Codice Civile art. 2697 - Onere della prova.

Donatella Salari

Onere della prova.

[I]. Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento [115, 116 c.p.c.].

[II]. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.

Inquadramento

L'art. 2697 costituisce una norma di rilievo centrale in materia di istruzione probatoria poiché sancisce il principio generale secondo cui ogni soggetto che intende agire o resistere in giudizio dei fornire la prova dei fatti che pone a fondamento della propria domanda; analogamente, colui che si difende deve fornire prova delle proprie eccezioni.

Corollario della previsione in esame è il principio dispositivo del processo, secondo cui le prove sono a disposizione delle parti, tranne nei casi previsti dalla legge.

La norma esprime, quindi, in tema di prove civili, il fondamentale principio dispositivo in forza del quale alla base della decisione del giudice devono essere poste soltanto le prove che le parti hanno prodotto nel corso del procedimento. Le disposizioni applicabili e la conseguente decisione finale del giudice dovranno dunque essere fondate su atti o fatti mostrati da attore e convenuto, con eccezione dei tassativi casi ex lege previsti di possibilità di acquisizione della prova d'ufficio (che costituisce quindi una deroga alla norma in esame).

Portata della norma

La norma in esame è una regola espressione di civilità giuridica perché distribuisce tra le parti le conseguenze negative che derivano dalla mancata prova dei fatti, secondo il noto brocardo onus probandi incumbit ei qui dicit. Tali conseguenze sono la soccombenza della parte che non ha fornito la dimostrazione del fatto che aveva l'onere di provare. Mentre è la norma sostanziale applicabile al caso a stabilire quali fatti sono giuridicamente rilevanti, l'art. 2697 fa capo alla posizione processuale delle parti al fine di ripartire queste conseguenze tra attore e convenuto (Taruffo, 68). La disposizione prevede che deve essere l'attore ad allegare i fatti che costituiscono il fondamento della domanda, ossia del diritto che con essa l'attore fa valere, e che il convenuto debba allegare i fatti che fondano le sue eccezioni, ovvero le ragioni di inefficacia, modificazione o estinzione di quel diritto. In tal modo, puramente formale, si impone ad ognuna delle parti l'onere di provare ciò che ha affermato a sostegno delle proprie posizioni, rendendo relativamente agevole al giudice la decisione nei singoli casi concreti (Comoglio, 98; Taruffo, 68).

 Nella giurisprudenza di legittimità è consolidato il principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell'art. 2697 c.c. si configura soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass. 5, n. 26739/2024; Cass. 6, n. 26769/2018).

Tipologia delle allegazioni e conseguenti oneri probatori

L'art. 2697, come anticipato, adotta un criterio di ripartizione di natura processuale, poiché si riferisce ai fatti giuridici che attore e convenuto hanno rispettivamente allegato. Sono, dunque, le specifiche allegazioni rispettivamente effettuate dalle parti a determinare di volta in volta l'oggetto dei loro oneri probatori.

Ad ogni modo è necessario far riferimento alla disciplina sostanziale della fattispecie per stabilire quali fatti siano giuridicamente rilevanti e idonei a fondare la domanda e l'eccezione. Con specifico riferimento alla questione della ripartizione dell'onere probatorio in materia contrattuale sono intervenute le S.U. della Cassazione (Cass. S.U., n. 13533/2001), a risolvere alcuni precedenti contrasti giurisprudenziali. In tale pronuncia delle S.U., la posizione del creditore cha agisce per l'adempimento viene equiparata a quella del creditore cha agisce per la risoluzione del contratto e per il risarcimento del danno, potendo questi limitarsi a fornire la sola prova del titolo e ad allegare l'inadempimento della controparte, sulla quale, invece, incombe l'onere di provare il fatto estintivo dell'adempimento. Peraltro, sul debitore convenuto per l'adempimento o la risoluzione che eccepisca l'altrui inadempimento ex art. 1460, grava solo l'onere di allegare l'inadempimento, dovendo in questo caso l'attore-creditore fornire la prova del proprio adempimento (v., ad esempio, in tema di responsabilità del concessionario autostradale, Cass. III, n. 33128/2024 e di responsabilità del conduttore per ritardata restituzione del bene locato, Cass. III, n. 31233/2024) Nella giurisprudenza più recente, è stato tuttavia puntualizzato a riguardo che la previsione dell'art. 1218 c.c. esonera il creditore dell'obbligazione asseritamente non adempiuta dall'onere di provare la colpa del debitore, ma non da quello di dimostrare il nesso di causa tra la condotta del debitore e l'inadempimento, fonte del danno di cui si chiede il risarcimento, atteso che il cosiddetto "assorbimento" del nesso eziologico nell'inadempimento non deve essere inteso come sua irrilevanza tanto sul piano sostanziale quanto in punto di ricadute di carattere processuale e di distribuzione dell'onere probatorio, bensì come prova "evidenziale" della sua esistenza, giustificata dal fatto che quel nesso, di norma, non è funzionalmente scindibile dall'inadempimento, in quanto quest'ultimo si sostanzia nella lesione dell'interesse del creditore che a sua volta identifica l'evento di danno (Cass. III, n. 12760/2024).

Nel caso in cui il contratto abbia ad oggetto prestazioni negative, spetta in ogni caso al creditore la prova dell'inadempimento, agisca egli per l'adempimento o per la risoluzione. Con riferimento alla prova dei fatti costitutivi, la giurisprudenza ha affermato che spetta all'attore l'onere di provare il nesso di causalità tra il comportamento del convenuto e il danno di cui si chiede il risarcimento, mentre ha escluso che la titolarità del bene sia fatto costitutivo nell'azione negatoria, e quindi vada provata rigorosamente dall'attore (Cass. II, n. 4120/2001).

Così, in tema di telecomunicazioni, in caso di malfunzionamento del servizio di connessione analogica, l'indennizzo  previsto dalla carta dei servizi non solleva l'utente che chieda il risarcimento per malfunzionamento,  dall'onere di provare il danno, dal momento che l'esistenza e l'entità del disservizio non può fondarsi su di una presunzione  da cui trarre il pregiudizio risarcibile (Cass. III, n. 27609/2019).

Abbastanza agevole è, di regola, anche l'individuazione dei fatti modificativi (come l'adempimento parziale, la sopravvenuta impossibilità parziale di adempiere o la riduzione della prestazione), che mutano l'oggetto del diritto, e dei fatti estintivi (come lo scioglimento del contratto, il verificarsi di una condizione risolutiva, o la prescrizione), che hanno l'effetto di caducarlo o di farlo venir meno (Comoglio, 197; Tommaseo, 159). Più complessa è invece la problematica attinente ai fatti impeditivi, che ha dato luogo ad ampi dibattiti dottrinali dovuti essenzialmente alla difficoltà di distinguere la mancanza di un fatto impeditivo dalla presenza degli elementi veramente costitutivi del diritto (Comoglio, 199; Patti, Prove, 97; Tommaseo, 159). D'altronde, al di là delle difficoltà di sistemazione dogmatica del concetto di fatto impeditivo, la norma in commento opera una decisa semplificazione della fattispecie nel momento in cui attribuisce comunque al convenuto l'onere di dare la prova del fatto impeditivo, e quindi di allegarne in positivo l'esistenza, e non configura invece in capo all'attore alcun onere di allegare e provare l'inesistenza dei possibili fatti impeditivi.

La c.d. regola di giudizio

I presupposti funzionali sui quali si fondano le regole attinenti all'onere della prova si identificano nei più importanti corollari del principio dispositivo, il quale evidenzia la signoria che le parti mantengono sul rapporto controverso. Primo corollario del principio appena indicato è il principio della domanda (art. 2097; art. 99 c.p.c.) in base al quale il giudice non può pronunciarsi oltre le richieste formulate dalle parti. Secondo corollario è rappresentato dal c.d. onere di allegazione dei fatti che giustificano le richieste avanzate dagli interessati e che vanno a circoscrivere l'ambito di cognizione dell'organo giudicante. Il carattere dispositivo del processo civile si esprime, infine, nel c.d. principio di disponibilità delle prove di cui all'art. 115 c.p.c., in base al quale attore e convenuto devono dimostrare i fatti da loro allegati, non potendo il giudice acquisirne d'ufficio la relativa conoscenza. Non necessitano di prova, invece, ex art. 115, comma 2, c.p.c. i fatti notori rientranti nella comune esperienza e, in base ad un principio risalente e non codificato, ma avallato da recente giurisprudenza di legittimità, i fatti non contestati. In base al summenzionato principio di disponibilità della prova, quest'ultima viene dunque a costituire oggetto di un onere gravante sulle parti del processo civile, la cui ripartizione è appunto regolata dall'art. 2697.

In dottrina si è ritenuto che tale norma non possa essere intesa solo come regola volta a ripartire tra gli interessati l'iniziativa processuale, ma deve essere letta anche come regola che mira a consentire una pronuncia giudiziale pur nell'ipotesi in cui il fatto sia rimasto incerto. Il giudice non può mai sottrarsi all'unica alternativa consentitagli, che è quella di accogliere o respingere la domanda, egli soggiace al divieto di non liquet.

Dall'art. 2697, dunque, scaturisce una regola formale di giudizio, avente carattere residuale, in forza della quale, laddove le risultanze istruttorie non offrano elementi idonei per l'accertamento pieno di quei fatti, va dichiarata la soccombenza della parte che aveva l'onere di fornire la relativa prova.

Limiti oggettivi dell'onere della prova

Alcuni fatti, dotati di caratteristiche peculiari, non rientrano nell'applicazione delle regole relative all'onere della prova. Si tratta anzitutto delle “nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza” di cui parla l'art. 115, comma 2, c.p.c., ossia dei fatti notori e delle c.d. massime d'esperienza.

L'art. 115 prevede, infatti, che il giudice possa servirsi di queste nozioni ai fini della decisione senza bisogno di prova, ossia traendole dalla propria scienza privata (cfr. Patti, Prove, 73). La dottrina ritine, inoltre, che le regole in questione si applichino soltanto ai fatti contestati tra le parti. In effetti la mancata contestazione di un fatto allegato da una parte ad opera dell'altra parte renderebbe questo fatto «pacifico» e, quindi, non bisognoso di prova.

Con una importante pronuncia resa a sezioni unite in materia di rito del lavoro, la Cassazione ha affermato che la non contestazione vincola il giudice a ritenere esistenti i fatti principali non contestati, precisando altresì che la contestazione tardiva è ammissibile solo nei limiti consentiti dall'art. 184 bis c.p.c. (articolo abrogato dall'art. 46, l. 18 giugno 2009, n. 69) (Cass. S.U., n. 761/2002). I principi affermati dalle sezioni unite sono stati ribaditi dalla giurisprudenza successiva anche in relazione alla non contestazione nel processo ordinario (Cass. I, n. 6936/2004).

Ad ogni modo, sul tema della non contestazione è intervenuto il legislatore modificando il comma 1 dell'art. 115 c.p.c., il quale espressamente prevede che il giudice può porre a fondamento della decisione, oltre alle prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, anche i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. Non rileva invece, al fine dell'applicazione delle regole sull'onere della prova, la circostanza che la norma sostanziale dia del fatto una determinazione negativa. I fatti negativi sono dunque normalmente oggetto di onere probatorio: la parte onerata potrà darne la prova, normalmente dimostrando fatti «positivi» incompatibili con la verità del fatto di cui deve dimostrare l'inesistenza (Patti, Prove, 53).

In proposito la giurisprudenza di legittimità (Cass. II, n. 24052 /2017) ha specificato che il nuovo testo dell'art. 115  non ha inteso creare nuove fattispecie di prova legale, considerato che il momento valutativo, contestabile come impugnazione per error in procedendo , verificando la specificità dell'allegazione avversaria.

 Sull’onere della contestazione specifica cfr. Cass. I, n. 15177/2024, la quale ha precisato che, in tema di rapporti bancari di conto corrente, l'estratto conto che inizi con il saldo negativo di un rapporto precedente non può dirsi incompleto e solo a fronte di una specifica contestazione del correntista, in ordine alla veridicità ed effettiva debenza di quanto dovuto in forza del conto secondario o precedente, scatta l'obbligo della banca di fornire la prova della correttezza della posta negativa di cui trattasi, prova che consiste, di regola, nella produzione degli estratti conto da cui risulti quel saldo iniziale.

Resta fermo, inoltre, che i fatti addotti da una parte possono considerarsi ammessi, con conseguente esonero dalla relativa prova, quando l'altra parte abbia svolto difese incompatibili con la volontà di negarne l'esistenza (Cass. III, n. 3429/2025).

Non riguarda il riparto degli  oneri probatori la dimostrazione dell'esistenza e del contenuto di norme giuridiche, anche quando si tratti di norme antiche, consuetudinarie o straniere. Opera al riguardo il principio jura novit curia, per il quale il giudice conosce d'ufficio la norma giuridica applicabile, nonché il principio generale per cui le prove riguardano i fatti e non le norme. 

 In tema di usi normativi è stato così va affermato il principio secondo il quale il giudice, non essendo obbligato a conoscerli, è tenuto ad applicarli solo quando siano a lui noti. Ne deriva che l'onere di provare la loro esistenza grava sulla parte che ne richieda l'applicazione e la relativa prova non può essere fornita per la prima volta nel giudizio di legittimità (Cass. II, n. 11127/2022).

Modificazioni e inversioni dell'onere della prova

La regola di cui all'art. 2697 subisce delle deroghe previste in diverse disposizioni legislative.

La prima a venire in rilievo è la presunzione legale (art. 2727). Le presunzioni legali possono essere assolute o relative. Le presunzioni assolute sono poco numerose; per di più si ritiene che esse attengano alla disciplina sostanziale della fattispecie, e quindi non incidano sulla materia degli oneri probatori (Taruffo, Onere, 76).

Per l'esclusione di una presunzione assoluta non prevista dalla legge si veda la giurisprudenza (Cass. lav., n. 9588/2001).

Sono invece le presunzioni relative, che ammettono la prova contraria, a costituire il mezzo con cui il legislatore modifica o inverte la distribuzione degli oneri probatori fra le parti. Il meccanismo della presunzione legale relativa consiste nel dare per vero, senza richiederne la prova, un fatto che una parte dovrebbe provare se si applicasse la regola dell'art. 2697. La legge prevede quindi una relevatio ab onere probandi in favore della parte che allega il fatto presunto: questo fatto non ha bisogno di essere provato, e tuttavia il giudice fonderà su di esso la decisione. Spetterà quindi all'altra parte, se vuole evitare ciò, fornire la prova contraria del fatto presunto: è in ciò che si verifica l'inversione o modificazione dell'onere della prova. Peraltro, sotto il profilo oggettivo la distribuzione degli oneri probatori in realtà non viene modificata. Ciò in quanto la parte contro cui opera la presunzione avrebbe comunque l'onere della prova contraria, anche qualora la presunzione non vi fosse, nel caso in cui l'altra parte desse la prova positiva del fatto. Numerose presunzioni legali sono disseminate nella fornirne una descrizione sia pure sommaria. Le ragioni per cui il legislatore interviene sulla normale ripartizione degli oneri probatori sono eterogenee; talvolta la ragione consiste nell'estrema difficoltà di fornire la prova di un fatto, e nella relativamente maggiore facilità di provare il contrario; talvolta si presume un fatto che corrisponde all'id quod plerumque accidit e si colloca l'onere della prova in capo a chi allega un fatto che non corrisponde alla «normalità»; talvolta il legislatore mira a facilitare la tutela dei diritti di determinati soggetti, e quindi elimina o riduce gli oneri probatori che costoro dovrebbero soddisfare.

Sempre in tema di presunzioni, nella recente giurisprudenza di legittimità è stato chiarito che nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado, in quanto lo stesso non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 c.c. né a qualsiasi altra norma, ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un'ulteriore presunzione idonea - in quanto a sua volta adeguata - a fondare l'accertamento del fatto ignoto, con la  conseguenza che, qualora si giunga a stabilire, anche a mezzo di presunzioni semplici, che un fatto secondario è vero, ciò può costituire la premessa di un'ulteriore inferenza presuntiva, volta a confermare l'ipotesi che riguarda un fatto principale o la verità di un altro fatto secondario (Cass. III, n. 14788/2024).

Normalmente è il legislatore che modifica o inverte gli oneri probatori tra le parti per mezzo delle presunzioni legali, come in tema di promossa di pagamento e ricognizione di debito ex art. 1988 c.c., che non costituiscono un'autonoma fonte di obbligazione ma determinano un'astrazione meramente processuale della causa debendi che si traduce nell'inversione dell'onere della prova circa l'esistenza del rapporto fondamentale, incombendo sull'autore della ricognizione l'onere di allegare e provare che tale rapporto non è mai sorto o è invalido o si è estinto (Cass. III, n. 31818/2024; Cass. lav., n.. 17713/2016).

 Accade tuttavia che fenomeni analoghi si verifichino al di fuori di specifiche previsioni normative, ad opera della giurisprudenza (le c.d. presunzioni giurisprudenziali), la quale presume la verità di determinati fatti in favore di una parte, attribuendo all'altra parte l'onere di provare il contrario (Comoglio, 228, 262, 475; Patti, Prove, 109; Taruffo, Onere, 77).

In altri casi la giurisprudenza non crea vere e proprie presunzioni ma ritiene sufficiente che una parte dimostri, anche solo con indizi, l'apparenza di una situazione tipica secondo l'id quod plerumque accidit, ossia la mera verosimiglianza o «normalità» del fatto che dovrebbe provare (v., di recente, ad esempio, nel senso che il danno patrimoniale derivante da indebita segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d'Italia può essere provato dal danneggiato anche per presunzioni, potendo consistere, se imprenditore, nel peggioramento della sua affidabilità commerciale, essenziale anche per l'ottenimento e la conservazione dei finanziamenti, con conseguente lesione del diritto ad operare sul mercato secondo le regole della libera concorrenza, e, per qualsiasi altro soggetto, nella maggiore difficoltà nell'accesso al credito,  Cass. III, n. 29252/2024).

Un caso d'inversione dell'onere della prova in tema di usucapione, si rinviene nella presunzione di cui all'art. 1141, comma 1, c.c. in punto di animus possidendi, cosicché non spetta al possessore dimostrare l'esistenza di tale elemento soggettivo, ma alla parte che si opponga all'avvenuta maturazione dell'usucapione dimostrarne la mancanza (Cass. II, n. 25095/2022).

Si registra poi, specie in giurisprudenza, la tendenza “equitativa” ad attenuare l’onere probatorio incombente su una parte in virtù della regola fondamentale espressa dalla norma in esame facendo riferimento al criterio della c.d. vicinanza della prova rispetto al fatto che deve essere oggetto di dimostrazione.

Frequente è l’utilizzo, ad esempio, di tale criterio nell’ambito della responsabilità medico. Si è così affermato, di recente, che, in tema di risarcimento dei danni subiti in conseguenza di un'infezione contratta in ambiente ospedaliero, la prova della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi (compreso quello soggettivo) della responsabilità - nella specie di natura extracontrattuale - della struttura sanitaria, che grava sul soggetto danneggiato, può essere fornita, in ossequio al principio della vicinanza della prova, anche con il ricorso alle presunzioni semplici, in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria, della documentazione relativa all'adozione di tutte le misure utili alla prevenzione del contagio (Cass. III, n. 35062/2024).

Ancora, si è ritenuto, sempre a titolo esemplificativo, che, in tema di responsabilità della ASL per danni derivanti da prestazioni erogate da medici in rapporto di convenzionamento, ex art. 1228 c.c., spetta ad essa provare i fatti estintivi dell'altrui pretesa risarcitoria, ovvero che il medico intervenne, non quale medico convenzionato, ma come libero professionista, e non incombe, invece, al paziente danneggiato dimostrare che la prestazione erogata, riconducibile ad una prestazione sanitaria a carico del Servizio sanitario nazionale, non è stata resa ad altro titolo (Cass. III, n. 5673/2025).

Il principio di acquisizione

Accade talvolta che una parte offra la prova di un fatto che non avrebbe l'onere di provare secondo il criterio fissato dall'art. 2697. In virtù del principio di acquisizione probatoria il giudice si servirà eventualmente dei risultati della prova dedotta dalla parte non onerata, ma ciò non comporta alcuna conseguenza sulla distribuzione originaria degli oneri probatori. Se la prova riesce, la parte non onerata che l'ha prodotta soccombe in quanto l'altra parte, che aveva l'onere di provare quel fatto, lo vede dimostrato per iniziativa dell'avversario.

Infatti, il principio dell'onere della prova non implica anche che la dimostrazione del buon fondamento del diritto vantato dipenda unicamente dalle prove prodotte dal soggetto gravato dal relativo onere, e non possa, altresì, desumersi da quelle espletate, o comunque acquisite, ad istanza ed iniziativa della controparte. Vige, difatti, nel nostro ordinamento processuale, in uno con il principio dispositivo, quello cd. "di acquisizione probatoria", secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute (e qual che sia la parte ad iniziativa della quale sono state raggiunte), concorrono, tutte ed indistintamente, alla formazione del libero convincimento del giudice, senza che la relativa provenienza possa condizionare tale convincimento in un senso o nell'altro, e senza che possa, conseguentemente, escludersi la utilizzabilità di un prova fornita da una parte per trarne argomenti favorevoli alla controparte (Cass. lav., n. 23286/2024; Cass. III, n. 5980/1998).

Casistica

La responsabilità precontrattuale derivante dalla violazione della regola di condotta, posta dall'art. 1337 nella formazione progressiva del negozio, va ricondotta al regime della responsabilità extracontrattuale, con tutte le conseguenze in merito alla distribuzione dell'onere della prova. Ne consegue che, in caso di recesso ingiustificato di una parte, l'onere della prova che il proprio comportamento corrisponda ai canoni di buona fede e correttezza non grava sul recedente, ma incombe, al contrario, sull'altra parte che ha l'onere di dimostrare che il recesso subito viola i principi della buona fede e della correttezza (Cass. II, n. 24738/2019).

Ove l'azione di simulazione, proposta dal creditore di una delle parti di una compravendita immobiliare, si fondi su elementi presuntivi che, in ottemperanza all'art. 2697 c.c., indichino il carattere fittizio dell'alienazione, l'acquirente ha l'onere di provare l'effettivo pagamento del prezzo, potendosi, in mancanza, trarre elementi di valutazione circa il carattere apparente del contratto; tale onere probatorio non può, tuttavia, ritenersi soddisfatto dalla dichiarazione relativa al versamento del prezzo contenuta nel rogito notarile, in quanto il creditore che agisce in simulazione è terzo rispetto ai contraenti (Cass. II, n. 18347/2024).

In tema di contratto d'opera, l'appaltatore che agisce in giudizio per il pagamento del corrispettivo pattuito ha l'onere di provare il fatto costitutivo del diritto di credito oggetto della sua pretesa e quindi di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione conformemente al contratto e alle regole dell'arte (Cass. II, n. 25410/2024). In particoalre, non costituiscono idonea prova dell'ammontare del credito dell'appaltatore per il proprio compenso le fatture dallo stesso emesse, trattandosi di documenti fiscali provenienti dalla parte stessa, né la contabilità redatta dal direttore dei lavori (o dallo stesso appaltatore), salvo che, con riferimento a quest'ultima, risulti che essa sia stata portata a conoscenza del committente e che questi l'abbia accettata senza riserve (Cass. II, n. 14399/2024).

Nelle controversie relative alla spettanza e alla misura degli interessi moratori, l'onere della prova, ai sensi dell'art. 2697 c.c., si atteggia nel senso che il debitore che intende dimostrare l'entità usuraria degli stessi è tenuto a dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale relativa agli interessi moratori e quelli applicati in concreto, l'eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato e gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento, mentre la controparte deve allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell'altrui diritto (Cass. III, n. 26525/2024).

In tema di rapporti bancari regolati in conto corrente, ove la banca agisca in giudizio per il pagamento dell'importo risultante a saldo passivo ed il correntista chieda, a sua volta, la rideterminazione del saldo, concludendo per la condanna dell'istituto di credito a pagare la differenza in proprio favore o per l'accoglimento della domanda principale in misura inferiore, l'eventuale carenza di alcuni estratti conto o, comunque di altra documentazione che consenta l'integrale ricostruzione dell'andamento del rapporto, comporta che: a) per quanto riguarda la banca, il calcolo del dovuto potrà farsi: a.1) nell'ipotesi in cui non ci sia in atti documentazione che risalga all'inizio del rapporto azzerando il saldo di partenza del primo estratto conto disponibile (ove quest'ultimo non coincida, appunto, con il primo estratto del rapporto) e procedendo, poi, alla rideterminazione del saldo finale utilizzando la completa documentazione relativa al periodo successivo fino alla chiusura del conto o alla data della domanda; a.2) laddove manchi documentazione riguardante uno o più periodi intermedi, azzerando i soli saldi intermedi, intendendosi con tale espressione che non si dovrà tenere conto di quanto eventualmente accumulatosi nel periodo non coperto da documentazione, sicché si dovrà ripartire, nella prosecuzione del ricalcolo, dalla somma che risultava a chiusura dell'ultimo estratto conto disponibile; b) per quanto riguarda, invece, il correntista che lamenti l'illegittimo addebito di importi non dovuti a vario titolo e ne chieda la restituzione, il calcolo del dovuto potrà farsi tenendo conto che: b.1) nell'ipotesi in cui non ci sia in atti documentazione che risalga all'inizio del rapporto, egli o dimostra l'eventuale vantata esistenza di un saldo positivo in suo favore, o di un minore saldo negativo a suo carico o beneficia comunque dell'azzeramento del saldo di partenza del primo estratto conto disponibile (ove quest'ultimo non coincida, appunto, con il primo estratto del rapporto) e della successiva rideterminazione del saldo finale avvenuta utilizzando la completa documentazione relativa al periodo successivo fino alla chiusura o alla data della domanda; b.2) laddove manchi documentazione riguardante uno o più periodi intermedi, anche in tal caso, egli, se sostiene che in quei periodi si è accumulata una somma a suo credito o un minore importo a suo debito per effetto di interessi o commissioni non dovute, lo deve provare, producendo la corrispondente documentazione che, in tal caso, però, nuovamente sarà utilizzabile anche per la controparte, secondo il meccanismo di acquisizione processuale; in caso contrario, lo stesso beneficerà del meccanismo di azzeramento del o dei saldi intermedi, con il risultato che la banca, per quel o quei periodi, non ottiene niente ed il correntista, per lo stesso o gli stessi periodi, nulla recupera; così da prevenire, in definitiva, il rischio di due saldi difformi per la banca o il correntista all'esito del ricalcolo (Cass. I, n. 1763/2024).

In tema di contratto di conto corrente, la banca che eccepisca la prescrizione dell'actio indebiti assolve al proprio onere di allegazione con l'affermazione della natura solutoria delle rimesse contestate (anche senza indicare specificamente quali siano), dell'inerzia del correntista e della volontà di approfittarne agli effetti dell'estinzione del diritto vantato, gravando invece sul correntista l'onere di provare che le rimesse contestate hanno natura meramente ripristinatoria (Cass. I, n. 26897/2024).

Secondo Cass. II n. 26984/2013 la prova del potere di fatto sulla cosa destinata all'usucapione grava sul deducente il quale si giova della presunzione di possesso exart. 1141, primo comma  con la conseguenza che chi lo contesta deve dimostrare la mera detenzione (Cass. lav, n. 17713/2016).

Infatti, l'attore deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della vantata usucapione  ossia del  "corpus", ma anche dell'"animus"; il quale elemento può emergere  in via presuntiva dal primo, sempreché vi sia stato esercizio di poteri dominicali sul bene. In questo modo il convenuto diventa onerato della dimostrazione del contrario per esempio cercando di provare che quei poteri derivano, in realtà da un contratto per esempio di comodato ( Cass. II, n. 22667 /2017).

 L'onere di allegare il negozio presupposto e di dimostrarne l'insussistenza, grava sul terzo proponente un'azione di simulazione assoluta dell'accordo sotteso all'emissione (o alla successiva circolazione) di un titolo cambiario considerato il carattere formale ed astratto dell'obbligazione cambiaria assistita da una presunzione di esistenza del rapporto sottostante perché diversamente rimarrebbe vanificato ove fosse  il creditore cambiario nel caso di esperimento dell'azione di simulazione  tenuto a palesare la natura giuridica del contratto sotteso al rilascio dei titoli. (Cass. III,  n. 23502/2022).

Le presunzioni legali in favore dell'erario derivanti dagli accertamenti bancari determinano in capo al contribuente un preciso ed analitico onere della prova contraria che non può essere assolto solo attraverso il ricorso a dichiarazioni di terzi, dal momento che queste ultime non costituiscono prove esclusive della provenienza del reddito accertato, o a fondare esse sole il convincimento del giudice (Cass. V, n. 22302/2022).

Il risarcimento del danno da perdita di chance conseguente a procedura concorsuale illegittima deriva dall'elevata probabilità di esito vittorioso della selezione, sicché la prova del nesso causale tra inadempimento datoriale e danno deve assumere connotati prossimi alla certezza, e non può essere quindi desunta dalle pari probabilità di tutti i concorrenti di conseguire il risultato atteso (Cass. lav., n. 25442/2024).

Secondo Cass. L, n. 19163/2022 ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato il cd. aliunde perceptum non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto. Ne consegue che ove vi sia stata la rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d'ufficio (anche nel silenzio della parte interessata e se l'acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze ai fini della quantificazione del danno stesso.

Bibliografia

Comoglio, Le prove civili, Torino, 2004; Patti, Le condizioni generali di contratto, Padova, 1996; Taruffo, Onere della prova, in Dig. Civ., XIII, Torino, 1996; Taruffo, Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. Trim. dir. proc. civ. 1992; Tommaseo, Delle prove, in Comm. Cendon, VI, Torino, 1991.

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