Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 24 - Competenza del tribunale fallimentare 1 .

Alessandro Farolfi

Competenza del tribunale fallimentare 1.

 

Il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore.

[ Salvo che non sia diversamente previsto, alle controversie di cui al primo comma si applicano le norme previste dagli articoli da 737 a 742 del codice di procedura civile. Non si applica l'articolo 40, terzo comma, del codice di procedura civile. ] 2

 

[1] Articolo sostituito dall'articolo 21 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

Inquadramento

L'art. 24 della legge fallimentare costituisce una norma centrale, in quanto fissa una competenza speciale e funzionale in capo al tribunale che ha dichiarato il fallimento per «tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore». Si suole parlare al riguardo di vis attractiva fallimentare, anche se, come è stato esattamente notato (Luiso, 172) tale dizione non deve essere fraintesa. Tecnicamente, infatti, l'affermazione della competenza funzionale del tribunale fallimentare riguarda le azioni «dipendenti» dal fallimento, mentre le questioni relative alla proponibilità secondo il rito ordinario delle pretese creditorie verso il fallimento sono da intendere in realtà come pronunce in rito, intese a preservare il concorso formale e sostanziale dei creditori, da cui la necessità che l'accertamento dei relativi diritti avvenga con le forme speciali previste dagli artt. 93 e ss. l.fall. Va invece sin da ora messo in evidenza che il legislatore è intervenuto più volte, negli ultimi anni, sulla lettera di questa disposizione. In primo luogo, va ricordato che il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, ha eliminato la parte finale del comma 1, appena richiamato, che prima di tale riforma così proseguiva: «anche se relative ai rapporti di lavoro, eccettuate le azioni reali immobiliari, per le quali restano ferme le norme ordinarie di competenza». In secondo luogo lo stesso legislatore, con il medesimo atto normativo, aveva introdotto un secondo comma che recitava: «salvo che non sia diversamente previsto, alle controversie di cui al primo comma si applicano le norme previste dagli articoli da 737 a 742 c.p.c.. Non si applica l'art. 40, terzo comma, del codice di procedura civile». La eliminazione di questo secondo comma è avvenuta già con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, a far tempo dal 1° gennaio 2008. Conseguentemente, a meno che non sia previsto per legge un rito speciale (ad es. in tema di opposizione allo stato passivo od in tema di reclami avverso i decreti del g.d.), oggi le azioni che «derivano» dal fallimento seguono il rito ordinario che è loro proprio, comprese le regole di mutamento/prevalenza del rito in caso di procedimenti accessori e connessi di cui all'art. 40 comma 3 c.p.c. (che come noto sancisce la prevalenza del rito ordinario salvo il rito del lavoro quando una delle cause riunite sia sottoposta a tale disciplina processuale). Nella Relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 169/2007 si spiega ampiamente il motivo di detta abrogazione, rilevando che occorreva «correggere una grave disarmonia» consistente nel fatto che cause aventi ad oggetto i diritti patrimoniali dei lavoratori o le revocatorie hanno in realtà ad oggetto diritti di terzi estranei al fallimento «che verrebbero privati delle garanzie dei due gradi di cognizione piena, di cui possono di regola usufruire tutti i soggetti dell'ordinamento». Tale abrogazione è quindi stata generalmente salutata come un tentativo di ristabilire i principi costituzionali di parità di trattamento e del diritto di difesa (Bonfatti – Censoni, 73).

Secondo la più recente giurisprudenza l'azione revocatoria fallimentare, proposta con il rito camerale dalla curatela di un fallimento pronunciato nella vigenza dell'art. 24, comma 2, l.fall. ma dopo la sua avvenuta abrogazione ad opera dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 169 del 2007, è inammissibile in applicazione del principio tempus regit actum, svolgendosi altrimenti il processo, ancor prima del suo inizio, secondo un rito ormai abrogato, tanto più che l'art. 22 del cd. decreto correttivo, recante la disciplina transitoria conseguente alla sua entrata in vigore, deve intendersi riferito, alla stregua della sua interpretazione letterale, alla regolamentazione propria delle «procedure concorsuali», e dunque, sul piano processuale, ai soli procedimenti che tipicamente si innestano nel corso delle stesse, ma non anche alle controversie che, pur originando dal fallimento, sono regolate dalle legge speciale solo quanto all'esclusiva competenza a conoscerle dal tribunale che ha emesso la sentenza dichiarativa (Cass. n. 13165/2016). Pertanto l'uso del rito camerale non può giustificarsi a nessuna azione ordinaria «dipendente» dal fallimento quando, seppur la procedura concorsuale sia stata aperta prima del 1° gennaio 2008, l'azione del cui rito si discute sia stata proposta dopo tale data. Si è inoltre precisato che quando il tribunale ordinario ed il tribunale fallimentare non siano territorialmente diversi, ma riflettano unicamente una distinzione interna fra sezioni (ed a maggior ragione quando l'ufficio non abbia diverse sezioni civili) il regolamento di competenza è inammissibile anche laddove sia fondato su ragioni tabellari che avrebbero portato la domanda dinanzi alla sezione fallimentare (Cass. n. 2619/97). Analogamente si è giustamente evidenziato che qualora una pretesa creditoria venga fatta valere davanti al tribunale in sede ordinaria nei confronti del curatore del fallimento dell'obbligato e il tribunale dichiari la propria incompetenza, dovendo essere la domanda decisa dal tribunale fallimentare, la relativa pronuncia, ancorché formalmente espressa in termini di declinatoria di competenza del giudice adìto in favore del giudice fallimentare, non integra nella sua sostanza una statuizione sulla competenza, ma soltanto una statuizione sul rito che la parte deve seguire, e non è pertanto impugnabile con il regolamento di competenza (Cass. n. 7129/2011).

Le azioni derivanti dal fallimento

Il concetto di «derivazione» cui fa riferimento la norma per segnarne i propri confini applicativi è stato oggetto di un lungo dibattito, e definito, per indicarne icasticamente la sua inafferrabilità, come bien tenebreuse (Bonelli, 184). Secondo la definizione più accettata (Maffei Alberti, 144; Stasi, 276) sono azioni che derivano dal fallimento quelle che hanno origine e fondamento nel fallimento stesso, che sono promosse al fine di tutelare diritti o situazioni sorte con l'apertura della procedura concorsuale. Ma il concetto è stato altresì esteso a quelle azioni che sono, più genericamente, influenzate dal fallimento, sotto il profilo della disciplina applicabile o sotto il profilo degli effetti realizzabili. Si afferma altresì comunemente che la speciale competenza fissata dall'art. 24 l.fall. concerne soltanto quelle azioni il cui presupposto è costituito dalla pendenza del fallimento ed il cui esercizio concerne la tutela della par condicio creditorum (Lo Cascio, 192). Pur essendo indispensabile che la legittimazione al loro esercizio riguardi il curatore, tale elemento è sì necessario ma non sufficiente, esistendo tutta una serie di azioni e domande giudiziali che, pur potendo essere esercitate dal curatore non derivano, nel senso appena indicato, dalla pronuncia di fallimento. Infatti, la mera sostituzione processuale imposta dall'art. 43 l.fall. non è di per sé idonea ad influenzare in modo sufficiente l'azione ai fini dell'art. 24 l.fall. se questa era già stata proposta prima del fallimento dal fallito o se questi avrebbe comunque potuto proporla in assenza di fallimento (si pensi ad es. ad una comune azione di recupero di un credito che l'imprenditore vantava verso un cliente). Si è così affermato (Luiso, 174) che i criteri per evidenziare la relazione di derivazione sono vari e sostanzialmente riconducibili a tre ordini di casi: a) situazioni nelle quali l'azione subisce una deviazione dallo schema tipico a causa della pronuncia di fallimento; b) casi nei quali si fa riferimento alla preesistenza o meno dell'azione rispetto alla pronuncia di fallimento; c) ipotesi in cui si verifica se l'oggetto dell'azione apparteneva o meno al patrimonio del fallito. Per le azioni relative a rapporti preesistenti, si suole negare una vis attractiva se le stesse non subiscono alcuna deviazione o modifica vuoi ex lege, vuoi per scelta del curatore, al quale ad es. sono riservate facoltà che il fallito non avrebbe potuto esercitare. Del pari, anche le azioni preesistenti o già appartenenti al patrimonio del fallito vengono generalmente sottratte alla competenza speciale del tribunale fallimentare quando le stesse non subiscono alcuna modifica significativa rispetto allo schema legale tipico e purché tale modifica non consista nella semplice sostituzione processuale del curatore, ex art. 43 l.fall. Diversamente, quando il curatore faccia valere diritti che appartenevano al patrimonio dei creditori del fallito od eserciti azioni volte a preservare la par condicio creditorum dovrà trovare applicazione la regola del foro fallimentare.

 La competenza funzionale e inderogabile del tribunale fallimentare opera con riferimento non solo alle controversie che traggono origine e fondamento dalla dichiarazione dello stato d’insolvenza ma anche a quelle destinate a incidere sulla procedura concorsuale in quanto l’accertamento del credito verso il fallito costituisca premessa idi una pretesa nei confronti della massa (Cass. VI, n. 15982/2018). In particolare, nel giudizio di opposizione allo stato passivo il tribunale è competente a decidere su tutti i fatti modificativi o estintivi e i crediti azionati dai creditori concorsuali (Cass. I, n. 10528/2019, che ha ritenuto la competenza a conoscere dell’eccezione riconvenzionale di compensazione proposta dal curatore al fine di ottenere il rigetto della domanda di partecipazione al concorso. Pur introducendo, come si è visto, una questione di rito e non di competenza, la proposizione di domande volte ad accertare diritti dei creditori verso il fallimento, non di rado dà luogo ad ipotesi di connessione con analoghe domande, esercitate dal curatore (o nelle quali questi subentra in luogo del fallito) volte a far valere diritti di credito dell'impresa decotta. La questione che può porsi è se la connessione esistente fra la domanda di condanna esercitata o proseguita dal curatore e la domanda riconvenzionale del terzo giustifichi la loro trattazione unitaria o ne imponga la separazione e, nel primo caso, a chi spetti la decisione. Secondo un indirizzo oggi minoritario le due domande riunite dovevano ritenersi inscindibilmente devolute alla cognizione di un giudice unico e decise dal tribunale fallimentare, anche se il convenuto non avesse già proposto domanda di insinuazione al passivo del fallimento (Cass. n. 10912/2002). Secondo l'orientamento più recente ed oggi prevalente, invece, le due domande devono essere separate: quella esercitata o proseguita dal curatore può essere trattata dal giudice ordinario, mentre quella riconvenzionale (per tale dovendosi intendere non una mera eccezione riconvenzionale mirante al rigetto dell'avversa domanda, ma quella che introduce una pretesa creditoria da accertare nei confronti della massa) dovrà essere separata e dichiarata improcedibile, spettando al creditore riassumerla nelle forme dell'insinuazione allo stato passivo, davanti al g.d. e, in caso di soccombenza, attraverso l'opposizione ex art. 98 e 99 l.fall. avanti al tribunale fallimentare. Si è infatti ritenuto che «nel giudizio promosso da un soggetto «in bonis», e proseguito dal curatore, per il recupero di un credito, la domanda riconvenzionale, proposta dal convenuto, volta all'accertamento del proprio credito nei confronti del fallito, in quanto soggetta al rito speciale previsto dagli artt. 93 e ss. l.fall. per l'accertamento del passivo, deve essere dichiarata inammissibile o improcedibile; la domanda principale, per contro, resta innanzi al giudice adìto, al pari di quelle formulate dal convenuto nei confronti del condebitore e del fideiussore del fallito, stante il carattere solidale della loro responsabilità e l'autonomia dell'azione di pagamento esercitata nei loro confronti rispetto a quella intrapresa verso il fallito» (Cass. n. 25674/2015 e Cass. n. 24847/2011). Analoga conclusione, mutatis mutandis, ed a parti inverse, dovrebbe verificarsi se sia stato il creditore ad agire per primo per la riscossione di un proprio credito ed il curatore avanzi domanda riconvenzionale, che potrà quindi proseguire avanti al giudice individuato secondo i criteri ordinari di competenza. Non dà invece luogo ad un problema di competenza né di rito la semplice proposizione di una domanda di condanna generica verso il fallimento: la controversia promossa per conseguire una pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno non ha ad oggetto l'individuazione di un credito, sicché è insensibile alla dichiarazione di fallimento del convenuto, a seguito della quale, tuttavia, va escluso che il separato giudizio sul «quantum» possa essere proposto o proseguito in via ordinaria, dovendo il credito essere insinuato e quantificato nella procedura concorsuale in sede di formazione e verificazione dello stato passivo (Cass. n. 13226/2016). La questione del rito applicato ad una pretesa creditoria esercitata in sede ordinaria nei confronti del fallimento è rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, con il solo limite del giudicato interno (Cass. n. 1115/2014), mentre le questioni di competenza ex art. 24 l.fall. pur essendo di tipo funzionale devono coordinarsi con il regime di eccezione ed i limiti temporali di rilevabilità di cui all'art. 38 c.p.c. Si è tuttavia precisato che nel giudizio promosso dalla curatela per il recupero di un credito del fallito, quando il convenuto abbia chiesto la compensazione di un controcredito in forma di eccezione riconvenzionale e il giudice di primo grado ne abbia dichiarato l'inammissibilità qualificandola come domanda riconvenzionale, in sede di gravame è necessario impugnare la qualificazione espressa dal primo giudice, altrimenti suscettibile di passare in cosa giudicata, denunciando la violazione dell'art. 112 c.p.c. con specifici motivi sul punto, posto che, nel rispetto dei principi del sistema delle impugnazioni, in mancanza di gravame è precluso al giudice d'appello mutare d'ufficio la qualificazione giuridica data dal primo giudice (Cass. n. 25609/2015).

Casistica

Particolarmente varia è la casistica sulla quale la giurisprudenza ha individuato l'appartenenza o meno di singole domande giudiziali alle azioni che derivano dal fallimento, molto spesso attingendo ad uno o più dei criteri che la dottrina ha indicato ed i cui principi si è illustrato al parag. che precede. In primo luogo vi rientrano azioni che funzionalmente appartengono alla competenza del tribunale fallimentare in quanto aventi una natura, per così dire, endoconcorsuale. È il caso, ad esempio, delle impugnazioni allo stato passivo previste dall'art. 99 l.fall. (opposizione, impugnazione, revocazione) o, ancora, del reclamo di cui all'art. 26, quando proposto nei confronti di atti del g.d. È il caso, altresì, delle ipotesi in cui il Tribunale viene chiamato a pronunciare in primo grado su questioni strettamente attinenti all'apertura della procedura concorsuale (es. sentenza di fallimento o decreto di rigetto dell'istanza di fallimento) o relative a momenti fondamentali della sua gestione (nomina e revoca del Curatore), ovvero della sua estinzione (es. omologazione del concordato fallimentare, chiusura della procedura). Ma vi rientrano altre ipotesi in cui il giudizio non verte direttamente sulla procedura, ma è da questa direttamente influenzata, come da riepilogo schematico che segue.

Azione revocatoria fallimentare. Appare in primo luogo pacifico che la vis attractiva concursus si applica all'azione revocatoria fallimentare: le deviazioni che la stessa subisce quanto a disciplina ed effetti rispetto all'azione revocatoria ordinaria e la sua appartenenza al patrimonio dei creditori sono elementi da sempre valorizzati ai fini dell'affermazione della competenza ex art. 24. Piuttosto, si è posto recentemente il tema della persistenza della competenza funzionale ex art. 24 l.fall. nel caso di fallimento del convenuto a fronte di una domanda di revocatoria fallimentare. Il S.C. ha avuto modo recentemente di affermare che qualora il convenuto in revocatoria fallimentare sia dichiarato fallito nelle more del giudizio, il tribunale che ha pronunciato il fallimento del debitore che ha compiuto l'atto pregiudizievole ai creditori resta competente a dichiararne l'inefficacia (o meno), mentre le statuizioni di pagamento o di restituzione ad essa consequenziali competono al tribunale che ha dichiarato il fallimento del suddetto convenuto, secondo le modalità stabilite per l'accertamento del passivo e dei diritti dei terzi (Cass. n. 19795/2016). Si è invece sostenuto la inammissibilità dell'azione revocatoria quando il convenuto sia fallito precedentemente al suo esperimento (Cass. n. 3672/2012) ritenendo che un'azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, non può essere esperita nei confronti di un fallimento e, se esperita deve essere dichiarata inammissibile, perché ad essa ostano il principio di cristallizzazione della massa passiva alla data dell'apertura del concorso e il carattere costitutivo dell'azione revocatoria. Il principio di cristallizzazione pone il patrimonio del fallito al riparo dalle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca successiva alla dichiarazione del fallimento; sicché, posto che l'effetto giuridico favorevole all'attore in revocatoria si produce soltanto a seguito della sentenza che accoglie la domanda, il medesimo effetto non potrà essere invocato contro la massa ove l'azione sia stata esperita dopo l'apertura del fallimento (Cass. n. 10486/2011).

Inefficacia degli atti a titolo gratuito e dei pagamenti. Anche le azioni di inefficacia previste dagli artt. 64 e 65 l.fall. appartengono a quelle «derivate» dal fallimento, risultando inscindibilmente collegate all'apertura della procedura concorsuale. Si deve peraltro notare come fra le modifiche introdotte in tema di fallimento dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni con l. 6 agosto 2015, n. 132, vi sia stata anche quella dell'art. 64 l.fall. che, da questo punto di vista, rappresenta una sorta di trasposizione in sede fallimentare della nuova revocatoria semplificata degli atti gratuiti, contestualmente introdotta dalla riforma attraverso il nuovo art. 2929-bis c.c. Come noto, l'art. 64 l.fall. già prevedeva l'inefficacia degli atti a titolo gratuito (esclusi regali d'uso e liberalità proporzionate al patrimonio del debitore donante) compiuti nei due anni antecedenti la dichiarazione di fallimento (termine destinato ad allungarsi in relazione a quanto previsto dall'art. 69-bis l.fall. in caso di consecuzione di procedure). Tuttavia, si doveva pur sempre attendere che il curatore ottenesse un preventivo provvedimento giudiziale che dichiarasse tale inefficacia, con tutti i ritardi che questo poteva comportare in caso di difesa dilatoria. La nuova norma perciò precisa innovativamente che «i beni oggetto degli atti di cui al primo comma sono acquisiti al patrimonio del fallimento mediante trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento. Nel caso di cui al presente articolo ogni interessato può proporre reclamo avverso la trascrizione a norma dell'articolo 36», disposizione quest'ultima prevista per reagire ad atti e comportamenti del curatore e limitata ai casi di violazione di legge.

Azione revocatoria ordinaria e simulazione. Anche l'azione revocatoria ordinaria va proposta dal curatore avanti al tribunale fallimentare: prevista dall'dall'art. 66, l.fall., (essa) si identifica con l'azione che i creditori, anteriormente alla dichiarazione di fallimento, possono esercitare ai sensi degli art. 2901 ss., c.c., in riferimento agli atti di disposizione del patrimonio posti in essere dal debitore in pregiudizio delle loro ragioni; pertanto la prescrizione di questa azione decorre dalla data dell'atto impugnato, trattandosi di azione che preesisteva al fallimento e che resta disciplinata, quanto ai presupposti, dalle norme del codice civile, rilevando l'apertura della procedura concorsuale al fine dell'attribuzione della sua cognizione al tribunale fallimentare, dell'estensione dei suoi effetti a vantaggio di tutti i creditori ammessi al passivo e dell'attribuzione al curatore della esclusiva legittimazione a proporla, ovvero a proseguirla, restando quindi escluso che la dichiarazione di fallimento identifichi il giorno dal quale il diritto può essere fatto valere, che segna invece il «dies a quo» della prescrizione dell'azione revocatoria fallimentare, in quanto quest'ultima azione può essere esercitata soltanto in virtù ed a seguito dell'apertura della procedura concorsuale (Cass. n. 18607/2003). Anche le domande volte ad accertare la simulazione di un contratto stipulato dall'imprenditore poi fallito viene fatta rientrare nella competenza del tribunale fallimentare (Cass. n. 13496/2004 e Cass. n. 7510/2002). Discussa la soluzione nel caso in cui la domanda riguardi un contratto di affitto agrario, rispetto alla quale può porsi un conflitto fra due diverse competenze funzionali (quando il forum contractus porti ad una sede diversa da quella dell'ufficio che ha dichiarato il fallimento). Secondo un primo orientamento la competenza resta quella dell'art. 24 l.fall. (Cass. n. 11637/2002), mentre una più recente pronuncia ha stabilito che la curatela è legittimata a proporre e proseguire dinanzi al g.o. competente le azioni che già si trovavano nel patrimonio del fallito all'atto del fallimento; ne consegue che l'azione di simulazione del contratto di affitto di fondo rustico in caso di fallimento del concedente deve essere proposta dal curatore dinanzi delle Sezioni specializzate agrarie (Cass. n. 26037/2005).

Azioni di annullamento, nullità e risoluzione. Accertamenti-presupposto per far valere pretese verso la massa. Si ritiene che per azioni derivanti dal fallimento per le quali — ai sensi dell'art. 24 l.fall. — opera la «vis attractiva» del tribunale fallimentare, devono intendersi quelle che, comunque, incidono sul patrimonio del fallito, compresi gli accertamenti che costituiscono premessa di una pretesa nei confronti della massa, anche quando siano diretti a porre in essere il presupposto di una successiva sentenza di condanna. Rientrano, pertanto, nella competenza inderogabile del foro fallimentare, a esempio, la richiesta di compensazione volta all'accertamento di un maggior credito nei confronti del fallito da insinuare al passivo, le azioni revocatorie fallimentari ordinarie, le azioni dirette a far valere diritti verso il fallito, le azioni di annullamento seguite da quelle di restituzione e quelle volte ad accertare la simulazione (Cass. n. 17279/2010). La stessa decisione ha precisato che non rientra invece nella competenza funzionale del foro fallimentare, prevista dalla predetta norma, la domanda del terzo che, volta alla declaratoria di nullità di un contratto (nella specie, di edizione) stipulato dalla società fallita, abbia come scopo solo tale accertamento, sia pur ai fini di ottenere — mediante l'inibizione ad effettuare lo sfruttamento delle opere — la libera disponibilità dei relativi diritti, non assumendo, al riguardo, alcun rilievo che essi siano stati nel frattempo inventariati nell'attivo del fallimento. Si ritiene infatti che l'azione di nullità, sia in quanto azione di mero accertamento, sia in quanto domanda dichiarativa preesistente al fallimento stesso, segua l'ordinaria competenza del g.o. senza subire alcuna vis attractiva, la quale invece richiede che l'azione venga a subire una deviazione dal proprio schema legale tipico per effetto della disciplina del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti (Cass. n. 17057/2004). Si è al contrario ritenuto che nelle azioni derivanti dal fallimento, sottoposte alla competenza funzionale del tribunale fallimentare, ai sensi dell'articolo 24 della legge fallimentare perché incidenti sul patrimonio del fallito, ivi compresi gli accertamenti che siano premessa di una pretesa verso la massa, rientra anche la domanda di risoluzione del contratto finalizzata alla domanda di risarcimento del danno nei confronti del soggetto fallito (Cass. n. 6557/2013). Altro indirizzo distingue, invece, fra mera pronuncia sul rapporto e pretese risarcitorie o restitutorie conseguenti, ritenendo che solo queste ultime vengano attratte dalla competenza funzionale del tribunale fallimentare: qualora sia stata proposta dal locatore azione di risoluzione di un contratto di locazione per morosità del conduttore assoggettato alla procedura di amministrazione straordinaria e non sia stata avanzata contestualmente anche la domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla morosità, tale domanda di risoluzione resta disciplinata dalle regole ordinarie e non è devoluta alla competenza del tribunale fallimentare prevista dall'art. 24 l.fall. e dall'art. 13 d.lgs. 8 luglio 1999 n. 270, poiché essa non trova causa o titolo nella procedura concorsuale (Cass. n. 8972/2011 e Cass. n. 20350/2005). Quando invece sia il curatore quale sostituto processuale a far valere una domanda di risoluzione preesistente e già appartenente al patrimonio del fallito, allora si è ritenuto che la domanda segua la competenza ordinaria.

Azioni conseguenti al potere del curatore di sciogliersi dai rapporti pendenti. Appartengono invece certamente alle azioni sottoposte all'applicazione dell'art. 24 l.fall. quelle controversie che siano conseguenza dell'esercizio da parte del curatore del potere di scioglimento da un contratto pendente, posto che la disciplina di cui agli artt. 72 e ss. l.fall. introduce una deviazione rispetto allo schema legale tipico (Cass. n. 24686/2006 e Cass. n. 582/2003) Si è così ritenuto che sono devolute alla competenza del tribunale fallimentare, ai sensi dell'art. 24 l.fall., le controversie che traggano origine o fondamento nel fallimento, rientrando tra queste anche le azioni del curatore volte a far dichiarare l'inopponibilità alla massa del contratto di locazione immobiliare stipulato dal fallito a norma dell'art. 2923 c.c. ovvero la risoluzione del medesimo contratto ai sensi dell'art. 80 l.fall., in deroga alla previsione di cui agli art. 21 e 447-bis c.p.c. (Cass. n. 14844/2015).

Azioni di responsabilità esercitate dal curatore. Fino alla introduzione del c.d. tribunale delle imprese la questione di competenza appariva irrilevante, posta la pratica coincidenza fra il foro fallimentare e quello ordinario competente sulle azioni di responsabilità verso gli organi amministrativi e di controllo della società fallita. L'introduzione di una competenza speciale per le cause societarie (d.lgs. n. 168/2003 modificato con d.l. n. 1 /2012), che per quanto qui interessa riguarda «le azioni di responsabilità da chiunque promosse contro i componenti degli organi amministrativi o di controllo, il liquidatore, il direttore generale ovvero il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché contro il soggetto incaricato della revisione contabile per i danni derivanti da propri inadempimenti o da fatti illeciti commessi nei confronti della società che ha conferito l'incarico e nei confronti dei terzi danneggiati» ha fornito rilevanza pratica alla questione. Secondo un indirizzo l'art. 2394-bis c.c. non poteva ritenersi decisivo, considerato che mentre l'azione sociale di responsabilità era in realtà preesistente allo stesso fallimento, l'azione di responsabilità esercitata dal curatore in luogo di quella spettante ai creditori sociali ex art. 2394 c.c. rappresentava una evidente deviazione rispetto al sistema ordinario, attribuendo al curatore una legittimazione speciale. Il punto è, tuttavia, che la legittimazione del curatore trova fondamento nell'art. 146 l.fall., disposizione che concerne altresì di respingere i dubbi circa l'esercizio dell'azione di responsabilità nel fallimento delle s.r.l. Si è così sostenuto che l'azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146, comma 2, l.fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma — quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali — implicandone una modifica della legittimazione attiva, ma non dei presupposti, sicché, dipendendo da rapporti che si trovano già nel patrimonio dell'impresa al momento dell'apertura della procedura concorsuale a suo carico, e che si pongono con questa in relazione di mera occasionalità, non riguarda la formazione dello stato passivo e non è attratta alla competenza funzionale del tribunale fallimentare ex art. 24 l.fall., restando soggetta a quella del tribunale delle imprese, ex art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 168 del 2003, propria di tutte le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, da chiunque promosse (Cass. n. 19340/2016).

Azioni concernenti diritti di credito. Si ritiene generalmente che non siano attratte nella sfera di competenza del tribunale fallimentare le azioni che tendono a tutelare diritti di credito vantati dal fallito nei confronti dei terzi, senza che rilevi a tale fine né la sostituzione processuale disposta dall'art. 43 l.fall., né l'effetto indiretto inerente il conseguente recupero di mezzi alla massa (Cass. n. 16256/2004). A maggior ragione tale attrazione non si verifica quando la dichiarazione di fallimento si verifichi ad azione già pendente (per le problematiche relative alle eventuali pretese riconvenzionali del convenuto vds. parag. precedente). Si ritiene, invece, che la competenza funzionale sussista ex art. 24 l.fall. con riguardo alle azioni che comunque derivano dalla continuazione temporanea dell'esercizio di impresa, disposta ai sensi dell'art. 104 l.fall.

Le controversie di lavoro

Si è sostenuto che l'avvenuta abrogazione dell'inciso «anche se relative a rapporti di lavoro», contenuto nella formulazione originaria della norma in commento, ad opera del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, non abbia comportato particolari innovazioni, non permettendo né di escludere tout court che tali controversie possano rientrare nella competenza del tribunale fallimentare, né di sostenere la loro sicura inclusione (Maffei Alberti, 151). Secondo altra dottrina (Bonfatti-Censoni, 73) sarebbe invece ritornata di attualità la distinzione fra controversie concernenti diritti patrimoniali dei lavoratori, come tali sottoposte alla vis attractiva del foro fallimentare, e controversie concernenti altri diritti dei lavoratori o lo stesso status di lavoratore in caso di contestazione del licenziamento e richiesta di reintegrazione del posto di lavoro (per le quali varrebbero gli ordinari criteri di competenza e rito). Altro indirizzo (Luiso, 180) ritiene invece che tutte le pretese fondate su un rapporto di lavoro (non solo subordinato ma anche ricompreso nelle altre ipotesi dell'art. 409 c.p.c.) appartengano al tribunale fallimentare per una questione di rito, imposta dall'art. 52 l.fall. e non per una questione di competenza fondata sull'art. 24 l.fall. La dichiarazione di fallimento comporta, secondo l'orientamento preferibile, l'impossibilità di avanzare domanda di reintegrazione ai sensi dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori pur se si discute se la inesigibilità di tale domanda comporti l'estinzione della prestazione indennitaria o se, piuttosto, come sembra allo scrivente, ciò determini la concentrazione dell'obbligazione alternativa in quella pecuniaria non venuta meno (arg. ex art. 1288 c.c.), con la ulteriore conseguenza della necessità, tuttavia, di accertare tale eventuale credito con le forme richieste dall'art. 52 comma 2 l.fall.

 Il discrimine di competenze tra il giudice del lavoro e quello del fallimento va individuato nelle rispettive speciali prerogative, spettando al primo, quale giudice del rapporto, le controversie riguardanti lo status del lavoratore in riferimento ai diritti di corretta instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto della sua qualificazione e qualità volte ad ottenere pronunce di mero accertamento oppure costitutive, come quelle di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro; rientrano nella cognizione del giudice del fallimento, al fine di garantire la parità tra i creditori, le controversie relative all’accertamento e alla qualificazione dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro in funzione della partecipazione al concorso e con effetti esclusivamente endoconcorsuali (Cass. lav., n. 7990/2018). L’accertamento chiesto al giudice del lavoro non costituisce premessa di una pretesa economica nei confronti della massa fallimentare; mentre l’accertamento chiesto al giudice fallimentare è finalizzato a qualificare il credito dipendente dal rapporto di lavoro in funzione di una partecipazione paritaria al concorso tra creditori (Cass. lav., n. 1646/2018). Si è peraltro sostenuto nella giurisprudenza di merito che, in materia fallimentare, ove il lavoratore abbia agito in giudizio chiedendo, con la dichiarazione di illegittimità o inefficacia del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti del datore di lavoro dichiarato fallito, permane la competenza funzionale del giudice del lavoro (Trib. Roma 21dicembre 2013). Si consideri altresì che in caso di sottoposizione della società datrice a liquidazione coatta amministrativa, spetta al giudice del lavoro la cognizione della domanda proposta dal dipendente di accertamento dell'illegittimità del licenziamento, poiché solo le domande di condanna sono riservate alla previa verifica amministrativa da parte degli organi concorsuali, in sede di verifica dello stato passivo e per la tutela degli altri creditori. Né questa regola viene meno quando il lavoratore, dopo aver proposto le domande di accertamento e di condanna, nel corso del processo rinunci alla seconda e mantenga solo la prima (Cass. n. 4515/2010). Pure affermata la competenza del giudice del lavoro con riferimento alle domande di mero accertamento, relative alla nullità, alla simulazione o alla sussistenza del rapporto di lavoro dipendente (Cass. n. 21634/2006). Si è invece ritenuto che rientrino nella competenza del tribunale fallimentare le controversie aventi ad oggetto pretese creditorie del lavoratore, tanto se inerenti a rapporti sorti con l'imprenditore prima del fallimento quanto se derivanti da prestazioni effettuate durante e con l'amministrazione fallimentare, con particolare riferimento per quelle rivolte ad ottenere il pagamento di somme di denaro (Cass. n. 19248/2007 e Cass. n. 13877/2004), anche se relativa a pretese di carattere risarcitorio derivante dalla ritenuta illegittimità del licenziamento (Cass. n. 4146/1997). Nello stesso senso con riferimento alle domande degli enti previdenziali, rivolte ad ottenere dal fallimento il pagamento di contributi e sanzioni (Cass. n. 5911/1994).

In particolare, spetta al giudice del lavoro la cognizione delle domande di impugnazione del licenziamento, di reintegrazione nel posto di lavoro e di accertamento dell’entità dell’indennità risarcitoria ex art. 18 st. lav., qualora risulti l’interesse del lavoratore all’accertamento del diritto di credito risarcitorio in via non meramente strumentale alla partecipazione al concorso nella procedura di amministrazione straordinaria (Cass. lav., n, 16443/2018).

Le azioni reali immobiliari

Fra le novità apportate dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, è invece sicuramente significativa l'eliminazione della regola che escludeva dalla competenza del tribunale fallimentare la cognizione sulle cause aventi ad oggetto domande di carattere reale su beni immobili. In parallelo è stata modificata la dizione dell'art. 52 comma 2 l.fall., che oggi impone di accertare, secondo le forme stabilite dal capo V, non solo i diritti di credito, ma anche ogni altro diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare nei confronti della massa. Deve ritenersi pertanto superata quell'orientamento giurisprudenziale che distingueva, ai fini dell'applicazione della regola di competenza dell'art. 24 l.fall., fra pretese reali e pretese di carattere personale aventi ad oggetto beni immobili, dovendosi piuttosto accertare se l'azione, secondo i principi già richiamati ai parag. precedenti, sia o meno fondata sulla dichiarazione di fallimento o comunque da detta pronuncia modificata o incisa rispetto allo schema ordinario tipico. In ogni caso, anche l'art. 103 l.fall. è stato modificato dalla riforma del 2006, non parlando più di «domande di rivendicazione, restituzione, separazione di cose mobili» ma di procedimenti relativi a «domande di rivendica e restituzione», che vanno pertanto proposte mediante il rito previsto per l'insinuazione allo stato passivo anche se relative a beni immobili inventariati. Diverso è il procedimento sommario consentito dall'art. 87-bis, che permette al g,d., con proprio decreto, di autorizzare la non inclusione nell'inventario del fallimento e restituzione di quei beni sui quali soggetti terzi vantino «diritti reali o personali chiaramente riconoscibili».

Vanno oggi estese ad ogni pretesa, anche se relativa a beni immobili, i seguenti principi: con riguardo ad azienda commerciale, che sia stata inventariata tra le attività del fallimento e presa in consegna dal curatore (art. 88 l.fall.) — il quale è immesso «ope legis» nel possesso dei beni detenuti dal fallito — il terzo, che assuma di essersi reso cessionario dell'azienda medesima prima dell'instaurazione della procedura concorsuale o che vanti sui singoli beni appresi un titolo autonomo ed anteriore al fallimento, trova esclusiva tutela nel procedimento di verificazione dello stato passivo, nei modi e nei termini contemplati dall'art. 103 l.fall. per la rivendicazione, restituzione e separazione di cose mobili possedute dal fallito, salva solo l'autonoma tutela, esperibile in sede di cognizione, per gli eventuali provvedimenti abnormi di acquisizione dei suddetti beni alla massa. Nella fattispecie così decisa la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto inammissibile l'azione possessoria proposta nei confronti del curatore per aver proceduto all'inventario presso la sede della società fallita, pur avendovi rinvenuto una diversa società con oggetto sociale identico (Cass. n. 25931/2015). Si è invece ritenuto che la competenza per le azioni reali immobiliari proposte nell'ambito di procedure fallimentari già pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006 resti regolata dal previgente art. 24 l.fall. (Trib. Vicenza 6 luglio /2011).

Bibliografia

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