Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 15 - Procedimento per la dichiarazione di fallimento 1 2 3 .

Roberto Amatore
aggiornato da Francesco Maria Bartolini

Procedimento per la dichiarazione di fallimento 123.

 

Il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge dinanzi al tribunale in composizione collegiale con le modalita' dei procedimenti in camera di consiglio.

Il tribunale convoca, con decreto apposto in calce al ricorso, il debitore ed i creditori istanti per il fallimento; nel procedimento interviene il pubblico ministero che ha assunto l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento.

Il decreto di convocazione e' sottoscritto dal presidente del tribunale o dal giudice relatore se vi e' delega alla trattazione del procedimento ai sensi del sesto comma. Il ricorso e il decreto devono essere notificati, a cura della cancelleria, all'indirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti. L'esito della comunicazione e' trasmesso, con modalita' automatica, all'indirizzo di posta elettronica certificata del ricorrente. Quando, per qualsiasi ragione, la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, la notifica, a cura del ricorrente, del ricorso e del decreto si esegue esclusivamente di persona a norma dell' articolo 107, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 15 dicembre 1959, n. 1229 , presso la sede risultante dal registro delle imprese. Quando la notificazione non puo' essere compiuta con queste modalita', si esegue con il deposito dell'atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese e si perfeziona nel momento del deposito stesso. L'udienza e' fissata non oltre quarantacinque giorni dal deposito del ricorso e tra la data della comunicazione o notificazione e quella dell'udienza deve intercorrere un termine non inferiore a quindici giorni 4.

Il decreto contiene l'indicazione che il procedimento e' volto all'accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento e fissa un termine non inferiore a sette giorni prima dell'udienza per la presentazione di memorie e il deposito di documenti e relazioni tecniche. In ogni caso, il tribunale dispone che l'imprenditore depositi i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, nonche' una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata; puo' richiedere eventuali informazioni urgenti.

I termini di cui al terzo e quarto comma possono essere abbreviati dal presidente del tribunale, con decreto motivato, se ricorrono particolari ragioni di urgenza. In tali casi, il presidente del tribunale puo' disporre che il ricorso e il decreto di fissazione dell'udienza siano portati a conoscenza delle parti con ogni mezzo idoneo, omessa ogni formalita' non indispensabile alla conoscibilita' degli stessi.

Il tribunale puo' delegare al giudice relatore l'audizione delle parti. In tal caso, il giudice delegato provvede all'ammissione ed all'espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d'ufficio.

Le parti possono nominare consulenti tecnici.

Il tribunale, ad istanza di parte, puo' emettere i provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell'impresa oggetto del provvedimento, che hanno efficacia limitata alla durata del procedimento e vengono confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento, ovvero revocati con il decreto che rigetta l'istanza.

Non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare e' complessivamente inferiore a euro trentamila. Tale importo e' periodicamente aggiornato con le modalita' di cui al terzo comma dell'articolo 1.

 

[2] La Corte costituzionale, con sentenza 16 luglio 1970, n. 141, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo, nel testo precedente la sostituzione, nella parte in cui esso non prevedeva l'obbligo del tribunale di disporre la comparizione dell'imprenditore in camera di consiglio per l'esercizio del diritto di difesa nei limiti compatibili con la natura di tale procedimento.

[3] A norma dell'articolo 10, comma  1, del D.L. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla Legge 5 giugno 2020, n. 40, tutti i ricorsi ai sensi del presente articolo, depositati nel periodo tra il 9 marzo 2020 ed il 30 giugno 2020 sono improcedibili.

[4] Comma sostituito dall'articolo 17, comma 1, lettera a), del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179. Per l'applicazione delle disposizioni da esso introdotte, vedi il comma 3 del medesimo articolo 17 del D.L. n. 179 del 2012.

Inquadramento

Uno dei punti ove il legislatore del 2006 ha maggiormente innovato è proprio quello del procedimento prefallimentare, e cioè quello che porta alla dichiarazione di fallimento dell'imprenditore (per una disamina delle questioni qui in discussione prima della riforma, si rimanda a Giorgi,; Fabiani, 1994, 491; Ferro, 1994, I, 901; Patti, 939.; dopo la riforma, si rimanda alla lettura di Ferro, 2006, 17; De Santis, 2006, 296; Montanari, 568).

In realtà, il tenore del precedente art. 15 l.fall., nonostante l'intervento integratore della Corte Costituzionale del 1970 (Corte cost. n. 141/1970), è stato completamente rivisto per garantire il momento del contraddittorio, e dunque il rispetto del diritto di difesa, accentuando le caratteristiche processuali del procedimento camerale, al fine di giustificare la soppressione sia dell'impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento celebrata con il rito ordinario sia di un grado sostanziale di giudizio. La revisione della decisione del tribunale non è più sottoposta, come nel precedente regime normativo, ad un giudizio ordinario del tribunale, succeduto da quello della corte e infine dal giudizio in cassazione, ma viene immediatamente rimesso alla corte d'appello con rito anch'esso camerale, concentrato e celere, concluso il quale l'unico ulteriore rimedio processuale è rappresentato dal ricorso per cassazione nei termini di trenta giorni dalla notifica. Ne discende che la compressione della fase successiva ha portato ad una dilatazione del procedimento per la dichiarazione di fallimento, anche dal punto di vista temporale, e dunque ad una sua maggiore complessità, alla possibilità, se del caso, di chiedere l'ammissione di prove e di provvedimento cautelari interinali, al fine di anticipare gli effetti nel tempo necessario alla istruzione e alla decisione della istanza ex art. 6 l.fall.

A finalità diversa provvede il comma 9 dell’art. 15, riguardante l’esposizione minima occorrente per la dichiarazione di fallimento. In proposito Cass. I, n. 28192/2020 ha affermato che ai fini del computo di tale esposizione rilevano, alla stregua di debiti scaduti e non pagati, le passività tributarie portate da un avviso di accertamento conosciuto dal destinatario a prescindere dall’iscrizione a ruolo e dalla trasmissione del carico fiscale all’agente della riscossione.

Il procedimento per la dichiarazione di fallimento: generalità

Come è noto l'art. 15 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 è stato modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (in G.U. 16 gennaio 2006, n. 12) e, poi, dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (G.U. 16 ottobre 2007, n. 241).

Come sopra accennato, la ratio delle molteplici prescrizioni normative dell'art. 15 l.fall. può essere ravvisato nell'obiettivo del legislatore di tutelare il principio del diritto di difesa del destinatario del ricorso proposto dal creditore o della richiesta del pubblico ministero, nonché del principio del contraddittorio (Ferro, 2012 CSM; Minutoli, f. 2; Filippi, 101 ss.; Tiscini, 330; sulla tipologia e sulla natura dei termini previsti dall'art. 15, l.fall., Fabiani, Diritto fallimentare. Un profilo organico, cit., 167).

Giova ricordare che la Corte cost. con la sentenza del 16 luglio 1970, n. 141 ha dichiarata la incostituzionalità dell'art. 15 l.fall. nella parte in cui non prevedeva l'obbligo del tribunale di disporre l'audizione del debitore, prima della dichiarazione di fallimento. Questo intervento ha determinato successivi interventi giurisprudenziali e legislativi, come quello successivo della stessa Corte Costituzionale del 1972 (Corte cost. n. 110/1972) sull'art. 162 l.fall. (v. anche: Ferro, Sub art. 162,, 2011, 1858; De Santis, 2011, in part. 1204 e 1208).

Ebbene, deve anche evidenziarsi, unitamente ad autorevole dottrina (Ferro, Sub art. 15, 2011, cit., 189 ss; De Matteis, 53 ss), che l'art 15 l.fall. è una norma che si ripresenta nella sua applicazione in tutte le ipotesi nelle quali il tribunale deve procedere con la dichiarazione di fallimento. Si segnala l'intervento della Suprema Corte (Cass. 23 febbraio 2011, in Fall., 2011, 799, con nota di Canazza, Omessa comunicazione del decreto di accoglimento del reclamo avverso il rigetto dell'istanza di fallimento e violazione del diritto di difesa) sull'art. 22, terzo comma, l.fall ove ha affermato che la prevista comunicazione «deve essere necessariamente effettuata in quanto funzionale all'esercizio del diritto di difesa, dal momento che il decreto non è ricorribile per cassazione»; e che la mancata comunicazione determina la nullità della successiva pronuncia di fallimento del tribunale per violazione di tale diritto (Marrollo, 422 ss).

La esigenza della tutela dei principi del diritto di difesa e del contraddittorio, ribadita dal legislatore fallimentare con la modifica dell'art. 15 l.fall., deriva anche dalla circostanza che la sentenza dichiarativa di fallimento produce effetti sulla sfera patrimoniale del debitor, e ciò anche con effetti cautelari anticipatori determinati dalla applicazione dell'istituto regolato dall'ottavo comma dell'art. 15 l.fall. La rilevanza di questa esigenza è stata ribadita dalla giurisprudenza (Cass. n. 22926/2009, cit.) anche per altre ipotesi: quando la istruttoria prefallimentare si conclude con un provvedimento di rito, ad es. di mero rigetto (App. Venezia 4 novembre 2011, in Fall. 2012, 201 ss., con osservazioni di P. Bosticco; Contra Trib. Mantova 24 novembre 2006, in Foro it., 2007, 2, 605; Trib. Napoli 8 novembre 2006, in Foro it., 2007, 605) oppure, quando la istruttoria prefallimentare derivi da una richiesta di fallimento del pubblico ministero(artt. 6 e 7 l.fall.) (App. Milano 2 dicembre 2010 che ha ritenuto inesistente la notificazione eseguita dal pubblico ministero mediante l'ausilio della Polizia Giudiziaria e, quindi, esorbitando dallo schema previsto dal codice di rito per le notificazione, dagli artt. 137 ss. c.p.c. e che per Cass. n. 14570/2007, costituisce uno schema legale); oppure quando sono stati depositati più ricorsiexart. 6 l.fall. Quest'ultima ipotesi è stata presa in esame dalla dottrina e dalla giurisprudenza con differenti soluzioni interpretative. Da una parte, si sostiene che la necessità di instaurare il contraddittorio ad ogni ulteriore ricorso può causare un procrastinarsi della udienza con conseguente pregiudizio per i creditori (v. D'Orazio, 83; Trib. Roma, decr., 3 ottobre 2008, in Fall., 2009, 726). In tema di procedimento per la dichiarazione di fallimento, non è configurabile un diritto del debitore ad ottenere il differimento della trattazione per poter procedere alla definizione della propria posizione debitoria, nè il relativo diniego configura una violazione del diritto di difesa, spettando al giudice il compito di bilanciare le esigenze di difesa del debitore con la tutela degli interessi pubblicistici al soddisfacimento dei quali è finalizzata la procedura fallimentare (così Cass. I, ord. n. 18310/2023).

Dall'altra, si è replicato (Plenteda, 730 ss.) che questa soluzione operativa, di informativa c.d. banco iudicis, non sembra porsi in linea con le prescrizioni normative dell'art. 15, terzo comma, l.fall., a tutela del diritto di difesa né con la soppressione della dichiarazione di fallimento d'ufficio; che, la necessità della notificazione di ciascun ricorso al debitore è determinata anche dalla circostanza che un ricorso o una richiesta ex art. 6 l.fall. può contenere elementi rilevanti e decisivi per la dichiarazione di fallimento e che, in quanto tali, devono essere portati a conoscenza del debitore stesso.

Sul tema, v. anche App. Palermo 19 giugno 2007, in Fall., 2008, 319; sull'obbligo del rinnovo della convocazione del debitore Vacchiano,; Cass. n. 28985/2008, cit.; Cass. 7 marzo 2008, in Fall. 2008, 715; App. Napoli 22 novembre 2010Nel caso in cui il procedimento di fallimento riguardi un soggetto deceduto, l'erede di questo, ancorché non sia imprenditore e non sia subentrato nell'impresa del "de cuius", deve essere convocato avanti al tribunale competente alla dichiarazione di fallimento, nel rispetto del principio del contraddittorio enunciato, in termini generali, dall'art. 15, comma 2, della l. fall., come sostituito dall'art. 13 d.lgs. n. 5 del 2006 e dall'art. 2, comma 4, d.lgs. n. 169 del 2007; tale norma, infatti, rende il detto erede il naturale contraddittore della parte istante con riferimento a una domanda che, per essere diretta alla pronuncia di fallimento dell'imprenditore defunto, è idonea a spiegare effetto nei confronti del successore di questo (Cass. I, ord. n. 7604/2023).

Si legga anche: Pagni, I Provvedimenti cautelari,, 2011, 217 ss.; Filocamo-Nonno-Didone, 541 ss.

Anche dopo la riforma, la natura del procedimento disciplinato dall'art. 15 l.fall. è rimasta quella di un procedimento camerale che, pur necessariamente sommario, giacché il processo di fallimento non può avere i tempi di quello ordinario, aspira tuttavia, a causa delle iniezioni di garanzie e alle possibilità istruttorie e probatorie, a fornire garanzie paritetiche al giudizio ordinario. Ma non per questo diviene un processo a cognizione ordinaria, con la cui ritualità piena continua a restare incompatibile (V. Montanari, 568. Nello stesso senso anche Bonfatti-Censoni, Manuale di diritto fallimentare, cit., 50; Ferro, Sub. art. 15, in AA. VV., La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2007, 107; Montanaro, Sub art. 15, in AA. VV., La riforma della legge fallimentare, a cura di Nigro-Sandulli, Torino, 2006, 85; contra, De Santis, 2011, cit., che afferma che, seppure indicata come cognizione sommaria camerale quella che si svolge nell'ambito prefallimentare è in realtà una cognizione ordinaria contenziosa).

Va tuttavia ricordato che, al fine di avvicinare il più possibile il processo camerale ad una visione costituzionalizzata del processo, si sono posti alcuni avvertimenti iniziali contenuti nel decreto di convocazione, precisati e dilatati i termini di comparizione ed i termini intermedi a difesa, si sono (solo apparentemente, però) compressi i poteri officiosi d'indagine del tribunale (Pajardi-Paluchowscki, 140).

Peraltro, è stata anche prevista la possibilità di esperire mezzi di prova anche di una certa complessità, nonché di nominare consulenti tecnici, con ciò ipotizzando una durata della istruttoria prefallimentare evidentemente più lunga. Non può essere sottaciuto che il maggior garantismo del nuovo procedimento per la dichiarazione di fallimento determina però un effetto distorsivo grave nei confronti dell'esperibilità delle azioni revocatorie previste dal secondo comma dell'art. 67 l.fall., avendo la riforma ridotto il periodo sospetto per le revocatorie degli atti normali a soli sei mesi antecedenti al fallimento.

Ne discende che occorre appellarsi ad una particolare sensibilità degli operatori giudiziari nel cercare di comprimere i tempi dell'istruttoria, pur così procedimentalizzata dalla riforma. Invero, occorre sempre ricordare che alla base della richiesta di fallimento vi è una esigenza di celerità d'intervento del processo esecutivo, che assicura il rispetto della par condicio e nello stesso tempo che consente il ricorso a strumenti di salvaguardia del patrimonio e della prosecuzione dell'attività imprenditoriale. Tale valore è da considerarsi primario e la riuscita delle esigenze sottese alla riforma dell'art. 15 l.fall. si gioca anche sul rispetto e l'equilibrio dei tempi necessari alla pronuncia della sentenza dichiarativa.

Va detto infine che l'art. 15 l.fall. consente di rintracciare, nel corpo del procedimento che conduce alla dichiarazione di fallimento, tre fasi, e cioè, da un lato, l'instaurazione del procedimento e, dall'altro, la trattazione e l'istruttoria ed infine la decisione sulla istanza di fallimento.

In termini riassuntivi, può dirsi, quanto alla prima fase di instaurazione del procedimento, che la norma prevede, in primo luogo, che il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolga dinanzi al tribunale in composizione collegiale e che il debitore, il creditore (o i creditori) istanti per il fallimento, nonché il pubblico ministero che ha assunto l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento, siano posti in grado di partecipare al procedimento, a seguito del decreto di convocazione emesso dal presidente, o in caso di delega, dal giudice delegato. È inoltre previsto che il decreto di convocazione — contenente, peraltro, l'indicazione che il procedimento è volto all'accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento — è scritto dal tribunale in calce al ricorso per dichiarazione di fallimento, e che l'onere di notificarlo alle parti, in una al ricorso, incombe ora alla Cancelleria (cfr. il novellato art. 15, terzo comma, l.fall. su cui infra) ovvero in via residuale sulla parte istante per il fallimento e che tra la data della notifica (rectius: di ricevimento della notifica) del ricorso e del pedissequo decreto del tribunale, e quella dell'udienza deve intercorrere un termine a difesa non inferiore a quindici giorni. Infine, è stato previsto che sia fissato, nel medesimo decreto, un termine non inferiore a sette giorni prima dell'udienza, per il deposito di memorie, documenti e relazioni tecniche, nonché dei bilanci dell'impresa debitrice relativi agli ultimi tre esercizi e di una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata dell'impresa medesima e che tali termini possano essere motivatamente abbreviati, se ricorrono particolari ragioni d'urgenza, e che, in questi casi, il ricorso di fallimento ed il decreto di fissazione dell'udienza sono portati a conoscenza con ogni mezzo idoneo, omessa ogni formalità non indispensabile alla conoscibilità degli stessi.

Ed in ultimo, è stato normativamente fissato che, già in sede di decreto di fissazione dell'udienza, il tribunale possa richiedere eventuali informazioni urgenti.

Quanto alla fase della trattazione ed istruttoria, si prevede, dopo la riforma, che l'audizione delle parti possa essere delegata dal tribunale ad un componente del collegio, il quale assume altresì le funzioni di relatore e che il giudice delegato provveda all'ammissione ed all'assunzione del mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d'ufficio (fatta salva la facoltà per le parti di nominare consulenti tecnici). Ed infine, è stato previsto che il tribunale (in composizione collegiale) possa, su istanza di parte, emanare provvedimenti cautelari o conservativi a tutela dell'impresa e del suo patrimonio, che hanno una durata limitata al procedimento, fino alla decisione sul ricorso per fallimento che confermerà o revocherà i provvedimenti cautelari adottati.

Quanto alla fase della decisione, l'art. 15 prevede che essa sia adottata dal collegio con sentenza, se accoglie il ricorso, e con decreto se lo respinge (arg. ex art. 15, penultimo comma), e ciò è peraltro confermato dal 1 comma dell'art. 16 e dal 1 comma dell'art. 22 1. fall.

La composizione collegiale dell'organo decidente e delega alla trattazione della causa

Il primo comma dell'art. 15 prevede una «riserva di collegialità», in quanto stabilisce espressamente che il procedimento che conduce alla dichiarazione di fallimento sia collegiale, che cioè si svolga davanti al collegio e sia da quest'ultimo deciso.

Per esigenze di carattere funzionale giacché una trattazione integralmente collegiale finirebbe con il determinare non irrilevanti problemi organizzativi, soprattutto negli uffici giudiziari di dimensioni modeste, il comma 6 del detto art. 16 autorizza la delega da parte del collegio ad un giudice «relatore» per l'audizione delle parti.

Peraltro, in almeno due altri passaggi, la norma consente all'interprete di argomentare l'esistenza di una vera e propria fase istruttoria integralmente delegabile ad un giudice monocratico, e più precisamente al 3 comma, ove si fa riferimento ad una «delega alla trattazione del procedimento» (tanto da prevedere addirittura che il decreto di convocazione delle parti sia sottoscritto dal presidente del tribunale o dal giudice relatore delegato) ed al 6 comma, ove si prevede che il giudice delegato, dopo avere proceduto all'audizione delle parti, provveda all'ammissione ed all'espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d'ufficio.

Nella sostanza, il giudice che procede all'audizione delle parti in contraddittorio tra loro è anche quello che istruisce la causa e che, nella sede della decisione collegiale, svolge le funzioni di relatore.

Pertanto, il vigente testo dell'art. 15 ha così ricondotto ad unità le disiecta membra rivenienti dalla giurisprudenza consolidatasi sotto la previgente disposizione, che si limitava a prevedere che il tribunale ordinasse la comparizione del debitore in camera di consiglio per sentirlo in contraddittorio con i creditori istanti, atteso che — ai sensi dell'art. 16, 1 comma, 1.fall. (come noto, rimasto invariato anche dopo le riforme) — la sentenza era (ed è) pronunziata «in camera di consiglio» (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 168).

Ebbene, la giurisprudenza sopra citata si era attestata sulla conclusione che, nella fase che precede la dichiarazione di fallimento, il diritto di difesa del fallendo dovesse essere esercitato nei limiti compatibili con le regole del procedimento sommario e camerale, e che, per questo, non fosse necessario che l'imprenditore comparisse per essere sentito dinanzi al tribunale in composizione collegiale, essendo sufficiente che egli, informato dell'iniziativa assunta nei suoi confronti e degli elementi su cui la stessa era fondata, comparisse dinanzi al giudice relatore all'uopo designato, ed ivi fosse posto in grado di svolgere compiutamente la propria difesa (Cass. n. 12029/2004; Cass. n. 17185/2003; Cass. n. 6911/1997).

Peraltro, il presupposto teorico di tale conclusione riposava su ciò, che la delega rilasciata dal tribunale ad un proprio componente per l'audizione del debitore non comportasse alcuna deviazione dal principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.), non spettando al giudice relatore alcuna autonoma facoltà decisionale, e restando sempre e comunque individuato nel tribunale fallimentare il giudice designato a pronunciarsi in merito all'istanza di fallimento (Cass. n. 6505/1996).

Tuttavia, va anche precisato che questo principio era tendenzialmente contraddetto da una regola generale dei procedimenti in camera di consiglio, ossia che la previsione dell'art. 276 c.p.c., secondo la quale il giudice che assiste alla discussione della causa non può essere diverso da quello che emette la decisione, è applicabile anche al procedimento camerale di dichiarazione di fallimento, coincidendo, a questi fini, l'udienza di discussione con quella di comparizione (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem).

Ne discendeva la necessità che, in molti casi, a conclusione dell'istruttoria prefallimentare, demandata ad un componente del collegio (il quale procedeva di norma anche all'audizione del debitore), fosse disposta la convocazione del fallendo dinanzi al collegio, per consentirgli l'esposizione delle sue posizioni e difese finali (cfr. Ferro, Sub. art. 15, 2011, cit., 194).

Peraltro, giova ulteriormente ricordare che una parte della giurisprudenza aveva avallato il principio che, nella procedura camerale per la dichiarazione di fallimento (in quanto «ontologicamente» distinta in due fasi, una prima, destinata alla raccolta di informazioni, nonché all'ascolto dei creditori e del debitore, ed una seconda, destinata alla decisione), il principio dell'immutabilità del giudice di cui all'art. 276 c.p.c. operasse con esclusivo riferimento alla seconda fase processuale, sicché non era vietato né che quest'ultima si svolgesse dinanzi ad un collegio avente una composizione diversa rispetto a quella delle precedenti udienze (destinate alla raccolta degli elementi da valutare, successivamente, ai fini della decisione o della mera trattazione del procedimento), né che il collegio, dopo una prima discussione, presenziasse in diversa composizione ad una nuova discussione, assumendo definitivamente la causa in decisione (Cass. n. 361/1998; Cass. n. 5060/2007). Ed infine, la Cassazione aveva ritenuto che nel procedimento diretto alla dichiarazione di fallimento non potesse dirsi violato il principio dell'immutabilità del giudice, sancito dall'art. 276 c.p.c., anche se il giudice delegato che aveva proceduto all'audizione del debitore fosse rimasto estraneo al collegio che aveva deliberato la dichiarazione di fallimento, e ciò sul presupposto che il predetto principio fosse applicabile solo dal momento in cui iniziava la discussione (la quale non può essere identificata con l'audizione del debitore) e non si riferisse a precedenti fasi interlocutorie, come quelle destinate, nel procedimento prefallimentare, alla raccolta di informazioni e all'ascolto dei creditori e del debitore (Cass. n. 19216/2005).

Ciò posto, il vigente art. 15 l.fall. dissipa ogni equivoco al riguardo, nella parte in cui autorizza exspressis verbis la delega da parte del collegio ad un proprio componente per procedere all'audizione delle parti, con l'unica condizione che il giudice che ne è affidatario debba, poi, far parte del collegio che deciderà sull'istanza di fallimento (sul punto, dovrebbe peraltro concludersi nel senso che la delega debba provenire dall'organo cui spetta normalmente la trattazione dell'istruttoria prefallimentare, cioè dal collegio e non dal presidente, Cfr. M. Montanaro, 235).

Non è tuttavia prescritto che il giudice relatore debba essere il medesimo che sia stato investito della delega ed abbia disposto gli eventuali provvedimenti istruttori, chiaro essendo che, in sede di decisione, il delegato potrebbe andare in contrario avviso rispetto agli altri due componenti del collegio, rifiutando perciò di stendere il provvedimento che definisce il giudizio (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 170).

In ordine alla ulteriore questione del se la delega sia possibile anche ai fini dello svolgimento di atti istruttori ulteriori rispetto all'audizione, e, segnatamente, degli accertamenti disposti officiosamente ai sensi del 4 comma, non sembra che possano residuare dubbi al riguardo, attesa l'indicazione del legislatore — contenuta nel 6 comma — circa la possibilità di affidare al giudice delegato la conduzione dell'intera fase di trattazione ed istruttoria, ivi compresa l'ammissione e l'assunzione dei mezzi istruttori officiosi e ad istanza di parte. La norma non sembra sollevare equivoci sul fatto che una volta che sia stata delegata al giudice relatore 1'audizione delle parti la delega comprenda ex se i poteri di ammissione e di assunzione delle prove richieste, nonché i poteri istruttori officiosi spettanti, per principio generale, al tribunale.

Da ultimo, va chiarito che — se, per una qualsiasi circostanza prevista dall'ordinamento giudiziario, il giudice relatore venisse ad essere diverso rispetto al giudice che ha proceduto alla trattazione (audizione compresa) — allora tale circostanza non sarebbe tale da determinare la nullità della sentenza dichiarativa di fallimento ovvero del decreto di rigetto della domanda di fallimento, stante il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il principio dell'immodificabilità del collegio giudicante trova applicazione dal momento in cui la discussione della causa abbia avuto effettivamente inizio e si sia svolta per intero (Cass. n. 9968/2006; Cass. n. 10947/1998).

La difesa tecnica

Come è noto, ai sensi dell'art. 6, primo comma, l.fall. «il fallimento è dichiarato su ricorso del debitore, di uno o più creditori o su richiesta del pubblico ministero». Ne discende che il quesito da porsi è se il ricorso per la dichiarazione di fallimento possa essere presentato o meno anche personalmente dal creditore oppure se questi debba in ogni caso avvalersi di un difensore.

Al fine di rispondere a questa domanda, l'esame del testo dell'art. 6, primo comma l.fall. sopra riportato non è di aiuto, nulla dicendo sul punto qui da ultimo in discussione la disposizione in esame.

Come detto, l'art. 6, primo comma l.fall. si limita a stabilire chi possa prendere l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento, ma non dice se tali soggetti debbano farsi assistere da un difensore. In realtà, allo scopo di rispondere alla domanda che qui interessa non risulta di aiuto nemmeno scorrere le altre disposizioni della legge fallimentare che si occupano della dichiarazione di fallimento. Ed invero, l'art. 15, primo comma, l.fall. («il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge dinanzi al tribunale in composizione collegiale con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio») non chiarisce se nel procedimento debba intervenire necessariamente un avvocato: tale norma si limita a rinviare alle regole del codice di procedura civile in materia di procedimenti in camera di consiglio, ossia agli artt. 737- 742-bis c.p.c. (secondo l'art. 737 c.p.c. «i provvedimenti, che debbono essere pronunciati in camera di consiglio, si chiedono con ricorso al giudice competente e hanno forma di decreto motivato, salvo che la legge disponga altrimenti»).

Ebbene, riferendosi al «ricorso», l'art. 737 c.p.c. (come, del resto, fa l'art. 6 l.fall.) rinvia indirettamente all'art. 125 c.p.c. su contenuto e sottoscrizione degli atti di parte.

Ebbene, questa disposizione prevede che «la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso, il precetto debbono indicare l'ufficio giudiziario, le parti, l'oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni o l'istanza, e, tanto nell'originale quanto nelle copie da notificare, debbono essere sottoscritti dalla parte, se essa sta in giudizio personalmente, oppure dal difensore». Tuttavia, anche quest'ultima norma ha un contenuto neutrale rispetto al problema in esame, giacché essa statuisce solo che il ricorso deve essere sottoscritto dalla parte oppure dal difensore, ma nulla dice quando la parte può stare in giudizio da sola e quando invece deve avvalersi di un difensore (Sangiovanni, Il ricorso per la dichiarazione di fallimento e il patrocinio del difensore, in Fall. 2008, 1202).

In realtà, la soluzione al quesito va invece ricercata in una disposizione di carattere generale qual è l'art. 82 del codice di rito. Questa norma prevede anzitutto che «davanti al giudice di pace le parti possono stare in giudizio personalmente nelle cause il cui valore non eccede euro 516,46» (art. 82, primo comma c.p.c.). Il legislatore attribuisce qui rilevanza al basso valore della controversia consentendo alla parte di difendersi da sola. La partecipazione di un difensore al processo comporta dei costi. Quando il valore della controversia è particolarmente basso, il legislatore non impone di avvalersi di un avvocato, ma consente di difendersi da soli. In altre parole viene lasciata alla parte la facoltà se utilizzare o meno un difensore: 1) in caso affermativo chi agisce si avvale della competenza tecnica dell'avvocato, ma deve reggerne i costi; 2) in caso negativo l'attore rinuncia alla competenza tecnica del difensore, ma — almeno — risparmia gli esborsi connessi all'intervento dell'avvocato: sul punto, v. sempre Sangiovanni, Il ricorso per la dichiarazione di fallimento e il patrocinio del difensore, cit., ibidem.

L'art. 82 c.p.c. continua stabilendo che «negli altri casi, le parti non possono stare in giudizio se non col ministero o con l'assistenza di un difensore». Il giudice di pace tuttavia, in considerazione della natura ed entità della causa, con decreto emesso anche su istanza verbale della parte, può autorizzarla a stare in giudizio di persona (art. 82, secondo comma, c.p.c.). L'art. 82 c.p.c. si chiude dicendo che «salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti al tribunale e alla corte d'appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente; e davanti alla corte di cassazione col ministero di un avvocato iscritto nell'apposito albo» (art. 82, terzo comma, c.p.c.).

Pertanto, per le liti davanti alle autorità giudiziarie maggiori (tribunali e corti di appello) è necessario un difensore tecnico. La disposizione prende atto della rilevanza degli interessi in gioco nelle controversie dinanzi a tribunali e corti di appello, imponendo pertanto che le parti siano assistite da un avvocato.

La regola del codice di procedura civile è dunque nel senso che davanti al tribunale (e alla corte d'appello) si deve stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente.

Come si è detto, il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge dinanzi al tribunale (cfr. art. 15, primo comma, l.fall.). La competenza è dunque del tribunale, circostanza confermata dall'art. 9, primo comma, l.fall.

Ne discende che, in linea di principio, dunque, dal combinato disposto degli artt. 82 c.p.c. e 15 l.fall. si ricava che — nella procedura di dichiarazione di fallimento — è necessario il ministero di un difensore (Sangiovanni, Il ricorso per la dichiarazione di fallimento e il patrocinio del difensore, cit., ibidem. Così anche, De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 171).

L'art. 82, terzo comma, c.p.c. prevede però che sono «salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti». Occorre dunque capire se, per la fattispecie che qui interessa (iniziativa per la dichiarazione di fallimento), la legge non preveda qualcosa di diverso. Ebbene, nell'ordinamento sono individuabili diversi casi in cui il legislatore consente espressamente che il ricorso sia presentato dalla parte personalmente, senza avvalersi di un difensore. La lettura del codice di procedura civile consente d'identificare i casi in cui le parti possono stare in giudizio personalmente: si pensi all'art. 86 c.p.c., secondo cui «la parte o la persona che la rappresenta o assiste, quando ha la qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso il giudice adito, può stare in giudizio senza il ministero di altro difensore»; ai sensi, inoltre, dell'art. 417 c.p.c., nelle controversie individuali di lavoro «in primo grado la parte può stare in giudizio personalmente quando il valore della causa non eccede euro 129,11» (anche in questo caso —come per la difesa davanti al giudice di pace — è la scarsa importanza economica della controversia a giustificare la possibilità di stare in giudizio personalmente); l'art. 736-bis, primo comma, c.p.c. infine, nel contesto degli ordini di protezione contro gli abusi familiari, prevede che «l'istanza si propone, anche dalla parte personalmente, con ricorso al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell'istante, che provvede in camera di consiglio a composizione monocratica» (in questa ipotesi è la gravità della situazione di abuso familiare — e la conseguente necessità di una decisione veloce — a giustificare l'assenza di un difensore); altre volte sono leggi speciali a consentire che la parte stia in giudizio personalmente (Cass. n. 25366/2006, in Corr. giur., 2007, 199 ss., con nota di Bugetti).

Tuttavia, le disposizioni del codice di procedura civile elencate nonché i casi extravagantes nelle leggi speciali rappresentano eccezioni rispetto alla regola generale. Ne discende che — considerato che nella legge fallimentare non si rinviene una norma eccezionale ed espressa che consenta alla parte di stare in giudizio personalmente — nel procedimento per la dichiarazione di fallimento vale il principio dell'art. 82 c.p.c., ossia la necessità della presenza di un difensore: v. anche Trib. Roma 18 giugno 2008, in Fall. 2008, 1202, cit. Il Tribunale di Roma ritiene che l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento esiga la difesa tecnica e, per giungere a questo risultato, opera — fra l'altro — un confronto con quanto disposto dall'art. 93 l.fall. Questa disposizione regola la domanda di ammissione al passivo e stabilisce che «il ricorso può essere sottoscritto anche personalmente dalla parte» (art. 93, secondo comma, l.fall.) Se il legislatore ha specificato in tale sede (domanda di ammissione al passivo) che il ricorso può essere presentato personalmente dalla parte, ma non lo ha fatto per l'iniziativa di dichiarazione del fallimento, a queste circostanze va attribuito — secondo l'autorità giudiziaria romana — un significato preciso: la legge, non stabilendo espressamente — nel contesto dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento — che il ricorso può essere presentato personalmente, afferma ex negativo la necessità di avvalersi di un difensore. Il Tribunale di Roma argomenta la propria scelta in favore della necessità della difesa tecnica con considerazioni che vanno oltre la mera constatazione dell'assenza di una deroga all'art. 82 c.p.c., ossia che la legge fallimentare non consente espressamente che il ricorso per la dichiarazione di fallimento venga presentato personalmente dalla parte. L'autorità giudiziaria romana rileva che la materia dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento è stata modificata con la riforma del diritto fallimentare. Prima del 2006 il fallimento poteva essere dichiarato anche d'ufficio, mentre ora questa possibilità è esclusa. La scelta del legislatore è indicatrice del fatto che il giudice assume un ruolo di terzietà rispetto alle parti. I soggetti legittimati a chiedere il fallimento sono da considerarsi parti. Al giudice è invece riservato un ruolo diverso, di terzo, di valutatore imparziale della sussistenza o meno dei presupposti per la declaratoria di fallimento. Il fatto che sia stata abrogata la possibilità della declaratoria d'ufficio del fallimento cambia la considerazione in cui deve essere tenuto il procedimento prefallimentare. Prima della riforma l'iniziativa del debitore e del creditore aveva una funzione per così dire «informativa», di rendere edotto il tribunale della presenza di uno stato d'insolvenza. Con la riforma la prospettiva è cambiata, nel senso che una declaratoria d'ufficio non è più possibile, e le iniziative miranti alla dichiarazione di fallimento sono iniziative di parte. Deve inoltre essere affermata la natura contenziosa del procedimento, che impone il rispetto del principio del contraddittorio. Il Tribunale di Roma evoca l'art. 111, secondo comma, Cost., secondo cui «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale». Secondo l'autorità giudiziaria romana, al fine di assicurare il contraddittorio nel procedimento di dichiarazione del fallimento è necessaria la nomina di un difensore (prima della riforma secondo Cass. n. 19429/2005, in Fall., 2006, 530 ss., con nota di Cataldo, nel procedimento per la dichiarazione di fallimento il debitore poteva stare in giudizio sia personalmente sia a mezzo di procuratore). Una piena difesa delle parti è garantita solo dalla presenza di un avvocato.

Orbene, va anche aggiunto che la stessa Corte di Cassazione ha avuto modo di occuparsi della necessità o meno della presenza di un difensore nel corso delle procedure concorsuali: secondo la Cassazione (cfr. Cass. n. 2440/2006, in Fall., 2006, 1389 ss., con osservazioni di Commisso), il ricorso per ottenere la revocazione del decreto del giudice delegato con il quale, in sede di verificazione, era stato ammesso allo stato passivo un credito, introducendo un procedimento di natura contenziosa, è sicuramente soggetto all'applicazione dell'art. 82 c.p.c., in tema di obbligo delle parti di stare in giudizio per mezzo di procuratore legalmente esercente. Ne deriva che l'atto sottoscritto soltanto dalla parte è del tutto inidoneo all'instaurazione del rapporto processuale e del relativo procedimento ed è quindi affetto da inesistenza (o nullità assoluta). Questa sentenza della Corte di Cassazione impone di distinguere fra la domanda di ammissione al passivo («il ricorso può essere sottoscritto anche personalmente dalla parte»: art. 93, secondo comma l.fall.) e i procedimenti che possono scaturire dalla domanda di ammissione al passivo. L'art. 102, primo comma, l.fall. previgente prevedeva una impugnazione, nella forma della revocazione, atta a instaurare un vero e proprio giudizio in contraddittorio, rispetto al quale la Corte di Cassazione ha affermato la necessità della partecipazione di un difensore. Peraltro, la Corte di Cassazione si è occupata di difesa tecnica nel fallimento anche in una sentenza del 1999 (Cass. n. 2809/1999). Secondo questa decisione l'art. 119 l.fall. legittima anche il fallito a reclamare contro il decreto di chiusura del fallimento; tuttavia il debitore non può proporre reclamo senza avvalersi dello ius postulandi di un difensore. Nel 1993 la Corte di Cassazione ha deciso che il ricorso per regolamento di competenza a pronunciare sull'istanza di fallimento può essere sottoscritto dal difensore già costituitosi ovvero da un difensore munito di apposito mandato, ma non dalla parte (Cass. n. 4711/1993).

Le conclusioni sopra raggiunte in ordine alla necessità della difesa tecnica nel procedimento prefallimentare risultano indiscutibili. Invero, il procedimento per la dichiarazione di fallimento è complesso e formalizzato (Cannone, 1025; Sciacca, I, 54 s), essendo sufficiente la mera lettura dell'art. 15 l.fall. per capire l'esigenza che un corretto esercizio delle prerogative difensive richiedano l'ausilio alle parte della difesa tecnica processuale. Numerosi elementi sono indicativi non solo della importanza della decisione che viene assunta (nel senso di dichiarare o meno il fallimento), ma anche della complessità tecnica del procedimento.

In merito al primo profilo tra quelli sopra accennati, occorre riflettere sulle conseguenze che derivano in capo al debitore dall'apertura dello stesso. Alcuni degli effetti del fallimento incidono addirittura su garanzie di rilievo costituzionale: si pensi alla disposizione sulla corrispondenza diretta al fallito (cfr. art. 48 l.fall.) e agli obblighi del fallito previsti dall'art. 49 l.fall. Ne discende che già solo la gravità degli effetti che conseguono alla dichiarazione di fallimento rappresenta un argomento in favore della necessità della difesa tecnica (Nappi, 761).

In ordine al secondo profilo, e cioè alla complessità del procedimento che conduce alla dichiarazione di fallimento, basta solo riflettere, da un lato, sulla circostanza che il tribunale opera in composizione collegiale (cfr. art. 15, primo comma, l.fall.). Peraltro, va aggiunto che il procedimento contempla la convocazione del debitore e dei creditori istanti (Nocera,, 778 ss.), al fine di garantire il contraddittorio dei soggetti coinvolti, oltre all'intervento del P.M. che ha assunto l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento. Si osservi tuttavia che, secondo Cass. n. 25366/2006, (sentenza pronunciata, peraltro, nel diverso contesto della nomina dell'amministratore di sostegno), non può ritenersi che la previsione della partecipazione obbligatoria del P.M. al procedimento comporti, quale necessario contrappeso, la presenza del difensore, trovando tale partecipazione fondamento nella funzione di verifica della osservanza della legge, che non richiede necessariamente la garanzia del contraddittorio attraverso la difesa tecnica: sul punto, si legga sempre Sangiovanni, Il ricorso per la dichiarazione di fallimento e il patrocinio del difensore, cit., ibidem.

Senza dire che il decreto di convocazione e il ricorso devono essere notificati ex art. 15, terzo comma, l.fall., anche se ora il testo novellato dal c.d. Decreto Sviluppo bis prevede che il procedimento notificatorio sia avviato dalla cancelleria e, solo nella ipotesi di impossibilità del perfezionamento della notifica a mezzo pec, l'obbligo di notifica degli atti introduttivi ritorna alla parte ricorrente. Peraltro, su quest'ultimo punto può ritenersi che proprio la previsione, contenuta anch'essa nel novellato art. 15, terzo comma, l.fall., della comunicazione dell'esito della notificazione effettuata a mezzo pec dalla cancelleria direttamente alla parte ricorrente tramite l'invio all'indirizzo di posta certificata di quest'ultima sottenda l'opzione normativa per la necessità della difesa tecnica, giacché l'obbligo di detenere l'indirizzo pec sussiste per i professionisti (e dunque anche per il procuratore costituito della parte) e non già per quest'ultima.

Infine, la legge prevede la possibilità della presentazione di memorie nonché del deposito di documenti e relazioni tecniche ex art. 15, quarto comma l.fall.

Più in particolare, la possibilità di depositare memorie è indizio della necessità di una difesa tecnica (De Santis, 2006, 311).

Le parti possono, poi, nominare consulenti tecnici ai sensi dell'art. 15, settimo comma l.fall.

Peraltro, il tribunale può emettere provvedimenti cautelari o conservativi ex art. 15, ottavo comma l.fall.

Ne discende che, dal punto di vista sostanziale, vi è da chiedersi come sia possibile per il ricorrente gestire da solo, senza l'ausilio di un difensore, un procedimento di questa complessità: Sangiovanni, Il ricorso per la dichiarazione di fallimento e il patrocinio del difensore, cit., ibidem. In dottrina è stata sostenuta anche una prospettiva leggermente diversa da quella prospettata nel testo, suggerendo di distinguere in base a chi presenta la domanda di dichiarazione di fallimento. Ed invero, se il ricorso è presentato dal creditore, si instaura un contraddittorio (fra il creditore e il debitore), e ciò imporrebbe la presenza di un difensore. Se invece il ricorso è presentato dal debitore, non vi sarebbe contraddittorio fra le parti e la difesa tecnica non sarebbe necessaria. In questo senso Fabiani, Sub artt. 6 e 7, cit., 113 ss.

In ordine, poi, alla valorizzazione degli argomenti desumibili dall'art. 82 c.p.c. e dunque alla distinzione fra procedimento contenzioso e procedimento non contenzioso, occorre evidenziare che l'art. 82 c.p.c. si riferisce allo stare in «giudizio» (De Santis, Sub art. 15, cit., 311).

Benché il codice di procedura civile non dia una definizione di «giudizio», tale nozione implica quantomeno due parti contrapposte e dunque una persona, il giudice, chiamata a risolvere la controversia in posizione di terzietà. Vi sono tuttavia circostanze in cui i giudici intervengono, su ricorso di una parte, nel contesto di un'attività di giurisdizione non contenziosa. Se l'attività svolta dal giudice non ha natura contenziosa, non si ha un giudizio e — di conseguenza — non può trovare applicazione l'art. 82 c.p.c.. La distinzione fra procedimento non contenzioso e procedimento contenzioso trovava anche riscontro nella disciplina del processo societario. Il d.lgs. n. 5/2003, ormai abrogato, dedicava diverse disposizioni al procedimento in camera di consiglio, distinguendo se esso si svolgeva «in confronto di una parte sola» (artt. 28-29 d.lgs. n. 5/2003) oppure se esso si svolgeva «in confronto di più parti» (artt. 30-33 d.lgs. n. 5/2003). Ai fini che qui interessano rileva – per finalità meramente sistematiche — il dettato dell'art. 25, terzo comma d.lgs. n. 5/2003, secondo cui «se il provvedimento richiesto deve essere emesso nei confronti di più parti, si applicano gli articoli 82, comma secondo, 83 e 84 del codice di procedura civile e il tribunale provvede in composizione collegiale». Con il richiamo a questi articoli del codice di procedura civile la legge stabiliva che la difesa tecnica sia necessaria solo quando vi sono più parti in conflitto, non quando vi è una parte sola che si rivolge al giudice (cfr. sul punto anche Trib. Firenze 11 luglio 2007, decr., in Soc., 2008, 615 ss., con nota di Toschi Vespasiani).

Tornando alla materia concorsuale che qui interessa, la distinzione fra procedimenti contenziosi e procedimenti non contenziosi è stata ben tracciata dalla Corte di Cassazione: Cass. n. 4128/2003, in Fall., 2004, 65 ss., con osservazioni di Tiscini.

Ebbene, secondo un orientamento espresso dal giudice di legittimità il reclamo ex art. 26 l.fall. contro i decreti del giudice delegato e del tribunale ha sicuramente natura di giurisdizione contenziosa, con la conseguenza che le parti non possono compiere personalmente alcun atto processuale, ma devono essere rappresentate da un procuratore legalmente esercente, a norma dell'art. 82 c.p.c. L'esigenza della difesa tecnica, che è disposta innanzitutto nell'interesse della parte, a tutela dell'effettività del suo diritto di azione e di difesa, deve ravvisarsi tutte le volte in cui il processo, ancorché modellato sul rito della camera di consiglio, involga tuttavia la cognizione di vere e proprie controversie, ivi comprese quelle sul quomodo dell'esecuzione, la cui risoluzione costituisce attività di giurisdizione contenziosa. In realtà, in tali casi la parte ad ogni effetto «sta in giudizio», secondo la formula adoperata dall'art. 82 c.p.c., con conseguente applicabilità di tale disposizione e di quelle successive, le quali implicano che i soggetti, nei procedimenti davanti ai tribunali e alle corti d'appello, non possono compiere personalmente alcun atto processuale, ma devono essere rappresentate da un procuratore legalmente esercente (Sangiovanni, Il ricorso per la dichiarazione di fallimento e il patrocinio del difensore, cit., ibidem).

Venendo ora ad esaminare il profilo sanzionatorio, va detto che la tipologia di sanzione che opera nel caso di assenza del difensore è identificata dal legislatore in un ambito processuale diverso. In materia di ricorso per cassazione, la legge prevede che «il ricorso è diretto alla corte e sottoscritto, a pena d'inammissibilità, da un avvocato iscritto nell'apposito albo, munito di procura speciale» (cfr. art. 365 c.p.c.).

Sul punto, va tuttavia precisato come, secondo l'orientamento del giudice di legittimità, la sanzione predisposta dall'ordinamento per gli atti presentati direttamente dalla parte sia da individuarsi nella nullità dell'atto (Cass. n. 25366/2006).

Peraltro, in alcuni casi la Corte di Cassazione ha fatto riferimento alla categoria della «inesistenza», stabilendo che l'atto sottoscritto soltanto dalla parte è del tutto inidoneo all'instaurazione del rapporto processuale e del relativo procedimento ed è dunque affetto da inesistenza ovvero nullità assoluta: Cass. n. 2440/2006. Detto vizio dell'atto introduttivo determina, inoltre, la nullità dell'intero giudizio di primo e di secondo grado e, ove rilevato in sede di legittimità, comporta la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata. Con riferimento alla materia fallimentare, la Corte di Cassazione ha rilevato d'ufficio l'inammissibilità di un reclamo ex art. 26 l.fall. (reclamo contro i decreti del giudice delegato e del tribunale) in quanto presentato direttamente dall'interessato, senza il patrocinio di un difensore (Cass. n. 4128/2003). L'inammissibilità del reclamo è rilevabile d'ufficio in ogni grado, cosicché il decreto impugnato deve essere cassato senza rinvio. La Corte di Cassazione ha inoltre stabilito che il ricorso per il regolamento della competenza a pronunciare sull'istanza di fallimento non sottoscritto da difensore (ma solo dalla parte) determina nullità dell'atto d'impugnazione, perché proveniente da soggetto non legittimato, e quindi inammissibilità del medesimo ([Cass. n. 4711/1993, cit. Fra le decisioni della giurisprudenza di merito si segnala Trib. Firenze 11 luglio 2007, cit., il quale ha affermato l'inammissibilità di un ricorso ex art. 2409 c.c. presentato dal collegio sindacale senza avvalersi di un difensore. Trib. Roma 3 settembre 1996, in Dir. fall., 1998, II, 575 s., dal canto suo, ha deciso che è inammissibile l'istanza di riabilitazione non sottoscritta da un difensore abilitato all'esercizio della professione forense e munito di procura.

In conclusione, può dunque affermarsi con sicurezza che al procedimento di dichiarazione del fallimento trova applicazione l'art. 82, terzo comma l.fall., con la conseguenza che la parte deve stare in giudizio mediante un difensore. Più in particolare, tale procedimento deve considerarsi un «giudizio» in senso tecnico, con l'effetto che non può trovare applicazione quella giurisprudenza che — escludendo il carattere contenzioso del procedimento — ritiene non necessaria la presenza di un difensore nelle fattispecie di volontaria giurisdizione. Né può ritenersi che sussista una previsione eccezionale di legge che consenta alla parte di stare in giudizio personalmente nel procedimento di dichiarazione del fallimento.

Sul punto si legga, da ultimo , il debitore può assumere l’iniziativa per la dichiarazione del proprio fallimento senza ricorrere al ministero di un difensore, se e fino a quando la sua istanza non confligga con l’intervento avanti al tribunale di altri soggetti, portatori dell’interesse ad escludere la dichiarazione di fallimento, ciò implicando lo svolgimento di un contraddittorio qualificato (Cass. I, n. 20187/2017).

La instaurazione del contraddittorio e la convocazione del debitore

Dunque, anche il procedimento — retto dal rito camerale — per la dichiarazione di fallimento è ispirato al principio del contraddittorio, che impone, tra l'altro, nell'ambito dell'istruttoria pre-fallimentare, la fissazione dell'udienza di convocazione delle parti: App. Venezia I, 4 novembre 2011 (nel caso esame dalla Corte, il tribunale aveva omesso la convocazione del debitore, ritenendo che la stessa non fosse necessaria laddove l'organo collegiale avesse poi optato per la reiezione dell'istanza per difetto del requisito di fallibilità previsto dall'ultimo alinea dell'art. 15 l.fall.: soluzione già in passato adottata da Trib. Mantova, 24 novembre 2006 e Trib. Napoli, 8 novembre 2006, entrambe in Fall., 2007, 559; critico su tale prassi: De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 89 ss.

Come è noto, a configurare come necessaria l' audizione del fallendo si è giunti nel corso degli anni, anche a seguito di interventi della Consulta (cfr. sempre Corte cost., n. 141/1970. Per una ricostruzione delle questioni trattate, si rimanda anche a Bosticco, Prefallimentare e difetto di convocazione del debitore, in Fall. 2012, 202).

Peraltro, a limitare la portata di tale arresto interpretativo, si era già sviluppato prima della riforma un orientamento — ispirato alle esigenze di celerità del procedimento volto alla dichiarazione di fallimento — che riteneva non indispensabile la convocazione del debitore, ogni volta che questi fosse stato comunque messo in condizione di difendersi (Cass. I, n. 28985/2008; Cass. I, n. 25978/2008; Cass. I, n. 1760/2008). La giurisprudenza, più in particolare, ritenendo prevalenti le esigenze di speditezza del procedimento, era giunta alla conclusione che fosse consentito soprassedere a complesse attività notificatorie in caso di irreperibilità del debitore (Cass. VI, n. 3062/2011; Cass. I, n. 32/2008; Trib. Torino, 8 maggio 2006, in Giur. it., 2006, 2089; si tratta, peraltro, di pronunzie tutte riferite a situazioni maturate ante riforma).

L'orientamento giurisprudenziale da ultimo ricordato, tuttavia, non è più riproponibile a seguito della riforma, la quale ha sì configurato l'iter per la dichiarazione di fallimento come un procedimento camerale, ma con caratteristiche più prossime forse ad un giudizio di cognizione (Cass. I, n. 22926/2009, in Fall., 2010, 557 con nota di Trisorio Liuzzi-De Santis, L'istruttoria prefallimentare, in Trattato di diritto fallimentare, a cura di Buonocore-Bassi, Padova, 2011, 288, Buonocore-Bassi; Istruttoria prefallimentare e diritto di difesa, in Fall., 2008, 323), nel quale dunque non solo l'omessa convocazione delle parti — ed in particolare del debitore, a prescindere dalla possibilità di deposito di difese scritte —, ma anche il mancato rispetto dei termini a comparire (salva la facoltà di abbreviazione entro limiti ragionevoli) costituisce un vizio di formazione del contraddittorio e dunque una causa di nullità e di improcedibilità del giudizio (Cass. I, n. 22926/2009; App. Catanzaro, 14 febbraio 2009, in Foro it., 2009, I, 1509; Trib. Roma, 3 ottobre 2008; Montanaro, 216 s.; De Matteis, 162 ss.).

Così, nella giurisprudenza successiva alla riforma del 2006, la nullità è stata ritenuta ravvisabile ogni qualvolta non sia stata effettuata la notifica del provvedimento di convocazione nel rispetto delle forme prescritte dagli artt. 136 e segg. c.p.c. e, dunque, anche nel caso in cui il debitore risulti di fatto «irreperibile», qualora non siano state rispettate le prescrizioni dettate per la notifica ai sensi degli artt. 143 e 145 c.p.c. (Cass. I, n. 22151/2010, in Foro it. Mass., 2010, 962; AA. VV., Codice commentato del fallimento, a cura di Lo Cascio, Milano, 2008, 109; v. anche Montanaro, 219; De Santis, 2006, 312. Sempre in giurisprudenza, v. App. Torino, 20 maggio 2011; App. Palermo, 19 giugno 2007). Cass. I, ord,. n. 3524/2023 ha dichiarato l'inesistenza, e non la semplice nullità,  del decreto di convocazione del debitore, notificato alla parte, privo della sottoscrizione digitale del giudice. Cass. I. ord. n. 31353/2022 ha dichiarato la  nullità del decreto per il mancato rispetto del termine di quindici giorni che deve intercorrere tra la data di notifica del decreto e la data dell'udienza. E' stata ritenuta valida la notificazione del ricorso introduttivo e del decreto di convocazione delle parti effettuata, ai sensi dell'art. 145 c.p.c., personalmente presso il liquidatore della società debitrice, ormai estinta e cancellata dal registro delle imprese, poiché le speciali modalità di notificazione previste dall'art. 15 l. fall. sono dettate da esigenze di celerità connotate alla peculiarità del procedimento (Cass. I, ord. n. 32533/2022).

Tuttavia, va rilevato che il vizio di notifica non assurge al rango di invalidità di tipo insanabile. In realtà, anche a seguito della riforma, si ritiene che l'omissione possa essere sanata con la rinnovazione della notifica o anche con la comparizione «spontanea» del debitore che abbia acquisito aliunde notizia del procedimento; sul punto, si legga Cavallini, 309; De Santis, 2009, 300. Cfr. anche App. Venezia, sez. I, 4 novembre 2011, cit.: la peculiarità della vicenda decisa dalla Corte veneziana sta nella ulteriore statuizione volta a censurare in quanto comunque viziata l'istruttoria pre-fallimentare svoltasi in difetto di convocazione del debitore, anche se conclusasi con la reiezione dell'istanza — e dunque con una pronunzia favorevole al soggetto nel cui interesse è prevista la convocazione —, sulla base di un reclamo proposto dal creditore istante. In sostanza, la sentenza in commento ipotizza che la legittimazione a far valere il vizio di omessa o irregolare instaurazione del contraddittorio non spetti al solo debitore, bensì anche alle altre parti del procedimento.

La Suprema Corte, sul punto, sembra di avviso parzialmente diverso, laddove con recenti pronunzie ha sancito che, sebbene l'art. 15 l.fall. imponga non solo di convocare il debitore, ma anche di concedere a questi un congruo termine a comparire, spetta tuttavia al solo debitore di eccepire la compressione del suo diritto di difesa, di modo che il vizio risulta sanato — e quindi non rilevabile ex officio — se il debitore si difenda nel merito (Cass. I, n. 16757/2010; Cass. I, n. 1098/2010). Nelle pronunzie richiamate, peraltro, la Suprema Corte si occupava di ipotesi in cui la convocazione non era mancata del tutto, ma era stata solo disposta con termini troppo ristretti. Nello stesso senso, seppure manchi una pronunzia diretta, si rinvengono ulteriori spunti contrari nella giurisprudenza della Suprema Corte, laddove si afferma che il debitore non avrebbe interesse e perciò non potrebbe contrastare la decisione del creditore ricorrente di rinunziare all'istanza di fallimento (Cass. I, n. 18620/2010). Il principio espresso dalla Corte di merito, dunque, prescinde da una mera valutazione delle esigenze di tutela del debitore a fronte dell'istanza di fallimento e dell'interesse di questi ad evitare la procedura concorsuale: la sentenza in commento, invero, censura di per sé la irritualità di un processo che si sia svolto senza costituzione del contraddittorio e, di contro, esprime un principio che, nel mentre tutela il diritto del debitore ad interloquire nell'istruttoria pre-fallimentare, di contro sembra ampliare l'ambito dei poteri di accertamento dei presupposti del fallimento. In sostanza, la Corte veneziana condiziona la validità del giudizio all'aver consentito al debitore di intervenire nel procedimento per negare la sussistenza dei requisiti di fallibilità — posto che la questione potrebbe essere decisa in un senso o nell'altro anche in funzione di accertamenti compiuti ex officio dal Tribunale nel corso dell'istruttoria pre-fallimentare —, precisando che in caso contrario non potrebbe il Tribunale sostituirsi al soggetto interessato nel valutare contestazioni non formalizzate.

A proposito della convocazione del fallendo la giurisprudenza ha avuto occasione di risolvere alcune questioni. Cass. I, ord. n. 7258/2022, ad esempio, ha affermato che l'art. 15, comma 3, l. fall., come novellato dall'art. 17, comma 1, lett. a), d.l n. 179 del 2012, conv. con modif. in l. n. 221 del 2012, nel prevedere tre distinte, e fra loro subordinate, modalità di notificazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento e del correlato decreto di convocazione, non richiede, nel caso in cui la notifica a mezzo PEC non vada a buon fine, che l'ufficiale giudiziario che si é recato personalmente presso la sede dell'impresa e che, per qualsiasi ragione, non ha potuto ivi eseguire la notificazione, effettui ulteriori ricerche, al fine di accertare l'irreperibilità del destinatario, sicché, una volta attestata l'impossibilità di compimento della notifica presso la sede, la notificazione deve ritenersi correttamente eseguita e perfezionata con il deposito dell'atto presso la casa comunale. Per effetto dell'entrata in vigore delle procedure informatiche il quadro generale delle notifiche al fallendo è in parte mutato. Cass. I, ord. n. 6866/2022 ha dichiarato che ogni imprenditore, individuale o collettivo, è tenuto a dotarsi di indirizzo di posta elettronica certificata che costituisce l'indirizzo "pubblico informatico" con onere di attivarlo, tenerlo operativo e rinnovarlo nel tempo sin dalla fase di iscrizione nel registro delle imprese e finanche per i dodici mesi successivi alla eventuale cancellazione da esso. La responsabilità relativa a tale adempimento, sia nella fase di iscrizione che successivamente, grava sul legale rappresentante della società, non avendo al riguardo alcun compito di verifica l'Ufficio camerale cosicché, a norma dell'art. 15 comma 3 l.fall., nel testo successivo alle modifiche apportate dall'art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012, che costituisce norma speciale propria del procedimento prefallimentare, quando la notificazione non può essere compiuta presso l'indirizzo di posta elettronica certificata dell'imprenditore, può procedersi presso la sede risultante dal registro delle imprese. Al riguardo Cass. I, ord. n. 7083/2022 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 15, comma 3, l.fall. (come sostituito dal d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012), nella parte in cui prevede la notificazione del ricorso alla persona giuridica tramite posta elettronica certificata (PEC) e non nelle forme ordinarie di cui all'art. 145 c.p.c. Invero, come già affermato da Corte costituzionale 16 giugno 2016, n. 146, la diversità delle fattispecie a confronto giustifica, in termini di ragionevolezza, la differente disciplina, essendo l'art. 145 c.p.c. esclusivamente finalizzato ad assicurare alla persona giuridica l'effettivo esercizio del diritto di difesa in relazione agli atti ad essa indirizzati, mentre la contestata disposizione si propone di coniugare la stessa finalità di tutela del medesimo diritto dell'imprenditore collettivo con le esigenze di celerità e speditezza proprie del procedimento concorsuale, caratterizzato da speciali e complessi interessi, anche di natura pubblica, idonei a rendere ragionevole ed adeguato un diverso meccanismo di garanzia di quel diritto, che tenga conto della violazione, da parte dell'imprenditore collettivo, degli obblighi, previsti per legge, di munirsi di un indirizzo di PEC e di tenerlo attivo durante la vita dell'impresa.

Resta comunque certo che, se al debitore è stato regolarmente notificato il ricorso nel rispetto delle forme previste dalla legge, non devono necessariamente essere notificati i successivi ricorsi che si inseriscano nel procedimento, avendo egli l'onere di seguire l'ulteriore sviluppo della procedura e di assumere ogni opportuna iniziativa a tutela dei propri diritti (Cass. VI, n. 3189/2021).

In conclusione, può affermarsi che i commi secondo e terzo dell'art. 15 sono stati dettati dal legislatore proprio per garantire la corretta instaurazione del contraddittorio, secondo il modello dei procedimenti assimilabili a quelli contenziosi, sebbene il processo in esame debba sempre essere ricondotto nell'alveo concettuale dei giudizi sommari. A seguito del deposito dell'istanza di fallimento, il tribunale — con decreto apposto in calce al ricorso e sottoscritto dal presidente o dal giudice relatore, se delegato alla trattazione della controversia fin dall'inizio — convoca dinanzi a sé il debitore ed i creditori istanti per il fallimento. Così, la convocazione del debitore è indefettibile e la sua mancanza determina la nullità della dichiarazione di fallimento

Peraltro, va aggiunto che l'«indefettibilità» della convocazione del debitore supera altresì ogni questione in ordine alle possibili conseguenze dei tempi del procedimento notificatorio anche rispetto alla previsione dell'art. 10 l.fall., a mente del quale gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo (Montanaro, 221. Secondo l'Autore «in un sistema in cui l'avvio del procedimento è rimesso esclusivamente all'impulso delle parti legittimate, ed è dunque nella loro disponibilità, si deve ritenere che ricadano sul ceto creditorio, che abbia presentato a ridosso del termine annuale il ricorso per la dichiarazione di fallimento, il rischio dell'inammissibilità della dichiarazione per il decorso del termine annuale»).

Ebbene, in questo quadro normativo ed interpretativo si inscrive anche l'annosa e complessa questione riguardante la necessità che, nel giudizio di istruttoria prefallimentare a carico dell'imprenditore defunto — instaurato ai sensi dell'art. 11 l.fall. sia convocato e partecipi il suo erede (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 173).

Sul punto, giova ricordare che, sotto il vigore della disciplina previgente, si era consolidato un orientamento della giurisprudenza secondo il quale, nel caso di dichiarazione di fallimento dell'imprenditore entro l'anno dalla morte, non fosse obbligatoria l'audizione dell'erede nella fase istruttoria anteriore alla dichiarazione di fallimento, attesa la non incidenza degli accertamenti rimessi al tribunale in modo immediato e diretto sulla posizione dell'erede, ovvero la possibilità di un pregiudizio eliminabile soltanto attraverso la partecipazione del medesimo all'istruttoria prefallimentare. Ne discendeva che l'audizione dell'erede era considerata obbligatoria qualora anch'egli fosse imprenditore commerciale, o comunque lo diventasse in seguito alla prosecuzione dell'impresa ereditaria (Cass. n. 2674/2000; Cass. n. 5859/1993).

Tuttavia, sulla tenuta di tale orientamento, anche alla luce delle riforme, sono state espresse condivisibili perplessità, legate alla circostanza che gli eredi — oltre a nutrire l'astratto interesse morale alla tutela della memoria del loro dante causa — subentrano proprio in quel patrimonio che, attraverso l'istruttoria prefallimentare, si vorrebbe assoggettare al concorso, e del quale essi sono legittimati a disporre fino a quando, a seguito della dichiarazione di fallimento, non scattano gli effetti previsti dall'art. 42 l.fall., privandoli così dell'amministrazione e della disponibilità di quei beni (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 173. Cfr. anche Lamanna, Sub. art. 11, cit., 283, il quale evidenzia come gli eredi potrebbero, a determinati fini, essere anche coinvolti nel fallimento, e ciò anche per quanto attiene al diritto di ricevere il sussidio alimentare in luogo del fallito ex art. 47 l.fall.).

Da ultimo, va segnalata anche la problematica del provvedimento di rigetto cd. de plano della domanda di fallimento e della sua (qui perorata) illegittimità. Sul punto, occorre precisare che, quantunque ispirato da un'esigenza garantista, non è condivisibile la tesi secondo cui, nella fase introduttiva del giudizio, il provvedimento di rigetto del ricorso di fallimento possa legittimamente essere pronunciato per palese vizio di rito (come nell'esempio, la conclamata carenza di giurisdizione) ovvero per manifesta infondatezza (come nell'ulteriore esempio della mancata deduzione degli elementi di fatto e di diritto che integrano i requisiti per la dichiarazione di fallimento) — con decreto inaudita altera parte, senza disporre, cioè, la comparizione del debitore e l'avvio dell'istruttoria prefallimentare (è il caso sopra già definito di provvedimento di rigetto de plano), e ciò nonostante non venga a determinarsi, in un'ipotesi del genere, una concreta ed effettiva lesione dei diritti difensivi del debitore il quale non viene dichiarato fallito e non avrebbe perciò interesse ad opporre un simile provvedimento: così Trib. Napoli, 6 novembre 2006, in Fall., 2007, 560, con nota di Montanari, La nuova disciplina del giudizio di apertura del fallimento: questioni aperte in tema di istruzione e giudizio di fatto; così anche App. Roma, 19 aprile 1989, in Dir. fall., 1989, II, 1115. In effetti, antecedentemente alle riforme, il decreto di rigetto de plano rappresentava una prassi abbastanza diffusa di definizione senza contraddittorio della domanda di fallimento. In senso contrario V., però, App. Venezia 10 dicembre 1991, in Fall., 1992, 824 (secondo cui la mancata convocazione del debitore comportava in ogni caso la nullità del provvedimento finale del tribunale). In dottrina, si è sostenuto che al debitore deve essere in ogni caso riconosciuto il diritto di essere ascoltato, a prescindere dall'esito del processo di fallimento, e ciò per un migliore accertamento della verità (cfr. Lanfranchi, 12 ss.). Peraltro, la prassi in questione è sostanzialmente avallata dal precedente di Cass. n. 3912/1993, in motivazione, secondo cui nulla di più della reiezione della domanda di fallimento l'imprenditore, anche se convocato e sentito, potrebbe ottenere.

In realtà, va ribadito che non vi è nessuna disposizione che consenta al tribunale di adottare una statuizione d'inammissibilità della domanda di fallimento senza contraddittorio, neppure per esigenze di economia processuale, laddove il sistema oggi gli consente di prendere, all'esito dell'istruttoria prefallimentare, gli opportuni provvedimenti sulle spese processuali, anche in considerazione di iniziative fallimentari temerarie, strumentali o apertamente inammissibili (così, in modo del tutto condivisibile De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 179. In questo senso v. anche Montanaro, 218, il quale riferisce della circolare del presidente di sezione del Trib. Milano in data 21 dicembre 2006. che indica, quali esempi di possibile rigetto cd. de plano del ricorso di fallimento, la palese incompetenza per territorio, la mancata prova del credito, la cancellazione utrannuale del debitore dal registro delle imprese e il difetto d'insolvenza).

Ne discende che, pertanto, il tribunale adito per la dichiarazione di fallimento è tenuto a disporre la convocazione del debitore per procedere all'istruttoria prefallimentare ai sensi dell'art. 15 1. fall. anche nell'ipotesi in cui gli elementi fomiti dal creditore procedente non appaiano sufficienti ai fini dell'accoglimento dell'istanza, con la conseguenza che il decreto di rigetto non può essere emesso in mancanza della corretta instaurazione del contraddittorio.

Le altre parti del processo e la partecipazione del pubblico ministero

Ebbene, ai sensi del secondo comma dell'art. 15 l.fall., sono parti necessarie dell'istruttoria prefallimentare, oltre il debitore, i creditori istanti. Inoltre, ai sensi dell'art. 147, terzo comma, l.fall., nell'ipotesi di fallimento di società con soci a responsabilità illimitata, «il tribunale, prima di dichiarare il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, deve disporne la convocazione a norma dell'articolo 15».

Sul punto, occorre chiarire che — in considerazione del fatto che, ai sensi del 1 comma dell'art. 147, la sentenza che dichiara il fallimento della società produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili — questi ultimi (se noti nel momento in cui si incardina o si svolge l'istruttoria prefallimentare) devono essere considerati litisconsorti necessari del giudizio, e che, pertanto, il tribunale occorre disporne la convocazione col decreto di fissazione dell'udienza (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 175).

Per quanto concerne, poi, la posizione del pubblico ministero, quest'ultimo non è parte necessaria dell'istruttoria prefallimentare, ma interviene nel procedimento (rectius, deve intervenire) soltanto nei casi· in cui doveva assumere l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 7 1. fall.. È da ritenersi che, in questo caso, il pubblico ministero debba essere destinatario, a cura dell'ufficio di cancelleria del tribunale, di una comunicazione ad hoc, che faccia riferimento al decreto di convocazione del debitore. Peraltro, nulla impedisce al pubblico ministero di intervenire nel procedimento per dichiarazione di fallimento avviato ad istanza di altri soggetti legittimati, allorché vi ravvisi un pubblico interesse, e ciò ai sensi dell'art. 70, terzo comma, c.p.c., trattandosi, in questi casi, di un intervento non obbligatorio (Zanichelli, 36)

In realtà, in conformità all'indirizzo generale del diritto vivente (Cass., n. 25722/2008, secondo la quale, al fine dell'osservanza delle norme che prevedono l'intervento obbligatorio del p.m. nel procedimento per querela di falso, a tutela di interessi generali per la pubblica fede, ai sensi dell'art. 221, comma terzo, c.p.c., non è necessaria la presenza di un rappresentante di tale ufficio nelle udienze, né la formulazione di conclusioni, essendo sufficiente che il p.m., mediante l'invio degli atti, sia informato), l'intervento in causa del p.m. può anche prescindere dalla presenza fisica in udienza del magistrato, essendo all'uopo necessaria e sufficiente la costituzione in giudizio della Procura della Repubblica, a mezzo del deposito ovvero della trasmissione di un idoneo atto difensivo (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem).

L'intervento volontario in causa

L'intervento dei terzi nell'istruttoria prefallimentare è da ritenersi ammissibile sia nelle forme dell'intervento autonomo ex art. 105, comma primo, c.p.c. (ed è il caso del creditore che potrebbe presentare anche un'autonoma istanza di fallimento), sia da parte di terzi genericamente «interessati» all'esito del giudizio ex art. 105, comma secondo, c.p.c., come può avvenire, per formulare un facile esempio, nel caso di un garante del debitore fallendo (nel senso dell'ammissibilità di siffatti interventi anche prima delle riforme v. Ricci E.F., Lezioni sul fallimento, I, cit., 171 s. Dopo le riforme v., in senso favorevole all'intervento autonomo ex art. 105, comma primo, c.p.c., tra i molti, De Matteis, 94; v. anche nello stesso senso De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 177).

In realtà, va detto che nel senso dell'ammissibilità dell'intervento depongono, innanzi tutto, la natura peculiare di processo di primo grado assunta dall'istruttoria prefallimentare e la possibilità, prevista dall'art. 18 l.fall., che a proporre reclamo possano essere tutti gli «interessati». È da ritenersi che, nella maggior parte dei casi, l'intervento autonomo abbia verosimilmente ad oggetto la domanda di fallimento, proposta sul presupposto di ragioni creditorie diverse da quelle già fatte valere con il ricorso che ha determinato la litispendenza dell'istruttoria prefallimentare.

Diversamente, allorché l'istruttoria prefallimentare riguardi una società di capitali, deve escludersi l'intervento dei soci, i quali sono soggetti distinti dall'ente e non ne hanno la rappresentanza (nel senso dell'ammissibilità di siffatti interventi anche prima delle riforme v. Ricci E.F., Lezioni sul fallimento, I, cit., 171 s. Dopo le riforme v., in senso favorevole all'intervento autonomo ex art. 105, comma primo, c.p.c., tra i molti, De Matteis, 94; v. anche nello stesso senso De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 177).

Va aggiunto, per completezza di indagine, che autorevole dottrina processualcivilistica (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 178) ha evidenziato, con argomentazioni non prive di suggestione, che l'intervento autonomo deve essere temporalmente limitato – per esigenze di economia processuale e di rapidità sottese allo svolgimento del processo di fallimento — al momento preclusivo fissato per le difese del debitore, e cioè sette giorni prima dell'udienza, legittimando tale conclusione sulla base di quanto previsto dall'art. 419 c.p.c. per il processo del lavoro (di cui si perora pertanto una applicazione analogica estesa anche al processo prefallimentare), norma quest'ultima secondo la quale l'intervento non può avere luogo oltre il termine stabilito per la costituzione del convenuto, con attribuzione al giudice del potere-dovere di fissare, col rispetto dei termini a difesa, una nuova udienza, disponendo che siano notificati alle parti originarie il provvedimento di fissazione e la memoria dell'interventore, e che sia notificato a quest'ultimo il provvedimento di fissazione della nuova udienza.

Così, si dovrebbe ritenere, secondo la teorica sopra ricordata, che, fermo restante il potere del tribunale di disporre misure cautelari, l'intervento autonomo e tempestivo del terzo creditore avrebbe l'effetto provocare il differimento dell'udienza fallimentare (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem).

Tale conclusione non è tuttavia condivisibile, atteso che, per un verso, risulta dubbia e non facilmente percorribile la tesi dell'applicazione analogica di un termine preclusivo previsto per altro rito al procedimento prefallimentare con tutte le conseguenze in ordine al regime di inammissibilità dell'atto di intervento (e ciò in assenza di una espressa previsione normativa che sanzioni tale violazione) e che, per altro verso, l'applicazione del disposto dell'art. 419 c.p.c. con la conseguente necessità del differimento di udienza mal si attaglia alle esigenze di celerità (ed anche di sommarietà) che governano la procedura per al dichiarazione di fallimento.

Comunque si opini nella materia in esame, è indubbio che tuttavia l'intervento del terzo non potrà incidere sui tempi del giudizio, e sarà a lui inibito l'esercizio delle attività che, nel momento in cui interviene, sono precluse alle altre parti, in quanto l'interventore, dovendo accettare il processo nello stato in cui si trova, non può dedurre, ove sia già intervenuta la relativa preclusione, nuove prove e, di conseguenza, sicché non vi è né il rischio di riapertura dell'istruzione, né quello che la causa possa essere decisa sulla base di fonti di prova, che le parti originarie non abbiano potuto debitamente contrastare (Cass. n. 25264/2008).

Da ultimo, va invece evidenziato che più complessa risulta essere la possibilità degli interventi su chiamata di parte o per ordine del giudice, ex artt. 106 e 107 c.p.c., stante il peculiare oggetto del processo di fallimento, ossia 1'accertamento dell'insolvenza del debitore, a cui potrebbe conseguire la dichiarazione di fallimento (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem).

La notifica della domanda di fallimento e del decreto di fissazione dell'udienza prefallimentare

L'art. 15 l.fall. nella formulazione originaria che prevedeva come facoltativa la comparizione dell'imprenditore prima della dichiarazione di fallimento è stato dichiarato da lungo tempo costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevedeva l'obbligo del Tribunale di disporre la comparizione dell'imprenditore in camera di consiglio per l'esercizio del diritto di difesa dello stesso, pur nei limiti di compatibilità con la natura del procedimento fallimentare (Corte cost. n. 141/1970).

In ordine alle modalità di convocazione dell'imprenditore all'udienza volta alla discussione del ricorso per la declaratoria di fallimento, nella prassi si ritenevano legittime forme più agili di convocazione del debitore, ad esempio attraverso una notifica eseguita a mezzo polizia giudiziaria (in tal senso si v., ad esempio, Trib. Milano 8 novembre 1984).

La Suprema Corte, con specifico riguardo alla notifica del ricorso al debitore irreperibile, aveva inoltre chiarito che, qualora la notifica dell'avviso di convocazione del soggetto interessato fosse omessa per essere irreperibili persone legittimate a ricevere l'atto nella sede sociale indicata nei pubblici registri e non fosse neppure possibile notificare l'atto al rappresentante legale della società ai sensi dell'art. 145, comma terzo, c.p.c., per non essere indicati nell'atto il nome e il domicilio dello stesso, si dovevano ritenere rispettate le condizioni per l'instaurazione del contraddittorio previsto dall'art. 15 l.fall., senza che fosse necessario procedere alla ulteriore notifica secondo le modalità stabilite dall'art. 140 c.p.c., in quanto, indipendentemente dall'applicabilità alle persone giuridiche del rito ivi previsto, il ricorso a questo procedimento sarebbe stato incompatibile con le esigenze che presiedono alla disciplina della dichiarazione di fallimento (Cass. n. 272/1997, in Fall., 1997, 1106, con nota di Badini Confalonieri).

In tal senso, la Corte aveva ritenuto doversi interpretare il riferimento della stessa Corte Costituzionale alla necessità di contemperare l'esercizio del diritto di difesa dell'imprenditore con la natura del procedimento fallimentare nel senso che principio del contraddittorio e diritto di difesa dovevano essere declinati avendo riguardo ad un procedimento sommario che, per i suoi connotati fisiologici, non tollera formalità non essenziali a tali principi (Cass. S.U., n. 3372/1978).

In altre e più chiare parole, era consolidato il principio secondo cui si poteva prescindere da un'effettiva convocazione del debitore qualora lo stesso fallendo si fosse posto in condizione di oggettiva irreperibilità non superabile se non tramite complesse indagini, ad esempio per l'omesso aggiornamento delle risultanze anagrafiche o, per le società, a fronte del mancato aggiornamento delle annotazioni dei mutamenti di sede nel registro delle imprese (Badini Confalonieri, Osservazioni a Cass. n. 2727/1997, cit., 1107).

Peraltro, a fronte della predetta impostazione, con il d.lgs. n. 5/2006 il legislatore ha ritenuto opportuno, in vista di una tutela effettiva del diritto di difesa del debitore fallendo, intervenire nella materia prevedendo, con il novellato terzo co. dell'art. 15 l.fall. un onere di notificazione del ricorso per la declaratoria di fallimento e del pedissequo decreto di convocazione a cura della parte istante, nel rispetto del termine di quindici giorni liberi antecedenti l'udienza di discussione del ricorso stesso.

Secondo l'interpretazione dominante di tale previsione normativa dovevano dunque ritenersi applicabili, senza eccezioni diverse da quella generale prevista dall'art. 151 c.p.c., le disposizioni sul procedimento di notificazione dettate dagli artt. 138 ss. c.p.c., atteso il riferimento esplicito alla notifica a cura della parte.

I problemi principali si correlavano, evidentemente, al lungo iter della notificazione «ordinaria», sia se eseguita a mezzo posta sia se effettuata nei confronti del debitore irreperibile ex art. 140 c.p.c. o sconosciuto ai sensi dell'art. 143 c.p.c., procedimento che, invero, specie in considerazione del frequente fenomeno dell'irreperibilità del debitore, finiva per il pregiudicare significativamente i creditori, soprattutto per il rischio del consolidamento nelle more della declaratoria di fallimento degli atti revocabili, tenuto anche conto del dimezzamento dei termini di revocabilità dopo la riforma del 2006 (Fontana).

Con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, pertanto, è stata introdotta, al quinto comma dell'art. 15 l.fall. la possibilità per il presidente del tribunale di abbreviare, ove ricorrano particolari ragioni di urgenza, i termini di comparizione all'udienza pre-fallimentare e disporre, in tali casi, che il ricorso ed il decreto di fissazione dell'udienza siano portati a conoscenza delle parti con ogni mezzo idoneo, omessa ogni formalità non indispensabile alla conoscibilità degli stessi. In realtà tale precisazione normativa non sembra che abbia innovato significativamente il sistema rispetto a quello configurato nel 2006, avendo valenza generale, anche per i procedimenti camerali previsti dalla legge fallimentare, l'art. 151 c.p.c. secondo cui il giudice può autorizzare forme di notificazione dell'atto introduttivo del giudizio extra ordinem. Tale impostazione appare peraltro conforme a quella affermata dalla Corte di Cassazione secondo cui nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, l'avvenuta procedimentalizzazione del giudizio e delle attività di trattazione ed istruttoria, a seguito della riforma di cui al d.lg. n. 5 del 2006 e del d.lg.n. 169 del 2007, implica che la notificazione al debitore del ricorso e del decreto di convocazione all'udienza sia la regola anche quando il debitore si sia sottratto volontariamente o per colpevole negligenza al procedimento, rendendosi irreperibile, permettendo tuttavia il quinto comma dell'articolo 15 l.fall., con una previsione analoga a quella di cui all'art. 151 c.p.c., che il presidente del tribunale, in sede di abbreviazione dei termini per la notifica e per le memorie, possa disporre che il ricorso ed il decreto predetti, se ricorrono particolari ragioni di urgenza, siano portati a conoscenza delle parti con ogni mezzo idoneo, omessa ogni formalità non indispensabile alla conoscibilità degli stessi: Cass. n. 22151/2010, per la quale, di conseguenza, è valida la comunicazione al debitore del decreto di convocazione avvenuta, come ordinato con specifico provvedimento del presidente del tribunale, per il tramite di un ufficiale di polizia giudiziaria, e non nelle forme della notifica di cui agli art. 137 ss. c.p.c.; Cass. n. 13657/2013, la quale, intervenendo anche sotto tale profilo, ha osservato, inoltre, che, quanto all'abbreviazione dei termini, di cui all'art. 15, comma quinto, l.fall. il mancato rispetto del termine di quindici giorni, che deve intercorrere tra la data di notifica del decreto di convocazione del debitore e la data dell'udienza, e la sua mancata abbreviazione nelle forme rituali del decreto motivato sottoscritto dal Presidente del Tribunale, previste dall'art. 15, comma quinto, l.fall., costituiscono cause di nullità astrattamente integranti la violazione del diritto di difesa, ma non determinano — ai sensi dell'art. 156 c.p.c., per il generale principio di raggiungimento dello scopo dell'atto — la nullità del decreto di convocazione, ove il debitore abbia attivamente partecipato all'udienza, rendendo dichiarazioni in merito alle istanze di fallimento, senza formulare, in tale sede, rilievi o riserve in ordine alla ristrettezza del termine concessogli, né fornendo specifiche indicazioni del pregiudizio eventualmente determinatosi, sul piano probatorio, in ragione del minor tempo disponibile.

Anche di recente la Suprema Corte ha ribadito, sul punto, che ai sensi dell'art. 15, comma terzo, l.fall., nel testo modificato dal d.lg. 9 gennaio 2006, n. 5, e dal successivo decreto correttivo 12 settembre 2007 n. 169, la notificazione al debitore del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza deve necessariamente avvenire nelle forme di cui agli artt. 138 ss. c.p.c. — salvo che non ricorra l'ipotesi dell'abbreviazione dei termini per ragioni di urgenza, prevista dall'art. 15, comma quinto, della l.fall. — sicché il ricorso alle formalità di notificazione di cui all'art. 143 c.p.c., per il caso delle persone sconosciute presso l'indirizzo di residenza, presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l'ufficiale giudiziario dia espresso conto, con la conseguenza che, in mancanza di tali adempimenti, deve essere dichiarata la nullità della notificazione e, per violazione del contraddittorio, la nullità della sentenza dichiarativa di fallimento (Cass. n. 17205/2013, che — con riguardo ad una fattispecie nella quale nella relata di notifica l'ufficiale giudiziario si era limitato a riferire che il debitore non viveva più in loco da tempo — ha ritenuto sussistente, di conseguenza, un obbligo per il giudice di appello di rimettere gli atti al primo giudice ai sensi dell'art. 354 c.p.c., applicabile anche ai reclami camerali, quale deve considerarsi l'impugnazione avverso la dichiarazione di fallimento).

Ebbene, va ora ricordato che, ora, l'art. 17 del d.l. n. 179/2012 (meglio conosciuto come Decreto Sviluppo Bis, e convertito in legge n. 221/2012) ha modificato il terzo comma dell'art. 15 l.fall., valendo tale modifica per i ricorsi di fallimento depositati dopo il 31 dicembre 2013 (Armeli; Di Nosse; Fontana).

Ebbene, nel precedente regime normativo il ricorso di fallimento ed il pedissequo decreto di convocazione delle. parti erano notificati, come detto, a cura della parte più diligente, di norma il creditore (o i creditori istanti) o il pubblico ministero.

Così, dal punto di vista operativo anche le precedenti previsioni normative erano idonee a superare la questione, sorta sotto la disciplina dettata dal legislatore del ‘42, in ordine alla convocazione del debitore ed agli effetti della sua irreperibilità.

Sulla scia della più volte citata sentenza della Corte costituzionale n. 140 del 1970, la giurisprudenza era pervenuta alla conclusione che l'obbligo del tribunale di disporre, prima di dichiarare il fallimento, la comparizione del debitore in camera di consiglio, per consentirgli l'esercizio del diritto di difesa, fosse derogabile, in relazione alle peculiari esigenze della procedura concorsuale in presenza di una situazione d'irreperibilità, solo se quest'ultima derivasse dal comportamento del debitore medesimo, e non fosse superabile tramite complesse indagini (Cass. n. 2341/1986). Sul punto, la Consulta aveva opportunamente ritenuto non meritevoli di tutela «la fuga, la latitanza o comunque la condotta dilatoria, negligente, o, talvolta, fraudolenta del debitore». Restava non sufficientemente chiarito, tuttavia, se alla convocazione del debitore dovesse procedere l'ufficio ovvero il creditore istante, e quali fossero i limiti certi delle indagini, cui occorreva procedere intorno al luogo dove il debitore si trovasse.

Ancora recentemente la giurisprudenza di legittimità aveva precisato che il rispetto dell'obbligo del tribunale di disporre la previa comparizione del debitore in camera di consiglio, effettuando, a tal fine, ogni ricerca per provvedere alla notificazione dell'avviso di convocazione, andava assicurato compatibilmente con le esigenze di speditezza ed operatività cui deve essere improntato il procedimento concorsuale, con la conseguenza che il tribunale era esonerato dall'adempimento di ulteriori formalità, ancorché normalmente previste dal codice di rito, allorquando la situazione di oggettiva irreperibilità dell'imprenditore doveva imputarsi a sua stessa negligenza ed a condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico (Cass. n. 32/2008).

Ebbene, il testo dell'art. 15 l.fall., prima della ultima novella da ultimo menzionata, affidava alla certezza giuridica derivante dalla notificazione degli atti civili — nelle diverse modalità in cui essa può essere attuata — il compito di risolvere ogni problema relativo all'individuazione del soggetto onerato di notiziare il debitore del procedimento avviato nei suoi confronti ed alle ricerche da compiere, al fine di consentire al debitore di avere la legale conoscenza del fallimento e del decreto di fissazione dell'udienza (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 181).

Come sopra accennato, con l'entrata in vigore dal 1 gennaio 2014 del nuovo art. 15, terzo comma, l.fall., varato con il cosiddetto Decreto sviluppo bis, è cambiata radicalmente, con riferimento ai ricorsi per dichiarazione di fallimento presentati a partire da quella data, la disciplina relativa alla fissazione dell'udienza prefallimentare e alla notificazione del ricorso (e del conseguente decreto) all'impresa debitrice.

Venendo ora ad esaminare nel dettaglio le ultime novità normative, va ricordato, in primo luogo, che l'udienza deve essere fissata dal presidente del tribunale o, come di regola accade, dal giudice delegato all'istruttoria, non oltre 45 giorni dopo il deposito del ricorso.

È poi previsto che alla notifica del ricorso e del decreto debba procedere la cancelleria mediante l'invio di copia, ovviamente in formato digitale, all'indirizzo di posta elettronica certificata ( Pec ) del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti. Peraltro, è previsto che l'esito di questo primo tentativo di notifica deve essere comunicato con modalità automatica all'indirizzo Pec della ricorrente.

Nel caso in cui, poi, la notifica a mezzo Pec non risulti possibile, per qualunque ragione, è il ricorrente che deve provvedere al nuovo tentativo di notificazione, che non può attuarsi, tuttavia, secondo le norme generali del codice di procedura civile ed in particolare, se il debitore è una società, nelle forme previste dall'articolo 145 del codice di rito, ma solo secondo la disciplina speciale oggi introdotta con il nuovo comma 3 dell'articolo 15 legge fallimentare. La notifica in tal caso deve essere effettuata «esclusivamente di persona» a norma dell'articolo 107, comma primo, del d.P.R. n. 1959/1229, ossia a mani proprie mediante accesso diretto dell'ufficiale giudiziario alla sede dell'impresa risultante dal registro delle imprese, con espressa esclusione dunque di qualsiasi possibilità di notificazione a mezzo posta. Inoltre, quando la notificazione presso la sede risultante dal registro delle imprese non è possibile, ossia quando l'impresa non è reperibile all'indirizzo della sede, l'ufficiale giudiziario esegue deposito dell'atto alla casa comunale dello stesso comune ove ha indirizzo la sede dell'impresa e la notifica «si perfeziona nel momento del deposito stesso».

Ebbene, lo scopo perseguito dal legislatore con questa nuova disciplina è chiaramente quella di accelerare i tempi del procedimento per la dichiarazione di fallimento e di alleggerire, nel contempo, gli adempimenti a carico del creditore ovvero del pubblico ministero ricorrente (Fontana; Di Nosse).

Sul punto, giova ricordare, per una migliore comprensione della genesi dell'ultimo intervento legislativo, che finora la frequenza del fenomeno della irreperibilità dell'impresa debitrice all'indirizzo della sede, seguita in molti casi dalla irreperibilità dello stesso legale rappresentante della società, ha determinato, per la necessità di disporre più rinvii d'udienza, una abnorme dilatazione dei tempi occorrenti per la pronuncia della sentenza di fallimento, con grave pregiudizio per i creditori determinato in primo luogo dal consolidamento di atti revocabili, e ciò anche in considerazione del dimezzamento dei termini di irrevocabilità intervenuto con la riforma del 2006, con conseguente quasi integrale svuotamento dell'ambito di tutela legato all'esperimento della revocatoria fallimentare.

Pertanto, l'introduzione di un termine massimo per la fissazione dell'udienza e l'estrema semplificazione delle modalità della notificazione, incentrata come tale sulla notifica all'indirizzo Pec dell'impresa debitrice a cura della cancelleria, devono essere considerati come due interventi normativi sinergici ed efficaci, giacché solo il varo di una disciplina speciale per la notificazione nell'ambito del procedimento per la dichiarazione di fallimento rende ragionevolmente possibile l'instaurazione del contraddittorio nei termini previsti dall'articolo 15 l.fall.

Occorre precisare che il termine dei quarantacinque giorni, di cui sopra si è detto, deve essere considerato naturalmente un termine ordinatorio, non potendosi peraltro neppure ipotizzare, in linea generale, un termine previsto a pena di nullità ovvero inammissibilità con riferimento al potere-dovere del giudice di provvedere in ordine alla domanda della parte sia tramite il provvedimento finale sia, a monte, tramite provvedimenti endoprocedimentali (Fontana

Tuttavia, va evidenziato che il mancato rispetto del termine prescritto si porrebbe in stridente contrasto con la volontà legislativa di delineare un procedimento giurisdizionale volto alla celere definizione delle istanze dirette ad ottenere la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore insolvente.

Quanto al procedimento notificatorio, giova ricordare che il procedimento per la notificazione all'indirizzo di posta elettronica certificata del debitore vale per tutte le imprese iscritte nel registro delle imprese e dunque sia per le società, di capitali e di persone, sia per gli imprenditori individuali. Sul punto occorre ricordare che l'obbligo già esistente per le società di dotarsi di un indirizzo Pec e di pubblicarlo nel registro delle imprese è stato esteso anche alle imprese individuali con il d.l. n. 179/2012.

Ebbene, la notifica, così regolata, dovrà essere effettuata tramite l'indirizzo di posta elettronica attribuito all'ufficio giudiziario ai sensi dell'art. 4, comma secondo, d.m. n. 44/2011, che ha stabilito le regole tecniche delle comunicazioni telematiche del processo civile e nel processo penale in attuazione del codice dell'amministrazione digitale di cui al d.lgs. n. 82/2005 (Fontana).

A tal fine, le cancellerie fallimentari sono state dotate di un apposito programma informatico che, nell'ambito del sistema che gestisce i relativi registri, provvede automaticamente all'estrazione degli indirizzi Pec dalla registro delle imprese e in futuro dall'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti, alla notificazione del ricorso e del decreto all'indirizzo Pec del destinatario utilizzando l'indirizzo Pec previsto nel sopra indicato d.m., e alla comunicazione dell'esito del tentativo di notifica, sempre in via automatica, all'indirizzo Pec del ricorrente. Sul punto, deve essere chiarito che, prima della entrata in vigore del c.d. processo civile telematico, la cancelleria, per i ricorsi presentati in formato cartaceo, dovrà altresì provvedere alla scansione digitale del ricorso e del decreto di fissazione di udienza. Ed invero, dal 1 luglio 2014 i ricorsi per la dichiarazione di fallimento dovranno invece essere presentati, a pena di inammissibilità, in formato digitale e tramite le modalità previste dal detto processo telematico.

Va altresì precisato che, secondo la nuova formulazione dell'art. 15, terzo comma, l.fall., se la notificazione all'indirizzo Pec non risulta possibile ovvero non ha esito positivo, si deve passare alla notificazione a mezzo ufficiale giudiziario a cura del ricorrente. Sul punto, è utile chiarire che la previsione qui da ultimo ricordata si riferisce senz'altro alle ipotesi del mancato rinvenimento dell'indirizzo Pec nel registro delle imprese o nell'istituendo indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e dell'esito negativo del tentativo di notificazione per non funzionalità dell'indirizzo.

Questione diversa e più delicata riguarda l'ipotesi della eventuale impossibilità (stante la utilizzazione da parte del legislatore della espressione «per qualsiasi ragione») di perfezionamento del procedimento notificatorio per semplici difficoltà di utilizzazione del sistema da parte del mittente, e cioè da parte della cancelleria (Fontana).

Ebbene, potrebbe esservi spazio per ritenere ricorrente tale impossibilità di notificazione, così normata e con gli effetti sopra evidenziati in ordine alla modalità alternativa di notifica, nella ipotesi di blocco nella funzionalità dei sistemi operativi di trasmissione telematica degli atti, tali da impedire alla cancelleria di effettuare la trasmissione della istanza all'indirizzo Pec del destinatario. Beninteso, dovrebbe tuttavia trattarsi di un ostacolo non momentaneo, tale cioè da non consentire il differimento dell'adempimento senza pregiudizio per la tempestività della notificazione (Fontana).

Va peraltro chiarito, sul punto qui da ultimo in discussione, che l'eventuale notificazione effettuata tramite indirizzo Pec utilizzato dall'Ufficio giudiziario (inteso come soggetto amministrativo) diverso dall'indirizzo Pec attribuito sulle base dell'art. 4, comma secondo, d.m. n. 2011/44, non sarebbe comunque affetta da nullità, atteso che la disciplina tecnica contenuta nel predetto decreto ministeriale è di carattere secondario e che pertanto la trasmissione dell'atto da un altro indirizzo Pec risulterebbe in ogni caso idonea al raggiungimento dello scopo anche sotto il profilo della certezza della provenienza della comunicazione e dell'attestazione al mittente dell'invio e della avvenuta consegna del documento informatico. Va da sé che non possano integrare il presupposto per il passaggio al diverso regime notificatorio, previsto in via sussidiaria, le semplici difficoltà organizzative della cancelleria. Sul punto, non può essere dimenticato che, in linea generale, nel nostro ordinamento il concetto di impossibilità idoneo a liberare la parte onerata di una incombenza dal relativo obbligo legale deve essere connotata dal requisito della oggettività, e che invece le difficoltà organizzative del soggetto obbligato sono di norma qualificate come difficoltà attinenti alla sfera soggettiva.

Il regime notificatorio sussidiario, nel caso in cui l'impresa non sia dotata di Pec e la sede della impresa sia invece chiusa, risulta fortemente penalizzante per il destinatario della notifica, atteso che la notifica effettuata mediante deposito alla casa comunale, senza ulteriori comunicazioni, dà luogo in realtà ad una conoscenza puramente legale del ricorso introduttivo (Fontana).

Tuttavia, la previsione della notificazione all'indirizzo Pec dell'impresa rappresenta una sicura semplificazione per il ricorrente, ma nel contempo risponde anche ad un interesse qualificato dell'imprenditore, potendosi configurare una sorta di diritto di quest'ultimo alla notificazione a tale indirizzo che recede solo di fronte alla esistenza di cause ostative integranti l'impossibilità.

Così, riprendendo le fila del discorso, occorre puntualizzare che, una volta accertata la impossibilità di procedere alla notificazione nella forma «normale» e primaria dell'invio degli atti all'indirizzo Pec, è onere del ricorrente, informato di ciò per via telematica, curare la notificazione a mezzo dell'ufficiale giudiziario. Questa notifica deve essere effettuata nella forma «esclusivamente di persona», ossia mediante accesso dell'ufficiale giudiziario alla sede dell'impresa risultante dal registro delle imprese. È dunque espressamente esclusa la notificazione a mezzo posta, avendo il legislatore compiuto questa scelta in ragione della frequenza con cui, nella prassi applicativa, la tempistica della restituzione dell'avviso di ricevimento risulta incompatibile con una celere celebrazione della udienza prefallimentare. In realtà, neppure in presenza di una ipotetica volontà del ricorrente in tal senso si potrebbe realizzare alla notificazione a mezzo posta, atteso che quella dettata dall'art. 15, comma terzo, l.fall., è norma speciale rispetto a quella di cui all'art. 107, comma primo, del d.P.R. n. 122/1959, la cui disposizione prevede che «l'ufficiale giudiziario deve avvalersi del servizio postale per la notificazione degli atti in materia civile ed amministrativa da eseguirsi fuori del Comune ove ha sede l'ufficio, eccetto che la parte chieda che la notificazione sia eseguita di persona») e considerato il rigoroso regime delle nullità in materia di notificazione degli atti.

Va da sé che presso la sede della impresa la consegna della copia dell'atto possa essere effettuata nelle mani del destinatario imprenditore individuale o del legale rappresentante della società o dell'incaricato a ricevere le notificazioni o, in caso di assenza di questi, della persona addetta alla sede o del portiere dello stabile, potendosi, qui, far riferimento, in funzione integrativa, alla previsione del primo comma dell'art. 145 c.p.c. (Fontana).

Deve, tuttavia, escludersi che l'ufficiale giudiziario debba ricercare l'imprenditore individuale o la persona che rappresenta legalmente la società in luoghi diversi rispetto alla sede della impresa risultante dal registro delle imprese, prevedendosi unicamente l'alternativa tra notifica presso la sede e deposito della copia presso la casa comunale. Va però aggiunto che qualora l'ufficiale giudiziario si discostasse da questa regola ed effettuasse, cioè, la notificazione al di fuori della sede dell'impresa, ciò nonostante la notifica dovrebbe ritenersi valida se effettuata mediante consegna della copia nelle mani dell'imprenditore individuale ovvero del legale rappresentante della società in base alla regola generale dell'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo.

Da ultimo, il nuovo procedimento notificatorio prevede che, se l'impresa risulta irreperibile all'indirizzo della sede indicata nel registro delle imprese, l'ufficiale giudiziario debba procedere al deposito della copia presso la casa comunale dello stesso luogo. Sul punto, corre l'obbligo di precisare che il perfezionamento della notificazione è automatico, non essendo previsto, a differenza di quanto stabilito dall'art. 140 c.p.c., l'invio di alcuna ulteriore comunicazione a mezzo posta e neanche, contrariamente alla previsione di cui all'art. 143 c.p.c., il decorso del termine dei venti giorni.

La scelta compiuta dal legislatore è pertanto molto rigorosa e funzionale ad assicurare l'obbiettivo della celerità della procedura.

A questo punto, non può non ricordarsi che dopo al pronuncia della Corte costituzionale del 1970 (più volte ricordata nel corso della trattazione), la cui decisione ha sancito la necessità del contraddittorio nel procedimento per dichiarazione di fallimento, al giurisprudenza ha costantemente affermato che «nell'ipotesi in cui un imprenditore, sottoposto a procedura fallimentare, si ponga in una condizione di irreperibilità, imputabile a sua negligenza o condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico, è possibile giungere alla sentenza dichiarativa di fallimento a prescindere dalla convocazione ex art. 15 l.fall., preordinata a consentire allo stesso la prospettazione delle proprie ragioni difensive, atteso che, sebbene sussista la necessità di garantire un effettivo esercizio del diritto di difesa in capo al debitore interessato dalla procedura fallimentare, esiste anche l'indubitabile necessità di assicurare la speditezza della procedura stessa» (così, anche Cass. n. 32/2008).

Ebbene, questa giurisprudenza risultava in realtà superata alla luce della riscrittura dell'art. 15 l.fall. operata con il D.lgs. n. 5/2006 che nella riforma dell'art. 15 prevedeva più rigorosi obblighi notificatori a carico della parte istante il fallimento. Ora, il legislatore ha parzialmente corretto la disciplina dettata nel 2006, optando invero per un assetto, nella dialettica tra interesse alla rapidità della procedura e diritto di difesa, più vicino all'equilibrio individuato dalla pregressa giurisprudenza sopra menzionata, sia pure non escludendo la necessità della notificazione, ma al contrario operando una sua radicale semplificazione nell'ipotesi in cui l'imprenditore sia venuto meno al suo dovere di munirsi dell'indirizzo Pec e si sia reso irreperibile all'indirizzo della sede dell'impresa (Fontana).

Da ultimo, va segnalato che l'art. 15, comma terzo, l.fall. estende la nuova disciplina agli imprenditori individuali, ma non contiene alcun riferimento alle persone fisiche dei soci illimitatamente responsabili di società di persone. Va tuttavia considerato che per i soci illimitatamente responsabili non è stato introdotto l'obbligo di munirsi della Pec e che la prima forma di notificazione prevista dal novellato art. 15, comma terzo, l.fall. prevede invece proprio l'invio degli atti all'indirizzo Pec risultante dal registro delle imprese, di talché dovrebbe ritenersi con sicurezza che ai predetti soggetti non sia applicabile la nuova disciplina e che invece debba essere applicato l'ordinario regime notificatorio, dettato dagli artt. 138 e ss. del codice di rito.

Ne discende che per i soci illimitatamente responsabili di società di persone, se persone fisiche, trovano applicazione le norme generali in materia di notificazione degli atti, con la conseguenza che, nell'ambito di uno stesso procedimento per dichiarazione di fallimento, opererà un doppio regime, dovendosi effettuare la notifica alla società ai sensi dell'art. 15, comma terzo, l.fall. e la notifica ai soci sulla base della regola del codice di rito. Peraltro, può anche ritenersi, sempre sulla base della regola generale dell'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo, che la notifica nelle mani dei soci possa valere anche come notifica alla società (Fontana).

Sul punto, va precisato che per legittimare questa conclusione occorre tenere a mente che il procedimento notificatorio di cui all'art. 15 l.fall. è del tutto eccezionale e non estensibile a casi simili. Tale specialità sta non solo nel procedimento notificatorio bifasico cancelleria-ricorrente, la cui previsione è del tutto difforme dal procedimento previsto dal codice di rito, ma anche nella deroga all'impulso di parte e nella deroga agli strumenti di notifica ordinari. Peraltro, come già sopra evidenziato, la notificazione è attagliata all'obbligo di dotazione della Pec che i soci illimitatamente responsabili possono non avere ove non imprenditori in proprio ovvero professionisti e, comunque, non destinatari del procedimento prefallimentare quali imprenditori ma quali garanti ex lege.

Ed infine, la struttura bifasica del nuovo procedimento notificatorio che prevede, in caso di impossibilità del perfezionamento della notifica a mezzo invio dell'atto all'indirizzo Pec, il trasferimento dell'obbligo notificatorio al ricorrente che ne dovrà curare l'esecuzione a mezzo ufficiale giudiziario presso la sede dell'impresa debitrice evidenzia che tale procedimento notificatorio è stato disegnato per le società e le imprese individuali, e non già per i soggetti persone fisiche.

Peraltro, deve ritenersi che il possibile pericolo di un rallentamento nella trattazione della istanza di fallimento per le maggiori difficoltà di notifica ai soci illimitatamente responsabili tramite le modalità ordinatorie ex artt. 137 e s. con conseguente vanificazione delle esigenze acceleratorie sottese alla introduzione del nuovo 3 comma dell'art. 15 potrebbero in realtà essere superate tramite la separazione delle domande di fallimento, con la possibilità di celere decisione in ordine alla istanza di fallimento che attinga la società debitrice e successiva trattazione e decisione in ordine alla dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile.

Ad analoga conclusione, ossia alla applicabilità delle regole del codice, si deve pervenire nei casi in cui il ricorso per dichiarazione di fallimento sia proposto nei confronti di un'associazione non riconosciuta o altro soggetto che svolga attività d'impresa commerciale senza risultare iscritto nel registro delle imprese.

Diversamente, potrebbe ritenersi che la specialità, o anche eccezionalità, delle modalità di convocazione disposte dall'attuale terzo comma dell'art. 15 sia idonea ad escludere l'utilizzo delle stesse modalità per la notifica di atti diversi dal ricorso e decreto per la dichiarazione di fallimento, ma non per negare che quelle modalità possano essere utilizzate per notificare proprio il ricorso ed il decreto ex art. 15 a soggetti diversi dall'imprenditore fornito di pec. Peraltro, secondo questa diversa impostazione (che tuttavia non si condivide), occorrerebbe valorizzare la circostanza secondo cui anche il terzo comma dell'art. 147 l.fall. dispone che i soci illimitatamente responsabili devono essere convocati «a norma dell'articolo 15». Si dovrebbe così ritenere, cioè, che se l'unica norma che regola il procedimento per la dichiarazione di fallimento sia quella contenuta nell'art. 15, il terzo comma, e se queste stesse modalità sono richiamate per la convocazione dei soci illimitatamente responsabili per i casi in cui bisogna a lui estendere il fallimento, allora ciò vorrebbe significare che la regolamentazione della notifica del ricorso e del decreto per la convocazione dei fallendi dovrebbe essere esclusivamente ed integralmente contenuta nel terzo comma dell'art. 15, sicché a quella regolamentazione occorrerebbe far sempre riferimento ogni qual volta si debba notificare il ricorso e decreto di fallimento, presentato da un creditore o dal P.M., chiunque sia il destinatario, sia o non fornito di pec. Secondo quest'ultima impostazione, l'aver, invece, condizionato da parte del legislatore l'applicazione del sistema alternativo alle ipotesi in cui «per qualsiasi ragione, la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo», dimostrerebbe che il sistema di notifiche previsto dalla norma debba trovare applicazione ogni qual volta la notifica da parte della cancelleria non sia stata possibile, e ciò per qualsiasi motivo, trovando pertanto applicazione in tutti i casi in cui occorra notificare il ricorso e decreto per la dichiarazione di fallimento, e dunque in presenza di qualsiasi ragione impeditiva della notifica via Pec, compresa la mancanza della Pec da parte del destinatario, perché socio e non imprenditore o imprenditore cessato, e così via.

A conclusione diversa dovrebbe giungersi nella ipotesi di società cancellata, atteso che in tal caso, per un verso, la forma di ente collettivo con sede legale si attaglia alle previsioni contenute nell'art. 15, comma terzo, l.fall. come da ultimo novellato e che, per altro verso, in quest'ultima ipotesi è realizzabile un diverso ragionamento rispetto a quello propugnato per i soci illimitatamente responsabili.

Ebbene, occorre distinguere, per l'applicazione del novellato art. 15, comma terzo, l.fall. l'ipotesi di permanenza in funzione dell'indirizzo di posta elettronica certificata da quello in cui lo stesso è stato disattivato.

Ed invero, se l'indirizzo Pec è funzionante, ciò significa che esiste tuttora un soggetto abilitato a ricevere la posta inoltrata all'imprenditore, inclusa la convocazione inviata dalla cancelleria, giacendo peraltro su una presunzione ex lege anche la circostanza secondo cui la p.e.c. ricevuta dalla società debba intendersi conosciuta dal legale rappresentante. Del resto, già nel regime previgente, il decreto di fissazione dell'udienza prefallimentare era notificato alla società – con fictio iuris di sua reviviscenza ai fini della declaratoria di fallimento – in persona del soggetto che era abilitato a rappresentarla, la cui legittimazione è ultrattiva ai fini del procedimento prefallimentare.

È evidente, invece, che la disattivazione della p.e.c. (la quale non consegue automaticamente alla cancellazione, occorrendo piuttosto un'attività di disabilitazione da parte del legale rappresentante) determina l'impossibilità di procedere alla comunicazione di cancelleria art. 15, comma terzo, l.fall., dovendosi in tale ipotesi innescare la notificazione a cura del ricorrente.

Secondo una prima lettura, anche in questa ipotesi la notificazione dovrà avvenire nelle forme ordinarie stabilite dagli artt. 137 ss. c.p.c. (eventualmente anche a mezzo del servizio postale ex lege 20 novembre 1982, n. 890) all'ex legale rappresentante, poiché l'estinzione dell'impresa determina il venir meno della sede presso cui dovrebbe recarsi l'ufficiale giudiziario.

Secondo altra e diversa interpretazione, potrebbe tuttavia trarsi spunto dall'ultima parte dell'art. 2495, comma secondo, c.c. – secondo cui «La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l'ultima sede della società» – per ritenere che la sede sociale non resti automaticamente e immediatamente «cancellata» a seguito dell'estinzione della società. Ed invero, è lo stesso legislatore che ammette che una notificazione – diretta a soci o liquidatori (nella qualità di ex legali rappresentanti) e inviata dai creditori sociali – possa essere eseguita presso la sede della società sebbene questa risulti già estinta («ferma restando l'estinzione della società»). Ne discende che dovrebbe considerarsi come ultrattiva l'esistenza – per un anno – della sede sociale e, conseguentemente, reputarsi applicabili le nuove disposizioni dell'art. 15, comma terzo, l.fall. che prevedono in primis l'accesso personale alla sede e, in mancanza di soggetti abilitati a ricevere il plico (evento più che probabile), il deposito presso la casa comunale dove aveva sede l'ente.

Dovrebbe, cioè, ritenersi che non si possa far coincidere con la cessazione dell'impresa la cessazione della sede sociale con la ulteriore conseguenza che se non vada a buon fine la notifica tramite p.e.c., l'ufficiale giudiziario dovrà eseguire la notifica «di persona» presso la sede e, considerato che lì verosimilmente non si troverà alcuna sede, potrà effettuare il deposito alla casa comunale.

L'alternativa dovrebbe essere, invece, l'avvio della notifica nelle forme ordinarie all'ex legale rappresentante, magari anche con le forme dell'art. 143 c.p.c. a seguito di un tentativo infruttuoso di notifica presso la sua residenza, con tutte le conseguenze tuttavia in ordine alla sicura violazione del nuovo termine acceleratorio di 45 giorni per la convocazione del debitore e con le ben conosciute ricadute in termini di perdita della possibilità di agire con le azioni revocatorie fallimentari.

Sul punto si legga : la previsione dell'art. 10 l.fall., per il quale una società cancellata dal registro delle imprese può essere dichiarata fallita entro l'anno dalla cancellazione, implica che il procedimento prefallimentare e le eventuali successive fasi impugnatorie continuano a svolgersi, per "fictio iuris", nei confronti della società estinta, non perdendo quest'ultima, in ambito concorsuale, la propria capacità processuale. Ne consegue che pure il ricorso per la dichiarazione di fallimento può essere validamente notificato presso la sede della società cancellata, ai sensi dell'art. 145, comma 1, c.p.c. (Cass. VI,  n. 5253/2017).

Occorre a questo punto interrogarsi circa la legittimità costituzionale di una disciplina del procedimento di notificazione come quella dettata dall'odierno terzo comma dell'art. 15 l.fall. che, diversamente da quanto in generale ritenuto dalla Corte Costituzionale, ancora il perfezionamento della notifica al semplice deposito dell'atto nella casa comunale del luogo ove è sita la sede del debitore, senza neppure prevedere l'invio di una raccomandata allo stesso contente l'avviso di notifica dell'atto stesso.

È da ritenersi che la legittimità costituzionale di tale disciplina normativa risieda nel concreto bilanciamento delle contrapposte esigenze del debitore e del ceto creditorio nel procedimento per la dichiarazione di fallimento. Di peculiare importanza, in particolare, per risolvere la questione interpretativa prospettata appaiono le argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza di legittimità per escludere, già nella vigenza dell'art. 15 l.fall. nella formulazione originaria, la necessità del procedimento di notificazione previsto dall'art. 140 c.p.c., nei confronti del fallendo.

Invero, occorre concludere nel senso che, nell'assetto attuale, considerata l'esistenza di un obbligo normativo di indicare nel registro delle imprese l'indirizzo di posta elettronica certificata dell'impresa, l'omessa indicazione di tale indirizzo, che impedisca la notifica del ricorso a mezzo Pec, costituisce condotta analoga al comportamento del debitore il quale si renda colposamente irreperibile con un allontanamento non temporaneo o un trasferimento volontario verso un luogo sconosciuto, secondo le indicazioni della richiamata giurisprudenza di legittimità relative all'assetto normativo previgente.

In buona sostanza, la scelta compiuta dal legislatore nel 2012 appare sotto tale profilo una sorta di «ritorno al passato», in quanto la stessa è volta a attribuire di nuovo, nel contemperamento tra le esigenze del debitore e dei creditori nel procedimento anteriore alla dichiarazione di fallimento, maggiore rilevanza agli interessi dei creditori, almeno laddove sia stata una condotta volontaria del debitore, consistente nell'omessa indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata nel registro delle imprese, ad impedire, unitamente all'irreperibilità dello stesso debitore presso la sede, forme di notificazione più effettive rispetto al deposito dell'atto nella casa comunale. Opposta è l'opzione di fondo delle riforme del 2006 e 2007.

 Invero, come condivisibilmente osservato in sede di merito, la riforma della normativa fallimentare operata con le stesse ha determinato una indubbia processualizzazione della fase prefallimentare, con accentuazione del momento del contraddittorio e tutela del diritto di difesa dell'imprenditore e delle altre parti, con l'obiettivo di avvicinare la procedura prefallimentare al modello del giusto processo civile di cui all'art. 111 Cost., sicché nella nuova disciplina, pertanto, deve ritenersi venuta meno quella riserva di compatibilità tra il diritto di difesa dell'imprenditore e le esigenze e la natura del procedimento fallimentare, circoscritta alle ipotesi di ricorrenza di particolari ragioni di urgenza, da esplicitarsi necessariamente nel decreto presidenziale di cui all'art. 15, comma quinto, l.fall. (cfr. App. Roma I, 15 gennaio 2013, n. 259, in Guida al dir., 2013, n. 14, 70, per la quale il fittizio trasferimento all'estero della sede societaria non esonera l'istante dall'onere di integrare il contraddittorio).

Si leggano, da ultimo : L'art. 15, comma 3, l.fall. (nel testo novellato dall'art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif. in l. n. 221 del 2012), nel prevedere che la notificazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento alla società può essere eseguita tramite PEC all'indirizzo della stessa e, in caso di esito negativo, presso la sua sede legale come risultante dal registro delle imprese, oppure, qualora neppure questa modalità sia andata a buon fine, mediante deposito dell'atto nella casa comunale della sede iscritta nel registro, introduce una disciplina speciale semplificata che, coniugando la tutela del diritto di difesa del debitore con le esigenze di celerità e speditezza intrinseche al procedimento concorsuale, esclude l'applicabilità della disciplina ordinaria prevista dall'art. 145 c.p.c. per le ipotesi di irreperibilità del destinatario della notifica (Cass. VI,  ord., n. 19688/2017).

 

In tema di procedimento per la dichiarazione di fallimento, l'impossibilità di eseguire la notificazione in via telematica del ricorso e del decreto di convocazione innanzi al tribunale può essere attestata dal cancelliere, atteso che l'art. 15, comma 3, l.fall. non prevede particolari modalità al riguardo, né richiede la specifica allegazione del messaggio ritrasmesso dal gestore della posta elettronica certificata (PEC) attestante l'esito negativo dell'invio (Cass. VI,  ord.,  n. 8014/2017).

In tema di notifiche telematiche nei procedimenti civili, compresi quelli cd. prefallimentari, la ricevuta di avvenuta consegna (R.A.C), rilasciata dal gestore di posta elettronica certificata del destinatario, costituisce documento idoneo a dimostrare, fino a prova contraria, che il messaggio informatico è pervenuto nella casella di posta elettronica del destinatario, senza tuttavia assurgere a quella "certezza pubblica" propria degli atti facenti fede fino a querela di falso, atteso che, da un lato, atti dotati di siffatta speciale efficacia, incidendo sulle libertà costituzionali e sull'autonomia privata, costituiscono un numero chiuso e non sono suscettibili di estensione analogica e, dall'altro, che l'art. 16 del d.m. n. 44 del 2011 si esprime in termini di "opponibilità" ai terzi ovvero di semplice "prova" dell'avvenuta consegna del messaggio, e ciò anche perché le attestazioni rilasciate dal gestore del servizio di posta elettronica certificata, a differenza di quelle apposte sull'avviso di ricevimento dall'agente postale nelle notifiche a mezzo posta, aventi fede privilegiata, non si fondano su un'attività allo stesso delegata dall'ufficiale giudiziario. Ne consegue che, in sede di giudizio di legittimità, la parte che, per contrastare l'eccezione di nullità per omessa convocazione in sede prefallimentare, voglia dimostrare l'avvenuta notificazione telematica del ricorso e della fissazione dell'udienza, ha l'onere di estrarre copia digitale e di attestarne la conformità della R.a.c. completa, producendola ai sensi dell'art. 372 c.p.c. (Cass. I , ord.  n. 29732/2018 ).

La notificazione del ricorso e del decreto per la dichiarazione di fallimento presso la casa comunale, in mancanza di indirizzo PEC, è condizionata all'irreperibilità della società presso la sua sede come risultante dal registro delle imprese. Tale presupposto dell'irreperibilità ricorre anche laddove si accerti che, in precedenza, la società sia stata in concreto rintracciata presso la sede risultante dal registro, purchè l'ufficiale giudiziario abbia svolto ricerche documentate nella relazione di notifica e chiesto informazioni in modo adeguato, così da consentire di presumere che il diverso esito delle precedenti notificazioni sia riconducibile non ad una doverosa e diligente attività di ricerca del destinatario ma a circostanze fortunate non sempre ripetibili (Cass. Iord.  n. 28803/2018).

In ipotesi di notifica di ricorso per dichiarazione di fallimento, astrattamente qualificabile come inesistente, al pari del pedissequo decreto di convocazione, la costituzione della debitrice poi dichiarata fallita ne determina la sanatoria con effetto "ex nunc", ponendo il giudizio al riparo da ulteriori effetti invalidanti, sempreché si provveda, a seguito di detta costituzione, a fissare una nuova udienza, nel rispetto del termine di quindici giorni di cui all'art. 15, comma 3, l. fall. (Cass. Iord.  n. 22474/2018).

La notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento, eseguita dall'ufficiale giudiziario tramite il servizio postale in favore del socio illimitatamente responsabile di una società di persone, anche in qualità di rappresentante di quest'ultima, è ammissibile ai sensi dell'art. 145 c.p.c. (che, invero, richiama gli artt. 140 e 143 c.p.c.) e deve perciò riteneresi valida, nei riguardi tanto del socio che dell'ente da lui rappresentato, rilevando in tal senso, da un lato, l'idoneità della notifica in parola all'instaurazione del contraddittorio con la persona giuridica - cui è pertanto assicurato l'esercizio del diritto di difesa - e, dall'altro lato, la connotazione non esclusiva, ma meramente alternativa, del procedimento notificatorio semplificato di cui all'art. 15, comma 3, l. fall., che non esclude, sussistendone i presupposti, l'impiego delle forme ordinarie (Cass. I, ord. n. 16864/2018).

Il termine a comparire in favore del debitore e conseguenze in caso di sua violazione

Ebbene, il terzo comma dell'art. 15 l.fall. stabilisce che tra la data di notificazione — rectius: di ricevimento della notificazione da parte del destinatario — e l'udienza deve intercorrere un termine (assimilabile al termine a comparire) non inferiore a quindici giorni (il testo originariamente varato dal d.1gs. n. 5 del 2006 discorreva di «giorni liberi», evocando l'applicazione della regola generale per la quale anche i giorni festivi intermedi dovessero essere presi in considerazione ai fini del computo del termine, atteso che rispetto ai cd. «termini liberi» sono esclusi dal computo solo il giorno iniziale e quello finale. In questo senso v. Cass. S.U., n. 14699/2003).

Nel testo sostituito dal d.lg. n. 169 del 2007, ed oggi vigente, l'aggettivo «liberi» non compare più, sicché, nell'ottica di una corretta lettura della vicenda normativa, è da ritenersi che, a fini acceleratori, il legislatore delegato abbia inteso comprimere il termine a difesa (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 190).

Vi è tuttavia una tesi che, pur nell'assenza di una inequivocabile indicazione legislativa in tal senso, ritiene (con opinione però non condivisibile in quanto ultra legem) che il termine a difesa di quindici giorni debba intendersi come termine libero, dovendo intercorrere, tra la data di notificazione del decreto di convocazione e l'udienza, «almeno» quindici giorni, dunque senza computare il dies a quo ed il dies ad quem (Celentano, Sub art. 9 l.fall., cit., 127).

Deve però essere precisato che tale ultima tesi è stata autorevolmente avallata dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, secondo le quali il termine di quindici giorni è stabilito nell'interesse del debitore «essendo chiaramente volto a consentire allo stesso, entro un periodo di tempo da ritenersi ragionevole, tenuto conto delle esigenze di speditezza del procedimento di istruttoria prefallimentare, il pieno esercizio del proprio diritto di difesa in contraddittorio con i creditori istanti per il fallimento»: cfr. Cass. S.U., n. 1418/2012, cit.: «Tale conclusione — argomentano le sezioni unite — è supportata dai seguenti rilievi: a) il legislatore delegato del decreto«correttivo» non dà ragione specifica di detta soppressione nell'art. 15, terzo comma, essendosi limitato ad osservare genericamente, nella relazione governativa, che l'art. 2, quarto comma, riformulava ex novo l'art. 15, per emendarlo di alcune improprietà, sicché nessun ausilio ermeneutico è apportato dai lavori preparatori; b) il verbo «intercorrere» — che allude ad un tempo che «corre» appunto tra due estremi di cui non deve tenersi conto e che, quindi, potrebbe far ipotizzare che la soppressione dell'aggettivo «liberi» nel caso de quo è stata operata per meri motivi pleonastici — è, in realtà, utilizzato dal legislatore del codice di rito per indicare sia termini «liberi», sia termini che non sono esplicitamente qualificati come tali, sicché la previsione o la soppressione dell'aggettivo «liberi» associata ad un termine assume un autonomo significato sul piano giuridico, quanto al criterio applicabile per il computo del termine stesso; c) questa Corte ha più volte enunciato il condivisibile principio per il quale, in tema di computo dei termini processuali, qualora la legge non preveda espressamente che si tratti di un termine libero, opera il criterio generale di cui all'ano 155 c.p.c., secondo il quale non devono essere conteggiati i giorni e l'ora iniziali computandosi invece quelli finali (cfr., ex plurimis, le sentenze Cass. nn. 11302/ 2011, 6263/2006 e 10797/ 1997); 4) la prevalente dottrina è concorde nel ritenere che, a seguito di detta soppressione dell'aggettivo «liberi», nel computo del termine in questione deve applicarsi la regola generale dettata dall'ano 155, 1 comma, c.p.c., per la quale dies a quo non computatur in termino».

Di qui la conseguenza della natura «dilatoria» del termine in questione e la sua computabilità «a decorrenza successiva», secondo il criterio di cui all'art. 155, comma primo, c.p.c., escludendo il giorno iniziale (data della notificazione del ricorso introduttivo e del decreto di convocazione) e conteggiando quello finale (data dell'udienza di comparizione).

Inoltre, il predetto termine di quindici giorni può essere abbreviato dal presidente del tribunale con decreto motivato (che, di norma, sarà inserito nel testo del decreto di convocazione), se ricorrono particolari ragioni di urgenza [De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 191, il quale evidenzia che, contrariamente a quanto previsto per il termine a comparire dall'art. 163-bis, comma secondo, c.p.c. (che consente l'abbreviazione del termine fino alla metà), la norma non indica il limite massimo di abbreviazione].

Sul punto, occorre precisare che l'abbreviazione non possa, in ogni caso, essere di entità tale da risolversi, pur nella motivata urgenza che la giustifica, nell'impossibilità di esercitare il diritto di difesa e che sia possibile censurare in sede di reclamo la congruità del termine a difesa (Saletti, 988).

Peraltro, va aggiunto che, secondo autorevole dottrina (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem), il modello procedimentale a carattere contenzioso dell'istruttoria prefallimentare induce altresì a ritenere che l'abbreviazione sia consentita soltanto ad istanza dell'attore o del pubblico ministero (da inserirsi, di norma, nella medesima istanza di fallimento), e non possa conseguire all'officiosa determinazione del presidente del tribunale, al quale constino, magari aliunde, le ragioni d'urgenza richieste dalla norma.

Occorre invece evidenziare che la norma nulla dice in ordine alla necessità di attivazione del potere presidenziale di abbreviazione dei termini dalla parte istante il fallimento, di talché deve concludersi, come correttamente avviene anche nella prassi applicativa, che, qualora il presidente venga a conoscenza di una ragione giustificatrice valida — che può concretarsi nel prossimo maturarsi del termine decadenziale annuale di cui all'art. 10, primo comma, l.fall., ovvero nel «consolidamento» degli effetti preclusivi per le impugnative di atti revocabili —, allora il potere di abbreviazione dei termini potrà essere attivato anche officiosamente (Ferro, Sub. art. 15, 2011, 197).

La giurisprudenza ha altresì affrontato, in subiecta materia, il tema delle conseguenze della violazione del termine di quindici giorni. Sul punto, risulta del tutto convincente l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità formatosi successivamente alle riforme del 2006-2007, secondo il quale, nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, il mancato rispetto del termine di quindici giorni che deve intercorrere tra la data di notifica del decreto di convocazione del debitore e la data dell'udienza e la sua mancata abbreviazione nelle forme rituali del decreto motivato sottoscritto dal presidente del tribunale costituiscono invero cause di nullità, astrattamente integranti la violazione del diritto di difesa, ma non determinano — ai sensi dell'art. 156 c.p.c. —, per il generale principio di raggiungimento dello scopo dell'atto, la nullità del decreto di convocazione, se il debitore abbia attivamente partecipato all'udienza, rendendo dichiarazioni in merito all'istanza di fallimento, senza formulare, in tale sede, rilievi o riserve in ordine alla ristrettezza del termine concessogli, né fornendo specifiche indicazioni del pregiudizio eventualmente determinatosi, sul piano probatorio, in ragione del minor tempo disponibile (Cass. n. 16757/2010).

Peraltro, deve ritenersi che la regola generale, dettata dall'art. 157 del codice di rito — secondo cui l'obbligo del giudice di esaminare l'eccezione di nullità relativa di un atto processuale presuppone che la medesima sia stata dedotta dalla parte, oltre che tempestivamente, con la specificazione delle ragioni d'invalidità rappresenta un principio generale, applicabile a tutti i processi speciali di cognizione, ivi compreso il procedimento per la dichiarazione di fallimento (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem).

Ne consegue che la nullità della vocatio in jus derivante dall'inosservanza del termine dilatorio di comparizione di quindici giorni previsto dall'art. 15, 3 comma, l.fall., resta sanata nel caso in cui il debitore non l'abbia specificamente dedotta nella memoria di costituzione, difendendosi nel merito (Cass. n. 1098/2010).

Il contenuto del decreto di fissazione della udienza

Orbene, sul punto qui in esame la norma non ha fatto altro che recepire 1'orientamento della giurisprudenza per il quale, nel procedimento camerale e sommario che conduceva alla dichiarazione di fallimento, il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa del debitore potevano ritenersi assicurati, allorché egli fosse stato informato dell'iniziativa in corso e dei fatti rilevanti per la configurazione dei requisiti oggettivi e soggettivi della declaratoria di fallimento (Cass. n. 1439/1990).

In aderenza al dettato di Corte cost. n. 141/ 1970, il quarto comma dell'art. 15 l.fall. prevede, ora, che il decreto di convocazione del tribunale contenga l'indicazione che il procedimento è volto all'accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento.

Ne consegue che l'indicazione che il procedimento è volto all'accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento — tendendo a garantire il pieno esercizio del diritto di difesa del debitore — deve ora ritenersi prescritta sotto pena di nullità del decreto di convocazione e, di conseguenza, dell'intero procedimento.

Tuttavia, dovrebbe ritenersi che la prescrizione normativa possa ritenersi soddisfatta anche mercé una mera relatio tra il decreto di convocazione ed il ricorso di fallimento, sempre che, ben inteso, essi vengano contestualmente notificati al debitore (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 193).

Peraltro, dovrebbe ritenersi che debba trovare applicazione il principio, sancito dall'art. 161 c.p.c., dell'assorbimento delle nullità della sentenza nei motivi di gravame. Ebbene, la nullità in questione (non rilevabile officiosamente in sede di gravame) potrà, pertanto, essere censurata con autonomo motivo di reclamo ex art. 18 l.fall., ma non per la prima volta nel corso del giudizio di reclamo, ovvero dinanzi alla Cassazione. Ne consegue ancora che il giudice d'appello che dichiari la nullità della pronuncia dichiarativa di fallimento non deve disporre la rimessione al primo giudice, ma limitarsi a revocare il fallimento, in quanto la nullità in questione è tale da travolgere tutti gli atti conseguenziali, senza far salvi situazioni, fatti od effetti riferibili alla fase prefallimentare, che possano valere come vincoli assoluti per il giudice, dovendosi accertare i presupposti del fallimento con riferimento ai fatti ed alle circostanze soggettive ed oggettive esistenti all'epoca della relativa dichiarazione (Cass. n. 145/1994).

La trattazione congiunta delle più istanze di fallimento contro il medesimo debitore

La prassi che si era consolidata sotto la previgente disciplina tendeva a coordinare la pluralità di istanze di fallimento contro il medesimo debitore attraverso la riunione dei procedimenti e la unitaria trattazione nella medesima udienza prefallimentare già fissata, potendosi ciò determinare nei fatti una compressione dei termini di difesa, tuttavia facilmente ovviabile con la contestazione compiuta d'ufficio direttamente all'udienza, e cioè «banco judicis», in relazione ai ricorsi presentati nell'imminenza dell'audizione del debitore (Ferro, Sub art. 15, cit., 2011, 198).

Sul punto, giova ricordare che un principio giurisprudenziale consolidato voleva che, nel procedimento che precedeva la dichiarazione di fallimento, non occorresse che il debitore — una volta che fosse stato convocato in camera di consiglio, o comunque informato dell'iniziativa a suo carico e posto in grado di svolgere le difese — fosse poi nuovamente convocato e sentito in seguito ad ogni successiva istanza di fallimento, che sopravveniva nel procedimento, avendo egli l'onere di seguire l'ulteriore sviluppo della procedura e di assumere ogni opportuna iniziativa in ordine ad essa, a tutela dei propri diritti (Cass. n. 5101/1994).

Anzi, va aggiunto che nella ipotesi in cui il debitore fosse stato già sentito dal tribunale in camera di consiglio in sede di istruttoria prefallimentare, se fossero state successivamente presentate altre istanze di fallimento da parte di altri creditori, non occorreva rinnovare la convocazione per ciascuna di esse, essendo sufficiente, ai fini della tutela del diritto di difesa, che il debitore fosse di fatto in grado di chiarire tempestivamente all'organo fallimentare ogni elemento utile per valutare la sua situazione commerciale e patrimoniale.

Questi principi di matrice giurisprudenziale devono, oggi, essere rivisitati al vaglio del nuovo art. 15 l.fall.

Ebbene, gli stringenti termini a difesa oggi previsti — almeno quindici giorni dalla notificazione del decreto di convocazione all'udienza, salvo abbreviazioni — inducono a ritenere che la trattazione, tendenzialmente unitaria, delle diverse istanze di fallimento sia un «valore processuale» (l'espressione è di Ferro, Sub art. 15, 2011, 198), da salvaguardare il più possibile, come è comprovato dalla disposizione del 2 comma, che impone la convocazione del debitore e «dei creditori istanti», lasciando in tal guisa intendere che il tribunale debba procedere ex ante ad una sorta di «collazione» delle diverse istanze di fallimento ed alla loro conseguente riunione, anche in via di fatto (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 194).

Ne discende che, in relazione ai ricorsi di fallimento riuniti al primo, per i quali non sia stato possibile il rispetto del termine a comparire di quindici giorni fissato in favore del debitore, quest'ultimo possa chiedere (ed abbia il diritto di ottenere), anche direttamente all'udienza, un termine per svolgere le difese e depositare documenti (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem) non potendo la riunione delle domande di fallimento avvenire a detrimento del diritto di difesa.

Per le medesime ragioni, qualora più ricorsi di fallimento siano stati riuniti ed il primo ricorrente, onerato della notifica al debitore, non vi abbia provveduto, l'improcedibilità del primo ricorso non può estendersi agli altri, per i quali non è stato assegnato alcun termine, non potendosi farsi carico agli altri ricorrenti delle inadempienze del primo (Trib. Roma, 3 ottobre 2008).

Il termine per la presentazione di scritti difensivi

L'art. 15, comma quarto, l.fall. prevede che il decreto di convocazione del debitore debba fissare un termine non inferiore a sette giorni per la presentazione di memorie ed il deposito di relazioni tecniche. Si tratta di un termine da calcolarsi a ritroso rispetto al giorno dell'udienza. Pertanto, quest'ultimo ha la valenza di momento iniziale e, nel computo a ritroso del predetto termine, deve essere escluso dal calcolo, mentre va computato il momento terminale, costituito dal settimo giorno, in base al principio generale dettato dagli artt. 155 c.p.c. e 2963 c.c., secondo cui dies a quo non computatur in termino, dies ad quem computatur (Cass. n. 6225/2005).

Va inoltre precisato che l'art. 155, comma quarto, c.p.c., diretto a prorogare al primo giorno non festivo il termine che scada in giorno festivo, opera con esclusivo riguardo ai termini cosiddetti a decorrenza successiva, e non anche per quelli che si computano a ritroso, con l'assegnazione di un intervallo di tempo minimo prima del quale deve essere compiuta una determinata attività, in quanto, altrimenti, si produrrebbe l'effetto contrario di un'abbreviazione di quell'intervallo, in pregiudizio delle esigenze garantite con la sua previsione (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 196. In giurisprudenza, v. Cass. n. 19041/2003).

Ne discende che non troverà applicazione al caso di specie il quinto comma dell'art. 155 c.p.c. — introdotto dalla 1. n. 80 del 2005 —, secondo il quale la proroga al primo giorno seguente non festivo si applica ai termini per il compimento di atti processuali svolti fuori dell'udienza, che scadono nella giornata del sabato.

Sul punto, occorre altresì ricordare che — al pari di quanto previsto per il termine a comparire — anche il termine a difesa può essere abbreviato dal presidente del tribunale con decreto motivato, se ricorrono particolari ragioni di urgenza. Ebbene, possono essere qui riproposte le medesime considerazioni già in precedenza svolte a proposito del termine a comparire, sicché è da ritenersi che l'abbreviazione non possa essere di entità tale da risolversi nell'impossibilità di esercitare il diritto di difesa e che peraltro sia possibile censurare in sede di reclamo la congruità del termine.

Le vicende anomale del giudizio di istruttoria prefallimentare

La interruzione del processo

Ebbene, la circostanza che — a seguito dell'abrogazione dell'iniziativa officiosa la proposizione della domanda di fallimento non esaurisca l'onere d'impulso processuale gravante sulla parte (escludendo che il processo possa continuare in virtù di un'intrinseca forza inerziale), ha invero correttamente consentito di predicare l'applicabilità al giudizio per la dichiarazione di fallimento delle norme generali sull'interruzione del processo di cui agli artt. 299 e ss. c.p.c. (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 200. V. anche Olivieri, 42). Peraltro, va aggiunto che, essendovi l'obbligo della difesa tecnica, gli eventi interruttivi in astratto verificabili sono sia quelli che riguardano la parte, sia quelli che riguardano il suo difensore, potendosi tali eventi legare, da un lato, alla sopravvenienza della morte oppure della perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentante legale (ovvero della cessazione di tale rappresentanza), oppure alla morte, radiazione o sospensione dall'albo del difensore. Ebbene, la sopravvenienza della morte della parte può riguardare sia il creditore ricorrente (ed in tal caso saranno i suoi eredi ad avere facoltà di riassumere o proseguire il giudizio), sia l'imprenditore convenuto, senza che, in quest'ultima ipotesi, possa assumere rilievo la possibilità, stabilita dall'art. 12 l.fall., di dichiarare il fallimento dell'imprenditore defunto.

La centralità che nel giudizio di istruttoria prefallimentare assume oggi il diritto alla difesa induce a ritenere che la partecipazione ad esso dell'erede sia necessaria anche quando quest'ultimo non prosegua l'attività d'impresa del de cuius, donde l'operare, in suo favore, dell'evento interruttivo determinato dalla morte del dante causa: così, Capo, I presupposti del fallimento, in AA. VV., Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di Fauceglia-Panzani, Torino, 2009, 54. Deve, perciò, ritenersi superato dalle riforme del 2006-2007 l'orientamento secondo il quale, nel caso di dichiarazione di fallimento dell'imprenditore entro l'anno dalla morte, non sarebbe obbligatoria l'audizione dell'erede nella fase istruttoria anteriore alla dichiarazione di fallimento, atteso che nessuno degli accertamenti rimessi al tribunale incide in modo immediato e diretto sulla posizione dell'erede, ovvero gli reca un pregiudizio eliminabile soltanto attraverso la partecipazione del medesimo all'istruttoria prefallimentare, l'audizione dell'erede essendo, invece, obbligatoria qualora anch'egli sia imprenditore commerciale o comunque lo diventi in seguito alla prosecuzione dell'impresa ereditaria (Cass. n. 5869/1993).

La sospensione del processo.

La prima ipotesi di sospensione prospettabile risulta essere quella testualmente implicata dall'art. 9-bis l.fall., in materia di incompetenza del tribunale, norma a tenore della quale il tribunale dichiarato competente, entro venti giorni dal ricevimento degli atti, se non richiede d'ufficio il regolamento di competenza ai sensi dell'art. 45 c.p.c., dispone la prosecuzione della procedura fallimentare, provvedendo alla nomina del giudice delegato e del curatore. Ne discende che, in caso di proposizione del regolamento d'ufficio, trova applicazione l'art. 48 c.p.c., secondo cui i processi relativamente ai quali è chiesto il regolamento di competenza sono sospesi dal giorno della pronuncia dell'ordinanza che richiede il regolamento, fatto salvo il compimento degli atti urgenti (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 202).

La seconda ipotesi prospettabile è quella della sospensione su istanza delle parti ex art. 296 c.p.c. Invero, caduta l'iniziativa officiosa del tribunale, non si frappongono ostacoli a che tutte le parti dell'istruttoria prefallimentare (con la sola eccezione per il pubblico ministero, il quale non ha la libera disponibilità dell'azione fallimentare, da lui stesso esercitata) rivolgano istanza al giudice delegato di disporre che il processo rimanga sospeso per un periodo non superiore a quattro mesi. Ne discende che, trattandosi di sospensione facoltativa, sarà poi il giudice a valutare la convenienza e l'opportunità di disporla (Cass. n. 1408/1983).

La terza e più complessa ipotesi è quella che riguarda l'applicabilità al giudizio di istruttoria prefallimentare della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. Sul punto, è stato affermato che, ammessa la possibilità che il debitore introduca nel giudizio ex art. 15 l.fall. la domanda di accertamento negativo del credito per il quale si procede nei suoi confronti, dovrebbe ritenersi — a rigore — indefettibile la sospensione necessaria tutte le volte in cui la cognizione a conoscere del credito appartenga alla competenza inderogabile di altro giudice (De Matteis, 208).

In realtà, la delibazione intorno alla sussistenza o all'insussistenza del credito fonda la legittimazione dell'asserito creditore a proporre la domanda di fallimento, ma non pregiudica l'accertamento dello stato di insolvenza, il cui oggetto è diverso e più ampio da quello dell'accertamento del credito. Se, invero, la sentenza dichiarativa di fallimento passata in giudicato facesse stato anche sulla sussistenza del credito del creditore istante, quest'ultimo non avrebbe necessità di insinuarsi al passivo, o, comunque, non potrebbe esserne escluso (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem). Ne deriva che, nel giudizio di istruttoria prefallimentare, l'accertamento dell'esistenza del credito del ricorrente, giacché estraneo al contenuto del petitum attoreo, è incidentale rispetto alla delibazione dell'insolvenza ed inidoneo a pregiudicarne l'esito. Ne discende ancora, a cascata, che non vi è, pertanto, un rapporto di cd. «pregiudizialità-dipendenza» tra la questione dell'esistenza del credito e la domanda di fallimento, ciò impedendo che sull'esistenza del credito si possa, in quel processo, decidere con efficacia di giudicato, anche ad onta di un'eventuale istanza di parte.

In conclusione, deve affermarsi che non può verificarsi il presupposto per la sospensione necessaria del giudizio, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., che non è la mera pregiudizialità di carattere logico, ma solo la pregiudizialità che si traduca in un potenziale conflitto di giudicati, e ciò nel senso che la previa definizione di altra controversia, pendente davanti allo stesso o ad altro giudice, deve costituire l'indispensabile antecedente logico-giuridico, dal quale dipenda la decisione della causa pregiudicata ed il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato (v. ex multis Cass. n. 12233/2007; ma anche Cass. n. 11085/2009; Cass. n. 24751/2007; Cass. n. 4314/2008, ord.; Cass. n. 25272/2010).

La estinzione del processo.

In ordine al profilo dell'estinzione del giudizio, può affermarsi con sicurezza che in linea generale la soppressione dell'iniziativa officiosa del tribunale, la natura contenziosa del procedimento, il carattere quasi pieno della cognizione, l'onere di impulso processuale gravante sulla parte e l'iniziativa del p.m. a tutela degli interessi obiettivi dell'ordinamento siano solide argomentazioni per escludere la possibilità di dichiarare il fallimento nel caso in cui nessuna delle parti convocate compaia all'udienza innanzi al tribunale oppure innanzi al relatore designato, e, per le medesime ragioni, per imporre la necessità che si dichiari senza indugio l'estinzione del giudizio nei casi di inerzia delle parti (De Matteis, 206, il quale ipotizza, nelle ipotesi di cui al testo, la pronunzia di un provvedimento di archiviazione o di non luogo a procedere. Nel medesimo senso v. Ferro, 2009, 1011).

Del resto, va detto che, di norma, la mancata comparizione all'udienza di tutte le parti discende da una precisa scelta, nella maggior parte dei casi legata al raggiungimento di un accordo, che fa venir meno l'interesse a coltivare il giudizio prefallimentare.

Sul punto, va precisato che li legislatore delle riforme del 2006-2007 non ha disciplinato espressamente le modalità e gli effetti della rinuncia espressa agli atti del giudizio (la c.d. «desistenza» dal ricorso di fallimento) da parte del soggetto che ha assunto l'iniziativa. In realtà, nel previgente sistema, alla desistenza seguiva di solito un decreto di «non luogo a provvedere», ovvero di «archiviazione» degli atti: la tesi dell'archiviazione è stata peraltro avallata dalla corte regolatrice anche sotto l'ègida della legge fallimentare riformata (cfr. Cass., n. 21834/2009, secondo la quale «l'atto di desistenza fa venir meno l'istanza di fallimento, in relazione alla quale, quindi, nessuna pronuncia deve emettersi se non quella di archiviazione, essendo necessaria una pronuncia di rigetto solo nei confronti di una istanza che continui ad essere effettivamente proposta e che viene ritenuta priva di fondamento»).

Sub Julio, tale conseguenza non poteva, tuttavia, ritenersi automatica, atteso che la previsione dell'iniziativa officiosa per la dichiarazione di fallimento imponeva comunque al tribunale di dichiarare il fallimento, laddove avesse ritenuto la sussistenza dello stato di insolvenza, desumibile da tutti gli elementi acquisiti nel corso del procedimento, ovvero allegati dallo stesso ricorrente-desistente (Cass. n. 1980/1985).

Sul punto, occorre soffermarsi su alcune riflessioni necessitate dalle novità introdotte dal legislatore del 2006 (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 204).

Ebbene, la giurisprudenza di legittimità ha orami precisato, in subiecta materia, che il ricorso per dichiarazione di fallimento presentato da un creditore è rappresentativo dell'esercizio del potere di azione e come tale è rinunciabile, senza che occorra l'accettazione del debitore. Inoltre, la rinuncia all'istanza di fallimento non richiede alcuna forma di accettazione del debitore, atteso che il ricorso del creditore persegue un interesse autonomo, rivolto esclusivamente alla tutela privatistica del proprio diritto di credito, e non anche alla difesa di quello degli altri creditori, anche se, come risultanza di fatto, realizza la tutela degli interessi di tutti i creditori, ovvero di quello pubblico alla dichiarazione di fallimento, giacché l'ordinamento si giova della iniziativa del singolo, il creditore, per soddisfare anche esigenze di tutela più generali.

Ebbene, la nuova disciplina del fallimento, escludendo la possibilità della dichiarazione di fallimento d'ufficio, ed attuando così il principio della terzietà del giudice, ha definitivamente avvalorato la tesi secondo cui il ricorso del creditore non costituisce attività meramente sollecitatoria della dichiarazione di fallimento, ma costituisce esercizio di un'autonoma azione volta alla tutela del diritto di credito dell'istante. Peraltro, tale conclusione è ulteriormente avvalorata dal fatto che l'iniziativa del creditore non si arresta alla sola presentazione dell'istanza di fallimento, ma riguarda anche la partecipazione e collaborazione dello stesso nello svolgimento della istruttoria fallimentare, in cui, accanto al potere del tribunale di disporre d'ufficio indagini ed accertamenti, si pone il diritto alla prova delle parti in un processo, in cui, come emerge dalla disciplina dettata dall'art. 15, il legislatore ha inteso salvaguardare i principi del contraddittorio, della paritaria difesa, oltre che il diritto alla prova e l'esigenza di speditezza del processo (Cass. n. 18620/2010).

Dovrebbe pertanto ritenersi applicabile al caso di specie la disciplina dettata dall'art. 306 c.p.c. per la rinunzia agli atti del giudizio (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 205).

Ne discende che, a rigore, le dichiarazioni di rinuncia devono essere fatte dalle parti o dai loro procuratori speciali, verbalmente all'udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti e che, peraltro, la rinunzia dovrebbe essere accettata senza riserve o condizioni dalle parti del procedimento, che potrebbero avere un interesse utile e giuridicamente apprezzabile alla prosecuzione. Ed invero, lo stesso debitore potrebbe, in ipotesi, nutrire interesse alla prosecuzione del giudizio, perché intenda ottenere un decreto di rigetto del ricorso di fallimento, che ne attesti la solvibilità e di cui egli possa conseguentemente giovarsi negli ambienti commerciali o sul mercato del credito.

Peraltro, dovrebbe ritenersi che la rinunzia o l'accettazione non possano provenire dal pubblico ministero, che ha assunto l'iniziativa di fallimento o è intervenuto nel procedimento, atteso che i poteri del pubblico ministero agente sono gli stessi di quelli che competono ad ogni parte che promuove razione, ma con il preciso limite derivante dall'impossibilità di compiere atti di disposizione del diritto (così Montesano-Arieta, 474. Contra, Ferro, 2009, 403, secondo il quale il venir meno dei presupposti della fallibilità o l'accertamento della loro inesistenza alla luce dell'istruttoria svolta renderebbero privo di giustificazione razionale un obbligo di procedere, non diversamente da una richiesta di archiviazione formulata al g.i).

Sul punto, va aggiunto che la rinunzia può provenire anche dal debitore che abbia agito in autofallimento (Montanaro, 272).

Processualmente, deve evidenziarsi che il tribunale, se la rinuncia e l'accettazione sono regolari, dichiara, con ordinanza l'estinzione del processo (Cass., n. 4632/2009, che si pronuncia in motivazione in questo senso, ancorché, applicando il principio generale dell'art. 307, ultimo comma, c.p.c., il provvedimento in questione, in quanto assimilabile alla dichiarazione di estinzione del processo ed in quanto pronunziato dal collegio, dovrebbe assumere la forma della sentenza. Secondo M. Montanaro, op. ult. cit., 270, il tribunale dovrebbe dichiarare l'improcedibilità del giudizio di istruttoria prefallimentare, precisando altresì che in nessun caso si può procedere al rigetto della domanda di fallimento, atteso che una pronunzia diversa da quella di chiusura in rito del processo presupporrebbe una verifica nel merito dell'assenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento).

Peraltro, va aggiunto che il tribunale, nel dichiarare l'estinzione del giudizio per rinunzia dovrebbe segnalare al pubblico ministero — ai sensi dell'art. 7, comma primo, n. 2, l.fall. — gli elementi fino ad allora emersi, dai quali potrebbe desumersi la dimostrazione di un eventuale stato di insolvenza del debitore (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 207).

La decisione e l'obbligo di motivazione

Ebbene, l'art. 15 1. fall., al penultimo comma, ribadisce la previgente e consolidata previsione, secondo cui il tribunale decide con sentenza se dichiara il fallimento e con decreto se rigetta il ricorso di fallimento, ricalcando, in parte qua, il 1 comma dell'art. 22 l.fall., a mente del quale, in caso di reiezione del ricorso di fallimento, il tribunale provvede con decreto motivato, comunicato a cura del cancelliere alle parti. Tuttavia, l'art. 15 l.fall. non contiene alcuna disposizione circa le modalità procedimentali di assunzione della decisione, se non il richiamo, contenuto nel 1 comma, alle modalità dei procedimenti in camera di consiglio.

Ne discende che — esaurita la trattazione ed assunti i mezzi di prova eventualmente ammessi o disposti d'ufficio — il tribunale deve rimettere la causa in decisione, riservando il deposito della sentenza ovvero del decreto.

Sul punto, va ribadito con forza che l'attuale struttura del procedimento prefallimentare che, ancorché avente elementi di sommarietà, si presenta comunque come un giudizio contenzioso di cognizione e di parti ed il regime impugnatorio che prevede oggi la diretta reclamabilità innanzi alla Corte d'appello della sentenza di fallimento ovvero del decreto di rigetto mal tollererebbe la permanenza di quell'orientamento della giurisprudenza ante riforme, secondo il quale la sentenza dichiarativa di fallimento, in quanto provvedimento giurisdizionale, dovrebbe essere sì motivata, in ossequio al principio di cui all'art. 111 Cost., ma — avuto riguardo alle caratteristiche del procedimento camerale, ed alle ragioni di urgenza che determinano la deliberazione — non richiederebbe di essere sorretta da una motivazione articolata, come quella che definisce un ordinario processo di cognizione, con la conseguenza che solo la totale assenza di motivazione debba comportare la nullità del provvedimento, all'epoca soggetto ad opposizione (Cass., n. 3163/1999).

Deve ritenersi che oggi la sentenza dichiarativa di fallimento rimanga soggetta alle medesime regole della motivazione che sorreggono le altre sentenze di primo grado, di modo che l'eventuale nullità derivante dal vizio di motivazione si converte, ai sensi dell'art. 161 c.p.c., in motivo di reclamo ex art. 18 1. fall.

Il regime delle spese del giudizio

Sul punto, nulla dispone l'art. 15 1. fall. relativamente al governo delle spese processuali nell'ipotesi di accoglimento del ricorso di fallimento.

Non è tuttavia discutibile il principio secondo cui la natura e struttura contenziose del procedimento rafforzino il principio, maturato sotto il vigore della previgente disciplina, secondo il quale, se il ricorso di fallimento è accolto, al creditore istante per la dichiarazione di fallimento vada riconosciuto il privilegio di cui agli artt. 2755 e 2770 c.c. (privilegio per spese di giustizia), con riferimento alle spese all'uopo sostenute, atteso il sostanziale parallelismo tra creditore procedente nella procedura esecutiva singolare e creditore istante nella procedura concorsuale (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 224; v. anche Del Vecchio, 55. In giurisprudenza, si leggano Cass n. 6787/2000; Cass., n. 1201/1959).

Sul punto, va aggiunto che nella diversa ipotesi di rigetto del ricorso di fallimento, il governo delle spese di lite deve seguire la soccombenza ed il creditore istante deve essere condannato, con il decreto di rigetto ed a prescindere da un'esplicita domanda del debitore (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 224), alla rifusione delle spese del debitore, salvo che il tribunale — in presenza di gravi ed eccezionali ragioni- non ravvisi, ai sensi dell'art. 92, comma secondo, c.p.c., giusti motivi per la compensazione (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem, il quale ritiene che la condanna alle spese debba intervenire anche nell'ipotesi in cui la domanda di fallimento sia stata promossa dal pubblico ministero e rigettata dal tribunale, e che i relativi importi debbano essere posti a carico dello Stato).

Peraltro, il secondo comma del nuovo art. 22 l.fall., risolvendo ex positivo jure la questione del se il debitore possa avanzare in sede di procedimento prefallimentare e di giudizio di reclamo avverso il decreto di rigetto pretese risarcitorie nei confronti del creditore istante, per avere quest'ultimo adottato l'iniziativa fallimentare senza la dovuta cautela, ha positivizzato il consolidato principio secondo cui il debitore non può chiedere in separato giudizio la condanna del creditore istante alla rifusione delle spese, ovvero al risarcimento del danno per responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96 c.p.c. (Cass. n. 2216/2000, in Foro it., con nota di Fabiani).

Il regime della sospensione dei termini feriali

È un principio pacifico quello secondo cui la sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale, prevista dall'art. 1, 1. 7 ottobre 1969, n. 742, non si applichi (ai sensi del successivo art. 3 della legge, in relazione all'art. 92 dell'ordinamento giudiziario di cui al r.d. n. 12 del 1941) alle «cause inerenti alla dichiarazione e revoca del fallimento», senza alcuna limitazione o distinzione fra le varie fasi ed i vari gradi del giudizio, con la conseguenza che detta sospensione non opera neppure con riguardo ai giudizi d'impugnazione, compresa la revocazione (Cass. n. 12625/2010; Cass. n. 15072/2000; Cass. n. 4627/1997).

Va, da ultimo, segnalato che la sospensione dei termini di decadenza nella misura di 300 giorni dall'evento lesivo, prevista dall'art. 20 della legge n. 44 del 1999, concernente il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura, trova applicazione anche con riguardo alle cause inerenti alla dichiarazione e revoca del fallimento, per le quali, ad altri fini, 1'art. 3 della legge n. 742 del 1969 (in relazione all'art. 92 del r.d. n. 12 del 1941) fissa in generale il principio dell'inapplicabilità della sospensione feriale, trattandosi di disposizioni aventi presupposti diversi e tra le quali non è ipotizzabile un conflitto. Ne deriva che il fallimento dichiarato nonostante la pendenza del suddetto termine di trecento giorni va revocato in sede di giudizio di reclamo (Cass., n. 19978/2009; Cass., n. 1613/2009; v. anche, App. Roma, 30 maggio 2011).

L'istruttoria prefallimentare ed il regime della prova. Diritti delle parti e poteri del tribunale: generalità

Deve ritenersi in termini generali che i diversi commi di cui si compone l'art. 15 l.fall. disegnano un vero e proprio «statuto» del «diritto alla prova» delle parti del processo del fallimento, che si esplica, in particolar modo, nel diritto di depositare — entro il termine non inferiore a sette giorni prima dell'udienza, fissato dal tribunale con decreto di convocazione — documenti e relazioni tecniche (cfr. comma quarto), nel diritto di articolare mezzi di prova costituendi, anche direttamente all'udienza (cfr. comma sesto), nel diritto di avvalersi, nel corso del processo di consulenti tecnici di parte (cfr. comma settimo) nonché nel diritto del debitore di depositare una situazione patrimoniale aggiornata, economica e finanziaria, dell'impresa (cfr. comma quarto).

Per contro, il tribunale deve ordinare già in sede di decreto di fissazione dell'udienza di comparizione del debitore il deposito dei bilanci dell'impresa debitrice relativi agli ultimi tre esercizi e della situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata dell'impresa medesima (v. comma quarto), documenti questi funzionali all'accertamento della ricorrenza dei presupposti soggettivi e oggettivi del fallimento. Può inoltre richiedere d'ufficio «eventuali informazioni urgenti» (cfr. ancora comma quarto): per un approfondimento delle questioni trattate, si rimanda a De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, Padova, 2012, 228; v. anche Saletti, 988; tuttavia, quando il tribunale dispone, per motivate ragioni, che si assumano «informazioni urgenti», i risultati di tale attività istruttoria non possono fondare il convincimento del giudice, se non adeguatamente valutati nel contraddittorio tra le parti, con la garanzia della prova contraria, e suffragati da altri concordanti elementi di prova.

Infine il tribunale può disporre d'ufficio, anche direttamente all'udienza, i mezzi istruttori ritenuti necessari (cfr. comma sesto), eventualmente delegando la loro assunzione ad un giudice componente del collegio.

Come è dato riscontrare dalla piana lettura delle norme in commento, il legislatore ha disegnato — con riguardo al regime normativo della prova — una struttura di procedimento prevalentemente sorretto dal principio dispositivo, salva l'attivazione dei poteri officiosi del tribunale, resi necessari dai profili di interesse generale sottostanti al giudizio prefallimentare, nonché dal tradizionale limite della tutela dei diritti e delle situazioni «non disponibili: sul punto anche la giurisprudenza della Corte cost. (sent. 1 luglio 2009, n. 198) la quale ha ribadito, in tema di dichiarazione di fallimento e di onere della prova nel procedimento dichiarativo, che, pur dopo la riforma del 2006 e dopo il d.lgs. correttivo del 2007, «nella materia fallimentare vi è un ampio potere di indagine officioso in capo allo stesso organo giudicante. Di ciò è sicuro indice non solo la previsione contenuta nella fine del quarto comma dell'art. 15 legge fallimentare, là dove si precisa che il tribunale, dopo aver ordinato al debitore fallendo il deposito dei bilanci relativi agli ultimo tre esercizi nonché atti da cui risulti una situazione economica aggiornata, può comunque chiedere informazioni urgenti, potendosi a tal fine avvalere, evidentemente, di ogni organo pubblico a ciò competente, ma anche quanto previsto alla lettera b) del secondo comma dell'art. 1 della legge fall., ove è chiarito che i dati relativi all'ammontare dei ricavi lordi realizzati dal debitore nel triennio antecedente alla data di deposito della istanza di fallimento sono utilizzabili in «qualunque modo risulti» e quindi non soltanto sulla base delle allegazioni probatorie del debitore». Peraltro il Giudice delle leggi ha, poi, escluso che la vigente disciplina attribuisca «in via esclusiva al fallendo la prova della sua non assoggettabilità al fallimento, vietando al giudice la possibilità di acquisire aliunde, o tramite l'apporto probatorio delle altre parti del procedimento, gli elementi necessari per verificare la sussistenza dei requisiti richiesti».

Ed infine, anche la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di procedimento per la dichiarazione di fallimento, l'onere, posto a carico del creditore, di provare la sussistenza del proprio credito e la qualità di imprenditore in capo al debitore, non esclude, ai sensi dell'articolo 15, la sussistenza di spazi residuati di verifica ufficiosa da parte tribunale, che può assumere informazioni urgenti, utili al completamento del bagaglio istruttorio e non esclusivamente strumentali all'adozione di un eventuale misura cautelare, in quanto il procedimento, pur essendo espressione di giurisdizione oggettiva perché incide su diritti soggettivi, consacrando il potere di dispositivo delle parti, nel contempo tutela gli interessi di carattere generale e ha attenuato, ma senza eliminarlo, il suo carattere inquisitorio (così, Cass. n. 13086/2010).

Sul punto, v. anche Cavallini, Sub art. 15, in AA. VV., Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, Milano, 2010, 320, il quale evidenzia che «la limitazione ai «mezzi di prova» ed alle «informazioni urgenti» dell'iniziativa officiosa nel procedimento prefallimentare, per vero coerente con la stessa soppressione dell'iniziativa officiosa del fallimento, introduce sì un profilo «inquisitorio» al principio (generale) di disponibilità in capo alle parti della deduzione dei mezzi istruttori, ma al contempo esclude che, in questa prospettiva, si debba recuperare il vero e proprio principio inquisitorio (esteso innanzi tutto al potere di introduzione d'ufficio dei fatti) proprio dei procedimenti in camera di consiglio, con il risultato di avvicinare tale procedimento al modello strutturale tipico del processo ordinario di cognizione».

Sul punto va aggiunto che se è vero, per un verso, che il giudizio di istruttoria prefallimentare per evidenti ragioni deve più di altri ispirarsi a caratteristiche di celerità (e talvolta di urgenza), e che tale esigenza trova espressione nell'art 15 l.fall., là dove è disposto che il tribunale «provvede senza indugio [..] all'ammissione e all'espletamento dei mezzi istruttori», tuttavia è altrettanto vero che, per altro verso, tali esigenze — la cui emersione nel procedimento prefallimenatre impone anche che la fase istruttoria sia condotta dal tribunale con l'applicazione, in sede di assunzione delle prove e nel rispetto del contraddittorio, di dosati strumenti di «deformalizzazione» istruttoria (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 229) — non sono tali da giustificare nel nuovo contesto normativo il divieto, in via pregiudiziale, dell'ingresso nel processo di fallimento anche alle prove cd. di «lunga durata», quali quelle costituende come la testimonianza e la consulenza tecnica d'ufficio, quest'ultima peraltro testualmente oggi prevista dall'art. 15 l.fall.

L'onere della prova dell'ammontare dei debiti scaduti e non pagati.

Deve ritenersi, come sopra già accennato, che il criterio della maggiore vicinanza della prova è da evocarsi anche in relazione ad una ulteriore questione, e cioè su quale parte del giudizio di istruttoria prefallimentare incomba l'onere di provare l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti del processo..

E invero l'ultimo comma dell'art. 15 l. fall prevede che, a dispetto dell'accertamento della insolvenza, non si faccia luogo alla dichiarazione di fallimento se il predetto ammontare, risultante dagli atti dell'istruttoria prefallimentare, sia complessivamente inferiore ad euro trentamila. Va subito chiarito che si tratta dell'ammontare complessivo dei debiti risultanti dall'istruttoria prefallimentare, e non soltanto dei debiti che il convenuto ha nei confronti del ricorrente e che esso opera a prescindere dalla prova negativa — il cui onere, come si è visto, incombe sul debitore — in ordine al raggiungimento dei limiti dimensionali di fallibilità previsti dall'art. 1.fall., e ciò nel senso che — se il complesso dei debiti non supera la suddetta somma di euro trentamila — il fallimento non può essere egualmente dichiarato.

La disposizione si allinea con il principio contenuto nella legge di delega alle riforme del 2006-2007 (cfr. l'art. 1, comma sesto, lettera a), n. 1, l. n. 80 del 2005), che prescriveva di ridurre l'area di esenzione dal fallimento, ma anche con il principio (parimenti contenuto nella legge delega) che del pari prescriveva l'accelerazione delle procedure concorsuali, essendo ipotizzabile che la «liberazione» di energie giudiziarie, a seguito della possibilità di non aprire procedure «inutili», si riverberasse indirettamente sull'efficienza del sistema complessivo della liquidazione concorsuale. Peraltro la previsione in esame si adegua alle indicazioni della Corte costituzionale che aveva già indirizzato al legislatore ordinario un autorevole monito, invitandolo a considerare che «imprese molto modeste incorrono nelle procedure fallimentari e vengono meno le finalità del fallimento», e che «l'esiguo patrimonio attivo del fallito può rimanere assorbito interamente dalle spese della complessa procedura e a volte risulta persino insufficiente a coprire le spese anticipate dall'erario. II fallimento finisce con l'essere un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori e un mezzo di difesa insufficiente» (Corte cost. n. 570/1980).

Sul punto si è ritenuto che la soglia dell'indebitamento prevista dall'art. 15 l.fall. si configurerebbe non già come un fatto impeditivo ex art. 2697 c.c., ma come una condizione obiettiva di procedibilità, che deve essere oggetto di rilevazione del tribunale in ogni caso, in base agli atti acquisiti per l'accertamento dei presupposti di cui agli artt. l e 5 1. fall., senza che vi sia tuttavia spazio per l'applicazione dell'onere della prova quale regola di giudizio per il caso dubbio. Ne discenderebbe che, se dovessero mancare gli elementi per ritenere superata detta soglia, non avendo il debitore adempiuto alla prescrizione del deposito della sua situazione contabile aggiornata, non si potrebbe addivenire alla declaratoria di fallimento (Trib. Roma, 24 dicembre 2008).

Ciò posto, occorre tuttavia concordare, in subiecta materia, con quella autorevole dottrina secondo la quale la soglia di fallibilità relativa all'ammontare dei debiti non rappresenta l'oggetto di un'eccezione in senso stretto del debitore, ma sia un fatto rilevante ipso jure, che il tribunale deve rilevare anche d'ufficio se risulta dagli atti (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 246).

Ebbene, va subito chiarito che — a differenza che nell'ipotesi della prova dei requisiti dimensionali di fallibilità — qui il legislatore non ha esplicitamente chiarito se debba essere l'attore a provare che il convenuto abbia un'esposizione debitoria superiore alla somma indicata nell'ultimo comma dell'art. 15 l.fall., ovvero se gravi sul convenuto di provare di non avere debiti superiori a quella cifra.

Nella pratica concreta, sarà buona prassi allegare al ricorso di fallimento da parte del ricorrente (il cui credito non superi la soglia di legge) per lo meno il bilancio del debitore o una visura dei protesti o dei pignoramenti trascritti, da cui risulti l'esistenza di debiti di ammontare più elevato.

Tuttavia, l'ammontare dei debiti potrebbe risultare altrimenti anche da altri documenti depositati dalle parti ovvero acquisiti d'ufficio, come nel caso della richiesta relazione alla Guardia di Finanza.

Ma, allorché la prova del superamento della soglia non risulti dagli atti del giudizio, deve ritenersi necessaria l'applicazione del principio della ripartizione dell'onere della prova per conoscere su quale parte riversare gli effetti negativi della mancata prova del sopra menzionato presupposto oggettivo, necessario per la declaratoria di fallimento. E su ciò è da ritenersi che il relativo onere incomba sul debitore resistente (così, De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 233. Contra, Ferro, Sub art. 15, 2011, 227).

Depone nel senso da ultimo affermato, in primo luogo, l'esame della sistematica della norma. Ed invero il legislatore ha introdotto la previsione della soglia di fallibilità nell'ultimo comma dell'art. 15, stabilendo così che alla dichiarazione di fallimento non si faccia luogo allorché risulti il mancato superamento della stessa da parte del debitore dagli atti dell'istruttoria prefallimentare. Ne discende che il criterio dell'indebitamento minimo rappresenta in realtà una condizione per 1'accoglimento della domanda, che deve permanere lungo tutto il corso del giudizio, e che non si esaurisce al suo inizio. Pertanto non si può rigettare de plano ed in limine litis un'istanza di fallimento fondata su crediti inferiori alla soglia di legge (Trib. Pescara 19 dicembre 2006, in Fall., 2007, 553).

Ne consegue, ancora, come ulteriore corollario, che la soglia di fallibilità può operare anche a dispetto dell'avvenuto accertamento dello stato di insolvenza, ossia sul piano strettamente probatorio dopo che l'attore abbia provato il fatto costitutivo della pretesa, atteggiandosi invero alla stregua di un fatto impeditivo negativo, la cui prova incombe sul convenuto (Trib. Pescara 19 dicembre 2006, in Fall., 2007, 553).

Ebbene, quest'ultimo potrà a tal fine avvalersi di presunzioni, ricorrendo verosimilmente a quei medesimi documenti (bilanci, elenco protesti, etc.), dei quali potrebbe usufruire anche l'attore per provare il superamento della soglia, rappresentando questi elementi di prova senz'altro a lui più «vicini» (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem).

Va peraltro chiarito che soltanto la prova del fatto impeditivo negativo ribalta l'onere probatorio sul ricorrente-creditore, il quale si accolla, in definitiva, il «rischio» processuale di non avere provato in corso di causa l'esistenza di debiti oltre la soglia di legge, ulteriori rispetto a quelli che si desumono dalle prove offerte dal convenuto.

Oneri della prova e principio di non specifica contestazione dei fatti.

Il procedimento prefallimentare, pur avendo acquisito, come precocemente colto dalla più attenta dottrina, le connotazioni tipiche di un procedimento civile, sia pure speciale, ed assunto alcuni tratti immancabili della «ortodossia processualcivilistica» — primo fra tutti il principio dell'iniziativa di parte —, tuttora mostra innegabilmente, specie nel segmento dell'istruttoria prefallimentare, «molteplici tracce della sua origine, sommaria ed inquisitoria»: Ferro, Procedimento prefallimentare, 2006, 501. Cfr. anche Fabiani, 2007, I, 605 ss, in cui si evidenzia che — in un'ottica di riconciliazione tra lo spirito (demitizzato) della riforma e il diritto vivente — i forti poteri istruttori officiosi di cui dispone ora il tribunale, per quanto sganciati dalla loro matrice inquisitoria, non sono distonici rispetto alla nuova filosofia delle procedure concorsuali, la quale non sembra in realtà disposta a sacrificare in nome dell'autonomia privata (e del possibile accordo che intervenga tra le parti) una pronuncia giudiziale destinata ad incidere così profondamente su una «comunità indifferenziata di soggetti che con il fallimento vedono modificati i loro diritti», preferendo «assegnare al giudice il potere di verificare con mezzi di prova ulteriori la corrispondenza delle allegazioni delle parti».

Tuttavia, occorre puntualizzare che il perimetro all'interno del quale operano siffatti poteri officiosi deve essere tracciato dalle allegazioni e sollecitazioni delle parti – ossia dalle circostanze di fatto rappresentative degli elementi introdotti nel thema probandum e pertinenti al thema decidendum –, e che non possano essere utilizzate ai fini della decisione prove non preventivamente sottoposte all'esame ed all'eventuale contraddittorio delle parti (cfr. Cass. n. 5394/2004 e Cass. n. 14200/2004; sugli oneri di allegazione e dimostrazione della parte v. Cass. 10 settembre 2004, n. 18241; v. anche Cass. n. 21108/2005).

Va ricordato, ancora, che il nostro ordinamento processuale è caratterizzato dal principio generale c.d. di acquisizione della prova, sicché qualsiasi risultanza istruttoria, comunque acquisita e ad opera di qualunque parte del processo, concorre indistintamente alla formazione del convincimento del giudice; mentre il principio dettato dall'art. 2697 c.c. assolverebbe alla più limitata funzione di individuare la parte che deve scontare le conseguenze di una perdurante incertezza sui fatti, onde consentire comunque la decisione (Cass. n. 11309/2009, cit., e, più in generale, Cass. n. 15162/2008; Cass. S.U., n. 28498/2005).

Peraltro, come già sopra rilevato, sarebbe stato proprio il «ritrarsi del principio inquisitorio», sia sostanziale che formale, a dilatare la portata della regola di ripartizione dell'onus probandi sancita dall'art. 2697 c.c., sia pure temperata dalla progressiva immanenza ordinamentale del principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova dal quale dovrebbe in teoria discendere anche il diniego di acquisizioni officiose relative a fatti collocati nella piena disponibilità della parte istante (Vella, Oneri probatori e poteri istruttori, Oneri probatori officiosi e poteri officiosi nel nuovo procedimento di dichiarazione di fallimento, cit., ibidem. Cfr. anche Cass. n. 23727/2008, cit.; Cass. S.U., n. 141/2006, cit.).

Da ultimo va rilevato che – specie a seguito dell'introduzione del corrispondente principio nell'art. 115, primo comma, c.p.c. (a valere per i giudizi instaurati dal 4 luglio 2009, ai sensi dell'art. 58 l. 18 giugno 2009, n. 69) – il principio di non contestazione deve ritenersi applicabile anche al procedimento prefallimentare, fermo restando l'approdo pacifico per cui esso non si applica alla parte contumace, atteso che tradizionalmente, nel nostro ordinamento, la contumacia del convenuto non equivale all'ammissione dei fatti dedotti dall'attore e non elide il potere-dovere del giudice di accertare se quei fatti costituitivi della pretesa siano effettivamente dimostrati (Cass. n. 15777/2006).

Tuttavia, è stato correttamente rilevato in dottrina che, pur partendo dal presupposto che l'effetto di relevatio ab onere probandi sotteso al principio di non contestazione vale anche per l'istruttoria prefallimentare, occorre segnalarne l'incompatibilità con i commi quinto e settimo dell'art. 15 l.fall., i quali legittimerebbero – stabilendo lo stesso art. 115 c.p.c. «salvi i casi previsti dalla legge» – una attivazione officiosa del tribunale anche in caso di inerzia assoluta del debitore, sia nella forma più radicale della sua mancata comparizione che in quella più sostanziale del mancato deposito della documentazione prescritta dal tribunale, ciò in forza del quarto comma della stessa norma (Vella, Oneri probatori e poteri istruttori, Oneri probatori officiosi e poteri officiosi nel nuovo procedimento di dichiarazione di fallimento, cit., ibidem). Per altro verso, ne è stata proposta una applicazione mitigata — in ragione delle gravi conseguenze sullo status del debitore — da alcuni «correttivi», e ciò con riferimento da un lato alla necessità di una allegazione sufficientemente specifica, e non meramente esplorativa, del ricorrente e, dall'altro, alla limitazione dell'effetto ammissivo solo a quei fatti non contestati la cui sussistenza derivi per incompatibilità con le difese svolte in concreto dalla controparte, con la conseguente conservazione di un margine di discrezionalità del giudicante, alla luce dell'intero quadro probatorio complessivamente emerso (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 78 s.).

Tipologia di mezzi istruttori acquisibili.

La legge fallimentare del 1942 aveva omesso in modo consapevole di disciplinare compiutamente la fase istruttoria del giudizio per la declaratoria di fallimento, e ciò con la evidente intenzione di deformalizzare l'esercizio dei poteri del tribunale. Ciò aveva condotto, soprattutto prima della svolta impressa dalla giurisprudenza costituzionale negli anni '70, alla formazione di prassi poco rispettose delle garanzie del contradditorio e delle prerogative difensive del debitore: Zapparoli, 65.

La valenza lato sensu inquisitoria di tali prassi aveva trovato, negli ultimi decenni del secolo, punti di attenuazione e di equilibrio, anche e soprattutto sotto la spinta dell'evoluzione giurisprudenziale e dell'affermarsi dei principi del giusto processo, pur nella insuperabile premessa «delle esigenze di speditezza e della natura inquisitoria» del procedimento, nel quale non era nemmeno prevista «una scansione formale precisa, come nel processo ordinario, tra fase istruttoria e fase decisoria» (così, Cass. n. 28985/2008).

In realtà, le riforme de 2006-2007 hanno almeno apparentemente confermato la scelta del legislatore del 1942, evitando di disciplinare in modo organico lo svolgimento della fase istruttoria del giudizio. Non vi è invero né un richiamo alle disposizioni in materia di prova contenute nel libro secondo del codice di procedura, in quanto applicabili, né una disciplina più specifica del catalogo probatorio utilizzabile e delle modalità di assunzione dei diversi mezzi di prova.

Tuttavia non è discutibile una sostanziale divergenza tra la disciplina attuale e quella precedente.

In primo luogo, l'art. 15 l.fall., nel dipanarsi dei suoi commi, non trascura significativi riferimenti ai passaggi «topici» della fase istruttoria del giudizio di cognizione, alludendo in maniera esplicita a taluni mezzi di prova e costruendo i tratti di quello che si può definire con certezza un diritto alla prova delle parti (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 252).

Inoltre, non può essere neanche trascurata la portata precettiva della previsione normativa contenuta nel sesto comma dell'art. 15 l.fall. secondo cui nel corso della istruttoria prefallimentare il tribunale ovvero il giudice delegato «provvede senza indugio... all'ammissione e all'espletamento dei mezzi istruttori». Come è stato acutamente osservato in dottrina (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem), l'endiadi «ammissione-espletamento» dei mezzi istruttori non può non richiamare una fase — sia pure più celere e meno formalizzata di quella del giudizio di cognizione ordinaria — di valutazione dell'ammissibilità e di assunzione delle prove.

Peraltro, la stessa Corte di Cassazione ha parlato espressamente di «intervenuta procedimentalizzazione della fase prefallimentare, di cui sono sicuro indice la definizione degli adempimenti processuali e la formalizzazione dell'attività di trattazione e istruttoria delle parti» (Cass. n. 22151/2010), con la conseguenza che la fase istruttoria prefallimentare è più facilmente accostabile quanto alla disciplina applicabile al procedimento di cognizione piuttosto che ai procedimenti in camera di consiglio. Sul punto occorre ricordare che nel procedimento camerale puro, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 738 c.p.c. (norma a tenore della quale «il giudice può assumere informazioni»), il giudice, senza che sia necessario il ricorso alle fonti di prova disciplinate nel codice di rito, risulta svincolato dalle iniziative istruttorie delle parti e procede con in più ampi poteri inquisitori, i quali si estrinsecano attraverso la assunzione di informazioni che, espressamente consentita dalla menzionata disposizione, non resta subordinata alla istanza di parte. Vi è inoltre che tale assunzione, essendo oggetto di una mera facoltà, non implica alcun obbligo per il giudice, sicché la mancata estensione della indagine non determina l'inosservanza delle norme disciplinanti il procedimento camerale e risulta incensurabile in cassazione, sotto il profilo della violazione di legge, in ordine al mancato esercizio di tale facoltà (Cass. n. 1947/1999).

Documenti e relazioni tecniche di parte.

Ebbene, il quarto comma dell'art. 15 prevede che, con il decreto di comparizione, il tribunale fissi al convenuto un termine non inferiore a sette giorni per la presentazione di memorie ed il deposito di documenti e relazioni tecniche.

Ne discende che ad analoga facoltà di deposito sia consentito l'accesso anche al ricorrente-creditore, contestualmente alla presentazione della istanza di fallimento. Di ciò un chiaro indice testuale di conferma è rappresentato dal successivo comma settimo, laddove la norma facoltizza le parti, anche in occasione dell'udienza prefallimentare, a nominare tecnici di fiducia (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 254).

Deve peraltro ritenersi consentito il deposito di documenti anche direttamente all'udienza, e ciò con particolare riferimento alla prova contraria rispetto ai documenti esibiti ed ai mezzi di prova articolati dalle altre parti, ovvero disposti o acquisiti d'ufficio.

Va detto poi che i documenti e le relazioni tecniche di parte sono per lo più finalizzati a dimostrare la ricorrenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento ovvero anche l'assenza dei presupposti soggettivi di fallibilità.

Sul punto va aggiunto che la norma non limita il novero dei documenti producibili, sicché è da ritenersi che le parti possano liberamente depositare tutti i documenti previsti dalla legge processuale e da esse ritenute rilevanti, con o senza data certa.

La prassi applicativa dimostra che il creditore è solito depositare documenti dimostrativi delle ragioni creditorie, dei protesti levati al debitore ovvero della situazione di dissesto della impresa, mentre il debitore è indirizzato a depositare i documenti contabili al fine di dimostrare la sua condizione soggettiva di soggetto non fallibile ex art. 1 l.fall.

Al contrario il pubblico ministero sarà solito depositare le relazioni della Guardia di Finanza ovvero della Polizia giudiziaria da cui emergano elementi di responsabilità anche penale a carico dell'imprenditore insolvente. Da ultimo, l'imprenditore che agisca in auto fallimento sarà solito depositare, a supporto probatorio della propria istanza, i documenti contabili che ne attestino la soggettiva fallibilità, nonché una relazione tecnica attestante lo stato di decozione in cui versa l'impresa.

Segue. Il deposito dei bilanci e della situazione patrimoniale aggiornata del debitore.

L'art. 15, comma quarto, stabilisce che con il decreto di fissazione dell'udienza il tribunale, in ogni caso, dispone che l'imprenditore depositi i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, nonché una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata.

Tuttavia va chiarito che, nonostante la disposizione in parola stabilisca che l'invito al deposito sia rivolto al debitore, nulla impedisce al creditore di farsi parte diligente e di provvedere al deposito dei bilanci.

Sul punto, va ulteriormente chiarito che la espressione «in ogni caso» implica che si tratta di un adempimento istruttorio indefettibile al quale il tribunale deve procedere senza esercitare alcun margine di discrezionalità (Ferro, Sub. art. 15, cit., 196).

Deve ritenersi che la previsione normativa in esame sia direttamente funzionale alla verifica dei requisiti dimensionali di fallibilità, piuttosto che all'accertamento della insolvenza del convenuto, la cui prova spetta invece all'attore secondo lo schema di ripartizione degli oneri probatori sopra indicato. Ma va altresì detto che, qualora il predetto onere allegatorio sia adempiuto correttamente, è possibile ricavare utili elementi di valutazione probatoria dai bilanci anche per l'accertamento dello stato di insolvenza del debitore, e ciò con particolare riferimento agli indici contabili relativi alla debitoria complessiva ovvero anche dalla eventuale flessione dei ricavi lordi e dalle eventuali perdite di esercizio.

Peraltro, occorre chiarire che la funzionalizzazione del deposito dei bilanci all'accertamento, in via principale e preliminare, del requisito soggettivo di fallibilità fa sì che essa rivesta un carattere di indefettibilità, con la ulteriore necessità che, rivestendo tale accertamento un carattere preliminare ed eventualmente assorbente dell'esame del merito della domanda, lo stesso dovrà essere svolto anche mediante l'applicazione della regola dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c., rispondendo tale necessità alla esigenza di ragionevole durata del processo di fallimento.

Quanto alla individuazione del termine, risulta evidente che l'intentio legis sia quella di invitare il debitore al deposito in limine litis, sicché la mancata produzione dei bilanci può risolversi con conseguenze negative per il debitore stesso atteso che, in assenza di ulteriori informazioni fornite dalle altre parti del processo o acquisite officiosamente dal tribunale, la ripartizione dell'onere della prova sancita dall'art. 1 l.fall. determina la declaratoria di fallimento anche dell'imprenditore che non superi le soglie di fallibilità e che al contempo, rimanendo contumace ovvero non adempiendo ai suoi ulteriori oneri allegatori e probatori, non provi la sua condizione soggettiva di debitore non fallibile (Cass. n. 11309/2009, secondo cui il giudice di merito, il quale ometta di assegnare la dovuta rilevanza alla mancata produzione del bilancio e fondi il proprio convincimento su modelli di dichiarazioni fiscali neppure inviati ai competenti uffici tributari, commette violazione di legge). È tuttavia evidente che l'assenza di una previsione esplicita di decadenza rende possibile il deposito anche successivamente alla costituzione del debitore, e ciò sino a quando la causa non sia rimessa in decisione, non potendosi la tardività del deposito interpretare, sotto il profilo della condotta processuale, come argomento di prova idoneo a fondare, di per sé solo, la decisione del tribunale.

Da ultimo, occorre chiarire che la disciplina sui presupposti di fallibilità e il carattere dispositivo del procedimento impongono di fornire rilievo allo sola documentazione inerente gli esercizi chiusi prima della data di deposito della istanza di fallimento, e non a fatti e documenti successivi (App. Milano 30 agosto 2007).

La verificazione di scrittura privata e querela di falso.

Deve ritenersi che anche nel nuovo regime normativo germogliato sulla base delle riforme degli anni 2006-2007 i procedimenti di verificazione di scrittura privata e di querela di falso siano incompatibili con il giudizio prefallimentare, benché quest'ultimo si sia per molti versi avvicinato al giudizio di cognizione ordinaria, e abbia perduto quelle caratteristiche di inquisitorietà che rivestiva nella versione dell'originaria legge fallimentare.

Sub Julio, la giurisprudenza di legittimità aveva già ritenuto che le disposizioni di cui agli artt. 214 e ss. c.p.c., sul riconoscimento e la verificazione della scrittura privata, non fossero applicabili nel procedimento che precede la dichiarazione di fallimento, «tenuto conto che quest'ultimo ha carattere sommario e camerale, investe materia sottratta al potere dispositivo delle parti, tende al riscontro dei presupposti per l'instaurazione della procedura concorsuale, senza un preciso accertamento delle obbligazioni facenti carico all'imprenditore. Pertanto, la circostanza che il debitore, in detto procedimento, non abbia disconosciuto la scrittura posta dal creditore a fondamento dell'istanza di fallimento, non osta a che tale disconoscimento possa essere effettuato, nei termini e nei modi di cui alle citate norme, nel giudizio di cognizione in cui il creditore abbia prodotto la stessa scrittura a sostegno del suo diritto».

Sul punto, deve ritenersi che, al di là della non trascurabile circostanza per cui la istruttoria prefallimentare rivesta anche oggi, nonostante le novità introdotte dalle dette riforme, carattere sommario e abbia comunque sempre la veste per espressa volontà legislativa di un giudizio camerale, già l'oggetto del giudizio il cui thema si incentra nell'accertamento della insolvenza e non già sulla esistenza del credito del ricorrente porta a ritenere incompatibile l'istanza di verificazione e la querela di falso, che costituiscono in realtà strumenti di creazione processuale ovvero di eliminazione per via giudiziaria dell'efficacia di prova legale che la legge attribuisce alla scrittura privata e all'atto pubblico (Montesano-Arieta, Trattato di diritto processuale civile, cit., 1223. Contra, De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 257).

Invero, non risulta utile né necessaria nella istruttoria prefallimentare una decisione con efficacia di giudicato intesa ad accertare, con efficacia vincolante erga omnes e con le caratteristiche della pubblica fede documentale, la provenienza della sottoscrizione ovvero la falsità materiale o ideologica del documento già dotato di pubblica fede, giacché nel giudizio prefallimentare si dibatte dello status di insolvenza da attribuire al debitore fallibile e neanche assume valore dirimente, da questo punto di vista, l'esistenza e la veridicità della documentazione attestante l'esistenza del credito, la cui rilevanza può al più assumere una valenza decisiva al solo fine di stabile la legittimazione attiva del creditore istante. Tuttavia tale accertamento, che riveste natura incidentale, va effettuato allo stato degli atti e con valutazioni sommarie, senza possibilità di innescare incidenti processuali ovvero sospensioni del giudizio in attesa di ulteriori accertamenti sulla veridicità ed autenticità delle scritture e degli atti allegati dalle parti. Del resto la natura comunque sommaria del giudizio non tollererebbe i tempi di accertamento necessari allo svolgimento incidentale delle procedure di verifica di scritture private e di querela di falso.

I poteri officiosi di acquisizione della prova e onere della prova; le prove officiose e le informazioni urgenti.

Prima delle riforme fallimentari si rinveniva frequentemente in giurisprudenza la regola secondo la quale il giudizio d'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento era governato dal principio inquisitorio nella cui applicazione il giudice, investito dall'esercizio di un potere di indagine attiva che costituiva riflesso e sviluppo di quello che caratterizzava la fase di apertura della procedura concorsuale, era sottratto alla normale distribuzione dell'onere della prova e non era soggetto al vincolo delle prove legali, potendo, in concreto, attingere le fonti del proprio convincimento da tutte le risultanze del fascicolo fallimentare. Rimaneva irrilevante la questione se tale fascicolo dovesse ritenersi acquisito di diritto agli atti del processo d'opposizione, o se l'allegazione di esso dovesse avvenire mediante uno specifico provvedimento istruttorio (Cass. n. 7019/1997; Cass. n. 1771/1996).

Ancor oggi — pur nel nuovo contesto della legge fallimentare riformata — taluni autori ritengono che l'asserita natura inquisitoria dell'istruttoria prefallimentare inibisca l'operare della regola di cui all'art. 2697 c.c.: ciò che varrebbe, ad esempio, anche a sollevare l'attore dall'onere di provare i fatti costitutivi dell'istanza fallimentare: in questo senso v. Bongiorno, 329 (secondo il quale «il carattere inquisitorio del procedimento impedisce che trovi piena applicazione la regola dell'onere della prova; sicché la mancata dimostrazione da parte del ricorrente dell'esistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, come pure la mancata prova della loro insussistenza, non possono essere ritenuti vincolanti per il tribunale, il quale potrà egualmente dichiarare il fallimento (nel primo caso) o rigettare la domanda (malgrado la carente difesa del debitore)»; Giannelli, 2008, 188.

Occorre, a questo punto, approfondire la questione della eventuale estensione del ruolo istruttorio suppletivo, che la giurisprudenza ha ritagliato per il tribunale fallimentare rispetto all'onere del debitore di provare i limiti dimensionali di non fallibilità e rispetto anche all'onere probatorio che caratterizza la posizione del ricorrente: Vella, cit., ibidem.

Cfr. anche, Cass. n. 17821/2010 che tratta di «un ruolo di supplenza assegnato al tribunale, il cui esercizio non è rimesso all'esistenza di presupposti vincolanti, ma che, al contrario, richiede una valutazione di merito da parte del giudice competente per la dichiarazione di fallimento, relativamente alla incompletezza del materiale probatorio acquisito, alla individuazione di quello astrattamente utile per una corretta definizione della procedura, alla concreta acquisibilità dei dati idonei a colmare le deficienze riscontrate, alla rilevanza dei detti dati sulla decisione da adottare».

È incontestabile che nel nuovo giudizio per la dichiarazione di fallimento il ricorrente sia onerato di provare a) la propria legittimazione attiva, e dunque la titolarità di un credito, ovvero i presupposti dell'iniziativa del P.M., ovvero la legittimazione ad agire per il fallimento in proprio; b) la qualità di imprenditore commerciale del debitore; c) lo stato di insolvenza; d) eventualmente, in caso di impresa individuale o di impresa collettiva cancellata d'ufficio da oltre un anno, la sua effettiva cessazione in epoca successiva.

Sotto il primo profilo, va aggiunto che, pur non essendo oggetto del procedimento prefallimentare l'accertamento del credito, la sua esistenza va delibata dal tribunale incidenter tantum, tanto che, ove si tratti di un credito contestato, il tribunale deve valutare se la contestazione del debitore sia meramente dilatoria, pretestuosa o palesemente infondata: Trib. Terni 27 aprile 2010, in osservatorio-oci.org, 2010, Ms. 228. Sul punto, va precisato che, in termini generali, la sussistenza del credito del ricorrente può rilevare, in sede prefallimentare, sotto tre diversi profili, e cioè, da un lato, la legittimazione ad agire e, dall'altro, lo stato di insolvenza e l'entità dei debiti scaduti e non pagati. In ogni caso, l'accertamento del credito della parte ricorrente con la istanza di fallimento non costituisce mai oggetto del procedimento per la dichiarazione di fallimento, giacché tale accertamento, in ambito concorsuale, è riservato al procedimento di accertamento del passivo fallimentare che segue la dichiarazione di fallimento ed al quale anche chi abbia chiesto tale dichiarazione — allegando di essere creditore del fallendo — ha l'onere di partecipare per divenire creditore concorrente. Tale accertamento potrebbe, inoltre, richiedere tempi e mezzi di prova incompatibili con le esigenze di particolare celerità e con le forme del procedimento per la dichiarazione di fallimento. Ebbene, con specifico riferimento al profilo della legittimazione ad agire, poiché si tratta, secondo l'insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, di una condizione dell'azione diretta all'ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall'azione, prescindendo, dunque, dall'effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce al merito della causa e non investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza (da ultimo Cass. n. 14177/2011; Cass. n. 11284/2010; Cass. n. 12832/2009), essa va verificata sulla base della mera allegazione di chi agisce affermandosi titolare attivo della situazione giuridica dedotta in giudizio ed affermandone la titolarità passiva in capo al convenuto. Pertanto è da escludersi che sia necessario un compiuto o definitivo accertamento del credito vantato dal ricorrente nei confronti del debitore e che la verifica che, nel corso del procedimento per la dichiarazione di fallimento, il tribunale (o eventualmente la corte d'appello in sede di reclamo) deve compiere sull'esistenza e la titolarità del credito vantato dalla parte ricorrente — che assuma di essere creditore del fallendo — non può che avere carattere meramente incidentale e sommario e concludersi con esito positivo qualora la esistenza di tale credito o la sua titolarità in capo al ricorrente non possa essere ragionevolmente esclusa sulla base di semplici e rapidi accertamenti, così come quella che il giudice dell'azione surrogatoria di cui all'art. 2900 c.c. o dell'azione revocatoria ordinaria di cui all'art. 2901 c.c. (l'una e l'altra, alla pari di quella volta ad ottenere la dichiarazione di fallimento del debitore, mezzi di conservazione della generica garanzia dei creditori rappresentata dal patrimonio del debitore) deve compiere in ordine alla legittimazione dell'attore che, per costante giurisprudenza, va riconosciuta anche a chi alleghi di essere titolare di un credito che non sia stato ancora giudizialmente accertato o che sia contestato dal debitore e dunque solo eventuale (così, Trib. Latina, 19 gennaio 2012, inedita).

Ebbene, se l'accertamento dei ricavi lordi «in qualunque modo risulti» ex art. 1, secondo comma, l.fall., così come l'ordine di deposito dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e della situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata ex art. 15, quarto comma, l.fall., sembrano ancorati all'accertamento dei limiti dimensionali — e dunque in dichiarato supporto all'attività difensiva del debitore —, la facoltà per il tribunale di «richiedere eventuali informazioni urgenti» di cui allo stesso art. 15, quarto comma, l.fall. e di disporre d'ufficio mezzi istruttori ai sensi dell'art. 15, sesto comma, l.fall., nonché quella, per la corte d'appello in sede di reclamo, di assumere «anche d'ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari» ex art. 18, primo comma, l.fall. presentano una ampiezza semantica tale da farle ritenere svincolate in modo indiscutibile dalla posizione processuale del debitore e, dunque, in tesi destinate anche ad integrare un'incompleta attività istruttoria del ricorrente: così, in modo del tutto condivisibile Vella, Oneri probatori e poteri istruttori, Oneri probatori officiosi e poteri officiosi nel nuovo procedimento di dichiarazione di fallimento, cit., ibidem.

In effetti, possono leggersi in questa prospettiva le richiamate affermazioni della Suprema Corte circa la superfluità di qualsivoglia indagine sulla incidenza dell'onere della prova, laddove il giudice, «sulla base delle prove comunque acquisite al processo e da qualunque parte fornite, sia in grado di desumere il proprio convincimento in ordine alla verità dei fatti allegati a fondamento della domanda o della eccezione» (Cass. n. 11309/2009, cit.). Del resto, anche il Giudice delle leggi sembra collegare quell'ampio «potere di indagine officioso in capo allo stesso organo giudicante» (ed il «prudente e consapevole uso» che ne auspica) al solo scopo di «evitare, nei limiti di quanto ragionevolmente dovuto, la possibilità che siano dichiarati fallimenti che, date le caratteristiche del debitore, sarebbero ingiustificati», così attribuendo a quei poteri una specifica ed unidirezionale valenza teleologica (Corte cost. n. 198/2009, cit.).

Del resto va anche aggiunto che, una volta ritenuto legittimo l'esercizio dei poteri istruttori officiosi nel procedimento prefallimentare, un suo confinamento all'interno della posizione di una sola delle parti del giudizio potrebbe trarre legittimazione solo da una espressa previsione normativa, mancando la quale non dovrebbero invece ravvisarsi ostacoli ad un generalizzato esercizio di quel potere, nei limiti oggettivi in cui esso è inscritto (Vella, Oneri probatori e poteri istruttori, Oneri probatori officiosi e poteri officiosi nel nuovo procedimento di dichiarazione di fallimento, cit., ibidem).

E dunque la richiesta di informazioni urgenti, così come l'assunzione d'ufficio dei mezzi di prova ritenuti necessari, dovrebbero potersi indifferentemente rivolgere anche ai fatti costitutivi della domanda, ritualmente dedotti del creditore – come per il profilo della natura commerciale dell'impresa del debitore, se non anche il suo stato di insolvenza — ma dallo stesso non compiutamente provati. Ciò nei limiti delle allegazioni assertive e probatorie comunque contenute negli scritti difensivi delle parti che cristallizzano in modo definitivo il thema decidendum e quello probandum anche del giudizio prefallimentare.

Sul punto è comunque innegabile che il legislatore abbia in realtà voluto conservare ampi poteri istruttori in capo al giudicante, mentre l'unica vera grande novità è averne escluso la possibilità di assumere l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento.

Ne discende che se un soggetto ha assunto tale iniziativa, la detta preclusione non ridonda affatto sui poteri istruttori officiosi, nei quali anzi lo stesso legislatore — e poi gli organi giurisdizionali che l'hanno interpretato — evidentemente ravvisano un ottimale bilanciamento tra l'interesse privatistico alla dichiarazione di fallimento e l'interesse pubblicistico alla sua negazione, ove la relativa tutela si riveli inutilmente costosa per la collettività.

Peraltro, deve ricordarsi che si registra, in subiecta materia, un ampio ricorso da parte della giurisprudenza pratica a decreti di convocazione delle parti che già contengono la richiesta di informazioni urgenti su alcuni presupposti del fallimento (in particolare agli enti previdenziali e tributari, in ordine alla esposizione debitoria del fallendo, o alle cancellerie esecutive in ordine alla pendenza di procedimenti a carico del debitore), in quanto ritenuti di difficile acquisizione dalla parte privata, e comunque a prescindere dall'iniziativa della parte medesima: cfr. l'indagine scientifica condotta dall'Osservatorio sulle Crisi di Impresa, compendiata in AA. VV., L'istruttoria prefallimentare. Procedimento per la dichiarazione di fallimento: un'indagine giuridico-aziendalistica nella prassi dei tribunali italiani, a cura di Ferro-Di Carlo, Milano, 2010, 490 ove è emerso che ben due terzi dei giudici ricorre a tale modalità acquisitiva di informazioni. Tali prassi hanno suscitato la critica di quella parte della dottrina che ravvisa in simili protocolli la sostanziale «evaporazione del carattere straordinario di tale atto istruttorio» (stante la connotazione di eventualità che lo accompagna, a differenza della necessità dell'acquisizione, «in ogni caso», di bilanci e situazione aggiornata), e la negazione dell'archetipo proprio del contenzioso, in cui l'intervento integrativo officioso presupporrebbe sempre una sua sollecitazione, altrimenti finendo «con il rendersi suppletivo dell'onere della prova gravante sulle parti» (Ferro, Procedimento prefallimentare, cit., 501).

Si tratta dell'attivazione dei poteri officiosi del giudice fallimentare esercitata addirittura prima della forma costituzione del pieno contraddittorio processuale, sicché ogni acquisizione istruttoria così veicolata dovrà essere sottoposta al contraddittorio delle parti e potrà altresì essere oggetto di ulteriori approfondimenti probatori su istanza di parte.

In conclusione, può ritenersi che la detta attivazione dei poteri officiosi del tribunale nel corso della istruttoria prefallimentare sia, sulla base della elaborazione giurisprudenziale sopra indicata e degli univoci indici normativi contenuti nell'art. 15, un principio ormai non più discutibile (come si è sopra detto, Cass. n. 13086/2010 discorre di «sussistenza di spazi residuali di verifica officiosa da parte del tribunale, che può assumere informazioni urgenti, utili al completamento del bagaglio istruttorio»; e Cass. n. 17821/2010, cit.).

Invero, il vigente art. 15 l.fall. dispone che il tribunale possa richiedere eventuali «informazioni urgenti», e che il giudice delegato provveda all'ammissione ed all'espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d'ufficio. È altresì non rinunziabile il principio secondo cui il giudizio di istruttoria prefallimentare deve, per evidenti ragioni, più degli altri realizzare esigenze di celerità ed, a volte, di urgenza. Peraltro non va neanche dimenticato che la Consulta ha evidenziato che il prudente e consapevole uso dei poteri istruttori officiosi che la norma riconosce al tribunale «è di per sé strumento idoneo ad evitare, nei limiti di quanto ragionevolmente dovuto, la possibilità che siano dichiarati fallimenti che, date le caratteristiche del debitore, sarebbero ingiustificati» (Corte cost. n. 198/2009, cit.).

Tuttavia deve essere precisato ancora una volta, in subiecta materia, che — non essendo più consentita l'iniziativa d'ufficio per la dichiarazione di fallimento — gli accertamenti istruttori officiosi previsti dalla norma (ed, a fortiori, le «informazioni urgenti») non possono non essere subordinati all'allegazione, ad opera delle parti, quanto meno di un principio di prova, ad esempio in ordine alla sussistenza dello stato d'insolvenza: Cass. n. 7019/1997; Cass. n. 1771/1996.

Peraltro, come già sopra accennato, ove il tribunale stabilisca di colmare le lacune dell'attività probatoria delle parti disponendo mezzi istruttori officiosi, deve sempre portare a conoscenza delle parti — sotto pena di nullità del provvedimento finale — le fonti di prova officiosamente assunte, che concorreranno a formare il suo convincimento, mettendo le parti medesime in condizione di articolare difese (De Matteis, 187).

Ne discende che, in ultima analisi, la discrezionalità giudiziale di disporre mezzi officiosi deve esercitarsi iuxta alligata partium, senza debordare in acquisizioni istruttorie che allarghino il thema decidendum oltre l'ambito allegatorio disegnato dalle asserzioni difensive contenute negli atti introduttivi del giudizio, con una, cioè, deformazione del potere di indagine officioso che sfoci nella ricerca esplorativa di nuovi fatti non allegati dalle parti.

La consulenza tecnica d'ufficio.

La circostanza che, ai sensi dell'art. 15, comma settimo, l.fall., le parti possano nominare consulenti tecnici depone nel senso che rientra tra i poteri del tribunale quello di disporre una consulenza tecnica d'ufficio.

Sul punto va detto che all'esito della udienza prefallimentare il giudice può disporre la consulenza tecnica d'ufficio, solo se ritenuta strettamente necessaria come strumento di ulteriore indagine in ordine alla situazione patrimoniale del debitore, ovvero di ausilio alla sua valutazione. Ebbene occorre anche ricordare che, trattandosi di un mezzo istruttorio officioso, non è necessario che la parte abbia esplicitamente richiesto la consulenza. Com'è noto, la consulenza tecnica d'ufficio non rappresenta un mezzo di prova, ma è semplicemente indirizzata all'acquisizione da parte del giudice di un parere tecnico necessario o quanto meno utile per la valutazione di elementi probatori già acquisiti ovvero per la soluzione di questioni che comportino specifiche competenze. La nomina del consulente rientra pertanto nel potere discrezionale del giudice che può provvedervi anche senza alcuna richiesta delle parti, sicché ove la parte ne faccia richiesta non si tratta di una istanza istruttoria in senso tecnico ma di una mera sollecitazione rivolta al giudice affinché questi, avvalendosi dei suoi poteri discrezionali, provveda al riguardo. Ne consegue che una tale richiesta non può mai considerarsi tardiva, ancorché avanzata dalla parte tardivamente costituitasi in giudizio (Cass. n. 9461/2010).

Stante le esigenze di celerità che governano la istruttoria prefallimentare, deve ritenersi che le operazioni peritali debbano essere compresse in termini ristrettissimi e che peraltro i consulenti tecnici nominati dalle parti non debbano necessariamente partecipare, a pena di nullità, alle dette operazioni, sebbene debba essere garantito il contraddittorio processuale in ordine all'esame e alla discussione dei risultati dei lavori peritali demandati al consulente. Non è pertanto necessario garantire il rigoroso rispetto delle rigide regole dettate dal codice di rito per l'espletamento della consulenza tecnica d'ufficio.

Peraltro, la struttura contenziosa del processo nonché l'avvenuta abrogazione del fallimento d'ufficio consentono di superare dubbi in ordine al regolamento delle spese di lite, che saranno posti a carico della procedura, nella ipotesi in cui il giudizio si chiuda con la declaratoria di fallimento, e del ricorrente, nella ipotesi di rigetto dell'istanza di fallimento (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 263. Cfr. anche Cass. 3 dicembre 2010/2011).

Gli altri mezzi di prova officiosi.

Va detto che oltre agli accertamenti iniziali attraverso le «informazioni urgenti» e la consulenza tecnica d'ufficio, il tribunale potrà disporre anche degli altri tradizionali mezzi istruttori d'ufficio, e ciò con particolare riferimento alla ispezione (art. 118 c.p.c.), all'ordine di esibizione (artt. 210 c.p.c. e 2711 c.c.), e alla richiesta di informazioni ad uffici ed autorità pubbliche (cfr. art. 213 c.p.c.), nel rispetto delle garanzie difensive regolate dal codice di rito e del principio della tipicità dei mezzi di prova officiosi.

Tuttavia, l'assunzione di tali mezzi istruttori non può avvenire prima della udienza e deve essere comunque sottoposta al contraddittorio tra le parti, alle quali deve essere sempre concessa la facoltà di interloquire sull'ammissione e sui risultati delle prove disposte dal tribunale di propria iniziativa. Va aggiunto che, nella ipotesi in cui il tribunale disponga prove officiose, quest'ultimo deve al contempo, sotto pena di lesione del diritto di difesa delle parti, fissare — nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo ed in analogia con quanto prevede il comma ottavo dell'art. 183 c.p.c. – un doppio termine, per consentire alle parti di articolare i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli officiosamente disposti e rispettivamente per depositare repliche scritte (così, De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 264; Fabiani, 1994, 500).

Le prove costituende: la prova testimoniale; la confessione ed il giuramento.

La previsione contenuta nell'art. 15, comma sesto, l.fall., a tenore della quale «il giudice delegato provvede all'ammissione e all'espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti», consente esplicitamente il ricorso ai mezzi di prova costituendi.

E così nulla osta all'ammissione, qualora sia ritenuta rilevante ai fini del decidere, della prova testimoniale, ancorché, nella pratica, deve ritenersi poco frequente il ricorso a tale mezzo di prova costituenda, stante la tenue valorizzazione processuale di audizioni chiamate a comprovare una situazione dinamica e di status, qual è l'insolvenza (Fabiani, 1994, 500).

Tuttavia il ricorso alla prova testimoniale se può considerarsi per un lato irrilevante ai fini dell'accertamento dei dati contabili relativi alla insolvenza, per altro verso invece potrebbe rilevarsi utile in funzione dell'accertamento dei requisiti soggettivi di fallibilità.

Occorre concordare con quella dottrina che ritiene che debbano trovare applicazione, anche alla istruttoria prefallimentare, le regole dettate dagli artt. 244 ss. del codice di rito e che pertanto la prova testimoniale debba essere dedotta dalle parti mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 265).

Peraltro va aggiunto che, ancorché non sia stato fissato alcun termine preclusivo per la formulazione delle richieste istruttorie, deve ritenersi che il ricorrente debba articolare la richiesta di prova testimoniale nel ricorso introduttivo e che il debitore convenuto possa richiedere la prova contraria nella memoria difensiva.

Dunque il giudice delegato procede al giudizio di ammissibilità e rilevanza della prova, facendo applicazione delle regole del codice civile e di quelle del codice di procedura civile, selezionando così capitoli di prova da ammettere, secondo una valutazione che deve ispirarsi a particolare rigore, stante le caratteristiche di celerità che governano la istruttoria prefallimenare e la natura prettamente documentare dell'attività probatoria demandata alle parti.

Più problematico invece è il ricorso alle prove costituende alle quali la legge annette l'efficacia di prove legali, e segnatamente alla confessione e al giuramento.

Ebbene, le perplessità insorgono, in subiecta materia, non in ragione della struttura del procedimento nato dalla mano riformatrice del legislatore del 2006 la cui normativa ha fondatamente ripudiato il principio inquisitorio, introducendo larghe aperture al principio dispositivo, bensì in ragione della diversa circostanza secondo cui i citati mezzi di prova, dovendo provenire da persone capaci di disporre del diritto cui i fatti contestati o giurati si riferiscono, non possono concernere i presupposti per la dichiarazione di fallimento, oggetto indisponibile alle parti, per il coinvolgimento di interessi plurindividuali e pubblici (Ferro, L'istruttoria prefallimentare, cit., 294).

Tuttavia, se lo stato di insolvenza non può rappresentare l'oggetto di una contra se declaratio, non deve essere del tutto esclusa dal raggio di azione valutativo del tribunale in sede prefallimentare la dichiarazione confessoria del debitore in ordine ai fatti che, qualora provati, non conducono automaticamente alla dimostrazione dello stato di insolvenza del debitore convenuto, ma la cui dimostrazione è «essenziale al fine del corretto radicamento della domanda di fallimento»: De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 266, il quale evidenzia che, di fronte all'ammissione da parte del debitore della esistenza del credito dedotto ma non provato dall'attore a fondamento della legittimazione ad agire, difficilmente il tribunale potrà ripudiare l'efficacia di tale dichiarazione confessoria, ritenendo la persistenza, in capo all'attore, dell'onere di provare l'esistenza e l'ammontare del credito prospettato nell'atto introduttivo del processo. Identiche considerazioni potrebbero farsi, secondo l'Autore, con riferimento alle eventuali dichiarazioni confessorie aventi ad oggetto l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati, rilevante ai fini della delimitazione della no failure zone, di cui all'art. 15, comma nono, l.fall.

Le prove atipiche.

Non può essere esclusa l'utilizzabilità delle prove cd. atipiche, e ciò con la limitazione tuttavia alle prove prodotte e richieste dalle parti, con l'esclusione delle prove atipiche disposte d'ufficio. Peraltro giova ricordare che nella giurisprudenza anteriore alle riforme del 2006-2007 si rinveniva il principio secondo cui, nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, in considerazione del suo carattere officioso, il giudice aveva il potere-dovere di accertare l'esistenza dei presupposti richiesti per l'apertura della procedura concorsuale anche in base agli atti del fascicolo fallimentare, le cui acquisizioni conoscitive rientrano nella categoria delle prove atipiche, delle quali il giudice poteva avvalersi per siffatto accertamento e dunque erano suscettibili di essere valutate a detto scopo anche le dichiarazioni rese nella fase prefallimentare dal fallito, ovvero da soggetto privo della capacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c., in quanto titolare di un interesse che poteva legittimare la sua partecipazione al giudizio (Cass. n. 17698/2005).

Dunque, per prove tipiche si intendono le fonti acquisite con uno strumento diverso da quello tipizzato dal legislatore per l'assunzione di un determinato contenuto probatorio, e cioè, per fornire facili esempi, il documento proveniente dal terzo, la prova raccolta in altro giudizio ovvero ancora la consulenza tecnica debordante dai limiti del mandato (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 269).

Sul punto giova ricordare che l'orientamento più diffuso nella giurisprudenza è il senso di consentire l'utilizzabilità delle prove atipiche la cui fruizione da parte del giudice civile per la formazione del proprio convincimento diventa ammissibile purché le stesse siano idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti e non smentite dal raffronto con altre risultanze del processo (Cass. n. 5965/2004).

Il valore probatorio delle prove atipiche è meramente indiziario, potendo contribuire a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo (Cass. S.U., n. 15169/2010).

Peraltro, la giurisprudenza (Cass. n. 5440/2010) e la dottrina (Montesano, 1978, 189; Id., 1980, 239; Ricci, 1999) non mancano di circondare l'utilizzabilità delle prove atipiche con una serie di limitazioni che si incentrano nella necessità di non travalicare ovvero aggirare le regole di rito nelle quali di volta in volta esse si inseriscono e nella esigenza di assicurare il rispetto del principio del contraddittorio.

La tutela cautelare nella istruttoria prefallimentare: generalità

L'art. 15, comma ottavo, l.fall. attribuisce, ora, al tribunale il potere di concedere provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio e dell'impresa aventi efficacia limitata alla durata del procedimento ed oggetto di revoca o conferma da parte della sentenza dichiarativa di fallimento ovvero di revoca con il decreto di rigetto dell'istanza.

Si tratta, invero, di una novità di grande rilievo, diretta ad evitare che nel corso dell'istruttoria prefallimentare si verifichino «alterazioni sensibili nel patrimonio del debitore» o «deperimento delle risorse aziendali attive» (l'espressione è di Ferro, 2008, 1042; così anche: De Santis, 2009, 82; ma si tratta di opinione comune; sul tema anche: Fabiani, 2009, 60; Sciacca, 61; v. anche Marzocchi, 1179) e che può offrire notevoli potenzialità applicative che la dottrina e la giurisprudenza hanno già prospettato.

Tuttavia, la generica formulazione della norma si presta ad incertezze interpretative che investono sia la funzione dei provvedimenti e la loro collocazione sistematica, sia i relativi aspetti procedimentali (Marzocchi, cit).

Sul punto, va comunque subito precisato che si tratta di misure di natura cautelare, strumentali alla definizione del giudizio, che ha ad oggetto l'accertamento dell'insolvenza del debitore, e condizionate dall'esito del medesimo (in questo senso, v. De Matteis, 209 e 217-218; De Santis, 2009, 82. In giurisprudenza: Trib. Napoli 17 giugno 2009, decr., e Trib. Latina 10 dicembre 2009, decr.; Trib. Verona 21 maggio 2008, ord., in Foro it., 2008, I, 2026, con nota di Fabiani; Trib. Monza 11 febbraio 2009, ord., con nota di Inzitari, Sostituzione cautelare dell'amministratore per l'istruttoria prefallimentare ex art. 15, penultimo comma, legge fallim., in Riv. dir. fall., 2009, 345 ss.; con nota di Ferro, La revoca dell'amministratore nell'istruttoria prefallimentare: prove generali di anticipazione dell'efficacia del fallimento successivo, in Fall., 2009, 855; v. anche Fabiani, 2009, 62; Santangeli, 80; De Santis, 2009, 82-83).

In quanto tali, esse richiedono la ricorrenza dei presupposti tipici dei provvedimenti cautelari (in senso contrario: Caiafa, L'istruttoria prefallimentare: i provvedimenti cautelari e conservativi a tutela del patrimonio e dell'impresa, in Dir. fall. 2009, 177, il quale ritiene trattarsi di misura cautelare atipica), cioè il fumus boni juris ed il periculum in mora, ovviamente da valutarsi con riferimento alle peculiarità del procedimento (Trib. Latina, decr. 28 settembre 2012, in Riv. dir. fall., 2013, con nota Farina. Sul punto, si legga anche la riflessione di M. Cordopatri, Appunti sulla tutela cautelare nella preistruttoria prefallimentare, in Riv. dir. fall. 2011, V, 381).

Più in particolare, il requisito del fumus va parametrato alla probabile fondatezza dell'istanza di fallimento, mentre l'indagine sul periculum in mora deve tener conto della duplice funzione protettiva svolta dalla norma, diretta a tutelare sia il patrimonio, sia il valore dell'impresa, così da preservarli da atti di distrazione e depauperamento e anche dall'eventuale inerzia dell'imprenditore o dallo stesso abbandono dell'impresa, nel tempo occorrente per concludere il procedimento istruttorio (la cui complessità e lunghezza è oggi determinata dalla giurisdizionalizzazione della procedura introdotta dalla novella) (Fabiani, Contratto e processo nel concordato fallimentare, Torino, 2009, 59; Blatti).

Sul punto, è da soggiungere che la riconducibilità delle misure in oggetto al genus dei cautelari c.d. extra vagantes comporta l'applicabilità delle regole del processo cautelare uniforme, disciplinato dagli artt. 669-bis e ss. c.p.c. secondo il criterio di compatibilità indicato dall'art. 669-quaterdecies c.p.c.: cfr. De Santis, 2009, 82-83; Fabiani, 2009, 62; Ferro, 2006, 31.

Al riguardo si discute, pertanto, se tale provvedimento possa essere concesso inaudita altera parte, qualora l'instaurazione del contraddittorio possa pregiudicarne l'attuazione (per la soluzione affermativa: De Santis, 2009, cit., 84; Fabiani, 2009, cit., 63, il quale ritiene necessario in tal caso il rispetto del meccanismo ex art. 669-sexies c.p.c.: l'Autore ritiene anche possibile la proposizione dell'istanza ante causam; Santangeli, 79; Cavalli, La dichiarazione di fallimento, in AA. VV., Trattato di diritto commerciale, a cura di Cottino, Padova, 2009, 198; Blatti, il quale ritiene che il legislatore, nel regolare la fattispecie, abbia considerato la modalità inaudita altera parte come l'ipotesi normale: invero, le prime pronunce in materia sembrano dargli ragione giacché resi con decreto motivato con fissazione di successiva udienza per la comparizione delle parti ai sensi dell'art. 669-sexies, secondo comma c.p.c. Contra, Cordopatri, Appunti sulla tutela cautelare nella preistruttoria fallimentare, cit., 384 il quale evidenzia che i provvedimenti in esame non possono essere dati ante causam e sono privi della efficacia ultrattiva propria delle misure anticipatorie), ovvero se lo stesso sia revocabile o modificabile durante l'istruttoria prefallimentare (ammettono la possibilità: De Santis, 85; Blatti; Ferro 2006, 1045).

Ancora, si discute soprattutto se esso sia reclamabile ed, eventualmente, con quale strumento: il reclamo di cui all'art. 669-terdecies c.p.c. (l'opinione prevalente ritiene il provvedimento reclamabile ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., v. per tutti: De Santis, 2009, 85; De Matteis, 219; Fabiani, 2009, 63, dove richiama le due diverse soluzioni offerte dalla dottrina in merito all'organo competente a decidere il reclamo: Corte d'appello ovvero altra sezione dello stesso Tribunale; Scarselli, La dichiarazione di fallimento, in Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2007, 59, propone invece il rimedio endofallimentare ex art. 26 l.fall.; contro l'ammissibilità del reclamo: Inzitari355) oppure quello previsto dall'art. 26 l.fall.

Infine, è opinione prevalente che si tratti di provvedimenti provvisori, destinati ad esaurire i propri effetti una volta che la sentenza di fallimento oppure il decreto di rigetto (De Matteis, 211; De Santis, 2009, 85; Fabiani, 2009, 62 e 64 che esclude un'autonoma ultrattività dei provvedimenti in oggetto, e, dunque, l'inapplicabilità della nuovo regime processuale della strumentalità attenuata introdotto per i provvedimenti cautelari anticipatori dal d.l. n. 35/2005, convertito in l. n. 80/2005; Ferro, 2008, 1045, invece, ipotizza «una protrazione di effetti operativi delle misure adottate») sia stato emanato, e dunque del tutto strumentali a tutelare le aspettative dei creditori ad una più efficiente liquidazione ed al rispetto della par condicio (Ferro, 2009, 857; Caiafa, L'istruttoria prefallimentare e tutela cautelare, in Dir. prat. lav., Inserto, 2010, XI, 177).

Va ulteriormente segnalata l'imprecisione del dato testuale che richiama i «provvedimenti cautelari o conservativi». In particolare l'inserimento della disgiunzione «o» indurrebbe a considerarli alla stregua di tipologie contrapposte o comunque diverse, rendendo dubbie le effettive finalità di tali misure (Marzocchi, ibidem) Invero, secondo l'orientamento prevalente, l'apparente endiadi andrebbe risolta in modo da assimilare l'espressione «cautelari» a quella «anticipatori» (in questo senso: Santangeli, 78; Ferro, 2008, 1044; Caiafa, L'istruttoria prefallimentare, cit., 177; Fimmanò, L'esercizio provvisorio «anticipato» dell'impresa «fallenda» tra spossessamento cautelare dell'azienda e amministrazione giudiziaria della società, sez. II, Dottrina, opinioni e interventi, doc. n. 191/2010,15 in ilcaso.it,; Celentano, I provvedimenti cautelari, in Fallimento e concordati, Torino, 2008, 140; De Santis, 2009, 82, il quale precisa che la distinzione tra carattere anticipatorio e conservativo ha valenza puramente descrittiva in ragione della disciplina comune a cui sono sottoposti i provvedimenti in oggetto. Nello stesso senso: De Matteis, 212), seppure con le opportune distinzioni e limitazioni. Tali accorgimenti traggono origine dalla tesi che ritiene in linea di principio inammissibile, con particolare riferimento ai diritti indisponibili, l'anticipazione cautelare di sentenze di natura costitutiva (Marzocchi, ibidem), in quanto produttive di efficacia ex nunc; escludendo, di conseguenza, la configurabilità di una situazione giuridica attuale da tutelare. Così, alcuni negano la possibilità di anticipare per tale via gli effetti costitutivi della sentenza di fallimento e, in particolare, la decorrenza del periodo sospetto relativo all'azione revocatoria ovvero del termine annuale per la dichiarazione di fallimento.

Altra dottrina, infine, attribuisce all'aggettivo «cautelare» usato dalla norma un significato più esteso, che ricomprende non solo provvedimenti di natura anticipatoria, ma anche di carattere inibitorio, quale l'ordine di non eseguire pagamenti; l'ordine di non compiere determinati atti di gestione o di assetto dell'impresa (De Matteis, 211-212 e di De Santis, 2009, 83; Ferro, 2008, 1044, che estende l'inibitoria ad operazioni di fusione, di riduzione o aumento di capitale. In giurisprudenza v.: Trib. Terni 18 aprile 2008, che ha sospeso i pagamenti a favore dei creditori) ovvero, ancora, la sospensione di procedure esecutive in corso (Trib. Busto Arsizio 28 luglio 2009, decr.; contra: Trib. Monza 18 novembre 2009, decr., e Trib. Milano 25 marzo 2010).

Inoltre, si ipotizza la possibilità di pronunciare provvedimenti di natura «innovativa», esemplificati negli ordini di fare o di dare, ma anche nella nomina di un amministratore giudiziario dell'impresa, in applicazione analogica dell'art. 2409 c.c. (in questo senso sono orientati: Trib. Monza 11 febbraio 2009, ord.; Trib. Napoli 17 giugno 2009, decr.; Trib. Latina 10 dicembre 2009, decr., Trib. Verona, ord., 21 maggio 2008, cit.; Trib. Udine 11 luglio 2008, ord., in Fall. 2009, 80 ss., con nota di De Santis, Istruttoria prefallimentare e misure cautelari, cit.; al riguardo, Fabiani, Le misure cautelari, cit., 65, ipotizza la nomina «di un soggetto che sia posto nelle condizioni di gestire l'impresa non tanto e non solo in funzione protettiva o per una liquidazione controllata, quanto piuttosto in funzione di poter governare la crisi anche con gli strumenti dell'autonomia negoziale»; il richiamo è agli strumenti del concordato preventivo e dell'accordo di ristrutturazione ai sensi dell'art. 182bis l. fall) ovvero ancora nella nomina di un curatore speciale per il compimento degli atti urgenti o di un custode giudiziario dell'azienda o dell'impresa con poteri gestori, quale il potere di stipulare un contratto di affitto di azienda (De Matteis, cit.), o, ancora, nella nomina di un curatore provvisorio. Sul punto, è stata altresì prospettata l'ammissibilità di un sequestro conservativo sull'azienda (così: Santangeli, 78; De Matteis, 211; contra: Fimmanò, L'esercizio provvisorio «anticipato» dell'impresa «fallenda», cit., 14 che ritiene inammissibile il sequestro conservativo di azienda, suscettibile di solo sequestro giudiziario ai sensi degli artt. 670 e 671 c.p.c.), da sottoporre allo stesso regime di pubblicità della sentenza di fallimento in modo da garantirne la piena opponibilità ai terzi, come si ritiene necessario per tutte le misure cautelari in oggetto (Ferro, 2008, cit., 1044; De Matteis, cit.; Guglielmucci, 54; Trib. Verona 21 maggio 2008, ord., cit.). Invero, il carattere «innovativo» o «innominato» è strettamente correlato all'atipicità dei contenuti che concordemente le contraddistingue e che le avvicina ai provvedimenti d'urgenza di cui all'art. 700 c.p.c., consentendo al tribunale di individuare le misure cautelari di contenuto più idoneo alle necessità di tutela del caso concreto (Marzocchi, ibidem; v. anche: De Santis, 2009, 83; Caiafa, L'istruttoria prefallimentare, cit., 177; Ferro, 2008, 1043).

I provvedimenti cautelari e conservativi: presupposti applicativi e inquadramento sistematico.

In realtà, l'art. 15, comma ottavo, l.fall. (introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006) reca una disposizione assai innovativa sotto il profilo degli strumenti che il tribunale fallimentare può attivare a salvaguardia dei beni da sottoporre alla liquidazione concorsuale.

Ed invero, la norma prevede oggi che il tribunale, su istanza di parte, può emettere i provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell'impresa oggetto del provvedimento, che hanno efficacia limitata alla durata del procedimento e vengono confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento, ovvero revocati con il decreto che rigetta l'istanza. Sul punto, giova ricordare che la disposizione in esame trova un ascendente diretto nei par. 21 e 22 della InsolvenzOrdnung tedesca, che consente la nomina di un curatore provvisorio con il compito di adottare misure conservative sul patrimonio del debitore, continuare l'esercizio dell'impresa, valutare l'opportunità di dichiarare aperto il procedimento d'insolvenza. Peraltro, anche nella Ley concursal spagnola il richiamo alle misure cautelari della Ley de enjuiciamiento civil consente la nomina, ex art. 727, n. 2, di un amministratore giudiziario di beni produttivi (Fabiani, in nota a Trib. Verona 21 maggio 2008, ord., in Foro it., 2008, I, 2026).

Peraltro, va aggiunto che la disposizione è dotata, nell'àmbito della legge fallimentare, di una sua marcata forza espansiva, giacché già ai sensi del successivo art. 195, commi due e tre, l.fall. è previsto che con la sentenza, con la quale dichiara lo stato di insolvenza dell'impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa (ovvero con successivo autonomo decreto), il tribunale adotta i provvedimenti conservativi che ritiene opportuni nell'interesse dei creditori fino all'inizio della procedura di liquidazione. Infatti, prima di provvedere in tal senso, deve sentire il debitore, con le modalità di cui all'art. 15 l.fall., nonché l'autorità governativa che ha la vigilanza sull'impresa.

Si tratta, in realtà, testualmente, di misure cautelari non ultrattive, che hanno la medesima durata del procedimento per la dichiarazione di fallimento, ancorché, in concreto, l'apertura del concorso conseguente alla dichiarazione di fallimento non impedisca che i nuovi effetti scaturenti ope legis, ed in particolare lo spossessamento del debitore, si congiungano ai precedenti effetti di tutela conseguiti con i provvedimenti cautelari in parola (così Ferro, 2008, 1045).

Peraltro, la non ultrattività deve essere a fortiori predicata per le misure adottate in previsione della liquidazione coatta, stante l'espressa limitazione temporale, imposta dall'art. 195, comma secondo, l.fall. e la natura «conservativa» delle stesse.

È stato autorevolmente osservato in dottrina (e con affermazioni del tutto condivisibili) che la previsione che consente di adottare misure cautelari in corso di istruttoria prefallimentare nasce dall'esigenza, da un lato, di evitare che nel corso del procedimento che conduce alla dichiarazione di fallimento si verifichino alterazioni sensibili nel patrimonio del debitore e, dall'altro, di riprendere «un timido tentativo di procedura anticipatoria, conferendo altresì all'istruttoria la natura di possibile fase di osservazione dell'insolvenza», con la ulteriore osservazione secondo cui «la cognizione diretta della crisi da parte del tribunale fallimentare ha giustificato che l'esercizio di tale potere non sia rimesso al giudice ordinario, ma appartenga sin da subito alla dialettica fra le parti dell'istruttoria e dunque a tale giudice» (Ferro, Avvio delle procedure e istruttoria. Fallimenti tardivi, in Il nuovo diritto delle società, n. 2/2006, 21 s., il quale rileva altresì che «non si tratta di mezzi idonei ad anticipare la decorrenza del periodo sospetto, già gravemente compromesso dalla riforma delle revocatorie con il decreto legge 35/2005, ma tali provvedimenti possono assolvere ad una funzione protettiva di quelle intese che, non idonee a sfociare in una proposta di concordato o in un accordo di prepackaging, potrebbero anche progressivamente formarsi nel medesimo periodo di tempo in cui pende l'istruttoria»).

Deve ritenersi che, dal punto di vista della loro natura processuale, i provvedimenti in questione si debbano collocare — per espresso richiamo normativo — nel novero delle misure cautelari a carattere anticipatorio o conservativo, richiedibili esclusivamente in corso di causa, e non anche ante causam: nel senso che i provvedimenti in questione possano essere chiesti anche prima di introdurre il ricorso di fallimento, si sono pronunziati Fabiani e Nardecchia, Formulario commentato della legge fallimentare, Milano, 2007, 63, senza tuttavia affrontare le spinose difficoltà che sorgono allorché si tratta di stabilire che cosa accada in caso di mancata successiva presentazione dell'istanza di fallimento, in presenza di misure cautelari a carattere anticipatorio adottate dal tribunale. Nel senso indicato nel testo, v. invece De Santis, Istruttoria prefallimentare e misure cautelari, cit., ibidem.

Dal punto di vista dogmatico, i provvedimenti in questione possono essere inquadrati tra le misure cautelari c.d. «extravaganti», in quanto trovano la loro disciplina normativa non nel codice di procedura civile, più precisamente nelle sezioni II, III, IV e V del quarto libro, ma nel codice civile ovvero — come nel caso che ci occupa — in leggi speciali, qual è la legge fallimentare, sottoposte, in quanto compatibili, dall'art. 669quaterdecies c.p.c. — che le richiama con l'espressione «altri provvedimenti cautelari» — alle norme sul procedimento cautelare uniforme (De Santis, L'esecuzione forzata, III, 2, in Montesano e Arieta, Trattato di diritto processuale civile, III, Padova, 2007, 728). Più precisamente, si tratterebbe di misure cautelari extravaganti, configurate dal legislatore come necessariamente incidentali alla tutela di merito richiesta e la cui adozione presuppone sempre, per poter essere invocate ed eventualmente concesse, la previa pendenza di un giudizio diretto alla dichiarazione di fallimento ed alla successiva liquidazione concorsuale, della quale le dette misure conservative sono chiamate ad assicurare l'effettività (De Santis, Istruttoria prefallimentare e misure cautelari, cit., ibidem, il quale esclude ogni possibilità di richiedere e disporre le misure in parola a prescindere dal ricorso di fallimento e dalla litispendenza prefallimentare, essendo le stesse strumentali alla tutela delle parti della liquidazione concorsuale).

Dal punto di vista dell'oggetto e dei contenuti, deve ritenersi che si sia in presenza di misure cautelari intenzionalmente configurate dal legislatore come «atipiche», e ciò nel senso che è affidato al tribunale competente a dichiarare il fallimento il potere di individuare la misura ovvero le misure cautelari o conservative più idonee a perseguire concretamente l'obiettivo di tutela interinale del patrimonio o dell'impresa (Ferro, Istruttoria prefallimentare e misure cautelari patrimoniali, cit., 30; D'Orazio, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in AA. VV., La riforma organica delle procedure concorsuali, a cura di Bonfatti e Panzani, Milano, 2008, 96; Caiafa, L'istruttoria prefallimentare, cit.).

Nella prassi applicativa è tuttavia ipotizzabile che si ricorrerà più frequentemente a provvedimenti di sequestro conservativo dei beni del debitore o dell'impresa ovvero di sequestro giudiziario, con nomina di un custode (De Santis, 2009, ibidem).

Tuttavia, del pari sarà possibile, ricorrere ad altri provvedimenti atipici, funzionali alla conservazione del patrimonio ed alla preservazione dei diritti della massa, quali la nomina di un curatore speciale per il compimento di atti urgenti ovvero l'inibitoria di atti di gestione o di governance dell'impresa ovvero ancora l'ordine di eseguire un contratto essenziale alla prosecuzione dell'attività di impresa ed alla conservazione del suo patrimonio o la presentazione di dichiarazioni fiscali obbligatorie, ma anche la nomina di un amministratore giudiziario, con compiti di controllo e, all'occorrenza, di gestione. Osserva, tuttavia, Vitalone (Il diritto processuale del fallimento, Torino, 2008, 31), che «a ben vedere sembra più corretto ritenere che tutti i provvedimenti, sia cautelari che conservativi eventualmente adottati in questa fase, abbiano carattere necessariamente atipico, e cioè siano veri e propri provvedimenti d'urgenza assunti fuori degli schemi dei provvedimenti cautelari tipici. Basta in tal senso osservare che il tribunale non sembrerebbe legittimato ad emettere né un sequestro giudiziario, in mancanza di una controversia sulla proprietà o sul possesso, né il sequestro conservativo, poiché l'istruttoria prefallimentare non ha come suo scopo quello di precostituire una garanzia a favore del creditore istante».

Ma potrebbe anche ipotizzarsi la sospensione degli effetti della delibera societaria che preveda la riduzione del capitale o la cessione d'azienda (De Matteis, op. cit., 122); e perfino l'ordine alle imprese erogatrici di servizi di non interromperne la somministrazione (Zanichelli, 34).

Potrebbe altresì ipotizzarsi di arrivare a disporre il blocco di uno o più pagamenti (Giannelli, 2007, 189), e, stante la natura anche anticipatoria della cautela, la sospensione di una o più azioni esecutive individuali (De Santis, 2009, cit., 85). Non è, tuttavia, possibile emanare provvedimenti anticipatori con effetti assimilabili a quelli costitutivi della sentenza dichiarativa di fallimento, come nella ipotesi di provvedimenti idonei a far decorrere a ritroso il termine di computo del periodo sospetto per l'esercizio dell'azione revocatoria fallimentare (De Santis, 2009, cit., 85).

Da ultimo, va precisato che, dal punto di vista normativo e sistematico, i provvedimenti in parola vanno distinti dai «provvedimenti urgenti» che il giudice delegato, ai sensi dell'art. 25, lett. b), l.fall., «emette o provoca dalle competenti autorità per la conservazione del patrimonio, ad esclusione di quelli che incidono su diritti di terzi che rivendichino un proprio diritto incompatibile con l'acquisizione». In realtà, si ritiene che questi ultimi provvedimenti non abbiano natura cautelare, giacché disancorati da qualsiasi giudizio di merito e protési ad acquisire caratteristiche di definitività, vuoi quando siano volti a prevenire il pericolo di deterioramento dei beni, vuoi quando realizzino una funzione recuperatoria del possesso di un bene detenuto dal terzo: si è perciò proposto di inquadrare sistematicamente questi provvedimenti come «provvedimenti giurisdizionali esecutivi con caratteri ordinatori» (così, Samorì, 1986, 80 ss.).

Non a caso, la giurisprudenza inquadra tra i provvedimenti ex art. 25 l.fall. i c.d. «decreti di acquisizione» alla procedura concorsuale di eventuali beni mobili, in possesso del fallito o del coniuge o di altri soggetti che non ne contestino la spettanza al fallimento, sotto la condizione, ora sancita espressamente dal nuovo testo dell'art. 25 l.fall., che non si disponga l'acquisizione di beni sui quali il terzo possessore rivendichi un proprio diritto, incompatibile con la loro inclusione nell'attivo fallimentare (v., ex multis, Cass. n. 6353/1997, in Corr. giur., 1997, 580, con nota di Rossi; Cass. n. 891/1999; Cass. n. 8004/1996; Cass. n. 1402/1993; Cass. S.U., 9 aprile 1984, nn. 2258 e 2259, secondo le quali il provvedimento che intaccasse diritti incompatibili rivendicati da terzi sarebbe giuridicamente inesistente, per carenza assoluta del relativo potere, con l'ulteriore conseguenza che avverso il medesimo, non suscettibile di acquistare autorità di giudicato, non è esperibile il ricorso straordinario per Cassazione, a norma dell'art. 111 Cost., restando in facoltà di qualsiasi interessato di farne valere, in ogni tempo ed in ogni sede, la radicale nullità ed inidoneità a produrre effetti giuridici). Questi ultimi decreti, al pari degli altri provvedimenti emessi dal giudice delegato, sono reclamabili ai sensi dell'art. 26 l.fall.

Oggetto e tipologia delle misure cautelari.

La prima giurisprudenza edita nella materia in esame, forse attratta dall'ampio raggio di funzioni che le misure cautelari possono svolgere, ne ha prodotto una vastissima gamma tipologica al fine sia di tutelare l'integrità del patrimonio del debitore sotto giudizio fallimentare, sia di tutelare l'impresa in sé considerata, nell'ottica più aggiornata della procedura d'insolvenza.

In realtà, sullo sfondo di siffatti provvedimenti campeggia la esigenza di mantenere un equilibrato rapporto tra tutela del diritto di difesa del debitore e tutela della aspettativa dei creditori di rischiare la dispersione delle risorse della impresa dedotta nell'attesa della decisione (Fabiani, 2009, 59).

Ebbene, la diffusa casistica rinvenibile nella giurisprudenza di merito consente di rintracciare un'ampia gamma di misure cautelari, talvolta protese ad incidere sulla governance d'impresa a mezzo di ordini rivolti direttamente al debitore convenuto nel giudizio di istruttoria prefallimentare (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, in AA. VV., Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, a cura di Galgano, Padova, 2012, 490), come nella ipotesi di dar corso alle pratiche per la cassa integrazione guadagni (così, Trib. Vibo Valentia, 19 marzo 2010).

Tuttavia, è da soggiungere che, nella prassi applicativa, le misure cautelari più elargite sono annoverabili nell'area tipologica del sequestro conservativo, con nomina del custode e con affidamento a quest'ultimo di poteri più o meno invasivi nella governance della impresa: per una elencazione completa della tipologia di misure largibili si rimanda il lettore sempre a De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem.

Così, la giurisprudenza pratica edita evidenzia, innanzitutto, il caso del sequestro conservativo di società di capitali costituite dal fallendo, con nomina di amministratore giudiziario al quale vengono affidati poteri di controllo sull'amministrazione della società (Trib. Udine, 11 luglio 2008, ord., in Fall., 2009, 80), talora in una posizione di affiancamento all'amministratore, i cui atti di straordinaria amministrazione (così, Trib. Bologna, 10 maggio 2010), sono sottoposti alla sua approvazione; ovvero, inoltre, il caso del sequestro con nomina di custode giudiziario e con affidamento a quest'ultimo di poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione, compreso quello di stare in giudizio per l'amministrazione e la conservazione dei beni oggetto di sequestro e con obbligo di rendiconto (Trib. Voghera, 1 febbraio 2008, in Giur. Comm., 2010, II, 491); ovvero, ancora, l'ipotesi del conferimento al custode dell'azienda, posta sotto sequestro conservativo, non solo dei poteri di gestione, ma anche di quelli di esercizio dell'impresa e di amministrazione del patrimonio, sospendendo medio tempore dalla carica il precedente amministratore, con salvezza del solo potere del legale rappresentante della società ai fini della presentazione della domanda di concordato preventivo (Trib. Novara, 24 febbraio 2010). Sono da aggiungere la ipotesi di sequestro giudiziario con affidamento al custode anche dei compiti di amministrazione di un ramo d'azienda oggetto di contratto d'affitto di azienda stipulato tra la società debitrice ed altra società, contratto stipulato meno di sei mesi prima del deposito del ricorso per dichiarazione di fallimento, anche in considerazione della revocabilità del contratto ai sensi dell'art. 67 l.fall. (così, Trib. Sulmona, 11 novembre 2009); ed ancora, il caso del sequestro giudiziario dell'azienda con conferimento al custode non solo della gestione di quest'ultima, ma anche degli stessi poteri conferiti al consiglio di amministrazione e al presidente, ossia della gestione della società in sostituzione dell'organo amministrativo (Trib. Verona, 21 maggio 2008); oppure la ipotesi della revoca e della temporanea sostituzione del consiglio di amministrazione della società convenuta in prefallimentare (Trib. Monza, 11 febbaio 2009); o della revoca di tutti i componenti del consiglio di amministrazione in carica e della designazione di un amministratore giudiziario con poteri di gestione e di amministrazione ordinaria e, tramite autorizzazione del collegio fallimentare, di amministrazione straordinaria della società debitrice e con obbligo di rendicontazione al tribunale (Trib. Napoli 23 giugno 2009); ed infine, nell'ambito di un procedimento per la revoca di un concordato preventivo, ai sensi dell'art. 173 l.fall., sulla base di una istanza di fallimento avanzata dal pubblico ministero, il caso della sostituzione del liquidatore volontario della società con uno giudiziale (Trib. Latina, 10 dicembre 2009).

Altre volte, invece, la misura cautelare viene sollecitata e concessa con finalità protettive delle regole del riparto fallimentare per intervenire sulla dinamica dei rapporti tra debitore e ceto creditorio, sicché sono rinvenibili nella casistica applicativa sia ordini di sospensione dei pagamenti ai creditori (Trib. Terni 18 aprile 2008) sia ordini ai creditori procedenti di costituire «conti correnti dedicati» su cui depositare le somme versate dal terzo debitor debitoris, con la possibilità di disporne solo previa autorizzazione del tribunale (Trib. Milano, 25 marzo 2010). Si registrano, tuttavia, anche misure cautelari di taglio più incisivo, quali la sospensione delle azioni esecutive individuali (Trib. Busto Arsizio, 28 luglio 2009)ovvero lo spossessamento provvisorio del debitore e la liberazione dal vincolo del pignoramento finalizzato all'utilizzo, nell'interesse della massa, di beni già sottoposti ad azioni esecutive individuali: Trib. Monza, 20 novembre 2009. Va tuttavia ricordato che, sull'opposto fronte, siffatte misure sono state in alcuni casi negate sul presupposto che esse determinerebbero l'introduzione in via anticipata degli effetti tipici della sentenza dichiarativa di fallimento, quale la improcedibilità delle azioni esecutive individuali (così, Trib. Milano, 25 marzo 2010).

I sequestri in corso di istruttoria.

Si è sopra riferito che la giurisprudenza di merito tende ad applicare l'art. 15, comma ottavo, l.fall., adottando in molti casi provvedimenti di sequestro giudiziario o conservativo, con contestuale nomina di un amministratore giudiziario, con finalità di conservazione del patrimonio del debitore ed in alcuni casi anche di gestione.

Sul punto, va subito chiarito che, mentre la misura del sequestro conservativo non apre discussioni sul piano sistematico, giacché risulta chiara a tutti la sua naturale vocazione alla preservazione di cespiti e valori, al contrario risulta più difficoltoso rinvenire, in linea di principio, il fondamento del sequestro giudiziario, essendo difficilmente rintracciabile il presupposto applicativo della esistenza di una controversia sulla proprietà o possesso richiesto dall'art. 670 c.p.c., pur quando il sequestro dovesse essere disposto in funzione della esperibilità di azioni revocatorie (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 493).

In realtà, i futuri ed eventuali giudizi per revocatorie, rispetto ai quali il sequestro sarebbe, in ipotesi, strumentale, rappresentano, a rigore, controversie diverse ed autonome rispetto al processo per dichiarazione di fallimento, nell'ambito del quale invece la misura cautelare è adottata.

Sul punto, si aprono allora due opzioni interpretative (v. sul punto, Pagni, 2011, 861).

Per un verso, in via di interpretazione estensiva, il presupposto del sequestro giudiziario potrebbe ravvisarsi nella controversia relativa alla disponibilità dei beni che il processo mira ad assicurare alla massa dei creditori,anziché in quella relativa alla titolarità dei beni.

Ovvero, si dovrebbe diversamente associare alla misura del sequestro conservativo del patrimonio, una misura atipica, avente fondamento nell'art. 700 c.p.c. che prevede la nomina di un amministratore del patrimonio e della impresa con poteri di gestione provvisoria dell'attività (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 493, il quale evidenzia che questa soluzione, implicando la ricorrenza del pericolo di danno imminente ed irreparabile, conferirebbe maggiore serietà e sostanza alla misura cautelare, che implica un elevato grado di «invasività» nella sfera privata del debitore convenuto nel processo di fallimento).

In realtà, sembra più persuasiva la prima opzione interpretativa tra quelle da ultimo tratteggiate, atteso che, per un verso, ciò avrebbe il vantaggio di preservare e conservare la possibilità di poter far ricorso anche a questa tutela cautelare «tipizzata» nell'ambito del procedimento prefallimentare, e ciò attraverso una pur ammissibile interpretazione estensiva del detto presupposto applicativo della controversia sulla disponibilità dei beni del fallito e che, per altro verso, si avrebbe così la possibilità, normativamente prevista, della nomina di un custode dell'azienda ovvero del patrimonio del fallendo. Peraltro, la diversa interpretazione sopra esaminata, ancorché ben argomentata, rischia di far associare due misure cautelari tipiche per creare una forma di tutela atipica in una prospettiva applicativa in cui il legislatore ha voluto consentire il diretto ricorso ad una tutela tipicamente atipicizzata: in giurisprudenza è stato deciso che, nell'ambito del procedimento per dichiarazione di fallimento in estensione del socio di fatto di una società di persone (in nome collettivo), in presenza del periculum in mora, su istanza del curatore del fallimento della società, il tribunale può adottare la misura cautelare del sequestro conservativo di beni mobili ed immobili del socio, nonché nominare un amministratore giudiziario con poteri di controllo sulle società a responsabilità limitata, costituite dal predetto socio nell'imminenza del fallimento della società di persone (Trib. Udine, 11 luglio 2008, ord.).

È stato così deciso dalla giurisprudenza pretoria (Trib. Verona, 21 maggio 2008, ord.: tale decisione si caratterizza per la peculiarità della misura cautelare disposta, consistente non solo nel «sequestro giudiziario dell'azienda per la gestione della medesima in modo da garantirne l'operatività e l'integrità ed evitare il compimento di atti di depauperamento in danno della massa dei creditori», ma anche nell'affidamento al custode giudiziario «degli stessi poteri conferiti al consiglio di amministrazione ed al presidente, affinché compia l'attività di gestione in sostituzione dell'organo amministrativo») che, in presenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, il tribunale può adottare la misura cautelare del sequestro giudiziario dell'azienda, conferendo al custode anche i poteri di amministrazione della società debitrice. La questione succedanea da affrontare riguarda la sfera dei poteri dell'amministratore giudiziario, nominato unitamente al provvedimento di sequestro del patrimonio o dell'azienda del debitore, convenuto nel giudizio di istruttoria prefallimentare. Sul punto, deve ritenersi legittimo l'affidamento all'amministratore non solo di poteri di controllo, ma anche di gestione attiva dell'azienda ovvero del patrimonio inteso in senso lato (Inzitari, 358).

Sul punto, va chiarito che la tutela cautelare prevista dall'art. 15, comma ottavo, l.fall., è finalizzata a proteggere il patrimonio della impresa con l'adozione di misure idonee ad impedire il compimento di atti dispositivi, ricorrendo per l'appunto allo strumento del sequestro conservativo, sia pur disposto non a garanzia del singolo creditore, ma a presidio della futura massa attiva fallimentare (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 495). Tuttavia, quest'ultima misura potrebbe essere considerata, a rigore, inutile, e ciò sia perché i creditori potrebbero aver posto già in essere azioni esecutive e cautelari che manterrebbero i loro effetti sino alla dichiarazione di fallimento sia perché, in relazione alla tipologia di impresa di volta in volta esaminata in sede cautelare dal tribunale, i valori effettivi che ne compongono il patrimonio potrebbero non essere allocati in risorse materiali, ma trovarsi correlati alla stessa dinamica dell'attività imprenditoriale. Ne consegue che la norma deve essere interpretata nel senso di consentire al tribunale l'adozione non solo di provvedimenti aventi natura inibitoria, ma anche misure ad alto tasso di «innovatività» (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., ibidem; in questo senso trova collocazione il provvedimento di nomina dell'amministratore giudiziario, provvedimento che dovrebbe limitare in modo espresso l'estensione dei poteri allo stesso affidati, che possono essere di mero controllo tutorio, ovvero anche di gestione sostitutiva dell'impresa: v. Gugliemucci, 54; Vitiello, 22). Peraltro, va ulteriormente chiarito che, stante l'esigenza di rispettare il vincolo di strumentalità della cautela rispetto alla domanda di merito, l'affidamento al custode di poteri di gestione deve intendersi alla stregua di una «custodia gestionale», finalizzata alla preservazione ad ampio spettro del patrimonio del debitore in vista della probabile apprensione dello stesso alla massa che sostituisce peraltro uno degli effetti tipici della sentenza dichiarativa di fallimento.

Profili procedurali.

Di non facile superamento sono le difficoltà che pone all'interprete l'individuazione delle regole del procedimento volto al rilascio della misura ex art. 15, comma ottavo, l.fall. La questione si inquadra nella cornice che si deve tratteggiare per comprendere fino a che punto la tutela cautelare nel fallimento, vista la sua specialità, possa instradarsi nei binari del diritto processuale generale: per una disamina completa delle questioni, si rimanda a Pagni, La tutela cautelare del patrimonio, 2011, VII.

Ebbene, anche per il rilascio della misura cautelare, analogamente a quanto avviene per l'apertura della procedura fallimentare, occorre la domanda di parte. In un sistema che, dal 2006, non conosce più la dichiarazione d'ufficio del fallimento, e che ha fortemente ridimensionato anche le ipotesi di iniziativa del pubblico ministero, l'accentuazione e la valorizzazione degli interessi privatistici a scapito di quelli pubblicistici (non accantonati ma, di sicuro, marginalizzati nell'economia della legge fallimentare) ha comportato una riscrittura, in chiave di processo di parti, delle regole del processo volto ad accertare la sussistenza dei presupposti necessari affinché i diritti di credito siano regolati nelle forme del concorso, e non in quelle dell'esecuzione individuale.

All'iniziativa del creditore e del p.m. si accompagna quella del debitore che chiede il proprio fallimento. Tuttavia, anche in questo caso, al di là delle regole, contenute nell'art. 14 l.fall., in punto di obbligo di deposito dei documenti dai quali il tribunale può ricavare gli elementi necessari alla dichiarazione di fallimento, il modello dell'istruttoria prefallimentare ricalca quello del procedimento regolato dall'art. 15 l.fall. Peraltro, va aggiunto che tutti coloro che possono instare per la dichiarazione di insolvenza possono anche avanzare la richiesta delle misure provvisorie previste dalla norma in commento. Ne discende che anche il debitore, e non soltanto il creditore, può avere interesse a proporre domanda cautelare, per essere messo al riparo da censure per gli atti che intenda o non intenda compiere, ottenendo così un provvedimento che lo schermi nella gestione dell'impresa fino all'apertura del fallimento, o per evitare aggressioni al proprio patrimonio, da parte dei creditori (Pagni, La tutela cautelare, 2011, ibidem).

Allo stesso modo il p.m., che avanzi la richiesta di fallimento, può domandare il provvedimento interinale per prevenire il compimento di attività distrattive e tutelare il patrimonio del debitore o l'impresa.

Sul punto, va precisato che la convivenza di più interessi, in parte convergenti ed in parte confliggenti — tanto ciò è vero che il processo per la dichiarazione di fallimento può essere inquadrato, a pieno titolo, nella giurisdizione contenziosa, quale procedimento a parti contrapposte ove si decide di diritti soggettivi — e la ulteriore circostanza secondo cui il giudizio non mira alla tutela dell'interesse del singolo, ma dei più interessi coinvolti, comporta la conseguenza che, in caso di rinuncia dell'istante alla domanda, vi sia la possibilità che nella richiesta cautelare subentri uno dei diversi soggetti che hanno analoga legittimazione all'avvio del procedimento fallimentare, e che mirano, allo stesso modo, ad evitare, attraverso i provvedimenti cautelari e conservativi previsti dall'art. 15 l.fall., la potenziale disgregazione aziendale o patrimoniale dell'imprenditore fallendo: per un accenno in senso contrario, per l'ipotesi di ricorso per autofallimento, cfr. Cass. n. 19983/2009, laddove, in un passaggio della motivazione, si legge che il ricorso per dichiarazione di fallimento in proprio non avrebbe natura giuridica di domanda giudiziale, e non necessiterebbe perciò del patrocinio del difensore. Sul punto, tuttavia autorevole dottrina (cfr. Pagni, La tutela cautelare, 2011, ibidem) ha evidenziato che se si reputa che oggetto del procedimento sia, tanto nell'art. 14 quanto nell'art. 15 l.fall., il diritto a vedere regolato nelle forme dell'esecuzione concorsuale i rapporti credito-debito, e si coglie la contrapposizione delle parti, quando l'istanza di fallimento provenga dal debitore, nella presenza di creditori che potrebbero essere interessati ad una diversa regolazione del rapporto, si comprenderebbe perché anche il c.d. autofallimento abbia luogo nelle forme della giurisdizione contenziosa, e perché il problema della difesa tecnica si ponga in analoga misura tanto quando il giudizio sia iniziato dal creditore, quanto quando invece lo stesso sia avviato su iniziativa del debitore.

Tuttavia, a sorreggere la concessione della misura, e a conservare gli effetti del provvedimento eventualmente concesso, occorre in ogni caso l'espressa volontà di uno dei soggetti legittimati a subentrare nell'istanza, non essendo sufficiente la circostanza che il rimedio cautelare sia stato chiesto a presidio dell'intero ceto creditorio.

In termini generali, va ricordato che la peculiarità delle misure disposte dal giudice fallimentare non è di ostacolo all'applicazione degli artt. 669-bis ss. c.p.c., atteso che, trattandosi di misure contemplate da una legge speciale, la possibilità di invocare le singole previsioni dovrebbe comunque passare attraverso la valutazione di compatibilità, richiesta, com'è noto, dall'art. 669-quaterdecies c.p.c.

In questa chiave, i principali nodi da sciogliere sono tuttavia relativi, da un lato, all'individuazione del giudice competente e, dall'altro, all'ammissibilità di un'istanza avanzata ante causam con la eventuale possibilità di ottenere la misura inaudita altera parte, ed infine, all'applicabilità degli artt. 669-decies, in punto di revoca del provvedimento, e 669-terdecies c.p.c., in punto di reclamabilità dello stesso.

Per quanto attiene al primo profilo tra quelli sopra tratteggiati, va detto che la competenza appartiene al tribunale collegiale (si tratta di una enunciazione nient'affatto scontata, invero rispettosa dell'autonomia che le misure in esame assumono nel procedimento e dunque condivisibile già ove riflette la lettura di specialità, offerta dal novellato art. 15 l.fall., anche alla «delega alla trattazione del procedimento» prevista dai commi terzo e sesto in capo ad un magistrato relatore. Si potrebbe invero sostenere che anche le misure in commento, oggetto di attività provvedimentale del tutto interna al medesimo procedimento, sarebbero in grado di trarre da tale regola organizzatoria la medesima matrice di funzionamento. E tuttavia, la cennata specialità, in chiave di compatibilità solo parziale ex art. 669-quaterdecies c.p.c., suggerisce di valorizzare la maggiore offerta di completezza che tale assetto manterrebbe ove il collegio resta investito inscindibilmente altresì degli atti istruttori: v. Lo Cascio, 12; Celentano, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento, cit., 141; Ferro, 2009, VII, 854; con una deroga dunque alla regola della natura monocratica dell'organo che decide l'istanza cautelare, contenuta nell'art. 669-quater, secondo comma, c.p.c., norma a tenore della quale se la causa pende davanti al tribunale la domanda si propone all'istruttore (Pagni, La tutela cautelare, 2009, ibidem). Del resto, nell'art. 15, ottavo comma, l.fall., non è prevista la nomina dell'istruttore, ma soltanto la delega ad un giudice relatore che potrà procedere all'audizione delle parti (De Santis, 2009, cit., 84; v. anche Ferro e Di Carlo, L'istruttoria prefallimentare, Milano, 2010, 541).

Sul punto, va aggiunto che, anche alla luce di quanto dispone l'art. 9-bis, comma terzo, l.fall. — norma a mente del quale, nel giudizio che procede dinanzi al tribunale competente, sono fatti salvi gli atti compiuti dal tribunale che dichiara la propria incompetenza — il tribunale adìto è tenuto ad adottare i provvedimenti cautelari necessari fin tanto che non si dichiara incompetente (Mantovani, Sub art. 9-bis, in AA. VV., La legge fallimentare. Decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169, a cura di Ferro, Padova, 2008, 43).

Parimenti esso si comporterà allorché abbia disposto la sospensione dell'istruttoria prefallimentare, ai sensi dell'art. 367 c.p.c., stante la proposizione del regolamento di giurisdizione (De Matteis, op. cit., 123).

Peraltro, va precisato che l'istanza potrà essere avanzata alla Corte d'appello, laddove venga proposto reclamo, ex art. 22 l.fall., avverso il decreto di rigetto.

In merito alla possibilità di domandare i provvedimenti cautelari in questione con un'istanza avanzata ante causam, l'interpretazione prevalente e, come detto, condivisibile, è nel senso che ciò non sia ammissibile, per l'inscindibile associazione istituita dalla disciplina speciale tra tutela cautelare e procedimento prefallimentare: cfr. Filocamo, 557. Sul punto, in merito all'art. 2476, terzo comma, c.c., e alla proponibilità o meno, prima dell'inizio della causa di merito, dell'istanza di revoca degli amministratori, la giurisprudenza aveva in prevalenza ricavato dal fatto che l'esperibilità della tutela cautelare ante causam prevista nelle disposizioni del procedimento cautelare uniforme costituisce regola generale dell'ordinamento processuale, finalizzata alla più ampia tutela delle posizioni soggettive, la necessità, perché la stessa possa subire deroghe, che le stesse siano dal legislatore esplicitate (com'è nell'art. 2378, terzo comma, c.c. richiamato anche dall'art. 2479-ter, quarto comma, c.c. e dall'art. 2519, primo comma, c.c., in materia di sospensione dell'esecuzione delle delibere assembleari e, più in generale, delle decisioni dei soci). Si era perciò concluso nel senso che nell'art. 2476 c.c. mancherebbero concludenti ed inequivoci dati letterali nel senso della deroga: invero, l'espressione «può altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità della gestione, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli amministratori» sembrerebbe legittimare il socio anche ad un rimedio cautelare tipico, nella sussistenza di determinati presupposti, ma non parrebbe condizionarne l'esperimento alla previa instaurazione del giudizio di merito: così Trib. Roma 5 agosto 2004.

Pertanto, anche in assenza di un inequivoco dato letterale come quello che, invece, si ritrova nell'art. 2378, terzo comma, c.c., per il quale solo «con ricorso depositato contestualmente al deposito, anche in copia, della citazione, l'impugnante può chiedere la sospensione dell'esecuzione della deliberazione», si può derogare in subiecta materia alla regola generale dell'ordinamento processuale contenuta negli artt. 669-ter e ss. c.p.c., finalizzata alla più ampia tutela delle posizioni soggettive (Pagni, La tutela cautelare, 2011, ibidem).

Ne discende che la domanda può essere proposta soltanto contestualmente al ricorso per la dichiarazione di fallimento, o anche successivamente ad essa, ma non anteriormente, atteso che il rilascio del provvedimento dev'essere valutato nell'insieme degli interessi coinvolti dall'eventuale apertura del fallimento, e gli elementi — anche probatori — che condizionano la concessione della misura possono essere apprezzati unicamente nel contesto dell'istruttoria fallimentare. Vi è chi tuttavia ritiene in dottrina che la compatibilità con la specialità del rimedio delle norme del procedimento cautelare uniforme non escluda invece che lo stesso venga emesso inaudita altera parte, in applicazione delle regole dell'art. 669-sexies c.p.c., a patto, però, che venga fissata l'udienza di comparizione delle parti davanti al giudice entro un termine non superiore a quindici giorni, e all'udienza si provveda a confermare, modificare o revocare il provvedimento in precedenza emanato, non essendovi ostacoli di ordine sistematico ad addivenire ad una soluzione siffatta, ma essendo semmai questa eventualità a garantire proprio la utilità delle misure in questione (Fabiani, 2009, 63).

Quanto, infine, alla possibilità di invocare la revoca del provvedimento, se si verifichino mutamenti nelle circostanze o si alleghino fatti anteriori di cui si sia acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare, la tesi negativa è sostenuta sul presupposto della presenza, nell'art. 15, comma ottavo, l.fall., di un'espressa previsione concernente la revoca o la conferma della misura con il provvedimento che chiude l'istruttoria prefallimentare (Scarselli, Procedimento prefallimentare e procedimenti in camera di consiglio, in Foro it. 2006, V, 179 ss., secondo cui la modifica o revoca del provvedimento che abbia la forma dell'ordinanza sembra ammissibile, in base al testo di legge, solo con la sentenza che dichiari il fallimento, oppure con il decreto che rigetti l'istanza).

In senso contrario, si può tuttavia opinare che, a fronte di una norma di per sé non incompatibile con l'art. 669 decies c.p.c., non vi sia ragione per negare su istanza di parte la revocabilità anticipata del provvedimento, nella ipotesi in cui sussistano ragioni che suggeriscano di riallineare la cautela concessa alle modifiche nel frattempo intervenute nella situazione di fatto, prima che si arrivi alla sentenza che dichiara aperto il fallimento, o al decreto che rigetta il ricorso (De Matteis, 219; V. anche Ferro e Di Carlo, L'istruttoria prefallimentare, cit., 544).

Infine, per quanto concerne il profilo del reclamo, gli interpreti sono divisi tra coloro che negano l'applicabilità dell'art. 669-terdecies c.p.c., sul presupposto dell'incompatibilità tra i tempi della procedura di reclamo e quelli per la dichiarazione di fallimento (Caiafa, L'istruttoria prefallimentare, cit., 178-179; Inzitari, 356-357), e coloro che invece reputano il provvedimento cautelare reclamabile — ad altra sezione dello stesso tribunale che ha emesso o negato la misura —, atteso che la natura sommaria della cognizione cautelare impone comunque che vengano conservate le garanzie previste dal codice di rito per consentire un controllo sull'esercizio del potere urgente (De Santis, 2009, 85; De MatteisContra, F. Cordopatri, Appunti sulla tutela cautelare nella preistruttoria fallimentare, cit., 386).

A parere di chi scrive, risulta preferibile quest'ultima soluzione, atteso che, per un verso, non vi è alcuna ragione di incompatibilità, a mente dell'art. 669-quaterdecies c.p.c., tra la struttura del giudizio prefallimentare e l'istituto regolato dall'art. 669-terdecies, medesimo codice, e che, per altro, una diversa soluzione ermeneutica metterebbe a rischio la norma in esame a censure di illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 24 Cost. in ragione della mancata garanzia di un controllo su misure giudiziarie così intrusive nel patrimonio del debitore e della impresa.

Da ultimo, deve ritenersi che, pur nel silenzio della norma, i provvedimenti in questione — al pari delle altre misure cautelari — vadano adottati con la forma dell'ordinanza motivata: ritiene che la forma dell'ordinanza motivata, a preferenza del decreto, sia maggiormente adesiva al modello del codice di rito anche Ferro, I poteri del giudice delegato nell'istruttoria sull'insolvenza, 2006, 1044.

Ed infine, va aggiunto che stante la non ultrattività dei provvedimenti cautelari in esame, sancita espressamente dal legislatore (che ne limita la durata a quella del procedimento per dichiarazione di fallimento), nonché la loro strumentalità rispetto alla preservazione degli effetti della liquidazione concorsuale, è da ritenersi che gli stessi perdano di efficacia nell'ipotesi in cui il giudizio per dichiarazione di fallimento si estingua o, comunque, non venga definito nel merito: sarà in questo caso il collegio, su ricorso della parte interessata, convocate le parti con decreto steso in calce al ricorso, a dichiarare, se non c'è contestazione, con ordinanza avente efficacia esecutiva, che il provvedimento è divenuto inefficace e a dare le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente, ai sensi dell'art. 669-novies, secondo comma c.p.c..

Peraltro, va aggiunto che, trattandosi di provvedimenti aventi, per lo più, ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare e non fare, il collegio ne determinerà anche le modalità di attuazione, ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c., salvo quanto previsto dalle norme speciali sull'attuazione dei sequestri, e ciò in specie dagli artt. 678 e 679 c.p.c., in ordine all'esecuzione del sequestro conservativo: De Santis, 2009, 85 e ss.

In conclusione, deve ritenersi che la tutela cautelare dell'art. 15, comma ottavo, l.fall., si trova a scontare la propria specialità, ma al tempo stesso la necessità di un bilanciamento attento tra quelle che sono ormai divenute regole generali della cognizione sommaria urgente e le caratteristiche del procedimento per la dichiarazione di fallimento nel quale quella cognizione si innesta (Pagni, La tutela cautelare del patrimonio e dell'impresa nell'art. 15 l.fall., 2011, ibidem).

Ne viene fuori un mosaico articolato di principi che, nella difficoltà della sua ricostruzione, è la conseguenza necessaria della particolare innovatività degli strumenti che il legislatore ha voluto mettere a disposizione delle parti, a salvaguardia dei valori da sottoporre alla liquidazione concorsuale.

Tutela dei terzi incisi dai provvedimenti cautelari assumibili in costanza di istruttoria prefallimentare.

Sul punto, va premesso che il legislatore della L. n. 353/1990, nel dettare la disciplina del rito cautelare uniforme, non ritenne di inserire previsioni specifiche riguardanti la posizione dei terzi, cioè di quei soggetti rimasti estranei al procedimento cautelare, perché nei loro confronti non è stato instaurato il contraddittorio, né su iniziativa di parte né d'impulso officioso (Biavati, 1028 ss.; Laudisa, 99).

Orbene, poiché il provvedimento cautelare non ha l'efficacia riflessa propria ed esclusiva della sentenza di merito e del giudicato, in linea di principio un terzo può esserne leso solo se viene illegittimamente inciso l'oggetto di un suo diritto: sul punto, deve ritenersi che al terzo che potrebbe subire effetti della misura cautelare, limitativi dei suoi diritti, non possa essere negata la facoltà di domandare il rigetto della domanda cautelare. E ciò anche quando si tratta di misure cautelari emanande o emanate in costanza di istruttoria prefallimentare, alla quale il terzo — sia pure ai limitati fini della fase cautelare — dovrebbe essere chiamato a partecipare (De Santis, 2009, 80).

Ebbene, la giurisprudenza ha individuato modalità di difesa del terzo nel procedimento cautelare — che risultano estensibili anche alla materia che ci occupa —, ritenendo che nel caso in cui il ricorrente, nella richiesta del provvedimento cautelare, non abbia nominato un terzo che ne sia il destinatario effettivo, in quanto si trovi in condizione tale che dalla concessione della tutela provvisoria possa subire pregiudizio, al terzo medesimo va riconosciuta la possibilità della tutela immediata della sua posizione giuridica attraverso l'intervento nel procedimento cautelare: Cass. n. 2903/1995 (con riferimento al procedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c.); l'intervento volontario del terzo pregiudicando è generalmente ammesso dalla giurisprudenza di merito (cfr., ex aliis, Trib. Torre Annunziata 5 maggio 2000, in Giur. merito, 2001, 29; Trib. Ravenna 9 giugno 1997, in Giur. it., 1998, 698; Trib. Napoli 20 febbraio 2001, in Giur. merito, 2001, 1621; Trib. Verona 28 marzo 1995, in Giur. it., 1996, I, 186, con nota di C. Consolo); che il terzo è legittimato a proporre il reclamo cautelare, almeno tutte le volte in cui subisca dal provvedimento cautelare reso inter alios un pregiudizio diretto, che si concreti nella lesione di una situazione soggettiva tutelata: cfr., con riferimento a fattispecie diverse, Trib. Catanzaro 27 maggio 1987, in Rass. Avv. Stato, 1988, I, 424; Trib. Agrigento 11 ottobre 2000, in Giust. civ., 2001, I, 2795; Trib. Torino 3 gennaio 1994, in Giur. it., 1994, I, 2, 118; che il terzo possa rimenare «coinvolto» dalla misura cautelare in sede di attuazione (De Santis, Istruttoria prefallimentare e misure cautelari, cit., ibidem. Si pensi al sequestro della contabilità d'impresa, nella quale si trovano documenti appartenenti al terzo, disposto in sede di istruttoria prefallimentare).

Sul punto, giova precisare che trovano qui applicazione le norme in materia di attuazione della misura cautelare, e, segnatamente, quelle contenute nell'art. 669-duodecies, a tenore del quale l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro avviene nelle forme dell'esecuzione forzata, mentre l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare avviene sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare, il quale determina anche le modalità dell'attuazione e, ove sorgano difficoltà o contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti. Ne discende che l'attuazione dei sequestri, pur avvenendo nelle forme previste per l'esecuzione per consegna o rilascio (sequestro giudiziario) od in quelle previste per il pignoramento (sequestro conservativo), non trasforma i provvedimenti stessi in atti di esecuzione forzata, né li assoggetta alla specifica competenza del giudice dell'esecuzione, trattandosi di mero richiamo della legge alle operazioni esecutive e non all'intero sistema di tutela giurisdizionale stabilito in materia (Cass. n. 4635/1993) e che le contestazioni mosse dal terzo in ordine all'attuazione del sequestro conservativo non assumono natura di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, ma conservano la natura di eccezioni del soggetto che ha subito la misura cautelare, idonee soltanto a sollecitare l'esercizio, da parte del giudice della causa di merito, dei poteri di modifica, integrazione, precisazione o revoca del provvedimento, con la conseguenza che la competenza a decidere ogni questione in ordine all'attuazione della misura cautelare appartiene al giudice della causa di merito e non al giudice dell'esecuzione (Cass. n. 19101/2003).

Peraltro, la tutela del terzo in sede di attuazione di misure cautelari che hanno ad oggetto ordini di fare, non fare, consegna o rilascio si realizza con l'intervento nel giudizio nel quale il giudice della cautela provvede sull'attuazione e sulle relative difficoltà e contestazioni, a norma dell'art. 669-duodecies c.p.c. (De Santis, 2009, ibidem).

Infine, avverso l'attuazione degli ordini cautelari di pagare somme di denaro, il terzo ha a disposizione le opposizioni esecutive, che seguono il loro normale regime di competenza.

Rapporti tra misure cautelari conservative e procedure esecutive individuali.

Sulla base delle sopra esposte considerazioni, deve riconoscersi al sequestro conservativo prefallimentare una efficacia significativamente maggiore rispetto all'ordinario sequestro conservativo, atteso che la misura prefallimentare, anticipando gli effetti della dichiarazione di fallimento, non è compatibile con procedimenti esecutivi individuali, allo stesso modo e nella misura in cui l'art. 51 l.fall. non consente l'inizio e la prosecuzione delle azioni esecutive individuali.

In realtà, deve ritenersi che tale incompatibilità non può giungere sino al limite di impedire l'attuazione di pignoramenti individuali, ma tuttavia non consente la prosecuzione, almeno sino alla decisione sul fallimento, del procedimento esecutivo individuale ciò nonostante instaurato.

Sul punto, va aggiunto che la tutela cautelare del patrimonio e dell'impresa finalizzata ad impedire una potenziale disgregazione aziendale e patrimoniale dell'imprenditore, cui sono per l'appunto finalizzate le misure cautelari di cui all'art. 15, comma ottavo, l.fall., e la loro efficacia temporale limitata, giustifica, altresì, l'adozione di misure volte temporalmente ad impedire la vendita coattiva di valori immobiliari laddove si paventasse il pericolo di una diminuzione del futuro attivo patrimoniale ovvero, nella ipotesi di plurisoggettività fallimentare passiva, di quote di beni appartenenti per la restante parte a soggetti già falliti, la cui alienazione coattiva fallimentare realizzerebbe al meglio gli effetti satisfattori tipici della procedura concorsuale (Trib. Terni, 3 marzo 2011, 853).

Tuttavia, va registrato che in dottrina (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 498) si è anche sostenuto che la richiesta di elidere il vincolo di pignoramento già eseguito, così come la richiesta di inibire o sospendere le procedure esecutive individuali già instaurate, andrebbe oltre i limiti funzionali, atteso che con la cautela di questa natura si realizzerebbero in via anticipata gli effetti previsti dall'art. 51 l.fall. con un indebito e radicale sacrificio delle ragioni dei creditori procedenti, che rimarrebbero spogliati a tutti gli effetti del proprio diritto d'azione (in questo senso, si legga: Trib. Milano, 25 marzo 2010; Trib.Prato 4 febbraio 2011).

Deve tuttavia ritenersi in senso contrario che, considerata la precipua funzione cui sono dirette le indicate misure cautelari — e cioè la conservazione della integrità dei beni aziendali e patrimoniali dell'imprenditore —, deve ritenersi ammissibile l'adozione anche di misure cautelari dirette ad impedire temporalmente la vendita coattiva di valori immobiliari ed anche mobiliari: in senso conforme anche Cordopatri, Appunti sulla tutela cautelare nella preistruttoria prefallimentare, cit., 386).

Impossibilità di anticipazione degli effetti costitutivi della sentenza di fallimento attraverso le misure cautelari.

Deve ritenersi illegittima la utilizzazione dello strumento della misura cautelare atipica ex art. 15, comma ottavo, l.fall., al fine di fissare la decorrenza dei termini per l'esperimento delle azioni revocatorie da parte della curatela, e ciò sia ai sensi degli artt. 66 e 67 l.fall. e sia ai sensi dell'art. 2901 c.c. (così in modo del tutto condivisibile, De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 500).

Le misure cautelari di cui qui in parola sono finalizzate alla protezione del patrimonio dell'impresa debitrice, dovendosi tuttavia chiarire che l'oggetto della tutela riguarda il patrimonio dell'impresa debitrice al momento della emissione della misura e non già il patrimono «virtuale» nascente dal possibile esperimento delle azioni revocatorie dirette a ricomporre l'attivo fallimentare.

Peraltro, va anche aggiunto che, qualora si ipotizzasse il rilascio di una misura cautelare intesa ad immunizzare il decorso del termine per la revocatoria, si arriverebbe ad una non comprensibile scissione della legittimazione ad agire tra la parte che propone la istanza cautelare (creditore, pubblico ministero, debitore in auto fallimento) e il soggetto al quale spetterà la legittimazione ad agire per la proposizione della domanda di merito, ossia la revocatoria (e cioè, il curatore) (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 501).

Ed infine, deve essere anche considerato che una siffatta misura cautelare inciderebbe sui diritti dei terzi che hanno acquistato i beni, futuri convenuti delle ipotizzate azioni revocatorie, dovendosi così imporre necessariamente la loro partecipazione all'istruttoria prefallimentare quanto meno in relazione alla fase cautelare, nel corso della quale, poi, si dovrebbe procedere, quanto al fumus, ad una sommaria verifica della ricorrenza dei presupposti di cui agli artt. 66, 67 e 2901 c.c., presupposti che sono del tutto estranei al thema decidendum del processo di fallimento, incentrato, come noto, sulla verifica della insolvenza.

Peraltro, va anche osservato che l'adozione di un provvedimento giudiziale cautelare che fissi un termine di decorrenza dei termini per l'esperimento delle azioni revocatorie da parte della successiva curatela andrebbe necessariamente ad incidere sui termini decadenziali stabiliti direttamente dalla legge, violando così il disposto normativo di cui all'art. 69-bis l.fall.

Rapporto tra misure cautelari e concordato preventivo.

Dal vincolo di stretta strumentalità che caratterizza i provvedimenti cautelari in questione, sembra derivare un'ulteriore limitazione, e cioè l'inammissibilità di misure cautelari dirette ad anticipare gli effetti conservativi connessi all'instaurazione di procedure concorsuali minori, ed in particolare alla presentazione di una domanda di concordato preventivo, come hanno sottolineato le prime pronunce sul punto (Trib. Monza 18 novembre 2009, decr., cit.; Trib. Biella 9 ottobre 2009, ord.. Sul tema cfr. l'opinione di Fabiani, Le misure cautelari, cit., 65).

L'esclusione si basa sul dato testuale dell'art. 15, comma ottavo, l.fall., ma anche sull'esistenza di precise norme di legge idonee ad assicurare una tutela conservativa analoga, come ad esempio gli artt. 167 e 168 l.fall. per il concordato preventivo.

In effetti, la formulazione della norma è chiarissima nell'ancorare la misura cautelare al provvedimento conclusivo dell'istruttoria prefallimentare e nel condizionarne l'efficacia alla durata di tale procedimento, che è preordinato essenzialmente alla verifica della ricorrenza dei presupposti di fallibilità. Inoltre, è inammissibile l'utilizzazione di uno strumento cautelare atipico laddove sussista una tutela tipica.

L'affidamento anticipato della gestione dell'impresa ad un terzo può, dunque, rappresentare un'ulteriore forzatura del sistema, tenuto conto della funzione essenzialmente tutoria svolta dal commissario giudiziale e dell'esclusivo monopolio dell'iniziativa a richiedere l'apertura del concordato preventivo in capo al debitore.

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