Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 22 - Gravami contro il provvedimento che respinge l'istanza di fallimento 1 2 3 .

Roberto Amatore

Gravami contro il provvedimento che respinge l'istanza di fallimento 1 2 3.

 

Il tribunale, che respinge il ricorso per la dichiarazione di fallimento, provvede con decreto motivato, comunicato a cura del cancelliere alle parti.

Entro trenta giorni dalla comunicazione, il creditore ricorrente o il pubblico ministero richiedente possono proporre reclamo contro il decreto alla corte d'appello che, sentite le parti, provvede in camera di consiglio con decreto motivato. Il debitore non può chiedere in separato giudizio la condanna del creditore istante alla rifusione delle spese ovvero al risarcimento del danno per responsabilità aggravata ai sensi dell'articolo 96 del codice di procedura civile 4 .

Il decreto della corte d'appello è comunicato a cura del cancelliere alle parti del procedimento di cui all'articolo 15 5.

Se la corte d'appello accoglie il reclamo del creditore ricorrente o del pubblico ministero richiedente, rimette d'ufficio gli atti al tribunale, per la dichiarazione di fallimento, salvo che, anche su segnalazione di parte, accerti che sia venuto meno alcuno dei presupposti necessari 6.

I termini di cui agli articoli 10 e 11 si computano con riferimento al decreto della corte d'appello 7.

 

[1] Articolo sostituito dall'articolo 19 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

[2] La Corte costituzionale, con sentenza 28 maggio 1975, n. 127, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo, nel testo precedente la sostituzione, nella parte in cui negava al fallito la legittimazione a proporre reclamo contro la pronuncia del tribunale che aveva respinto l'istanza per la dichiarazione di fallimento di socio illimitatamente responsabile.

[3] Successivamente la Corte costituzionale, con sentenza 20 luglio 1999, n. 328, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del secondo comma del presente articolo, nel testo precedente la sostituzione, nella parte in cui non attribuiva al debitore, nei cui confronti era stato proposto ricorso per la dichiarazione di fallimento, la legittimazione a proporre reclamo alla corte d'appello avverso il decreto di rigetto di tale ricorso, in relazione al mancato accoglimento delle domande proposte dallo stesso debitore

Inquadramento

Il decreto di rigetto emanato dal tribunale è comunicato dal cancelliere alle parti della istruttoria prefallimentare, ed è reclamabile innanzi alla corte d'appello. Per la proposizione del reclamo l'art. 22 l.fall. stabilisce il termine di trenta giorni dalla comunicazione. Ebbene, tale termine deve essere considerato perentorio, al pari di tutti i termini d'impugnazione. Peraltro, la comunicazione deve essere effettuata, per le parti costituite, presso il domicilio eletto nel giudizio di primo grado, e personalmente al debitore contumace, con le forme prescritte dagli artt. 136 c.p.c. e 45 disp. att. (De Santis, 364).

Sul punto, va chiarito che, sebbene le comunicazioni di cancelleria debbano avvenire, di norma, con le forme previste dagli artt. 136 e ss c.p.c., ossia a mezzo consegna di biglietto di cancelleria effettuata dal cancelliere al destinatario (o attraverso comunicazione telematica nei casi consentiti), ovvero con notificazione a mezzo ufficiale giudiziario, esse possono essere validamente eseguite anche in forma equipollente, sempreché risulti la certezza dell'avvenuta consegna e della precisa individuazione del destinatario, il quale deve sottoscrivere per ricevuta (Cass. n. 24418/2008).

Naturalmente non vi è sospensione del termine durante il periodo feriale (App. Lecce, 3 gennaio 1989, in Fall., 1126).

Da ultimo, va detto che, in caso di mancata comunicazione del decreto di rigetto ovvero di vizio invalidante il procedimento di comunicazione, si deve ritenere che il termine sia quello lungo di sei mesi ex art. 327 c.p.c., e ciò in coerenza con i principi che governano le impugnazioni ordinarie dei provvedimenti aventi carattere decisorio.

Il procedimento di reclamo ed il suo oggetto

In punto di legittimazione attiva, occorre ricordare che le riforme del 2006-2007 hanno introdotto una importante novità per la legittimazione a reclamare il decreto di rigetto della domanda di fallimento, riconoscendola anche al pubblico ministero che abbia richiesto il fallimento. Ebbene, sotto la vigenza della precedente legge fallimentare del 1942, la giurisprudenza aveva espresso un orientamento contrario all'estensione al pubblico ministero della legittimazione a reclamare, sul presupposto che tale legittimazione non fosse stata espressamente prevista dall'art. 2 l.fall., non essendo il pubblico ministero titolare illo tempore di una vera e propria azione per chiedere il fallimento, ma solo di un potere di segnalazione, diretto a provocare la dichiarazione di fallimento d'ufficio (Cass. n. 1160/1967).

In realtà, l'abrogazione del fallimento d'ufficio ha provocato un mutamento di rotta del diritto pretorio, atteso che la Corte di Cassazione, riferendosi alla precedente legge fallimentare, ma con proposizione riferibili anche alla nuova, ha opportunamente rilevato che, già sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 22 l.fall., precedente testo, doveva riconoscersi al pubblico ministero, nelle ipotesi disciplinate dall'art. 7, la legittimazione a proporre reclamo nella ipotesi di rigetto della istanza di fallimento da parte del tribunale (Cass. n. 5220/2007).

Ne discende che, per le medesime ragioni, ancorché la norma attribuisca espressamente la legittimazione al reclamo al solo pubblico ministero richiedente, non sarebbe comprensibile ritenerla preclusa al pubblico ministero, tutte le volte in cui quest'ultimo sia intervenuto nel giudizio prefallimentare concludendo per l'accoglimento della domanda di fallimento, ovvero, pur non essendo intervenuto, sia comunque interessato a far dichiarare il fallimento (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, cit., 365).

Peraltro, va aggiunto che, se la riforma ha colmato la lacuna normativa sopra descritta, tuttavia non ha esteso la legittimazione a tutti quei soggetti che devono ritenersi abilitati al reclamo, in quanto titolari di interessi costituzionalmente protetti. Sul punto, occorre ricordare che il giudice delle leggi aveva già dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 22 l.fall. nella parte in cui negava al fallito la legittimazione a proporre reclamo contro la pronuncia del tribunale, che avesse respinto la domanda di fallimento del socio illimitatamente responsabile (Corte cost. n. 127/1975).

Ed infine, la Corte cost. aveva esteso la declaratoria di illegittimità costituzionale anche alla parte della norma in cui non si attribuiva al debitore, nei cui confronti fosse stato proposto ricorso per la dichiarazione di fallimento, la legittimazione a proporre reclamo alla corte d'appello avverso il decreto di rigetto di tale ricorso, e ciò in relazione al mancato accoglimento delle domande proposte dallo stesso debitore nel giudizio di istruttoria prefallimentare. Ed invero, il provvedimento di rigetto del ricorso di fallimento può comprendere anche la statuizione, consequenziale a detto rigetto, di condanna al rimborso delle spese ovvero al risarcimento del danno per responsabilità processuale aggravata, di talché è proprio in relazione a tale più ampio contenuto che il precludere, da un lato, al debitore la legittimazione al reclamo e l'accordarla, dall'altro, al creditore determinava un evidente, quanto ingiustificato, squilibrio tra le parti in causa (Corte cost., 20 luglio 1999, n. 328, in Dir. fall., 1999, II, 673).

Nonostante gli interventi «additivi» del giudice delle leggi, il riformatore della legge fallimentare continua, in realtà, a tacere sulla legittimazione a reclamare del debitore, e ciò sia nelle ipotesi cui già alludeva la Consulta sia nella ipotesi in cui il debitore, in primo grado, abbia agito in autofallimento. Ne discende, conformemente a quanto affermato in subiecta materia dalla dottrina (De Santis, 366) che, ancora oggi, la estensione della legittimazione al debitore, la cui domanda alle spese sia stata rigettata, ovvero al debitore fallito che abbia proposto domanda di dichiarazione del fallimento in estensione al socio illimitatamente responsabile, continui ad essere fondata sulle pronunzie della Consulta già sopra ricordate.

Peraltro, la legittimazione a reclamare dovrebbe spettare anche al curatore contro il decreto di rigetto della domanda di fallimento in estensione del socio illimitatamente responsabile, in quanto speculare alla legittimazione ad agire allo stesso riconosciuta dal quarto comma dell'art. 147 l.fall. Del pari, deve ritenersi legittimo predicare la estensione della legittimazione a reclamare anche al debitore la cui domanda di autofallimento sia stata respinta, atteso che anche in tal caso il suo diritto di azione non può essere ingiustamente compresso nella fase di gravame, privandolo del potere di impugnare (Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, cit., 177).

Peraltro, diversamente opinando, si aprirebbe la strada alla questione di costituzionalità, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.

Quanto alla legittimazione passiva, valgono le medesime regole del giudizio di reclamo avverso la dichiarazione di fallimento ex art. 18 l.fall.

Per quanto concerne il procedimento di reclamo ed il suo oggetto, le indicazioni normative contenute nell'art. 22 l.fall. sono in realtà assai scarne, atteso che la norma si limita a prevedere che la corte d'appello, sentite le parti, provveda in camera di consiglio con decreto motivato. La norma non chiarisce, in realtà, se debba essere applicato il medesimo procedimento, anch'esso camerale, dell'istruttoria prefallimentare ex art. 15 l.fall. (come ritiene Marelli, Sub. art. 22, in AA. VV., Il nuovo diritto fallimentare, a cura di Jorio e Fabiani, I, Bologna, 2006, 415), sul presupposto che il giudizio de quo abbia la medesima finalità di accertamento della sussistenza dei presupposti per la declaratoria di fallimento, e se perciò alla corte d'appello debbano riconoscersi i medesimi poteri attribuiti al tribunale in primo grado (Marelli, Sub. art. 22, in AA. VV., Il nuovo diritto fallimentare, a cura di Jorio e Fabiani, I, Bologna, 2006, 415; Cavalli, La dichiarazione di fallimento. Presupposti e procedimento, in AA.VV., La riforma della legge fallimentare a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2006, 54); ovvero se debba adottarsi il procedimento camerale «comune» di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c. (Ferro e Di Carlo, 704; così, anche D'Aquino, 169).

Deve ritenersi invece che, nel silenzio della norma, siano applicabili le medesime regole che governano il giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall.: in questo senso, concordo con quanto ritenuto da De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, cit., 369.

Così, occorre che la corte d'appello sia investita della delibazione dello stato di insolvenza del debitore nei limiti del principio di devoluzione, essendo onere del reclamante portare alla cognizione del giudice del gravame le medesime allegazioni assertive e probatorie già sottoposte al giudice di primo grado, così come allo stesso modo è onere delle parti riproporre le domande ed eccezioni rigettate o assorbite in primo grado: nel senso che al giudizio di reclamo debba essere assegnato un effetto devolutivo pieno si legga invece, Armeli, Sub. art. 22, in AA. VV., Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, I, Milano, 2010, 420; nel senso perorato nel teso, vedi invece De Santis, ibidem.

Peraltro, in assenza anche qui di esplicite indicazioni normative di segno contrario, deve ritenersi che il reclamo si debba proporre con ricorso che deve contenere, in stretta analogia con la disciplina sul reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, i requisiti previsti dall'art. 18 l.fall., in quanto applicabili. Pertanto, anche il reclamo ex art. 22 l.fall. deve contenere l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si fonda l'impugnazione, con le relative conclusioni, nonché l'indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti. Possono ancora una volta essere ripercorse le medesime considerazioni già in precedenza spese a proposito dell'effetto non interamente devolutivo del reclamo ex art. 18 l.fall.

Anche qui deve ritenersi che, ai fini della proposizione del reclamo ai sensi dell'art. 22 l.fall., il ricorrente debba avvalersi del patrocinio e della difesa tecnica di un avvocato (De Santis, ibidem).

Così, il presidente della corte d'appello, nei cinque giorni successivi al deposito del ricorso, designa il relatore e fissa con decreto l'udienza di comparizione, da tenersi entro sessanta giorni dal deposito del reclamo. Il ricorso per reclamo, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, è notificato, a cura del reclamante, al curatore e alle altre parti entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto.

Sul punto, occorre ritenere che la regolare costituzione del contraddittorio sia adeguatamente realizzata con la costituzione del debitore, senza che possano rilevare né la inesistenza della notificazione del decreto di fissazione della udienza di comparizione delle parti né il mancato rispetto del termine di notificazione stabilito dal presidente né il solo fatto che il debitore si fosse costituito al solo fine di far valere vizi della convocazione (Cass. n. 5220/2007).

Va aggiunto che tra la data della notificazione e quella della udienza deve intercorrere un termine non minore di trenta giorni. E le parti resistenti devono costituirsi almeno dieci giorni prima della udienza, eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede la corte d'appello. La costituzione si effettua mediante deposito in cancelleria di una memoria contenente l'esposizione delle difese in fatto ed in diritto, nonché l'indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti. Ed infine, l'intervento di qualunque interessato non può aver luogo oltre il termine stabilito per la costituzione delle parti resistenti con le modalità per queste previste. Al pari, poi, del reclamo ex art. 18 l.fall., deve riconoscersi che la proposizione del gravame si perfezioni con il deposito, nei termini di legge, del ricorso nella cancelleria del giudice ad quem, deposito che impedisce ogni decadenza dalla impugnazione. Ne discende che ogni eventuale vizio della pur tempestiva notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, non si comunica alla impugnazione che si è ormai perfezionata, ma impone alla corte d'appello, che rilevi il vizio, di indicarlo al reclamante e di assegnare allo stesso, previa fissazione di un'altra udienza di discussione, un termine perentorio per provvedere a notificare di nuovo ricorso e decreto.

Accoglimento del reclamo, rimessione degli atti al tribunale e dichiarazione di fallimento

In caso di accoglimento del reclamo, la corte d'appello rimette d'ufficio gli atti al tribunale, affinché proceda alla dichiarazione di fallimento, salvo che, anche su segnalazione di parte, accerti che sia venuto meno alcuno dei presupposti necessari per la declaratoria di fallimento (cfr., art. 22, penultimo comma).

Sul punto, va chiarito che, quando gli atti siano rimessi al tribunale, il termine annuale «a ritroso» previsto dagli artt. 10 e 11 l.fall – decorrente come tale dalla cancellazione dell'imprenditore individuale o collettivo dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo, e, rispettivamente, dalla morte dell'imprenditore – si computa con riferimento al decreto della corte d'appello (cfr. ultimo comma dell'art. 22).

Pertanto, la norma prevede, per ragioni di economia processuale, che la corte d'appello rigetti con decreto il reclamo, allorquando, se pure in astratto sussistevano illo tempore i presupposti per la declaratoria di fallimento, essi siano venuti meno in corso di causa, e cioè in primo ovvero in secondo grado di giudizio. Ciò potrebbe accadere, per fornire un esempio, nella ipotesi in cui il debitore abbia pagato i creditori istanti per il fallimento, facendo così venir meno la loro legittimazione ad agire, ovvero se medio tempore sia stato superato lo stato di insolvenza, perché sia sopravvenuto un idoneo affidamento bancario: gli esempi sono stati tratti da De Santis, 371.

Così, la norma consente che la corte d'appello possa prendere cognizione dei fatti sopravvenuti, allorché questi ultimi siano tali da impedire la dichiarazione di fallimento. In modo pleonastico la norma in esame prevede altresì che l'accertamento del venir meno dei presupposti per la declaratoria di fallimento possa avvenire anche su «segnalazione» di parte.

Ne discende che, per un verso, la corte d'appello può procedere a siffatto accertamento d'ufficio, e ciò anche avvalendosi dei poteri istruttori officiosi ad essa riconosciuti dall'art. 18 l.fall., e, per altro verso, che alla parte è consentito nella fase di reclamo allegare e provare fatti sopravvenuti, tali da neutralizzare la ricorrenza dei presupposti del fallimento.

Se l'accoglimento del reclamo sia stato determinato da motivi di merito, allora la rimessione al giudice di primo grado vincolerà quest'ultimo a dichiarare il fallimento: secondo la Corte cost., la previsione normativa in esame non pone dubbi di legittimità costituzionale in ordine alla possibile violazione del principio costituzionale della indipendenza del giudice (Corte cost., n. 142/1971). Sul tema, si legga anche Taruffo, Sulla costituzionalità dell'art. 22,3 comma, della legge fallimentare, in Dir. fall., 1993, II, 5 e ss.

In realtà, anche il legislatore della riforma ha voluto affidare alla corte d'appello il judicium rescindens (e cioè, l'accertamento dei presupposti della dichiarazione di fallimento) ed al tribunale il judicium rescissorium (e cioè, la pronuncia costitutiva del fallimento): cfr. Satta, Diritto fallimentare, a cura di Vaccarella e Luiso, Padova, 1996, 77. Si legga anche Ragusa Maggiore, Complessità della sentenza del tribunale che dichiara il fallimento su rimessione della corte d'appello, in Riv. dir. fall. 1993, II, 5 e ss.

Sub Julio, la Corte di Cassazione aveva ritenuto che «il decreto della corte d'appello che, ai sensi dell'art. 22 l.fall., accogliendo il reclamo avverso il decreto del tribunale di rigetto dell'istanza di fallimento, rimette gli atti allo stesso tribunale perché provveda alla relativa declaratoria, assolve ad una funzione meramente processuale propedeutica alla sentenza che dichiara il fallimento», come se si trattasse di una fattispecie a formazione progressiva, risultando la dichiarazione di fallimento dalla fusione del decreto della corte d'appello e della successiva sentenza del tribunale (così, Cass. n. 626/1994).

In realtà, qualora il legislatore avesse attribuito alla corte d'appello e non al tribunale il potere di dichiarare il fallimento, non sarebbe stato più possibile esperire il reclamo ex art. 18 l.fall., ma solo il ricorso per Cassazione per i motivi di cui all'art. 360 c.p.c., privando il fallito di una chance impugnatoria certamente non imposta dai principi costituzionali, ma comunque opportuna in rapporto alle caratteristiche del sistema normativo che governa la dichiarazione di fallimento (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, cit., 373).

Peraltro, la scelta legislativa trova giustificazione nella ulteriore circostanza secondo cui il tribunale che pronuncia il fallimento diventa anche l'organo di controllo della successiva procedura concorsuale ed uno dei suoi componenti assume altresì le funzioni di giudice delegato, possibilità quest'ultime difficilmente conciliabili con le caratteristiche della corte d'appello la cui natura è quella di organo collegiale (Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, cit., 2008, 178).

Ne discende che, a stretto rigore normativo, il potere di dichiarare il fallimento è affidato dalla legge esclusivamente al tribunale che, ai sensi dell'art. 9 l.fall., è investito della relativa competenza funzionale, e che, ai sensi dell'art. 23 medesima legge, è investito della intera procedura fallimentare, provvedendo alla nomina, revoca o sostituzione degli altri organi della procedura.

È stato correttamente osservato che, a seguito delle riforme, oggi, per come è declinata la norma, le circostanze di fatto sopravvenute al decreto di rigetto del tribunale potrebbero essere rappresentate solo ed esclusivamente all'interno del procedimento di reclamo ex art. 22 l.fall., e non nella successiva fase rescissoria innanzi al tribunale. Pertanto, il decreto della corte d'appello segnerebbe il limite temporale di invocabilità del fatto impeditivo ex art. 10 l.fall., sicché la cessazione dell'attività d'impresa rileverebbe solo fino a quando il fatto possa essere dedotto nel procedimento di reclamo, con la conseguenza che «a seguito della trasmissione degli atti il tribunale è tenuto a dichiarare il fallimento anche se nelle more l'attività d'impresa è cessata»: cfr. Fabiani e Nardecchia, 127; prima delle riforme, si era egualmente ritenuto che, in caso di rimessione degli atti al primo giudice da parte della corte d'appello, «il tribunale non potrebbe pronunciare un nuovo decreto di reiezione senza commettere una violazione di legge; e non potrebbe essere condiviso l'orientamento di alcuni tribunali che si sono arrogati il potere di un completo riesame della situazione, procedendo a una nuova reiezione dell'istanza. Un riesame è possibile, ma in una sede diversa: il giudizio di opposizione a dichiarazione di fallimento» (così, Ricci, Lezioni sul fallimento, I, Milano, 1997, 181).

Ne discende che i fatti sopravvenuti devono trovare spazio applicativo esclusivamente nella fase del reclamo ex art. 18 l.fall.

È tuttavia doveroso che il tribunale, al quale la corte d'appello abbia rimesso d'ufficio gli atti ai sensi dell'art. 22 l.fall., debba sempre procedere ai sensi dell'art. 15 l.fall., ripristinando il contraddittorio tra le parti e fissando l'udienza di comparizione innanzi al sé (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, cit., 375).

Sul punto, va aggiunto che una dichiarazione di fallimento senza contraddittorio stride sia con il diritto costituzionale di difesa che con il principio di ragionevole durata del processo, nella misura in cui induce con maggiore frequenza il debitore a proporre reclamo ex art. 18 l.fall.

È stato tuttavia affermato che : Il decreto con cui la corte d'appello accoglie, ai sensi dell'art. 22, comma 4, l.fall. il reclamo avverso il provvedimento di rigetto del ricorso per la dichiarazione di fallimento, rimettendo d'ufficio gli atti al tribunale, deve essere comunicato alle parti, ai sensi del comma 3 della citata disposizione, essendo in facoltà delle stesse segnalare al tribunale la sopravvenuta modificazione dei presupposti per la dichiarazione di fallimento. Ne consegue che il tribunale, dopo aver sentito le parti in sede di istruttoria prefallimentare, non ha l'obbligo di procedere ad una loro ulteriore convocazione prima di dichiarare il fallimento del debitore (Cass. VI , n.  6594 /2017 ).

Peraltro, va aggiunto che la ingiustificata assenza all'udienza delle parti il cui interesse è quello di far dichiarare il fallimento può essere interpretata come desistenza, con conseguente necessità di una declaratoria di cessazione della materia del contendere da parte del tribunale.

Va tuttavia ricordato, per completezza di trattazione, come la giurisprudenza di legittimità abbia chiarito in subiecta materia, in disaccordo con la tesi qui perorata e sopra riportata, che la previsione di cui al quarto comma dell'art. 22 l.fall. consenta alla stessa corte d'appello di omettere la trasmissione degli atti al tribunale nella ipotesi in cui i presupposti per la dichiarazione di fallimento sussistessero alla data della pronuncia del tribunale, ma siano venuti meno nelle more del procedimento di reclamo; ma consente anche al tribunale che, diversamente sarebbe vincolato dal dictum della corte, di prendere atto che, tra la data della pronuncia della stessa e quella ad esso devoluta quale giudice funzionalmente competente per la dichiarazione di fallimento, i presupposti per quest'ultima siano venuti meno per fatti sopravvenuti (Cass. n. 4417/2011).

Il decreto con cui la corte d'appello accoglie, ai sensi dell'art. 22, comma 4, l.fall. il reclamo avverso il provvedimento di rigetto del ricorso per la dichiarazione di fallimento, rimettendo d'ufficio gli atti al tribunale, deve essere comunicato alle parti, ai sensi del comma 3 della citata disposizione, essendo in facoltà delle stesse segnalare al tribunale la sopravvenuta modificazione dei presupposti per la dichiarazione di fallimento. Ne consegue che il tribunale, dopo aver sentito le parti in sede di istruttoria prefallimentare, non ha l'obbligo di procedere ad una loro ulteriore convocazione prima di dichiarare il fallimento del debitore (Cass. VI, ord. n. 6594/2017).

Rigetto del reclamo, condanna alle spese e risarcimento del danno per responsabilità processuale aggravata

Se la corte d'appello rigetta il reclamo ex art. 22 l.fall., deve provvedere sulle spese, e ciò anche a prescindere da una esplicita domanda di parte.

Peraltro, la corte deve provvedere sulla domanda di risarcimento del danno da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., eventualmente proposta dal debitore. Ed invero, il secondo comma dell'art. 22 impone al debitore di proporre siffatta domanda proprio in sede di reclamo, escludendo così esplicitamente che essa possa essere autonomamente o aliunde introdotta, e ciò è in linea con il sistema del processo cognitivo, ove l'azione di risarcimento del danno non può essere fatta valere in un giudizio separato ed autonomo rispetto a quello dal quale la responsabilità aggravata ha origine: in giurisprudenza, si legga Cass. n. 1861/2000.

Giova ricordare che la nuova previsione normativa consegue alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 22 l.fall., nel testo antecedente alle riforme, nella parte in cui non attribuiva al debitore, nei cui confronti fosse stato proposto ricorso per la dichiarazione di fallimento, la legittimazione a proporre reclamo alla corte d'appello avverso il decreto di rigetto di tale ricorso, in relazione al mancato accoglimento delle domande proposte dallo stesso debitore nel giudizio di istruttoria prefallimentare, tra le quali anche le domande aventi ad oggetto la condanna al rimborso delle spese ovvero al risarcimento del danno per responsabilità processuale aggravata: Corte cost. n. 328/199; sul tema, si legga anche Didone, Note sulla condanna alle spese e al risarcimento del danno nell'ipotesi di rigetto della istanza di fallimento, in Giust. civ. 2007, 640.

Sub Julio, la giurisprudenza di legittimità aveva tuttavia ritenuto che il tribunale, in caso di rigetto della domanda di fallimento, fosse tenuto a provvedere anche in ordine alla richiesta formulata dal debitore di condanna del creditore ricorrente al rimborso delle spese processuali e al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. (Cass. n. 2216/2000).

Deve ritenersi che la disposizione del secondo comma dell'art. 22 si riferisca sia alle spese del giudizio di reclamo, sia alle spese del primo grado di giudizio, e ciò nel senso che, in caso di rigetto del reclamo, la corte deve provvedere, anche d'ufficio, sulle spese del doppio grado di giudizio (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, cit., 380).

Inoltre, è da ritenersi che il debitore convenuto possa proporre autonomo reclamo soltanto sul capo del decreto di rigetto della domanda di fallimento relativo alle spese, ossia, più frequentemente, in relazione alla parte in cui il citato decreto di rigetto nulla abbia statuito sulle spese

Peraltro, va detto che, diversamente opinando, il sistema si esporrebbe al dubbio di costituzionalità, avendo il secondo comma dell'art. 22 escluso in modo esplicito che la parte possa agire separatamente per le spese ed il risarcimento del danno da responsabilità aggravata (Giannelli, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, 191).

Il ricorso per cassazione

Occorre chiedersi se il decreto motivato emanato dalla corte d'appello ai sensi dell'art. 22 l.fall. sia ricorribile o meno per cassazione. Per fornire una risposta esauriente al quesito, è d'uopo distinguere i casi a seconda del contenuto del decreto.

Ebbene, se il decreto accoglie il reclamo e rimette d'ufficio gli atti al tribunale affinché provveda alla dichiarazione di fallimento, pur rivestendo natura decisoria, esso non è impugnabile per cassazione, giacché lo stesso assolve ad una funzione meramente endoprocessuale, propedeutica alla sentenza dichiarativa di fallimento, e pertanto si sottrae all'impugnazione diretta ex art. 111 Cost. Ne discende che il fallito potrà proporre le proprie difese avverso tale sentenza, ricorrendo ai rimedi previsti dalla legge fallimentare (vedi anche la giurisprudenza formatasi nel precedente regime normativo: Cass. n. 26831/2006; Cass. n. 21193/2006).

Nella ipotesi di decreto di rigetto, giova ricordare che, sotto l'egida del sistema normativo precedente, l'orientamento costante della giurisprudenza è sempre stato quello secondo cui il decreto con cui la corte d'appello accoglieva, ai sensi dell'art. 22 l.fall., il reclamo avverso il provvedimento del tribunale di rigetto della domanda di fallimento non fosse impugnabile con ricorso per cassazione, difettando dei presupposti della definitività e decisorietà, sull'assunto che l'incidenza sui diritti soggettivi delle parti coinvolte derivasse dalla successiva dichiarazione di fallimento, di cui il provvedimento della corte costituiva un momento del complesso procedimento.

La questione va tuttavia affrontata in relazione alla idoneità al giudicato del decreto di rigetto. Nessun dubbio può ora residuare sul fatto che il decreto di rigetto del ricorso per fallimento deve pronunciarsi anche sulla domanda del debitore di condanna del creditore istante al pagamento delle spese processuali e al risarcimento del danno da responsabilità aggravata e, pertanto in caso di omessa pronuncia su dette domande ovvero di pronuncia ritenuta illegittima dalla parte, il menzionato provvedimento deve ritenersi impugnabile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. e dell'art. 360 c.p.c., giacché il provvedimento nella parte in cui regola le spese ha natura di pronuncia definitiva e decisoria su un diritto soggettivo (così, Cass. n. 22746/2004).

Tuttavia, la più recente giurisprudenza ha affermato che il decreto reiettivo del reclamo che, a sua volta, ha respinto l'istanza di fallimento non è ricorribile per cassazione ex articolo 111, settimo comma, Cost., trattandosi di provvedimento non definitivo e privo di natura decisoria su diritti soggettivi, non essendo il creditore portatore del diritto al fallimento del proprio debitore (Cass. I, n. 6683/2015).

Sul punto si legga anche : il decreto reiettivo dell'istanza di fallimento - al pari di quello confermativo del rigetto in sede di reclamo - non è idoneo al giudicato e non è, dunque, ricorribile per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., trattandosi di provvedimento non definitivo e privo di natura decisoria su diritti soggettivi, dal momento che nessun istante è portatore di un diritto all'altrui fallimento. Non essendo legato alla forma del provvedimento, ma al suo contenuto, l'inidoneità al giudicato riguarda anche il provvedimento di rigetto dell’istanza di fallimento in estensione del socio accomandante adottato unitamente alla sentenza dichiarativa di fallimento della società in accomandita semplice e del socio accomandatario (Cass. I,  n. 5069/2017). 

Bibliografia

Armeli, Sub. art. 22, in AA. VV., Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, I, Milano, 2010, 420; Cavalli, La dichiarazione di fallimento. Presupposti e procedimento, in AA.VV., La riforma della legge fallimentare a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2006, 54; D'Aquino, Sub. art. 22, in AA. VV., La legge fallimentare. Decreto Legislativo 12 settembre 2007, n. 169, a cura di Ferro, Padova, 2007, 169; De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, Padova, 2012, 364; Didone, Note sulla condanna alle spese e al risarcimento del danno nell'ipotesi di rigetto della istanza di fallimento, in Giust. civ. 2007, 640; Fabiani - Nardecchia, Formulario Commentato della legge fallimentare, Milano, 2007, 127; Ferro - Di Carlo, L'istruttoria prefallimentare, Milano, 2010, 704; Giannelli, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, 191; Marelli, Sub. art. 22, in AA. VV., Il nuovo diritto fallimentare, a cura di Jorio e Fabiani, I, Bologna, 2006, 415; Ragusa Maggiore, Complessità della sentenza del tribunale che dichiara il fallimento su rimessione della corte d'appello, in Riv. dir. fall. 1993, II, 5 e ss.; Ricci, Lezioni sul fallimento, I, Milano, 1997, 181; Satta, Diritto fallimentare, a cura di Vaccarella e Luiso, Padova, 1996, 77; Taruffo, Sulla costituzionalità dell'art. 22, 3 comma, della legge fallimentare, in Dir. fall. 1993, II, 5 e ss.

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