concorrente. Ad un tal riguardo, la pratica della cosiddetta «pubblicità indiretta» (che si realizza attraverso la organizzazione di manifestazioni volte all'attribuzione di un premio sganciata da qualsivoglia effettiva competizione sul premio stesso, il quale viene pagato — in realtà — dallo stesso acquirente del prodotto pubblicitario, il quale viene reso assegnatario del «premio» medesimo) costituisce in effetti una specifica forma di promozione commerciale, come tale soggetta, perciò, alle regole della concorrenza, e può, pertanto — qualora, in essa, la tecnica di approccio del cliente venga realizzata con modalità tali da dar luogo alla predetta idoneità a «confondere» — configurare un atto di concorrenza sleale ai sensi di cui al citato art. 2598, n. 1, (Cass. n. 13079/2002). L'azione per la repressione della concorrenza sleale e l'azione a tutela del marchio sono diverse per natura, presupposti e oggetto, in quanto la prima, avente carattere personale, presuppone la confondibilità con i prodotti della concorrente e, quindi, la possibilità di uno sviamento della clientela, con conseguente danno, mentre la seconda, avente natura reale, opera indipendentemente dalla confondibilità dei prodotti; inoltre, nell'azione per concorrenza sleale l'intenzionalità dell'agente è presunta, laddove nell'azione a tutela del marchio la responsabilità del contraffattore è indipendente da connotazioni soggettive. Pertanto, il rigetto della domanda a tutela del marchio non esonera il giudice dall'esame della diversa domanda a tutela della concorrenza (Cass. n. 8119/2009). L'inserimento, nella ditta dell'impresa, di un nome geografico o di località, che non si esaurisca in un mero richiamo del luogo nel quale è ubicata l'impresa stessa o dal quale provengono i suoi prodotti, ma assuma attitudine a contraddistinguere l'una e gli altri nel rapporto con la clientela, in relazione alle modalità di uso del toponimo od al suo collegamento con altre espressioni (nella specie, si trattava di allevatore e venditore di cavalli da corsa, che aveva adottato la ditta «razza del pian del lago»), rende qualificabile come concorrenza sleale, ai sensi dell'art. 2598, n. 1, il comportamento dell'imprenditore concorrente, che successivamente faccia analogo uso del medesimo toponimo, sempre che tale uso sia pedissequo, senza ulteriori indicazioni od accorgimenti, atti a differenziare, alla stregua delle circostanze del caso concreto, le due attività imprenditoriali (Cass. n. 1731/1990). In tema di concorrenza sleale, la piena compatibilità della disciplina di cui all'art. 2598 con la fattispecie normativa di cui all'art. 1-bisr.d. n. 929/1942- l. marchi (introdotta con il d.lgs. 4809/1992 con la funzione di regolamentare l'utilizzazione di dati reali da parte dell'operatore economico, impedendo al titolare di un marchio d'impresa di vietare a terzi l'uso del segno «se esso è necessario per indicare la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessorio o ricambio» v. ora art. 21 d.lgs. n. 30/2005) comporta che al ricambista è riconosciuta la facoltà di uso del marchio altrui unitamente al proprio, onde indicare la destinazione del bene che offre, esclusivamente nei limiti in cui le modalità concrete di esercizio di questo suo diritto non inducano il mercato in confusione circa la provenienza del ricambio stesso, senza, cioè, che le modalità d'uso del marchio altrui possano indurre a ritenere che al titolare del marchio originale possa risalire anche la fabbricazione del ricambio non originale. (Nella specie, una azienda di produzione di ricambi automobilistici aveva utilizzato il marchio della casa produttrice dei veicoli e dei ricambi originali per commercializzare i propri prodotti. Lamentata la illiceità di utilizzazione del proprio marchio da parte della azienda automobilistica, la Corte territoriale, con sentenza confermata in sede di legittimità, ebbe a rilevare, in concreto, come il simbolo della società ricorrente fosse effettivamente riportato con grande evidenza nei cataloghi, ove compariva poi, con dicitura in inglese stampata in caratteri assai minuti, un avviso secondo il quale «la presenza di marchi di altri imprenditori non implica che i ricambi provengano sempre dai titolari di quei segni», e concluse che, nella specie, il segno stesso non risultava affatto adoperato per indicare soltanto un dato reale, ma induceva, per converso, il destinatario del messaggio complessivo a confondersi su una origine produttiva che doveva, invece, risultare inequivoca). (Cass. n. 10739/1998).

Al riguardo si è osservato che si definiscono forti i marchi che sono frutto di fantasia, senza aderenze concettuali con i prodotti contraddistinti, mentre si afferma che quelli deboli sono tali in quanto concettualmente legati al prodotto dal momento che la fantasia che li ha concepiti non è andata oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento del prodotto, ovvero l'uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo. In relazione al marchio forte vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l'identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l'idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante", mentre "per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte. Da tale qualificazione discende la nullità del marchio caratterizzato da una mera variazione che lascia sussistere l'identità sostanziale dei segni forti, con rischio di confusione per il pubblico (Trib. Torino, n. 3645/2020).

Imitazione servile

In materia di concorrenza sleale, mentre l'imitazione servile delle caratteristiche di un prodotto altrui integra gli estremi della concorrenza sleale, a prescindere dall'esistenza di una tutela brevettuale del prodotto imitato, la contraffazione del brevetto non è configurabile in mancanza di registrazione e non sussiste neppure successivamente ad essa ove l'attività del contraffattore preesista al brevetto stesso (Nell'enunciare il superiore principio, la S.C. ha escluso la contraffazione di un brevetto avente ad oggetto alcuni stampi di gomma sul presupposto dell'uso dell'invenzione in data antecedente alla registrazione dello stesso da parte del preteso contraffattore) (Cass. n. 19174/2015).

In tema di concorrenza sleale, al fine di accertare l'esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile, è necessario che la comparazione tra i medesimi avvenga non attraverso un esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti, ma mediante una valutazione sintetica dei medesimi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore e tenendo, quindi, conto che, quanto minore è l'importanza merceologica di un prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e sollecitazioni sensoriali, anziché da dati che richiedano un'attenzione riflessiva, e considerando altresì che il divieto di imitazione servile tutela l'interesse a che l'imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente (Cass. n. 20234/2022).

In tema di concorrenza sleale, al fine di accertare l'esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile, è necessario che la comparazione tra i medesimi avvenga non attraverso un esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti, ma mediante una valutazione sintetica dei medesimi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore e tenendo, quindi, conto che, quanto minore è l'importanza merceologica di un prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e sollecitazioni sensoriali, anziché da dati che richiedano un'attenzione riflessiva, e considerando altresì che il divieto di imitazione servile tutela l'interesse a che l'imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente; tale interesse, in riferimento alla commercializzazione di un gioco di società del quale non sia in discussione la libera produzione, può ritenersi, pertanto, soddisfatto dalla presentazione del prodotto con contenitori differenti, recanti il marchio del produttore o comunque una denominazione diversa, senza che abbiano, invece, rilievo gli elementi del gioco posti all'interno delle confezioni, di natura funzionale e non immediatamente percepibili dai consumatori (Cass. n. 29775/2008). In quanto inserito nel contesto dell'art. 2598 n. 1, che tratta della concorrenza confusoria, il divieto dell' imitazione servile tutela soltanto l'interesse a che l'imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente, realizzando le condizioni perché il potenziale acquirente possa equivocare sulla fonte di produzione. Tale interesse, quando non sia in discussione la libera produzione di oggetti (sia perché frutto di idee non brevettate, non brevettabili o cadute in pubblico dominio per scadenza del brevetto, sia perché non è invocata la tutela della privativa), può ritenersi soddisfatto dalla presentazione del prodotto con contenitori differenti, recanti il marchio del produttore o comunque una denominazione diversa, ovvero dalla presentazione del prodotto con la precisa indicazione che lo stesso è fabbricato da un diverso imprenditore. Ai fini della confondibilità, non può quindi attribuirsi alcun rilievo alle forme non visibili esteriormente, quali quella del contenuto di una scatola, che non costituiscono forma individualizzante (Cass. n. 1062/2006). In tema di illecito concorrenziale da imitazione servile ai sensi dell'art. 2598, numero 1), il carattere confusorio deve essere accertato con riguardo al mercato di riferimento (ovvero «rilevante»), ossia a quello nel quale operano o (secondo la naturale espansività delle attività economiche) possono operare gli imprenditori in concorrenza, occorrendo di volta in volta stabilire, nelle singole vicende, anche ai fini del preuso, se gli imprenditori in conflitto offrano prodotti destinati a soddisfare la stessa esigenza di mercato alla medesima clientela. In questa prospettiva, l'illecito confusorio del concorrente non può essere escluso dando rilievo assorbente alla antecedente commercializzazione in un mercato estero da parte di un qualunque altro operatore del prodotto in questione, e traendo da tale circostanza, in modo automatico, l'anteriorità in capo al concorrente nazionale che da quel produttore estero abbia acquistato per operare, poi, nel mercato nazionale; infatti, in tanto l'offerta nel mercato estero è suscettibile di dar luogo ad una anteriorità rilevante, in quanto ne siano state verificate la ricaduta su quello nazionale e la sussistenza di un rapporto di concorrenza con colui che opera solo sul mercato nazionale (Cass. n. 3040/2005). In tema di concorrenza sleale per imitazione servile di prodotti, l'originalità del prodotto imitato (nella fattispecie, l'efficacia distintiva degli elementi formali del prodotto imitato, costituito da un salotto) integra uno degli elementi costitutivi dell'azione, nel senso che l'attore non può limitarsi a provare che il proprio prodotto è imitato «fedelmente» da quello del concorrente, ma deve anche dimostrare che tale imitazione è confusoria, perché investe quegli elementi (nella specie, formali) che servono a distinguere il suo prodotto sul mercato, così risultando atta ad ingenerare confusione nel pubblico; il suddetto carattere di originalità del prodotto imitato sussiste solo ove esso presenti aspetti formali (ed accidentali) nuovi rispetto al già noto, pur non raggiungendo il livello di originalità che sarebbe necessario per ottenere il brevetto di modello (Cass. n. 3721/2003).

Onere di differenziazione

La concorrenza sleale, per imitazione servile della Forma del prodotto dell'impresa concorrente, postula che tale Forma abbia un valore individualizzante e distintivo (ancorché non sia oggetto o non sia più oggetto di brevetto) e che inoltre si verifichi confondibilità rispetto ai potenziali acquirenti, in quanto il prodotto di imitazione manchi di varianti intrinseche o segni estrinseci atti ad evidenziare una provenienza diversa da quella del prodotto imitato (Cass. n. 6237/1988). L'art. 2598 n. 1 il quale reprime la concorrenza sleale attuata mediante imitazione servile, mira a tutelare l'interesse dell'impresa concorrente a che i due prodotti distinti non siano confondibili sul mercato così da rendere impossibile al consumatore di equivocare sulla fonte di produzione. Tale tutela, tuttavia, trova un limite nella regola fondamentale della libera produzione di oggetti il cui brevetto sia ormai scaduto, essendo prevalente il principio della libera disponibilità delle idee non brevettate, non brevettabili o cadute in pubblico dominio per scadenza del brevetto, sull'esigenza della non confondibilità tra due prodotti provenienti da distinte fonti produttive, la quale trova soddisfazione in altri strumenti, quali l'uso del marchio, la presentazione del prodotto, ove possibile con contenitori o imballaggi distinti ovvero con la precisa indicazione che il prodotto è fabbricato da un diverso imprenditore (Cass. n. 6682/1987).

Giudizio di confondibilità

In tema di concorrenza sleale, al fine di accertare l'esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile, è necessario che la comparazione tra i medesimi avvenga non attraverso un esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti, ma mediante una valutazione sintetica dei medesimi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore e tenendo, quindi, conto che, quanto minore è l'importanza merceologica di un prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e sollecitazioni sensoriali, anziché da dati che richiedano un'attenzione riflessiva, e considerando altresì che il divieto di imitazione servile tutela l'interesse a che l'imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente; tale interesse, in riferimento alla commercializzazione di un gioco di società del quale non sia in discussione la libera produzione, può ritenersi, pertanto, soddisfatto dalla presentazione del prodotto con contenitori differenti, recanti il marchio del produttore o comunque una denominazione diversa, senza che abbiano, invece, rilievo gli elementi del gioco posti all'interno delle confezioni, di natura funzionale e non immediatamente percepibili dai consumatori (Cass. n. 29775/2008). In tema di concorrenza sleale, al fine di accertare l'esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile, è necessario che la comparazione tra i medesimi avvenga non tanto attraverso un esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti, bensì mediante una valutazione di tipo sintetico, ponendosi nell'ottica del consumatore e tenendo conto che quanto minore risulti l'importanza merceologica di un prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e sollecitazione di carattere superficialmente sensoriale anziché da dato obbiettivi che conducano ad una più riflessiva, attenta e meditata valutazione, mentre il breve e sommario esame analitico della vicenda sottoposta all'esame del giudicante deve risolversi in un complessivo giudizio di confondibilità dei prodotti (Cass. n. 11795/1998). La concorrenza sleale per confusione, ovvero per imitazione servile del prodotto altrui, in relazione alla riproduzione di parti dello stesso che non integri violazione di diritti di privativa, è configurabile soltanto quando tale riproduzione abbia ad oggetto elementi che non siano inscindibilmente dipendenti da esigenze strutturali o funzionali, e che inoltre siano dotati di carattere individualizzante, cioè di idoneità ad identificare la merce come proveniente da una determinata impresa, restando esclusa, pertanto, nel caso di prodotti standardizzati ed usuali, privi di connotati di originalità. (nella specie, alla stregua del principio di cui sopra, la suprema Corte ha ritenuto correttamente negata dai giudici del merito l'ipotizzabilità della suddetta concorrenza sleale fra, imprese produttrici di mobili cosiddetti «in stile», vertendosi in tema di adozione di note forme e modelli di antico artigianato, costituenti patrimonio comune delle imprese medesime) (Cass. n. 4222/1985). In tema di concorrenza sleale, la vendita da parte della ditta produttrice e la successiva commercializzazione di prodotti aventi lo stesso marchio, ma facenti parte del campionario e/o viziati da imperfezioni, non è idonea a creare confusione, ai sensi dell'art. 2598, attesa la diversa qualità e la diversa presentazione al pubblico dei prodotti, destinati a un mercato parallelo di commercializzazione mediante stoccaggio, elementi che ne giustificano la vendita con rilevante abbattimento del prezzo (Cass. n. 8567/2009). In tema di concorrenza sleale, la tutela contro colui che si appropri delle caratteristiche distintive di un prodotto, imitandole in modo servile, non presuppone che il prodotto imitato abbia i connotati della novità od originalità necessari per la brevettabilità dello stesso, e neppure è esclusa, di per se, dalla circostanza che il prodotto rechi un marchio idoneo ad attribuirne l'origine ad un determinato produttore, allorquando secondo l'apprezzamento del giudice di merito, insindacabile se sorretto da adeguata motivazione, tale marchio per le modalità della sua utilizzazione non adempia la sua funzione qualificante e distintiva (Cass. n. 1541/1997).

Altri mezzi idonei a creare confusione

In tema di uso illegittimo del marchio, l'attitudine a confondere il pubblico circa la provenienza del prodotto ben può integrare gli estremi della violazione della disciplina brevettuale (l. n. 929/1942, applicabile alla fattispecie ratione temporis) e, nel contempo, di quella concorrenziale, giusta disposto dell'art. 2598 (Cass. n. 13916/1999). Perché possa ritenersi in concreto sussistente un atto di concorrenza sleale per imitazione servile, occorre, sempre che non vi sia violazione di diritti di privativa, che esista una reale possibilità di confusione fra i prodotti delle imprese concorrenti, la quale va apprezzata dal punto di vista dei consumatori dei prodotti stessi che siano di media diligenza e intelligenza, ma anche con riferimento al tipo di clientela cui il prodotto è destinato. (Nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto responsabile di concorrenza sleale un fabbricante di generatori di calore, che in un suo modello aveva riprodotto fin nei particolari estetici e di contorno un generatore prodotto di un'impresa concorrente; la suprema Corte, alla stregua del principio di cui in massima, ha cassato la pronuncia impugnata, per avere omesso di valutare se la presenza ben visibile sull'involucro esterno di scritte a lettere cubitali ed in rilievo attestanti la provenienza del prodotto fosse idonea ad escludere la concreta confondibilità dei prodotti, destinati ad una clientela qualificata) (Cass. n. 6625/1983).

Denigrazione

Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico non debbono necessariamente riguardare i prodotti dell'impresa concorrente ma possono avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti in generale l'attività di quest'ultima, la sua organizzazione o il modo di agire dell'imprenditore nell'ambito professionale (esclusa la sfera strettamente personale e privata), la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione di cui l'impresa gode presso i consumatori, dovendosi apprezzare, ai fini della potenzialità lesiva delle denigrazioni, non solo l'effettiva «diffusione» tra un numero indeterminato (od una pluralità) di persone ma anche il contenuto fortemente diffamatorio degli apprezzamenti stessi (nella specie, si era accusato il concorrente di essere mafioso e di essere stato arrestato per aver sottratto denaro alla propria società) ed anche la potenzialità espansiva della comunicazione per la scelta dei destinatari (nella specie, alcuni dipendenti del concorrente denigrato) (Cass. n. 18691/2015). La concorrenza sleale per denigrazione non richiede, come presupposto indispensabile, la falsità dei fatti affermati o degli apprezzamenti compiuti, poiché può costituire illecito non conforme alla correttezza professionale anche la divulgazione di circostanze o di notizie vere, qualora sia fatta in modo tendenzioso, subdolo o comunque scorretto, cosi da produrre discredito per i prodotti o per l'attività di un imprenditore concorrente (Cass. n. 2518/1975). Per il conseguimento di più avanzati risultati nel campo della ricerca e delle realizzazioni meccaniche non è necessario svilire e denigrare i prodotti messi in commercio dalle ditte concorrenti, essendo sufficiente la magnificazione anche iperbolica delle doti peculiari dei propri prodotti, senza alcuna specifica comparazione denigratoria con quelle dei prodotti altrui. La norma dell'art 2598, n. 2, è volta ad evitare che, con il falso pretesto di agire in favore del progresso, si pregiudichino gli interessi dei concorrenti mediante una maliziosa e scorretta opera di svilimento e denigrazione dei loro prodotti (Cass. n. 172/1970). In tema di concorrenza sleale per denigrazione del prodotto altrui, il giudizio deve compiersi con riguardo alla possibile clientela del prodotto e con riferimento alla sua media diligenza, perché tale categoria di persone e interessata ad occuparsi del prodotto e delle sue caratteristiche e costituisce il bene difeso come determinati Atti degli imprenditori (Cass. n. 2320/1966). La mera magnificazione, anche se esagerata, dei pregi dei propri prodotti non da luogo, in se stessa, a concorrenza sleale, qualora non si risolva nel discredito e nella svalutazione dei prodotti similari di imprese concorrenti (Cass. n. 562/1966).

La concorrenza sleale per denigrazione non postula la falsità dei fatti affermati, potendo configurarsi quale comportamento non conforme alla correttezza professionale, ove idoneo a produrre discredito, anche la divulgazione di circostanze o di notizie vere ma, in quest'ultimo caso, solo quando e negli stretti limiti in cui siano contestualmente formulate vere e proprie invettive ed offese gratuite nei confronti del concorrente, che traggano cioè, nella diffusione delle notizie veritiere, mero spunto o pretesto (Cass. n. 22042/2016). 

Pubblicità denigratoria e comparativa

La concorrenza sleale, in relazione ad Atti di pubblicità indirizzati indeterminatamente ai potenziali acquirenti di una certa merce, può derivare non soltanto da affermazioni false, su qualità o pregi del proprio o dell'altrui prodotto, ma anche dalla divulgazione di circostanze o notizie vere, che venga effettuata in maniera subdola o tendenziosa, o comunque con modalità contrarie alla correttezza professionale, sì da implicare discredito e pregiudizio per l'azienda dell'imprenditore concorrente (Cass. n. 2020/1982). L'uso abusivo dello slogan pubblicitario altrui può costituire atto di concorrenza sleale solo se sia idoneo a creare confusione con i prodotti o con l'attività dell'impresa concorrente oppure si inserisca in una concorrenza parassitaria o in un'attività di propaganda menzognera o denigratrice, o, comunque, in un comportamento professionalmente scorretto per particolari circostanze o modalità (Cass. n. 1842/1971). Non costituisce attività di concorrenza sleale la pubblicità comparativa, mediante la quale l'imprenditore mira a rendere noto alla clientela che il proprio prodotto ha delle caratteristiche diverse da quello della concorrenza, a meno che la suddetta comparazione non si traduca per il contenuto e per la Forma nella denigrazione dell'altrui prodotto (Cass. n. 6682/1987).

Appropriazione di pregi

La concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell'impresa altrui (art. 2598 n. 2) non consiste nell'adozione, sia pur parassitaria, di tecniche materiali o procedimenti già usati da altra impresa (che può dar luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile), ma ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, qualità indicazioni, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all'impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori (Cass. n. 9387/1994). Costituisce atto di concorrenza sleale, siccome contrario alla correttezza professionale, il fatto del fabbricante di medicinali che, nel foglietto illustrativo di una propria specialità, inserisca notizie bibliografiche concernenti una specialità prodotta da altri (ancorché di eguale composizione chimica), omettendo il titolo delle opere in cui era fatta espressa menzione della seconda (in modo da fare apparire le opere predette come riguardanti il proprio prodotto) e sottacendo artatamente che determinati lavori ed esperimenti chimici si riferivano al prodotto concorrente (Cass. n. 2178/1969). Non integra gli estremi dell'atto di concorrenza sleale per appropriazione di pregi e violazione dei doveri di correttezza professionale l'attività di pubblicizzazione della propria attività compiuta da un'impresa con riferimento alla realizzazione di un opera pubblica di particolare difficoltà tecnica, anche se l'opera stessa sia stata, in concreto, ultimata con l'ausilio di altra impresa subappaltatrice dei lavori (Cass. n. 1911/2000).

Idoneità a danneggiare l'altrui azienda

Ai fini della affermazione della responsabilità per concorrenza sleale, ai sensi dell'art. 2598, è sufficiente l'idoneità dell'atto denunciato a produrre effetti di mercato dannosi per il concorrente, ma non è richiesta la dimostrazione dell'effettiva produzione del danno (Cass. n. 3039/2005). La responsabilità a titolo di concorrenza sleale, ai sensi dell'art. 2598, numero 3), presuppone che l'imprenditore si sia avvalso di un mezzo, non soltanto contrario ai principi della correttezza professionale, ma anche idoneo a danneggiare l'altrui azienda; pertanto detta responsabilità non opera allorché il giudice accerti che il comportamento denunciato non abbia provocato alcun pericolo di sviamento di clientela in danno dell'imprenditore denunciante. (Fattispecie in tema di uso, da parte di un imprenditore, al fine di reclamizzare infissi anodizzati, del catalogo di un concorrente, produttore di infissi nella fase anteriore all'anodizzazione) (Cass. n. 8215/2007). L'art. 2598, n. 3, fissa una nozione di concorrenza sleale più ampia di quella propria dei due precedenti numeri riferendosi all'uso diretto o indiretto di ogni altro mezzo contrario ai principi della correttezza professionale; l'idoneità di tale uso a danneggiare l'altrui azienda, per il suo potenziale effetto di sviamento della clientela, rende irrilevante la confondibilità obiettiva e materiale dei prodotti e delle attività concorrenti (principio enunciato dalla S.C. in riferimento alla condotta di un imprenditore che, gestendo un bar nelle immediate vicinanze di un esercizio concorrente, famoso per l'offerta di ristorazione accompagnata da un servizio di orchestra all'esterno, aveva esposto un cartello con la scritta «nessun supplemento per la musica», così da indurre il pubblico a ritenere che egli ponesse gratuitamente a disposizione della clientela un servizio, fornito in realtà da altri) (Cass. n. 14793/2008). La nozione di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 va desunta dalla «ratio» della norma, che impone, alle imprese operanti nel mercato, regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna si possa avvantaggiare, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l'adozione di metodi contrari all'etica delle relazioni commerciali; ne consegue che si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni. Infatti, quale che sia l'anello della catena che porta il prodotto alla stessa categoria di consumatori in cui si collochi un imprenditore, questi viene a trovarsi in conflitto potenziale con gli imprenditori posti su anelli diversi, proprio perché è la clientela finale quella che determina il successo o meno della sua attività, per cui ognuno di essi è interessato a che gli altri rispettino le regole di cui alla citata disposizione (nella specie, la S.C. ha ritenuto la produzione e la distribuzione di «gabbiette» per tappi di bottiglia di vino frizzante strettamente connesse con la fabbricazione delle macchine che dette gabbiette producono, così che, pur a diversi livelli, i produttori di tali oggetti insistono nel medesimo settore di attività) (Cass. n. 4739/2012). L'illecito concorrenziale di cui all'art. 2598 non si perfeziona necessariamente attraverso la produzione di un pregiudizio attuale al patrimonio del soggetto concorrente, essendo sufficiente la potenzialità o il pericolo di un danno, concretantesi nell'idoneità della condotta vietata a cagionare un pregiudizio. Parimenti, la pubblicazione della sentenza — prevista dall'art. 2600, secondo comma, in caso di atti di concorrenza sleale compiuti con dolo o colpa — è un provvedimento autonomo che può essere disposto indipendentemente dall'esistenza (o dalla prova) di un danno attuale generico, trattandosi di rimedio che assolve ad una funzione riparatoria con riguardo a situazioni di pregiudizio specifico già verificatosi (quale il discredito), ovvero ad una funzione preventiva rispetto a quelle che potrebbero verificarsi in futuro (Cass. S.U., n. 12103/1995). In tema di repressione degli atti di confusione posti in essere mediante fatti specifici di concorrenza sleale (art. 2598 n. 1), ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni, non si richiede che un danno sia stato già prodotto in relazione ad una attività concorrenziale in atto, essendo invece sufficiente una situazione di concorrenza potenziale, ravvisabile sia in relazione ad una possibile estensione o espansione nel futuro dell'attività imprenditoriale concorrente purché nei termini di rilevante probabilità), sia nell'ipotesi di attività preparatorie all'esercizio dell'impresa, quando si pongano in essere fatti diretti a dare inizio all'attività produttiva (Cass. n. 10728/1994).

Violazione di esclusiva

L'imprenditore che operi sul mercato in concorrenza con altro imprenditore il quale abbia ottenuto una concessione di vendita in esclusiva di prodotti contrassegnati da un determinato marchio e, compiendo un'invasione nella zona di pertinenza di quest'ultimo, non ne rispetti l'esclusiva, non incorre per ciò solo in responsabilità extracontrattuale a titolo di concorrenza sleale, salvo che si avvalga di mezzi non conformi alla correttezza professionale idonei a danneggiare l'altrui azienda, come nel caso in cui si procuri la merce da rivendere nella zona di esclusiva con mezzi illeciti (per esempio, in violazione della normativa a tutela dei marchi), così da influenzare ed alterare la normale situazione concorrenziale, in pregiudizio degli altri imprenditori concorrenti (Cass. n. 27081/2007). Operare sul mercato in concorrenza con l'imprenditore che ha ottenuto una cosiddetta concessione di vendita in esclusiva di prodotti contrassegnati con un determinato marchio, non costituisce di per se concorrenza sleale, sempre che non si faccia abuso del marchio spacciando altri prodotti per quelli che esso contraddistingue e creando confusione con essi (Cass. n. 1754/1974). Non viola il divieto di atti di concorrenza sleale l'imprenditore che, avuto licenza di usare il nome del concorrente, per effetto di una convenzione che rende complementari tra loro attività produttive diverse, abbia poi venduto i medesimi prodotti con un altro marchio, lecitamente brevettato ed usato (Cass. n. 1023/1972).

Boicottaggio

Le associazioni di categoria degli imprenditori, sebbene non abbiano esse stesse la qualità di imprenditori, rispondono di concorrenza sleale, secondo la previsione dell'art. 2598, per gli atti compiuti nell'interesse degli aderenti ed in pregiudizio dei concorrenti di questi ultimi estranei alle associazioni, come nel caso in cui stipulino con altri imprenditori, o con analoghe associazioni, intese che comportino illecite restrizioni della concorrenza, o comunque incidano con mezzi non corretti sui rapporti di concorrenza. Pertanto, in tema di distribuzione, l'accordo settoriale fra associazioni od altre (coalizioni) di produttori e di rivenditori (nella specie, accordo del 5 marzo 1969 fra la federazione editori di giornali e riviste e le organizzazioni nazionali dei rivenditori dei medesimi), il quale consenta l'accesso ai prodotti solo ai rivenditori scelti in base a regole predeterminate, deve ritenersi fonte della suddetta responsabilità per concorrenza sleale, qualora si traduca, alla stregua del complessivo contenuto dell'intesa, coinvolgente le associazioni di ogni livello del settore, nell'esclusione della possibilità di far ricorso ad idonei canali di approvvigionamento e di distribuzione, diversi da quelli disciplinati, e nella selezione degli aspiranti rivenditori affidata in tutto od in parte alle associazioni della stessa categoria, secondo criteri caratterizzati da discrezionalità, tanto in ordine alle qualità soggettive di detti aspiranti, quanto in ordine al numero ed alla localizzazione delle nuove imprese (Cass. n. 2634/1983). Il quadro generale della disciplina delle associazioni (riconosciute o meno) è caratterizzato dall'assenza di qualsiasi previsione normativa che valga a configurare, a carico di un'associazione, un obbligo di accogliere le domande di ammissione di volta in volta presentate da chi si dimostri in possesso dei requisiti richiesti. Pertanto, nell'assenza di qualsivoglia obbligo di tal genere, l'ammissione resta, pur sempre, sia da parte dell'associazione, sia da parte di chi aspiri ad entrarvi, un atto di autonomia contrattuale, sicché l'adesione ad un ente già costituito non si sottrae al requisito dell'accordo delle parti, necessario per la conclusione di ogni contratto. Né ha pregio richiamare la disciplina dell'obbligo a contrarre che l'art. 2597 pone a carico del monopolista legale, ed invocarne l'applicazione analogica nel caso in esame. Una tale norma, infatti, prende in considerazione l'ipotesi dell'impresa che goda dell'esclusiva dell'offerta di beni o servizi, o in virtù di legge, o in base ad una concessione amministrativa, e, in armonia con il principio dell'utilità sociale di cui all'art. 41 della Costituzione, fissa, a tutela del consumatore, l'obbligo di contrattare del monopolista. Ma, ovviamente, una tale disciplina — che già non può essere applicata analogicamente all'ipotesi del monopolista di fatto — meno che mai può trovare applicazione in una materia — quale quella delle associazioni — che si rende del tutto estranea alla tematica del monopolio (Cass. n. 3980/1997). Ai sensi degli artt. 4, 18, 35 e 41 Cost. deve riconoscersi la liberta degli operatori commerciali di un determinato settore economico di associarsi e di agire per il conseguimento di una più efficiente tutela e salvaguardia dei loro interessi; ne può negarsi la liberta dell'ente associativo di operare, mediante la stipula di contratti (normativi) con gli industriali, dirigenti e depositari delle fonti di produzione, per l'ottenimento di particolari benefici che la minore forza economica (di mercato) dei singoli associati, rispetto a quella più incisiva del gruppo, non consentirebbe di conseguire. La suddetta facoltà di associazione e di azione diventa pero illecita qualora sia preordinata e programmata all'unico ed esclusivo fine di sopprimere l'altrui liberta d'iniziativa economica, mediante la eliminazione di altri operatori dal mercato (Cass. n. 1829/1973). Un accordo fra associazioni di produttori e di rivenditori (nella specie, editori e giornalai), che consenta la distribuzione del prodotto soltanto ai rivenditori prescelti dalle predette associazioni in base a regole predeterminate inerenti alla procedura ed ai criteri di scelta, non può qualificarsi come boicottaggio in danno degli imprenditori non scelti (e quindi professionalmente scorretto ex art. 2598), quando l'esclusione delle relazioni economiche di altri soggetti non sia assoluta e riguardante tutti gli estranei all'accordo, ma si dia la possibilità di accedere all'accordo stesso in base al riscontro dell'esistenza di requisiti qualitativi obiettivi correlati all'esigenza della razionalizzazione e del miglioramento della distribuzione del prodotto, e quando inoltre si apportino limiti all'autonomia dei produttori, nello interesse della categoria generale dei rivenditori. L'accordo medesimo non può considerarsi contrario alla correttezza professionale, ex art. 2598 n. 3, se risulta che la scelta dei rivenditori venga effettuata secondo criteri qualitativi oggettivi, riguardanti le capacità del rivenditore e l'idoneità della sua azienda, in relazione alle esigenze della migliore distribuzione del prodotto, e che tali criteri siano fissati uniformemente in base ad una procedura nella quale vengano valutate comparativamente le situazioni e le posizioni precostituite sul mercato di più aspiranti al medesimo punto di vendita (Cass. S.U., n. 2018/1985).

Storno di personale

Per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori, è necessario che l'attività distruttiva delle risorse di personale dell'imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell'autore l'intento di recare pregiudizio all'organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l'efficienza dell'organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito; a tal fine assumono rilievo innanzitutto le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall'una all'altra impresa, che non può che essere diretto, ancorché eventualmente dissimulato, per potersi configurare un'attività di storno, la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell'ambito dell'organigramma dell'impresa concorrente, le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti e/o collaboratori a passare all'impresa concorrente (Cass. n. 22625/2022, nella specie, la circostanza che i dipendenti "stornati" fossero liberi professionisti non era ostativa allo svolgimento di analoghe attività presso società operanti nel medesimo settore).

Affinché lo storno di dipendenti altrui possa configurare atto di concorrenza sleale, si richiede che i dipendenti medesimi siano particolarmente qualificati ed utili per la gestione dell'impresa concorrente, in relazione all'impiego delle rispettive conoscenze tecniche usate presso l'altra impresa e non possedute dal concorrente stesso, così permettendo a quest'ultimo l'ingresso nel mercato prima di quanto sarebbe stato possibile in base ai propri studi e ricerche (Cass. n. 13424/2008). Perché lo storno di dipendenti possa essere qualificato come atto di concorrenza sleale da parte dell'impresa concorrente occorre che l'assunzione del personale altrui sia avvenuta con modalità tali da non potersi giustificare alla luce dei principi di correttezza professionale, se non supponendo nell'autore l'intenzione di danneggiare l'impresa concorrente. A tal fine, la configurabilità dello storno non è preclusa dal fatto che contatti per passare alle dipendenze dell'impresa concorrente o per iniziare con questa un rapporto collaborativo siano avviati per iniziativa degli stessi dipendenti o agenti successivamente «stornati», sempre che su tale iniziativa venga poi ad inserirsi l'attività dell'impresa concorrente sì da incidere casualmente (tramite, ad esempio, l'offerta di un migliore trattamento economico o di altri vantaggi) sulla decisione dei primi di interrompere il rapporto di lavoro con l'impresa in cui si trovano inseriti (Cass. n. 13658/2004). La concorrenza illecita per mancanza di conformità ai principi della correttezza non può mai derivare dalla mera constatazione di un passaggio di collaboratori (cosiddetto storno di dipendenti) da un'impresa ad un'altra concorrente, né dalla contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore del concorrente (attività in quanto tali legittime); essa deve essere, piuttosto, desunta dall'obiettivo che l'imprenditore concorrente si proponga, attraverso il menzionato passaggio, di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando nel mercato l'effetto confusorio, o discreditante, o parassitario capace di attribuire ingiustamente, a chi lo cagiona, il frutto dell'investimento (ossia, l'avviamento) di chi lo subisce (Cass. n. 5671/1998). Il cosiddetto storno di dipendenti, mediante il quale l'imprenditore si assicura le prestazioni lavorative di uno o più dipendenti di un'impresa concorrente, essendo espressione dei principi della libera circolazione del lavoro e della libertà di iniziativa economica, non costituisce attività di concorrenza sleale, a meno che non sia stato attuato con l'intenzione di danneggiare l'altrui azienda in misura che ecceda il normale pregiudizio che ad ogni imprenditore può derivare dalla perdita di dipendenti in conseguenza della loro scelta di lavorare presso altra impresa (Cass. n. 6712/1996).

Affinché lo storno dei dipendenti di un'impresa concorrente possa costituire atto di concorrenza sleale, sono necessari la consapevolezza nel soggetto agente dell'idoneità dell'atto a danneggiare l'altrui impresa ed altresì l'"animus nocendi", cioè l'intenzione di conseguire tale risultato, da ritenersi sussistente ogni volta che lo storno sia stato posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell'autore l'intento di recare pregiudizio all'organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente (Cass. n. 31203/2017).

 Amatore Roberto I n tema di concorrenza sleale, l'imprenditore che si avvalga della collaborazione di soggetti che hanno violato l'obbligo di fedeltà nei confronti del loro datore di lavoro non pone in essere, per ciò solo, atti contrari alla legittima concorrenza, essendo necessario, a tal fine, che il terzo si appropri, per il tramite del dipendente, di notizie riservate nella disponibilità esclusiva del predetto datore di lavoro, ovvero che il terzo istighi, o presti intenzionalmente un contributo causale, alla violazione dell'obbligo di fedeltà cui il dipendente stesso è tenuto, ma che non vincola il terzo e non ne limita la libertà sul piano economico, per la stessa ragione per cui il patto di esclusiva non vincola l'imprenditore concorrente - terzo rispetto ad esso - che operi nella zona di altrui pertinenza senza avvalersi di mezzi non conformi alla correttezza professionale idonei a danneggiare l'altrui azienda (Cass.n. 13550/2017).

Bibliografia

Cottino, Diritto commerciale, I, Padova, 1999, 253; Ghidini, I limiti negoziali alla concorrenza, Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, diretto da Galgano, Padova, 1981, 89.

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