Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 23 - Poteri del tribunale fallimentare 1 2

Alessandro Farolfi

Poteri del tribunale fallimentare 1 2

 

Il tribunale che ha dichiarato il fallimento è investito dell'intera procedura fallimentare; provvede alla nomina ed alla revoca o sostituzione, per giustificati motivi, degli organi della procedura, quando non è prevista la competenza del giudice delegato; può in ogni tempo sentire in camera di consiglio il curatore, il fallito e il comitato dei creditori; decide le controversie relative alla procedura stessa che non sono di competenza del giudice delegato, nonché i reclami contro i provvedimenti del giudice delegato.

I provvedimenti del tribunale nelle materie previste da questo articolo sono pronunciate con decreto, salvo che non sia diversamente disposto.

[1] Articolo sostituito dall'articolo 20 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

[2] La Corte costituzionale, con sentenza 24 giugno 1986, n. 156, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del primo comma , in relazione all'articolo 188 del presente decreto, nel testo precedente la sostituzione, nella parte in cui assoggetta al reclamo al tribunale nel termine di tre giorni occorrente alla data del decreto del giudice delegato anziché dalla data di comunicazione dello stesso debitamente eseguita, i decreti, adottati dal giudice delegato, di determinazione dei compensi ad incaricati per opera prestata nell'interesse della procedura di amministrazione controllata.

Inquadramento

Con l'art. 23 si apre il Capo II del Titolo II della legge fallimentare, il cui incipit reca quale rubrica «degli organi preposti al fallimento». Va ricordato che il codice di commercio del 1882 non conosceva tale terminologia, parlando piuttosto di «persone preposte all'amministrazione del fallimento», né annoverava il tribunale fallimentare fra tali soggetti: l'art. 713 infatti individuava quali organi «amministrativi» del fallimento il solo Giudice delegato, il Curatore e la delegazione dei creditori. La valenza dell'espressione «tribunale fallimentare» non deve essere sopravvalutata. Infatti, anche negli uffici giudiziari in cui il tribunale fallimentare viene a costituire un'autonoma sezione, nei rapporti con gli altri magistrati e collegi dello stesso tribunale non vale ad individuare una specifica ed autonoma competenza (cosa che avveniva un tempo per la sezione relativa alle competenze di lavoro e previdenziali o, ancora oggi, per la sezione agraria) quanto un criterio di ripartizione interna degli affari civili, al più rilevante sul piano tabellare. Il tribunale fallimentare, comunque, opera come organo collegiale composto da un Presidente (generalmente il Presidente della sezione o, negli uffici di minori dimensioni, lo stesso Presidente del tribunale) e da due magistrati, e ciascuno dei suoi membri (salvo il caso in cui operi in sede di reclamo ex art. 26 l.fall., come si vedrà sub art. 25) può altresì essere contemporaneamente il giudice delegato alla specifica procedura fallimentare esaminata. Il tribunale fallimentare opera generalmente in camera di consiglio ed oltre agli specifici compiti e poteri descritti dall'art. 23 è competente a conoscere di tutte le azioni che derivano dal fallimento (cfr. art. 24).

Secondo una parte della dottrina (Ricci, 314) la norma in esame attribuirebbe al tribunale un ruolo gerarchicamente sovraordinato agli altri organi e, in particolare, dall'espressione «il tribunale che ha dichiarato il fallimento è investito dell'intera procedura fallimentare» deriverebbe un potere di sostituzione o avocazione degli atti del giudice delegato, come pure un potere di revoca e/o modifica anche d'ufficio di detti atti. Altro più recente indirizzo (Luiso, 167) ritiene invece che tale concezione non sia più attuale, dopo le riforme del 2006-2007, considerato fra l'altro che la norma non contiene più il potere di «surrogare un altro giudice al giudice delegato» (presente nel testo previgente) ed ha un contenuto «neutro» il cui esatto perimetro applicativo non può essere ricostruito senza una visione d'insieme di tutti i poteri e le funzioni autonomamente distribuite fra gli altri organi della procedura fallimentare dagli artt. 25 e ss. l.fall.

Da tempo la giurisprudenza ha riconosciuto che la divisione per sezioni di un tribunale attiene all'organizzazione interna dell'ufficio ed è irrilevante ai fini della competenza, a meno di una espressa attribuzione per legge (Cass. n. 6153/1982). Nel regime previgente si era da tempo affermato un principio di concentrazione ed efficienza processuale alla cui stregua non sussisteva alcuna incompatibilità nel caso in cui il giudice delegato facesse parte del collegio, pur nel caso in cui quest'ultimo fosse investito di un reclamo avverso un atto del primo. Ancora occupandosi di una situazione disciplinata dal testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, si è ritenuto che la partecipazione del giudice delegato al collegio chiamato a decidere in ordine al reclamo avverso un suo provvedimento non può dar luogo ad una nullità deducibile in sede di impugnazione, ma, al più, ad un'incompatibilità che doveva essere fatta valere mediante l'istanza di ricusazione, da proporsi nelle forme e nei termini di cui all'art. 52 c.p.c. Né assumeva rilievo la circostanza che il legislatore avesse successivamente modificato l'art. 25 l.fall., imponendo al giudice delegato un espresso divieto di far parte del collegio investito del reclamo proposto contro i suoi atti, atteso che l'adozione di un diverso modello procedimentale, caratterizzato da una più netta separazione tra le funzioni affidate al giudice delegato e quelle spettanti al tribunale fallimentare, non poteva ritenersi di per sé sufficiente a giustificare una interpretazione evolutiva della disposizione previgente, soprattutto alla luce della norma transitoria di cui all'art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006, che espressamente conferma(va) l'applicabilità della legge anteriore alle procedure fallimentari pendenti alla data di entrata in vigore della riforma (Cass. n. 24866/2014). Tale principio deve oggi ritenersi superato dalla nuova formulazione degli artt. 25 comma 2 e 99 comma 10 l.fall. che impongono una necessaria terzietà ed indipendenza di composizione e valutazione del collegio chiamato a decidere sui reclami avverso gli atti del g.d. o sulle opposizioni allo stato passivo.

Poteri di nomina, revoca e sostituzione degli organi

Dopo l'affermazione iniziale secondo cui il tribunale che ha dichiarato il fallimento «è investito dell'intera procedura fallimentare», il primo potere specifico che viene in esame è subito indicato dallo stesso art. 23 comma 1 con le parole «provvede alla nomina ed alla revoca o sostituzione, per giustificati motivi, degli organi della procedura, quando non è prevista la competenza del giudice delegato». Rispetto alla previgente formulazione viene in considerazione l'esigenza che il potere in esame non sia esercitato in modo arbitrario od immotivato, bensì soltanto in presenza di «giustificati motivi». L'esigenza che il potere in parola sia sorretto da una causa di giustificazione adeguata si collega, altresì, alla possibilità di sottoporre a reclamo alla Corte d'Appello gli stessi decreti del tribunale fallimentare (ma non quando questo a sua volta decide su un reclamo avverso gli atti del g.d., giacché in tal caso si introdurrebbe un terzo grado di reclamo di merito non previsto). La reclamabilità e l'introduzione di una limitazione funzionale ad un potere altrimenti puramente discrezionale impongono, quale conseguenza logico-giuridica necessaria, che anche i decreti del tribunale siano motivati. Inoltre, pur parlando la norma, in termini generali, di nomina, revoca e sostituzione degli «organi», si deve ritenere che tale facoltà concerna soltanto la figura del curatore e l'individuazione del giudice delegato, mentre in ogni caso non rientra nelle funzioni del tribunale la nomina dei membri del comitato dei creditori (cfr. altresì art. 37-bis l.fall.). Gli interessi che vengono in esame attengono al buon funzionamento del processo fallimentare (Luiso, 169) e possono riguardare sia motivi di ordine soggettivo (motivi di salute, impedimenti che rendono difficoltoso il naturale espletamento dei compiti di vigilanza o gestori), sia ragioni obiettive (annullamento o revoca di atti gestori ai sensi dell'art. 36 l.fall., richiesta motivata dei creditori ex art. 37-bis, gravi ragioni di opportunità o di legittimità ex art. 37 quanto al curatore, passaggio ad altre funzioni per il g.d.), mentre l'interesse del soggetto sostituito (in particolare quello del curatore) a conservare le proprie funzioni non ha autonoma dignità, ma rileva unicamente nella misura in cui indirettamente persegua ragioni di efficienza e buon andamento della procedura concorsuale. A tale distinzione dovrebbe altresì ricondursi (più su un piano teorico che per una autonoma rilevanza pratica) la differenza fra sostituzione e revoca del curatore. Da segnalare che il potere di revoca di quest'ultimo organo può essere esercitato dal tribunale su proposta del giudice delegato o del comitato dei creditori (o degli stessi creditori presenti all'adunanza di verifica dello stato passivo), ma anche d'ufficio, riconducendosi pertanto alla più generale attribuzione di un compito di vigilanza sulla procedura, pur ferma la competenza degli altri organi secondo le specifiche indicazioni di legge.

Si riteneva in passato che il decreto di sostituzione del giudice delegato non fosse suscettibile di alcun controllo (Cass. n. 7876/2006) ed analogamente si opinava in caso di revoca del curatore (Cass. n. 17879/04). Tale tesi non appare più sostenibile a fronte dell'inequivoco dato normativo dell'art. 23 in combinato disposto con gli artt. 26 e 37 ult. comma (secondo cui «contro il decreto di revoca o di rigetto dell'istanza di revoca, è ammesso reclamo alla corte d'appello ai sensi dell'art. 26; il reclamo non sospende l'efficacia del decreto»). L'accoglimento del reclamo avverso il provvedimento di revoca del curatore comporta la reviviscenza del primo curatore, il cui potere di continuare a svolgere le proprie funzioni si ricollega al primo provvedimento di nomina, mentre dall'accoglimento del reclamo discende necessariamente la caducazione del nuovo curatore. Si è recentemente affermato che la legge fallimentare novellata pone un limite alla discrezionalità del tribunale fallimentare nel rimuovere il curatore dall'incarico, stabilendo, all'art. 23, che la revoca possa avvenire solo «per giustificati motivi» e prevedendo, all'art. 37, che il decreto di revoca sia motivato e sia soggetto a reclamo ai sensi dell'art. 26 (Cass. n. 5094/2015). Sempre con riferimento alla possibilità di riesaminare gli stessi provvedimenti del tribunale fallimentare si è recentemente statuito che la riforma della legge fallimentare del 2006 ha innovato anche nell'ambito delle impugnazioni dei decreti del giudice delegato e del tribunale fallimentare, stabilendo — per la prima volta — la reclamabilità anche dei provvedimenti resi dal tribunale e attribuendone la competenza alla corte di appello, secondo gli ordinari criteri di riparto territoriale. La previsione di cui all'art. 26, comma 1, l.fall. («salvo che sia diversamente disposto contro i decreti del giudice delegato e del tribunale può essere proposto reclamo al tribunale o alla Corte d'appello che provvedono in camera di consiglio»), peraltro, deve essere rettamente intesa, non potendosi addivenire alla interpretazione secondo la quale (salvo quelli espressamente e diversamente disciplinati) qualunque decreto del tribunale, anche quello con il quale l'organo collegiale abbia già giudicato sul reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato, sia suscettibile di (ulteriore) reclamo alla corte di appello. Infatti in tale caso il reclamo proposto davanti al tribunale ha già comportato la consumazione del potere impugnatorio contro la prima decisione giurisdizionale, altrimenti consentendosi una duplicazione del mezzo di tutela (con una inedita forma di reclamo su reclamo) e, in astratto, la possibilità di conseguire quattro gradi di giudizio, con evidente abuso del processo e violazione del principio della sua ragionevole durata (Cass. n. 16633/2015).

Poteri di audizione

La norma in commento ha, sul punto, un contenuto letterale non modificato: il tribunale può infatti «in ogni tempo sentire in camera di consiglio il curatore, il fallito e il comitato dei creditori». Diversa invece, dal punto di vista sostanziale, deve ritenersi la portata di questa disposizione. Da un lato, la stessa ha un tenore del tutto generico, che alla luce della nuova disciplina dei ruoli e delle funzioni degli organi della procedura (ed in particolare della perdita di poteri gestori o direttivi da parte del giudice delegato) deve ritenersi in linea di principio sottendere un mero controllo ed una vigilanza di tipo formale e di legittimità sulla procedura. Dall'altro, il potere di audizione appare servente e funzionale al migliore esercizio non di un generale potere di ingerenza ed avocazione di atti di altri soggetti, quanto piuttosto servente rispetto agli specifici poteri attribuiti all'organo collegiale, quali la revoca e la sostituzione degli organi, nonché la decisione su controversie endoprocedimentali che non siano di competenza del giudice delegato (si pensi esemplificativamente — a contrario — al reclamo ex art. 36 l.fall.). L'audizione ha, quindi, un contenuto prevalentemente conoscitivo o finalizzato a consentire il contraddittorio fra i diversi soggetti controinteressati all'adozione del provvedimento di competenza collegiale, favorendo un contatto fra questi e l'organo decidente.

Il potere di audizione esercitato in sede prefallimentare e che non sfoci in una dichiarazione di fallimento (ad esempio per mancanza di istanza di un creditore che abbia compiuto una desistenza dall'iniziale ricorso) può giustificare, una volta che si sia verificata l'emersione di indizi circa la sussistenza di una situazione di insolvenza, un potere di segnalazione della situazione alla Procura della Repubblica, affinché quest'ultima, se ritiene, promuova essa stessa, in autonomia, il procedimento per la dichiarazione di fallimento. Da questo punto di vista la giurisprudenza ha ormai riconosciuto che quando il procedimento finalizzato alla dichiarazione di fallimento non si concluda con una decisione nel merito, il tribunale fallimentare può disporre, ai sensi dell'art. 7 l.fall., la trasmissione degli atti al p.m., affinché valuti se instare per la dichiarazione di fallimento, non sussistendo alcuna violazione del principio di terzietà del giudice, di cui all'art. 111 Cost., per il solo fatto che il tribunale sia chiamato una seconda volta a decidere sul fallimento dell'imprenditore a seguito di richiesta del p.m. conseguente alla segnalazione da parte dello stesso giudice (Cass. S.U. n. 9409/2013). Più recentemente si è affermato che il pubblico ministero può esercitare l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento anche quando la notitia decoctionis gli sia segnalata dal tribunale fallimentare, che abbia rilevato l'insolvenza nel corso del procedimento ex articolo 15 della legge fallimentare, poi definito per desistenza del creditore istante, in quanto anche a questo giudice e a questo procedimento civile si riferisce l'articolo 7, n. 2, l.fall., modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006, quando dispone che l'insolvenza deve essere segnalata al P.m. "dal giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile". Con la precisazione che «tale interpretazione, conforme ai lavori preparatori della riforma del 2006, non contrasta con i principi di terzietà e imparzialità del giudice, sanciti dall'articolo 111 della Costituzione, in quanto la segnalazione è un atto neutro, privo di contenuto decisorio e assunto con valutazione prima facie, potendo sempre il tribunale, all'esito dell'istruttoria prefallimentare e a cognizione piena, respingere la richiesta del Pm, originata da detta segnalazione» (Cass. n. 19597/2016). Per un'applicazione di tale principio ai subprocedimenti concordatari previsti dagli artt. 162 e 173 l.f., cfr. Trib. Milano, 22 marzo 2017.

Ulteriori poteri e funzioni

Molteplici appaiono gli ulteriori compiti attribuiti dalla norma in commento al tribunale fallimentare. L'ampia dizione dell'art. 23 l.fall. ha, da un lato, un contenuto necessariamente riassuntivo di più specifiche competenze attribuite ad hoc da altre disposizioni normative. Dall'altro, attraverso il riferimento alle «controversie relative alla procedura stessa che non sono di competenza del giudice delegato», svolge una funzione sussidiaria e di chiusura del sistema, con previsione di carattere residuale (Maffei Alberti, 135).

Per comodità si riporta la seguente elencazione riassuntiva, rinviando alle singole norme volta a volte richiamate per il relativo approfondimento.

Poteri di ordine generale

- È investito dell'intera procedura fallimentare (art. 23)

- Può in ogni tempo sentire il curatore, il fallito e il C.d.c. (art. 23)

- Può ottenere dal g.d. informazioni su ogni affare per il quale deve provvedere (art. 25 comma 1)

- Può chiedere pareri al C.d.c. (art. 41 comma 1).

Poteri relativi all'apertura della procedura

- Attende all'istruttoria prefallimentare (il più delle volte mediante delega ad uno dei giudici che compongono il collegio: art. 15 comma 6)

- Nel corso della stessa può emettere provvedimenti cautelari o conservativi (art. 15 comma 8)

- Pronuncia la sentenza di fallimento o respinge il ricorso (artt. 9, 16 e 22)

- Pronuncia il fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili (art. 147)

- Prende i provvedimenti in caso di incompetenza (artt. 9, 9-bis e 9-ter)

- Provvede nuovamente sull'istanza di fallimento se la Corte accoglie il reclamo avverso il provvedimento con cui aveva respinto la richiesta di fallimento (art. 22 comma 4).

Nomina, sostituzione o revoca degli organi

- In genere, nomina, revoca o sostituisce gli organi quando non è prevista la competenza del g.d. (art. 23)

- Nomina il curatore con sentenza e, in caso di sostituzione o revoca, con successivo decreto (art. 27)

- Nomina il g.d. per la procedura (art. 16 n. 1)

- Nomina un solo g.d. ed un solo curatore in caso di dichiarazione di fallimento in estensione (art. 148)

- Nomina d'urgenza un altro g.d. se quello nominato non accetta nei termini di legge (art. 29 comma 2)

- Valuta ai fini della revoca del curatore la mancata tempestiva apertura del conto della procedura quando ciò è richiesto (art. 34 comma 2)

- Valuta ai fini della revoca del curatore l'ingiustificato mancato esaurimento in un biennio della fase liquidatoria ed il mancato tempestivo deposito del programma di liquidazione (art. 104-ter)

- Revoca il curatore in ogni tempo, su proposta del g.d., richiesta del C.d.c. o d'ufficio (art. 37)

- Su richiesta dei creditori può nominare diversi componenti del C.d.c. o sostituire il curatore (art. 37-bis).

Nella procedura fallimentare

- Ha competenza sul reclamo avverso i provvedimenti del g.d. (artt. 23 e 26)

- Decide le opposizioni e le altre impugnazioni allo stato passivo (artt. 98 e 99)

- Con la sentenza di fallimento può disporre la proroga dei termini per proporre domanda di insinuazione allo stato passivo (art. 101)

- Con la stessa sentenza può disporre l'esercizio provvisorio o successivamente, se ne ravvisa l'opportunità, può disporne la cessazione (art. 104)

Presso la cancelleria del tribunale fallimentare vanno depositati:

- un originale dell'inventario (art. 87 comma 4)

- il progetto di stato passivo (art. 95 comma 2)

- Dispone di non procedere all'accertamento del passivo nel caso di assenza di attivo (art. 102)

- Dispone la chiusura del fallimento (artt. 118 e 119)

- Ordina la riapertura del fallimento (art. 121)

- Provvede sulla richiesta di esdebitazione (art. 142).

Liquidazione dei compensi

- Liquida il compenso e le spese dovuti al curatore (art. 39 comma 1)

- Liquida eventuali acconti al curatore (art. 39 comma 2)

- Liquida le spese ed il compenso del curatore in caso di revoca del fallimento (art. 18 comma 16)

Nel concordato fallimentare

- Valuta l'ammissibilità del concordato fallimentare con classi differenziate (art. 125 comma 3)

- Omologa il concordato fallimentare o rigetta la relativa istanza (art. 129)

- Pronuncia la risoluzione del concordato per inadempimento (art. 137)

- Valuta la richiesta di annullamento del concordato (art. 138).

Nel concordato preventivo

- Assegna i termini per depositare il piano di concordato o l'accordo di ristrutturazione dei debiti, c.d. concordato «prenotativo» (art. 161 comma 6)

- Valuta l'ammissibilità della proposta concordataria (art. 163)

- Delega un giudice alla procedura di concordato e nomina il Commissario giudiziale (art. 163)

- Fissa l'ammontare del deposito per le spese di procedura (art. 163)

- Dispone la integrazione o la modifica della domanda o della documentazione (art. 162)

- Provvede in tema di offerte concorrenti (art. 163-bis)

- Dispone lo scioglimento o la sospensione di rapporti contrattuali pendenti (art. 169-bis)

- Provvede sulle richieste di autorizzazione se non è prevista la competenza del g.d. (art. 161 comma 7, art. 167, art. 182-quater, art. 182-quinquies)

- È competente sui reclami avverso i provvedimenti del g.d. (art. 164)

- Provvede sull'istanza di fallimento in caso di patologia del concordato (artt. 162, 173, 179, 180, 186, 186-bis)

- Omologa il concordato preventivo (art. 180)

- Provvede sulla richiesta di risoluzione o annullamento del concordato (art. 186 e 138)

Nell'accordo di ristrutturazione dei debiti

- Assegna il termine di inibitoria dalle azioni esecutive o cautelari (art. 182-bis comma 7)

- Provvede sulle richieste di autorizzazione (art. 182-quater, art. 182-quinquies)

- Valuta i presupposti per l'estensione degli effetti nell'accordo con intermediari finanziari (art. 182-septies)

- Omologa l'accordo di ristrutturazione (art. 182-bis).

Decreti: adozione, stabilità ed impugnabilità

Afferma l'art. 23 che, ove non sia disposto diversamente (ad es. l'art. 16 per la sentenza di fallimento), i provvedimenti del tribunale sono dati con decreto. Dall'espressione «in camera di consiglio» utilizzata dalla disposizione in esame quanto alle forme con cui devono essere sentiti il curatore, il fallito o il C.d.c., si desume generalmente che il rito da seguire per giungere alla loro emanazione debba essere quello camerale, previsto agli artt. 737 e ss. c.p.c. Seguendo questa impostazione si è altresì ritenuto che i decreti del tribunale fallimentare possano essere modificati o revocati in forza del richiamo all'art. 742 c.p.c., mentre appare argomento più debole quello che compie un riferimento alla generale «investitura» operata dall'art. 23 l.fall. sulla «intera procedura fallimentare». Questa tesi, nel mutato assetto degli organi della procedura e delle loro funzioni, deve tuttavia, ad avviso di chi scrive, ammettersi soltanto per i provvedimenti di carattere gestorio e/o di carattere puramente amministrativo della procedura, non per i provvedimenti di carattere decisorio. Inoltre, anche per i primi, si deve comunque assicurare la salvezza dei diritti acquistati dai terzi di buona fede. Appare inoltre ulteriormente necessario limitare il caso della modifica o revoca in «autotutela», argomentando dall'art. 487 comma 1 c.p.c., finché tali provvedimenti non abbiano avuto esecuzione (la possibilità di discorrere del fallimento come di una procedura esecutiva collettiva può giustificare infatti quella eadem ratio atta a consentire il ricorso all'analogia ove non sia diversamente e più specificamente disposto). Si ammette altresì, in questa materia, l'applicabilità analogica della disciplina in tema di correzione di errore materiale, di cui agli artt. 287 e ss. c.p.c. A differenza del dato normativo previgente, che escludeva la reclamabilità dei decreti del tribunale fallimentare, oggi è previsto espressamente che gli stessi sono reclamabili avanti alla Corte d'appello territorialmente competente. A differenza del reclamo avverso gli atti del curatore, di cui all'art. 36 l.fall., il reclamo disciplinato dall'art. 26 l.fall. nei confronti dei provvedimenti del g.d. o dello stesso tribunale, non è limitato ai soli casi di violazione di legge, ma si tratta di un gravame generale, esteso al merito della decisione. Tale possibilità deve però escludersi (come si è già visto supra) quando il tribunale già provveda egli stesso sul reclamo avverso i provvedimenti del g.d., poiché in tal caso si finirebbe per ammettere un non consentito terzo grado di reclamo di merito e, addirittura, nei casi in cui sia ammissibile il ricorso straordinario in Cassazione per motivi di legittimità, ex art. 111 Cost., un quarto grado di giudizio.

Ricorso in Cassazione

Proprio quest'ultimo riferimento impone un richiamo alla giurisprudenza che si è occupata più in generale dell'ammissibilità (o meno) della impugnazione in Cassazione per motivi di legittimità, avverso provvedimenti di carattere giurisdizionale.

A tal proposito va evidenziato che la S.C., a Sezioni unite, riconoscendo recentemente che deve ritenersi ammissibile il ricorso straordinario in Cassazione nei confronti del provvedimento con il quale la Corte d'appello abbia deciso sul reclamo avverso l'ordinanza del Presidente del Tribunale che abbia determinato, ex art. 814 comma 3 c.p.c., il compenso spettante agli arbitri (Cass. S.U., n. 25045/2016), ha dettato principi di ordine generale applicabili anche oltre la materia specificamene trattata. Tale forma di tutela giurisdizionale si è ritenuto doversi ammettere, indipendentemente dalla forma del provvedimento reso, nei confronti di statuizioni sorrette dai presupposti della decisorietà e definitività del provvedimento da impugnare, così da censirne positivamente la sua attitudine al giudicato, ciò che è stato riconosciuto a) qualora vi sia incidenza su diritti soggettivi; b) quando vi sia impossibilità di revoca o modifica attraverso l'esperimento di altro rimedio giurisdizionale.

Più in particolare, tale rimedio è stato negato avverso il provvedimento della Corte d'appello che reputati inopportuno il provvedimento di sospensione della restituzione di alcuni impianti idrici adottato dal tribunale fallimentare nel corso dell'esercizio provvisorio, il quale, facendo riferimento a semplici motivi di opportunità, aveva, nel caso di specie, natura temporanea, specificamente finalizzata, come tale non incidente su diritti soggettivi di carattere sostanziale (Cass. n. 25726/2016). Del pari, con un recente provvedimento la S.C. ha affermato la non ricorribilità in cassazione del provvedimento di revoca del curatore, ritenendo che lo stesso eserciti un munus publicum e non sia portatore di un proprio interesse alla conservazione dell'incarico. Pertanto, anche dopo l'entrata in vigore della riforma della legge fallimentare è possibile affermare che la nomina a curatore del fallimento ed il mantenimento dell'incarico rispondono all'esigenza, super individuale e non riconducibile al mero rapporto con i creditori, del corretto svolgimento e del buon esito della procedura, non essendo configurabile una posizione giuridicamente rilevante del curatore alla quale corrisponde la natura meramente ordinatoria e non decisoria tanto del decreto di accoglimento o di rigetto dell'istanza di revoca dall'ufficio, quanto del provvedimento, di conferma o di riforma del decreto emesso dalla corte di appello in sede di reclamo. Con la conseguenza che è possibile escludere che contro detto provvedimento sia ammissibile il ricorso straordinario per cassazione (Cass. n. 5094/2015).

Si è ritenuto che i decreti con i quali il tribunale fallimentare concede o rifiuta gli acconti sul compenso richiesti dal curatore sono espressione di un potere discrezionale ed intervengono in una fase processuale anteriore alla presentazione ed approvazione del conto, non assumendo, di conseguenza, efficacia di cosa giudicata, sicché essi non possono pregiudicare, dopo la presentazione del rendiconto, la futura e definitiva decisione sul compenso dovuto, cui corrisponde un diritto soggettivo del curatore, e non sono, quindi, ricorribili per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. n. 24044/2015). Per converso il ricorso ex art. 111 Cost. è stato ritenuto ammissibile avverso il provvedimento, adottato dal tribunale fallimentare prima della chiusura della procedura, di liquidazione del compenso finale al cessato curatore ai sensi dell'art. 39 l.fall. (Cass. S.U., n. 26730/2007). Sempre in materia di compenso a più curatori succedutisi nella medesima procedura fallimentare, si è precisato che è affetto da carenza assoluta di motivazione, denunciabile con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., il decreto con cui il tribunale fallimentare liquidi il compenso a due curatori succedutisi nel corso della procedura, calcolandolo sul complessivo ammontare dell'attivo realizzato, senza precisare l'ammontare dell'attivo realizzato da ciascuno di essi, e senza determinare, all'interno dei valori così identificati, l'esatta percentuale applicata tra il minimo e il massimo astrattamente previsti (Cass. n. 15761/2013) Tale statuizione è espressione di un più generale principio di ammissibilità di detta impugnazione per motivi di legittimità avverso il decreto del tribunale fallimentare di liquidazione finale del compenso del curatore (cfr. Cass. n. 2991/2006, la quale precisa che il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso straordinario per cassazione avverso i provvedimenti definitivi di contenuto decisorio adottati dal tribunale fallimentare, e dunque anche avverso il decreto che pronuncia sul compenso dovuto al curatore, non decorre dalla data del deposito in cancelleria dei suddetti provvedimenti, bensì dalla data della comunicazione o notificazione agli interessati).

Ancora, il ricorso ai giudici di legittimità è ammesso nei confronti dei decreti emesssi dal Tribunale in sede di reclamo ex art. 26 l.fall., ma soltanto quando abbiano carattere decisorio e attitudine alla definitività. Così, ad esempio, si è ammesso il ricorso ex art. 111 cost. avverso i decreti emessi dal tribunale fallimentare ex art. 26 l.fall. in sede di reclamo contro i provvedimenti del giudice delegato in materia di piani di riparto (Cass. n. 21345/2012 e Cass. n. 2493/2001), mentre si è negata analoga tutela contro il decreto del tribunale fallimentare, emesso in sede di reclamo ex art. 26 l.fall., confermativo del diniego di autorizzazione al curatore a promuovere un'azione civile, ritenendo che tale provvedimento abbia natura ordinatoria, esaurisca i suoi effetti all'interno del fallimento (quale condizione per il successivo agire in contenzioso del curatore) e risenta della natura del provvedimento del giudice delegato che, a sua volta, si configura come espressione di quei poteri amministrativi (di direzione, sorveglianza del procedimento ed autorizzazione) che l'art. 25, comma 1, l.fall. gli attribuisce (Cass. n. 22959/2012).

Analogamente, si è ritenuto esperibile detto rimedio nei casi di provvedimenti aventi contenuto decisorio ed inerenti la determinazione dell'attivo fallimentare, come nel caso del decreto che ritenga non compreso nell'attivo un certo bene (Cass. n. 2939/2008) o, ancora, nell'ipotesi di asta fallimentare, nei riguardi del decreto del tribunale confermativo del decreto del g.d. che abbia negato efficacia all'offerta in aumento effettuata da un terzo dopo l'aggiudicazione (Cass. n. 5796/1988 e Cass. n. 5053/2001) o del decreto del g.d. che abbia dichiarato la decadenza dell'aggiudicatario per mancato versamento del prezzo nel termine stabilito (Cass. n. 9930/2005). Ciò che corrisponde ad una ritenuta impugnabilità in Cassazione dei provvedimenti emessi sul reclamo avverso ai decreti del g.d. in tema di liquidazione dell'attivo (Cass. n. 12969/2004).

Con riferimento ai provvedimenti emessi dal tribunale fallimentare in tema di concordato preventivo, le Sezioni Unite, risolvendo la corrispondente questione di massima di particolare importanza, hanno stabilito che il decreto con cui la corte di appello, decidendo sul reclamo ex artt. 183, comma 1, e 182-bis, comma 5, l.fall., provvede in senso positivo o negativo sull'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, è ricorribile in Cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., avendo natura decisoria e non essendo altrimenti impugnabile (Cass. S.U. n. 26989/2016). Con altra pressochè coeva decisione si è invece ritenuto che «il decreto con cui il tribunale definisce (in senso positivo o negativo) il giudizio di omologazione del concordato preventivo, senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, ha carattere decisorio, poiché è emesso all'esito di un procedimento di natura contenziosa ed è, quindi, idoneo al giudicato, ma, essendo reclamabile ai sensi dell'art. 183, comma 1, l.fall., non è definitivo e, quindi, soggetto a ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., il quale è, invece, proponibile avverso il provvedimento della corte d'appello conclusivo del giudizio sull'eventuale reclamo» (Cass. n. 27073/2016). All'opposto si è ritenuto che non è consentita la ricorribilità in Cassazione avverso il decreto del tribunale, confermativo del provvedimento del giudice delegato con il quale è stata negata l'autorizzazione al pagamento immediato, in prededuzione, del compenso per l'attività professionale giudiziale svolta nell'interesse della procedura (Cass. n. 6362/2016), come pure nei confronti di analogo decreto confermativo del provvedimento del g.d. che, dopo l'omologazione del concordato, abbia negato ad un creditore la restituzione di somme accantonate (Cass. n. 12265/2016).

Al termine di sessanta giorni per proporre ricorso, che come si è visto decorre dalla comunicazione integrale o dalla notifica del provvedimento e non dal semplice deposito in cancelleria dello stesso, si applica la sospensione feriale quando riguarda i decreti in tema di liquidazione dei compensi (Cass. n. 24044/2015), mentre sono sottratte a detta sospensione le impugnazioni avverso i decreti emessi dal tribunale fallimentare in sede di reclamo contro i provvedimenti del giudice delegato in materia di liquidazione dell'attivo, in relazione all'art. 92 dell'ordinamento giudiziario, equivalendo ad un'opposizione agli atti esecutivi (Cass. n. 24760/2014), come pure nelle cause inerenti alla dichiarazione e revoca fallimento (Cass. n. 622/2016) od ancora in materia di piani di riparto (Cass. n. 12732/2011).

Bibliografia

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