Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 25 - Poteri del giudice delegato 1 .

Alessandro Farolfi
aggiornato da Francesco Maria Bartolini

Poteri del giudice delegato1 .

Art. 25

Il giudice delegato esercita funzioni di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura e:

1) riferisce al tribunale su ogni affare per il quale è richiesto un provvedimento del collegio;

2) emette o provoca dalle competenti autorità i provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio, ad esclusione di quelli che incidono su diritti di terzi che rivendichino un proprio diritto incompatibile con l'acquisizione;

3) convoca il curatore e il comitato dei creditori nei casi prescritti dalla legge e ogni qualvolta lo ravvisi opportuno per il corretto e sollecito svolgimento della procedura;

4) su proposta del curatore, liquida i compensi e dispone l'eventuale revoca dell'incarico conferito alle persone la cui opera è stata richiesta dal medesimo curatore nell'interesse del fallimento;

5) provvede, nel termine di quindici giorni, sui reclami proposti contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori;

6) autorizza per iscritto il curatore a stare in giudizio come attore o come convenuto. L'autorizzazione deve essere sempre data per atti determinati e per i giudizi deve essere rilasciata per ogni grado di essi. Su proposta del curatore, liquida i compensi e dispone l'eventuale revoca dell'incarico conferito ai difensori nominati dal medesimo curatore2  ;

7) su proposta del curatore, nomina gli arbitri, verificata la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge;

8) procede all'accertamento dei crediti e dei diritti reali e personali vantati dai terzi, a norma del capo V.

Il giudice delegato non può trattare i giudizi che abbia autorizzato, nè può far parte del collegio investito del reclamo proposto contro i suoi atti.

I provvedimenti del giudice delegato sono pronunciati con decreto motivato.

[1] Articolo sostituito dall'articolo 22 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

[2] Numero modificato dall'articolo 3, comma 2, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007.

Inquadramento

Il Giudice delegato è quel magistrato che viene nominato dal Tribunale fallimentare nella sentenza di fallimento (art. 16 comma 1 n. 1 l.fall.) e che risulta così investito delle funzioni di vigilanza e controllo sulla regolarità della procedura concorsuale. Paradigmatica dal punto di vista del diritto positivo è la sostituzione dell'incipit dell'art. 25 l.fall. (secondo cui «il giudice delegato dirige le operazioni del fallimento») con la nuova formulazione «il giudice delegato esercita funzioni di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura». Il Giudice delegato fa parte con il tribunale, il curatore ed il comitato dei creditori degli organi preposti alla procedura fallimentare. Da sempre si discute del rapporto esistente, in particolare, fra g.d. e curatore. Mentre un tempo ci si interrogava se il curatore fosse un mero organo esecutivo delle direttive fornite dal g.d. o se il primo comunque mantenesse un margine di autonomia, data dal fatto che il giudice non aveva compiti vicari dell'attività amministrativa del curatore, appare certo che le riforme hanno assegnato al g.d. un ruolo più marcatamente giurisdizionale e non di propulsione diretta dell'attività gestoria e di liquidazione spettanti al curatore. Tale scelta sottende, altresì, il tentativo del legislatore di incrementare il tasso di terzietà del g.d. rispetto alla procedura fallimentare, rendendo al tempo stesso incompatibile la sua presenza nel collegio deputato a trattare dei reclami avverso i suoi atti (art. 25 comma 2), impedendo che egli stesso possa trattare i giudizi che ha autorizzato (art. 25 comma 2 cit.) e, ancora, escludendo che lo stesso possa far parte del collegio cui sono assegnate le impugnazioni avverso le decisioni del g.d. adottate nel corso della verifica dello stato passivo (art. 99, comma 10). Si deve fin da ora ricordare come lo scorso 1° febbraio abbia ricevuto la prima approvazione, da parte della Camera dei deputati, il disegno di l. n. 3671-bis di riforma “organica” delle procedure concorsuali (c.d. d.l. Rordorf). Molteplici sono i prinicpi innovativi contenuti nell'articolato normativo in corso di approvazione. In questa sede, con particolare riferimento alla figura generale del G.d., accanto ad una più generale trasformazione del fallimento in procedura di liquidazioner giudiziale, devono evidenziarsi alcuni profili di riforma tendenti ad accenture l'autonomia del curatore, a scapito dell'organo giudiziale monocratico, ad es. in tema di attribuazione della fase di riparto (con un ruolo del tutto residuale del G.d., soltanto in caso di opposizione) o, ancora, incrementando i casi di chiusura delle procedure con “liti pendenti”.

Si discute se, quando il Giudice delegato adotta un provvedimento in sostituzione del comitato dei creditori, non costituito o impossibilitato a funzionare, pur svolgendo in modo vicario un compito gestorio, fondato su valutazioni di opportunità e convenienza delle decisioni da adottare per il migliore andamento della procura, eserciti pur sempre un ruolo giurisdizionale. Il quesito non è puramente teorico, in quanto incide sul regime di impugnabilità dell'atto così reso. La giurisprudenza prevalente ritiene che il provvedimento reso dal giudice delegato ai sensi dell'art. 41, comma 4, l.fall., in sostituzione del comitato dei creditori, sia attratto al regime proprio degli atti del magistrato e non dell'organo gestorio, pertanto soggetto al reclamo ai sensi dell'art. 26 l.fall. per ragioni sia di legittimità sia di merito, non applicandosi il limite della (sola) violazione di legge ai sensi dell'art. 36 l.fall. (Trib. Monza 11 aprile 2012).

Le funzioni del giudice delegato: dalla direzione alla vigilanza

Costituisce affermazione generalmente condivisa (Bonfatti-Censoni, 75) quella secondo cui, dopo le riforme degli anni 2006-2007, il Giudice delegato alle procedure fallimentari ha perso la precedente funzione di propulsione attiva e di direzione dell'attività gestoria per acquisire un ruolo, non meno importante ma certo diverso, di vigilanza e di controllo circa il rispetto della legalità delle operazioni e più in generale delle attività in cui si estrinseca ciascuna procedura concorsuale. In questo senso, accanto al dato testuale del nuovo art. 25, può citarsi un indubbio indice sistematico e teleologico, contenuto nella relazione ministeriale di accompagnamento alla riforma operata con d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, ove è scritto esplicitamente che «il giudice delegato non è più l'organo motore della procedura, essendo stata sostituita l'attività di direzione, con quella di vigilanza e controllo». Del pari, rafforza tale idea la modifica dell'art. 31 l.fall. che nella vigente disciplina prevede che «il curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori» (in precedenza «sotto la direzione del giudice delegato»). Completa in termini più generali il riassetto degli equilibri fra organi della procedura la norma contenuta nell'art. 35 l.fall., in base alla quale in linea di principio il curatore è autorizzato al compimento di atti di straordinaria amministrazione non più dal giudice delegato (il quale mantiene una funzione di controllo preventivo per gli atti di valore superiore a 50.000 Euro), bensì dal comitato dei creditori. L'art. 41 comma 4 l.fall. rappresenta da questo punto di vista una valvola di sicurezza che, in caso di inerzia, impossibilità di costituzione o funzionamento del comitato dei creditori, nonché in caso di urgenza, consente al g.d. di surrogarsi nei poteri autorizzatori spettanti al comitato dei creditori. Trattasi di norma discussa perché se da un lato «incrina» certamente quel ruolo di mera vigilanza che la riforma voleva per il g.d., riassegnandogli poteri di autorizzazione e quindi di ingerenza nell'attività gestoria in tutte quelle procedure in cui la costituzione o il funzionamento del c.d.c sia difficoltosa se non impossibile, dall'altro mira a prevenire possibili paralisi dell'attività gestoria per ragioni di speditezza ed efficienza delle procedure (non essendo affatto raro che proprio nei fallimenti privi inizialmente di un attivo concreto sia assai difficoltoso trovare creditori «disponibili» ad assumere un ruolo potenzialmente foriero di responsabilità). Va sin da ora notato che un più generale potere sostitutivo del giudice delegato rispetto al comitato dei creditori è oggi previsto dall'art. 118 l.fall., così come modificato dalla recente riforma operata con il d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con mod. dalla l. 6 agosto 2015, n. 132. Tale nuova disposizione prevede, proprio al fine di accelerare i tempi di chiusura delle procedure fallimentari, la possibilità di procedere in tal senso nonostante la pendenza di giudizi che coinvolgano il fallimento. Ciò determina la ultrattività della legittimazione processuale e della rappresentanza del curatore, nonché la permanenza del Giudice delegato, che viene in tal modo a compiere le attività autorizzatorie prima spettanti al comitato dei creditori, anche ai sensi dell'art. 35 l.fall., che invece non sopravvive alla chiusura «anticipata» della procedura.

La Corte costituzionale si è trovata ad affrontare, giudicandola peraltro inammissibile nei termini posti, una questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 41 l.fall. sollevata da Trib. Firenze, 15 dicembre 2007, in tema di riparto di competenze fra organi della procedura fallimentare, poteri del curatore ed omessa previsione di un «diritto di veto» in capo al giudice delegato; infatti nella procedura originante la questione, l'atto adottato doveva in concreto ritenersi non una mera transazione ma un atto di liquidazione dell'attivo ed il g.d. aveva provocato l'intervento del Collegio ai sensi dell'art. 25 comma 1 n. 1 l.fall., così privando di rilevanza concreta — al di là della correttezza di tale opzione — la questione di legittimità poi sollevata (Corte cost. n. 365/2008).

La relazione al collegio

L'art. 25 comma 1 n.) attribuisce al g.d. il ruolo di relatore sulle questioni di carattere fallimentare di competenza del collegio. Tale compito ha oggi un contenuto residuale, considerato che per le questioni relative ai controlli di carattere giurisdizionale sono previste delle specifiche incompatibilità. Così, ad esempio, in caso di reclamo al collegio avverso i provvedimenti del g.d., di cui quest'ultimo non può far parte (art. 25 comma 2), come pure in materia di opposizioni allo stato passivo (art. 99 comma 9). Si può pertanto ritenere che i compiti di relatore al collegio siano oggi fondamentalmente circoscritti ai seguenti casi:

a. Procedimento prefallimentare e pronuncia sull'istanza di fallimento;

b. Revoca e sostituzione del curatore;

c. Liquidazione del compenso del curatore;

d. Provvedimento di non farsi luogo all'accertamento del passivo, ex art. 102 l.fall.;

e. Decisione su contestazioni non sanabili in sede di rendiconto del curatore;

f. Chiusura del fallimento.

Il principio di immutabilità del giudice, di cui all'art. 276 c.p.c., è applicabile solo dal momento in cui inizia la discussione e non si riferisce alle eventuali precedenti fasi interlocutorie. Ne consegue che, nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, il quale (nella disciplina anteriore al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) è strutturalmente articolato in due fasi — la prima destinata alla raccolta di informazioni, nonché all'ascolto dei creditori e del debitore, e la seconda alla decisione —, tale principio opera con esclusivo riferimento alla seconda fase, per cui non sussiste violazione ove il giudice delegato all'audizione delle parti abbia poi riferito a collegio diverso da quello che lo aveva delegato (Cass. n. 8593/2014).

I decreti di acquisizione

La possibilità per il g.d. di emettere provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio costituisce un omaggio alla tradizione precedente le riforme del 2006/2007 (nella quale fungeva da direzione della procedura ed organo centrale e gestorio della stessa) che oggi ha un limitato ambito applicativo. Il potere di emettere questo tipo di provvedimenti (detti decreti di acquisizione) va infatti circoscritto a beni che siano incontestabilmente di proprietà del fallito e che per qualche disguido o impedimento di ordine materiale non si sia potuto ricomprendere immediatamente nell'attivo (il caso forse più ricorrente è quello relativo ad autoveicoli intestati al fallito e non rinvenuti al momento dell'apertura della procedura concorsuale), ovvero quale provvedimento con cui si provoca l'intervento di un'altra autorità, generalmente la forza pubblica, ma sempre al limitato fine di superare impedimenti contingenti e materiali. La norma ha infatti cura di precisare che detti decreti non possono essere emessi quando incidano su diritti dei terzi che rivendichino un proprio diritto all'acquisizione del bene da parte della procedura. Da questo punto di vista la norma introduce una elementare «parità delle armi», in ossequio ad esigenze di tutela giurisdizionale piena dei diritti, in quanto come il terzo rivendicante (anche in caso di diritti di carattere personale) deve proporre una domanda giudiziale nelle forme di cui all'art. 103 l.fall., così il curatore non può conseguire la disponibilità di beni di cui è controversa l'appartenenza a terzi mediante il «braccio armato» del g.d., ma dovrà rivolgersi all'autorità giudiziaria, proponendo un'azione ordinaria, eventualmente anticipata da un provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. o di sequestro.

Seguendo un indirizzo oggi certamente consolidato, quando i beni della società fallita sono oggetto di un sequestro preventivo, il giudice delegato non può acquisirli all'asse fallimentare con un decreto emanato ai sensi dell'art. 25, comma 1, n. 2, l.fall. poiché il contrasto va risolto nell'ambito di un ordinario procedimento di cognizione e non attraverso un provvedimento non contenzioso (Cass. n. 10095/2007). Si è pure affermato che non è possibile per i provvedimenti del giudice delegato, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge fallimentare, incidere su diritti soggettivi dei terzi (Cass. n. 26172/2006). L'art. 87-bis l.fall. opera come una sorta di contraltare rispetto alla disposizione contenuta nell'art. 25 n. 2) posto che riguarda la restituzione per le vie brevi di beni sui quali terzi vantino propri diritti evidenti e quindi non contestati. Sul punto si è rilevato che la scelta del giudice delegato in materia di restituzione di beni mobili sui quali terzi soggetti vantino diritti reali o personali chiaramente riconoscibili è di fatto obbligata e vincolata al parere del Curatore e del Comitato dei creditori, e non permette alcun sindacato e/o apprezzamento valutativo per cui, in presenza di una situazione di evidente fondatezza della pretesa, e in presenza del consenso da parte dei soggetti aventi un interesse contrario (i creditori) o un dovere di verifica (il curatore), va intesa come giustificata la deroga alle norme altrimenti vigenti, stabilita dall'art. 87-bis l.fall. Ma in presenza di una situazione nella quale la fondatezza della pretesa sia anche solo contestata dal curatore e dai creditori, deve ritenersi che non vi sia spazio per una decisione in deroga alle forme processuali e alle regole probatorie vigenti per qualunque accertamento rientrate nell'ambito applicativo dell'art. 52 l.fall. (Trib. Foggia 3 marzo2015).

Il decreto, emesso ex art. 25 comma 1, n. 2 l. fall., con il quale il giudice delegato dichiari l'inefficacia di un ordine di bonifico, il cui importo sia già stato accreditato sul conto della società destinataria, è giuridicamente inesistente o "abnorme", per carenza assoluta di potere, in quanto diretto all'acquisizione di somme in possesso di terzi che ne contestino la spettanza al fallimento; lo strumento di cui all'art. 25 l. fall., infatti, può essere adottato in luogo dell'azione in via ordinaria, per la declaratoria di inefficacia del giroconto ex art. 44 l. fall., solo quando non sia contestata la spettanza al fallimento dei beni e delle attività di cui è disposta l'acquisizione, non potendo i provvedimenti del giudice delegato, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge fallimentare, incidere su diritti soggettivi dei terzi senza l'attivazione di un ordinario procedimento di cognizione (Cass. I, ord. n. 2058/2023).

La convocazione del curatore e del comitato dei creditori

L'art. 25, comma 1, n. 3) non fa che esplicitare, sotto un particolare profilo, il più generale potere di controllo che spetta al g.d. che, conseguentemente, può convocare il curatore ed il comitato dei creditori, non soltanto quando ciò sia previsto dalla legge, ma anche quando lo ritenga semplicemente opportuno nell'interesse del buon andamento della procedura fallimentare. Si tratta dell'espressione di una vigilanza che attiene ad un più generale equilibrio fra i diversi organi: la vigilanza ed il controllo non ha infatti un ruolo puramente passivo, ma può estrinsecarsi in condotte attive (si pensi anche all'indiretto controllo esercitato in sede di sottoscrizione dei mandati di pagamento di cui all'art. 34 l.fall.) volte ad acquisire informazioni e delucidazioni su atti e comportamenti, già posti in essere o ad esempio prospettati nel programma di liquidazione.

La liquidazione dei compensi e la revoca degli ausiliari del curatore

Il n. 4 della disposizione in esame attribuisce al g.d. la competenza a liquidare i compensi spettanti agli ausiliari ed ai collaboratori del curatore. Viene in tal modo recuperata una penetrante attività di controllo sull'operato di questi soggetti terzi, che pur normalmente nominati dallo stesso curatore con l'autorizzazione del comitato dei creditori (salva ovviamente l'applicazione dell'art. 41 comma 4 in caso di assenza o inerzia di quest'ultimo organo), soggiaciono comunque alla più complessiva attività di vigilanza dell'organo giudiziale, che può altresì provvedere alla loro revoca (motivata). La norma vuole evitare, da un lato, una uniforme applicazione dei criteri di liquidazione dei compensi, impedendo una loro eccessiva incidenza sulle casse del fallimento (o comunque una loro incidenza soggettiva e non ispirata a criteri oggetti e non verificabili) e, dall'altro, vuole garantire sia pure in modo indiretto (cioè non al momento della nomina che spetta al curatore, ma attraverso la «spada di damocle» della possibile revoca) l'effettiva professionalità di coloro che sono chiamati a collaborare con il curatore per il buon andamento della procedura, nonché l'effettiva utilità di quanto ad essi richiesto rispetto al fallimento.

Il credito per il compenso del professionista nominato ai sensi dell'art. 25 l.fall. acquisisce carattere prededucibile e deve essere liquidato avvalendosi dei mezzi apprestati per l'accertamento del passivo. Laddove, a fronte della contestazione della prededucibilità, il creditore abbia avviato il procedimento camerale endofallimentare presentando istanza al giudice delegato, proponendo poi reclamo innanzi al tribunale, il procedimento è complessivamente affetto da nullità rilevabile d'ufficio (Cass. n. 14536/2016). Sotto diverso profilo, il decreto con il quale il giudice delegato, nell'esercizio della competenza esclusiva al riguardo attribuitagli dalla legge (art. 25, n. 7, l.fall.), liquida i compensi per l'opera prestata dagli incaricati a favore del fallimento, lungi dall'assumere carattere meramente ricognitivo, concreta un provvedimento di natura giurisdizionale destinato a statuire sul diritto dell'incaricato in maniera irretrattabile e con gli effetti propri della cosa giudicata, suscettibile di impugnazione unicamente con il rimedio endofallimentare del reclamo a norma dell'art. 26 l.fall. (Cass. n. 8742/2016). La giurisprudenza si è trovata ad affrontare la questione del quantum liquidabile dal g.d. all'ausiliare, con particolare riferimento, per la frequenza dei casi, all'avvocato incaricato di assistere la procedura fallimentare in giudizio. Si è al riguardo così stabilito che la liquidazione del compenso spettante al difensore che abbia patrocinato la curatela in un giudizio, effettuata dal giudice delegato ex art. 25 l.fall., può essere inferiore a quanto corrispondentemente disposto, in favore della curatela, con la sentenza conclusiva di quel giudizio, allorché la stessa non sia ancora passata in giudicato, ma, ove la sua definitiva decisione determini l'importo delle spese processuali dovute alla curatela medesima in misura superiore a quella liquidata al professionista in sede fallimentare, ricevendo «in parte qua» fruttuosa esecuzione, quest'ultimo può invocare tale decisione come titolo per ottenere l'eventuale maggior somma che gli compete per l'opera prestata e che, se incamerata dal cliente, ne determinerebbe un'ingiusta locupletazione (Cass. n. 4269/2016). Il tema della liquidazione dei compensi degli ausiliari si collega al valore del parere espresso al riguardo dal curatore: sul punto si è ritenuto che in tema di provvedimento con cui il giudice delegato nell'esercizio della competenza esclusiva attribuitagli dalla legge (art. 25, n. 6, l.fall. nel testo modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006) liquida i compensi per l'opera prestata dagli incaricati a favore del fallimento, il parere del curatore consiste in una mera dichiarazione di scienza senza alcun valore certificatorio, spettando al giudice che ha provveduto alla nomina ogni accertamento della prestazione svolta dall'incaricato, oltre che della relativa entità e dei risultati (Cass. n. 22103/2015). L'ammissione della procedura al patrocinio a spese dello stato spetta al g.d. Tale compito è stato confermato anche rispetto ai giudizi davanti alle Commissioni tributarie: l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, nel processo tributario in cui sia parte un fallimento, segue la procedura di cui all'art. 144 — e non quella di cui agli art. 138 e 139 — d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, prevalendo le funzioni di vigilanza del giudice delegato rispetto a quelle delle commissioni del patrocinio a spese dello Stato (Cass. n. 7842/2015).

Una fattispecie particolare è costituita dalla determinazione dell’equo compenso per l’uso della cosa locata ex art. 1526, comma 1, c.c. nel caso di insinuazione allo stato passivo dei crediti derivanti da un contratto di leasing risolto prima della dichiarazione di fallimento. Tale determinazione rientra nei poteri del giudice delegato (Cass. I,  n. 11962/2018).

Il reclamo avverso gli atti del curatore (rinvio)

Il n. 5 della norma in esame attribuisce al g.d. la competenza a decidere dei reclami avverso gli atti del curatore e del comitato dei creditori. Se ne parlerà diffusamente all'art. 36 l.fall. Va sin d'ora evidenziato che il termine di 15 gg. previsto invece dall'art. 25 per la decisione su detti reclami deve intendersi di carattere ordinatorio e che l'impugnazione in parola è consentita unicamente per motivi di legittimità. Si rinvia per ogni altra considerazione e per evitare duplicazioni al commento sub art. 36.

L'autorizzazione a stare in giudizio

Vi è un settore nel quale il giudice delegato – sia pure nel quadro del più generale potere di vigilanza e di controllo della legittimità sostanziale — mantiene un ruolo particolarmente incisivo, relativo al potere di (concedere o meno la) autorizzazione a «stare in giudizio come attore o come convenuto» al curatore (art. 25 comma 1 n. 6 l.fall.). In altri termini, se pure è vero che la materia delle eventuali azioni giudiziarie esperibili dalla procedura fallimentare attiene ai compiti del curatore di formazione ed incremento dell'attivo concorsuale, come testimonia il fatto che anche tale prospettiva di azione deve formare necessariamente oggetto del programma di liquidazione di cui all'art. 104-ter l.fall. (atto sul quale anche la recente riforma contenuta nel d.l. n. 83/2015 oggetto di conversione con l. 6 agosto 2015, n. 132, continua a «scommettere» inserendo termini perentori per la sua redazione e per la tendenziale conclusione delle operazioni liquidatorie), si deve ritenere che tale inclusione sia di fatto insufficiente ai fini del concreto esercizio dell'azione giudiziale. Infatti, l'art. 25 comma 1 n. 6 l.fall. prevede che l'autorizzazione del giudice sia data per iscritto, per atti determinati e per ciascun grado di giudizio, non potendo perciò ritenersi sufficiente la più generica «autorizzazione al compimento degli atti conformi» ad un programma di liquidazione già approvato dal comitato dei creditori, di cui è eco all'ultimo comma dell'art. 104-ter l.fall. Pertanto, solo il rilascio di una specifica autorizzazione scritta alla costituzione in un singolo giudizio da parte del giudice permette di ritenere integrata la legittimazione (rectius capacità) processuale del curatore. Peraltro, secondo un principio oramai ricorrente, la mancata autorizzazione del curatore a stare in giudizio attiene alla capacità processuale ed integra un difetto di legittimazione ad processum che può essere sanato in qualsiasi stato e grado del giudizio – salvo il formarsi del giudicato sul punto — con efficacia retroattiva, mediante manifestazione della parte legittimamente rappresentata della volontà di considerare legittimo l'iter processuale precedente. Vi è poi un importante settore del contenzioso nel quale la procedura fallimentare può essere coinvolta che, secondo l'orientamento più recente dei giudici di legittimità, non richiede l'autorizzazione del g.d. a stare in giudizio: si ritiene infatti che nei i giudizi di opposizione allo stato passivo, in considerazione del ruolo di protagonista che nella formazione del passivo è legalmente riconosciuta al Curatore, quest'ultimo possa parteciparvi senza doversi necessariamente munire dell'autorizzazione ex art. 25 comma 1 n. 6 l.fall. Resta ovviamente ferma l'esigenza del controllo giudiziale sulla opportunità di adottare iniziative giudiziarie che potrebbero rivelarsi imprudenti o velleitarie, fonte di costi in prededuzione per la procedura non giustificati da un reale interesse per la massa dei creditori. In materia di azioni di responsabilità esercitabili dalla curatela, invece, esiste una norma speciale che attribuisce al giudice delegato un compito ancora più pregnante ed incisivo: si tratta dell'art. 146 comma 2 l.fall., che appunto prevede l'autorizzazione da parte dell'organo giudiziale, limitandosi sul punto a richiedere che il comitato dei creditori debba essere puramente «sentito».

Il decreto con il quale il giudice delegato conferma l'autorizzazione già conferita a promuovere (o a resistere ad) un'azione giudiziaria vale come ratifica dell'attività difensiva espletata dal nuovo difensore nel frattempo designato dal curatore (Cass. n. 17765/2016). Si è osservato che l'autorizzazione a promuovere un'azione giudiziaria, conferita dal giudice delegato al curatore del fallimento, si estende, senza bisogno di specifica menzione, a tutte le possibili pretese ed istanze strumentalmente pertinenti al conseguimento dell'obiettivo del giudizio cui si riferisce. In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha ritenuto non necessarie ulteriori specificazioni nel provvedimento con cui il giudice delegato aveva autorizzato il curatore a costituirsi nel giudizio pendente ex art. 2901 c.c., non potendo questi avanzare altra pretesa se non quella di subentrare nell'azione proposta (Cass. VI, n. 24651/2020; Cass. n. 614/2016). Si è ritenuto che l'unico soggetto legittimato ad eccepire l'illegittimità del provvedimento con cui il giudice delegato abbia indicato il legale cui conferire procura alle liti è colui a cui spetta il potere di nomina (il curatore) cui, peraltro, è preclusa ogni possibilità di sindacato ove ad esso abbia fatto acquiescenza provvedendo a conferire a legale indicato dal giudice delegato (Trib. Roma 27/03/2015). Si è osservato, in termini più generali, che il curatore del fallimento, pur essendo parte nelle controversie fallimentari, non ha capacità processuale autonoma, bensì condizionata all'autorizzazione del giudice delegato, che deve essere rilasciata in relazione a ciascun grado di giudizio tant'è che, in mancanza, sussiste il difetto di legittimazione processuale, rilevabile d'ufficio dal giudice trattandosi di questione inerente la legitimatio ad processum. Peraltro, mentre nelle fasi di merito il giudice, che ne rilevi l'assenza, può invitare il curatore a munirsene, regolarizzando la costituzione, nel giudizio di legittimità non sussiste un analogo potere poiché la peculiare natura di quest'ultimo, caratterizzato dall'assenza di attività istruttoria e dalle rigide formalità che disciplinano il deposito dei documenti (ammissibili con le forme e i limiti di cui all'art. 372 c.p.c.), esclude la possibilità per il giudicante di invitare una delle parti a depositare documenti mancanti (Cass. n. 26359/2014). Va notato che la richiesta di integrazione dei poteri di rappresentanza processuale di cui all'art. 182 c.p.c. non costituisce, secondo la giurisprudenza più recente, l'esercizio di una mera facoltà, bensì l'espressione di un dovere di collaborazione fra le parti ed il giudice. Per converso, l'autorizzazione a stare in giudizio «come attore o convenuto» non è tuttavia necessaria nel procedimento di estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile, ex art. 147 comma 4 l.fall., posto che in tale ipotesi il curatore non agisce in qualità di attore ma esercita una legittimazione propria per far valere un interesse rilevante erga omnes, nonché qualora – come nel caso concretamente deciso – il g.d. abbia emesso in calce alla istanza di costituzione del Curatore il decreto di mancanza di fondi valevole per il riconoscimento del c.d. «gratuito patrocinio», ex art. 144 del d.p.r. n. 115 del 2002, tale attestazione non può che avere il valore di implicita autorizzazione (pur non indispensabile) ad agire in giudizio. Nella stessa sentenza si legge altresì che, in ogni caso, il giudice della causa in cui è parte una curatela priva di autorizzazione del g.d. deve obbligatoriamente concedere un termine, ex art. 182 c.p.c., per regolarizzare la legittimazione processuale del curatore non potendo emettere una immediata pronuncia di rigetto in rito, ma solo a seguito dell'inutile decorso del termine fissato per procedere alla regolarizzazione (Cass. n. 12947/2014).

La nomina degli arbitri

La norma prevede, altresì, al n. 7 il potere del g.d. di nominare gli arbitri su proposta del curatore. La disposizione è distonica rispetto a quella in tema di difensori del fallimento, posto che in tal caso il g.d. di regola autorizza la costituzione in giudizio, mentre la scelta del professionista legale spetta al curatore (sia pure con il controllo successivo in tema di liquidazione del compenso e di possibile revoca di cui si è già detto). Nell'ipotesi della nomina degli arbitri, invece, il curatore conserva un mero potere di proposta, che il g.d. potrà conseguentemente anche disattendere. La ratio della norma, probabilmente, si collega al fatto che in questo caso non vi è tanto da individuare un collaboratore del curatore, bensì un soggetto che sarà chiamato – unitamente ad altri – a comporre un collegio arbitrale con funzioni assimilabili (quantomeno dal punto funzionale) ad una decisione giudiziaria, materia nella quale quindi la professionalità del g.d. può assicurare la nomina migliore rispetto alle esigenze del fallimento. Sotto altro profilo la norma vuole evitare che il curatore, attraverso una nomina incongrua del proprio arbitro, possa effettuare una indiretta disposizione del diritto controverso, in violazione – come si vedrà – dei principi di cui all'art. 35 l.fall. e delle necessarie autorizzazioni ivi previste.

In tema di arbitrato, a partire dall'1 aprile 1995, l'onorario spettante agli arbitri, che siano anche avvocati, deve essere liquidato in base alla tariffa professionale, senza possibilità per il presidente del tribunale, che procede alla sua liquidazione, di fare ricorso a criteri equitativi, atteso che il d.m. 5 ottobre 1994 n. 585 — con il quale è stata approvata la delibera del Consiglio nazionale forense in data 12 giugno 1993, che stabilisce i criteri per la determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli avvocati, a partire dall'1 aprile 1995, per le prestazioni giudiziali, in materia civile e penale, e stragiudiziali — prevede al punto 9) della tabella relativa alla attività stragiudiziale gli onorari spettanti al collegio composto da avvocati, indicandone il minimo e il massimo secondo il valore della controversia. Tuttavia, tale disposizione, contenuta nella disciplina dei compensi per l'attività forense anche stragiudiziale e pertinente, quindi, ai soli soggetti iscritti al relativo albo e solo nei loro confronti vincolante, non può trovare applicazione con riguardo ai collegi arbitrali a composizione mista, nei quali gli avvocati non rappresentino la totalità del collegio (nella specie, solo due componenti su tre erano avvocati, l'altro essendo ingegnere), rimanendo, in siffatta ipotesi, applicabile il disposto dell'art. 814, comma 2, c.p.c., in base al quale il presidente del tribunale, non vincolato ad alcun parametro normativo nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali in subiecta materia, è libero di scegliere, secondo il suo prudente apprezzamento, i criteri equitativi di valutazione che ritenga più adeguati all'oggetto ed al valore della controversia, nonché alla natura ed all'importanza dei compiti attribuiti agli arbitri, anche attraverso il ricorso, ma solo come utile parametro di riferimento, alle tariffe di alcune categorie professionali. (In applicazione di tale principio, la Corte ha respinto il ricorso contro il provvedimento di liquidazione adottato dal Giudice delegato dal Presidente del tribunale, il quale aveva provveduto alla liquidazione utilizzando i parametri posti dall'art. 2233 c.c.) (Cass. n. 7764/2004).

La verifica dei crediti e degli altri diritti (rinvio)

Infine la norma in commento attribuisce al g.d. il compito di procedere alla verifica e formazione dello stato passivo nonché all'accertamento dei diritti reali e personali che eventuali terzi vantino su beni della procedura fallimentare. La norma opera un mero rinvio alle disposizioni del capo V ed in tale sede ne sarà offerta una compiuta disamina (artt. 92 e ss.). Si deve in questa sede ricordare come recentemente abbia ricevuto la prima approvazione da parte della Camera dei deputati, lo scorso 1° febbraio, il disegno di legge n. 3671-bis di riforma “organica” delle procedure concorsuali (c.d. d..l. Rordorf). Pur non potendosi in questa sede ripercorrere tutti i principi di delega contenuti, può, con riferimento alla tematica in esame, ricordarsi come l'articolato normativo in attesa di definitiva approvazione preveda, in tema di verifica dei crediti, l'adozione di criteri di maggiore rapidità, snellezza e concentrazione, in particolare prevedendo la generalizzazione delle forme telematiche di presentazione delle istanze di insinuazione, anche per i soggetti stranieri, la limitazione dell'ammissibilità di istanze tardive, introdurre preclusioni attenutate già nella fase monocratica, semplificare le forme di verifica per le istanze di minor valore o minore complessità

Incompatibilità

Il secondo comma dell'articolo in esame precisa che il g.d. non può far parte del collegio investito del reclamo avverso i suoi atti. La norma introduce una vera e propria incompatibilità e riprende la posizione della dottrina prevalente che, anche prima della riforma, qualificava il reclamo come una impugnazione in senso tecnico, ritenendo perciò operante un divieto più generale del giudice di poter decidere in re sua (ossia riesaminare il proprio provvedimento in un grado ulteriore di giudizio). La giurisprudenza dell'epoca era tuttavia più largheggiante e riteneva che un superiore principio di concentrazione processuale di ogni controversia riguardante gli organi della procedura fallimentare, nonché un'esigenza di rapidità di decisione, potessero rendere giustificata la presenza del g.d. anche nel collegio che decideva del reclamo avverso i suoi atti. La norma va quindi salutata con favore, risolvendo questa situazione di contrasto fra giurisprudenza e dottrina e, inoltre, valendo a sottolineare la maggiore giurisdizionalizzazione della figura del g.d. oltre che le garanzie costituzionali del giusto processo anche in sede di controlli endofallimentari.

Collegata alla più generale indicazione di profili di incompatibilità previsti dall'art. 25 comma 2 l.fall. è la disposizione dell'art. 99 l.fall., il quale prevede che del collegio che decide sull'opposizione allo stato passivo o sulle altre impugnazioni di crediti non possa far parte il giudice delegato al fallimento. Su tale aspetto si è osservato che la nullità del decreto che decida sull'opposizione avverso il decreto che rende esecutivo lo stato passivo dovuta a vizio di costituzione del giudice, in quanto emesso da un collegio di cui abbia fatto parte anche il giudice delegato autore del decreto impugnato, in forza della nuova disciplina di cui all'art. 99 l.fall. non può essere dedotta ex art. 158 c.p.c. dalla parte che non abbia adempiuto all'onere di ricusazione, trattandosi di un particolare caso di applicazione dell'art. 51 n. 4 c.p.c. (Cass. n. 24718/2015). Più in generale si affermava, con riguardo alla precedente formulazione della norma, che l'autorizzazione ad agire in giudizio rilasciata al curatore dal giudice delegato ai sensi dell'art. 25 l.fall. non ha portata decisoria, non spiegando effetti sostanziali in materia di diritti soggettivi, ma costituisce espressione dei poteri ordinatori ed amministrativi spettanti agli organi fallimentari, il cui esercizio, ancorché comporti la manifestazione di un'opinione in ordine alla fondatezza dell'azione, non rappresenta un condizionamento che imponga al giudice delegato di astenersi dalla cognizione della medesima domanda ex art. art. 51, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., ma è semmai riconducibile al secondo comma della medesima disposizione, quale valutazione discrezionale del capo dell'ufficio in ordine alla sussistenza di gravi ragioni di convenienza, la cui sopravvenienza non si riflette sulla validità degli atti già compiuti dal magistrato autorizzato ad astenersi (Cass. n. 13881/2015 relativamente ad una sentenza emessa nel 2000, prima della riforma del 2006-2007). In modo espresso si è conformemente ritenuto che ai sensi degli artt. 25 e 26 legge fall. (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), la partecipazione del giudice delegato al collegio chiamato a decidere in ordine al reclamo avverso un suo provvedimento non può dar luogo ad una nullità deducibile in sede di impugnazione, ma, al più, ad un'incompatibilità che deve essere fatta valere mediante l'istanza di ricusazione, da proporsi nelle forme e nei termini di cui all'art. 52 c.p.c. Né assume rilievo la circostanza che il legislatore abbia successivamente modificato l'art. 25 l.fall., imponendo al giudice delegato un espresso divieto di far parte del collegio investito del reclamo proposto contro i suoi atti, atteso che l'adozione di un diverso modello procedimentale, caratterizzato da una più netta separazione tra le funzioni affidate al giudice delegato e quelle spettanti al tribunale fallimentare, non è di per sé sufficiente a giustificare una interpretazione evolutiva della disposizione previgente, soprattutto alla luce della norma transitoria di cui all'art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006, che espressamente conferma l'applicabilità della legge anteriore alle procedure fallimentari pendenti alla data di entrata in vigore della riforma (Cass. n. 24866/2014). Attualmente si deve ritenere che il comma 2 della norma in esame introduca, invece, un caso di vera e propria astensione obbligatoria cosìcché si è potuto affermare che «il decreto che decide sull'opposizione avverso il decreto che rende esecutivo lo stato passivo è nullo, ai sensi degli artt. 99, decimo comma, l.fall. e 158 c.p.c., per vizio di costituzione del giudice, se emesso da collegio del quale fa parte il giudice delegato autore del decreto impugnato» (Cass. n. 4677/2015).

Motivazione dei decreti del g.d.

L'ultimo comma dell'art. 25 prevede, infine, che il g.d. provveda attraverso decreti che devono essere motivati. Prima della riforma la norma affermava unicamente che i provvedimenti del g.d, devono essere dati con decreto. La nuova formulazione della norma si riconduce alla ratio già indicata in tema di incompatibilità del g.d.: assicurare i principi del giusto processo anche in sede di controlli endo concorsuali. In effetti un organo giudiziario che non motivi la propria decisione – oltre a rendere più difficile l'impugnazione che deve ripercorrere tutte le possibili e ritenute ingiuste motivazioni alternative ed ipotetiche – non «pregiudicava» la propria posizione e poteva quindi, secondo la giurisprudenza dell'epoca, far parte del collegio del reclamo. Nel momento in cui, invece, egli espone il proprio convincimento, appare del tutto ovvio che egli non possa sic et simpliciter far parte del collegio chiamato a riesaminare lo stesso atto. La funzione della norma intende assicurare, in primo luogo, che i provvedimenti del g.d.l abbiano forma scritta, ed in secundis che gli stessi – almeno succintamente – espongano le ragioni della decisione – al fine di consentire quella fondamentale esigenza di controllo della corrispondenza della decisione allo schema legale o a congrue valutazioni di opportunità e, quindi, facilitarne il riesame in sede di eventuale reclamo. Va detto che la dottrina distingue tradizionalmente fra decreti di contenuto ordinatorio e decreti decisori, ma per entrambi oggi è previsto un onere di motivazione e la reclamabilità al collegio, ex art. 26 l.fall.

Bibliografia

Bassi, Il giudice delegato, in Tratt. diritto fallimentare, Buonocore – Bassi (a cura di), II, Padova, 2010; Bonfatti – Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2011; Frascaroli Santi, Il giudice delegato, in Tratt. diritto delle proc. concorsuali, Apice (a cura di), I, Torino, 2010; Lo Cascio, Del giudice delegato, in Il nuovo diritto fallimentare, Jorio – Fabiani (a cura di), I, Bologna, 2006; Lo Cascio, Organi del fallimento e controllo giurisdizional., Milano, 2008; Luiso, Gli organi preposti alla gestione della procedura, in Tratt. diritto fallimentare e delle altre proc. concorsuali, II, Torino, 2014; Maffei Alberti, Comm. breve alla legge fallimentare, Padova, 2013; Penta, Gli organi della procedura fallimentare. Soluzioni giudiziali e prime prassi applicative, Torino 2009; Recchioni, Del giudice delegato, in Comm. alla legge fallimentare, Cavallini (a cura di), I, Milano, 2010; Ricci, Lezioni sul fallimento, I, Milano, 1997; Scarselli, Gli organi preposti al fallimento, in Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2011; Tiscini, Del giudice delegato, in La legge fallimentare dopo la riforma, Nigro – Sandulli - Santoro (a cura di), Torino, 2010; Vitiello, Il nuovo curatore fallimentare, Milano, 2017.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario