Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 46 - Beni non compresi nel fallimento.

Angelo Napolitano

Beni non compresi nel fallimento.

 

Non sono compresi nel fallimento:

1) i beni ed i diritti di natura strettamente personale;

2) gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia;

3) i frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall'articolo 170 del codice civile 1;

[ 4) i frutti dei beni costituiti in dote e i crediti dotati, salvo quanto è disposto dall'art. 188 del codice civile;] 2

5) le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge.

I limiti previsti nel primo comma, n. 2), sono fissati con decreto motivato del giudice delegato che deve tener conto della condizione personale del fallito e di quella della sua famiglia3 .

Inquadramento

L'articolo 46 della legge fallimentare contiene un elenco tassativo dei beni e dei diritti facenti capo al fallito, esclusi dallo spossessamento e dalla procedura concorsuale.

Ne deriva che, con riferimento ai detti beni, il fallito conserva non solo la titolarità, ma anche l'amministrazione degli stessi e dei relativi diritti su di essi, con la connessa legitimatio ad processum (art. 43, comma 1, l.fall., a contrario).

La tassatività della disposizione in commento è una diretta conseguenza dell'eccezionalità della sottrazione dei beni del debitore al soddisfacimento dei creditori, stante l'art. 2740 c.c. che dispone in via generale che, salvo diversa disposizione di legge (ed è proprio questo in commento uno dei casi), il debitore risponde delle sue obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (cfr. Pacchi, 299).

Secondo un altro punto di vista, la disposizione in commento sarebbe sì eccezionale (donde la sua tassatività), ma non rispetto all'art. 2740 c.c., bensì rispetto alla regola secondo la quale con la dichiarazione di fallimento tutti i beni e i diritti del debitore vengono appresi dal curatore per la soddisfazione dei creditori concorsuali (Tedeschi, 207).

La questione ha un sapore eminentemente teorico, ma a ben vedere l'elencazione contenuta nell'art. 46 l.fall. non sembra coincidere interamente con l'area della inespropriabilità.

Infatti, oltre alle cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge (n. 5, comma 1, art. 46 l.fall.), si fa, ad esempio, riferimento ai frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli e ai beni costituiti in fondo pstrimoniale, che il creditore individuale può espropriare nell'esecuzione singolare se il debito è stato contratto dal genitore per scopi inerenti ai bisogni della famiglia, mentre dal tenore della disposizione di cui al n. 3, comma 1, dell'art. 46 l.fall. si ricava che essi siano tout court sottratti all'apprensione in sede fallimentare, pur facendo parte del patrimonio con cui il debitore risponde delle sue obbligazioni.

Inoltre se da un lato si deve ritenere che vi possano essere beni di natura strettamente personale ulteriori rispetto a quelli impignorabili per specifica disposizione di legge, sottratti al pari di questi ultimi all'apprensione alla massa, come all'esecuzione individuale dei creditori; viceversa, i limiti alla pignorabilità previsti dall'art. 515 c.p.c. non necessariamente costituiscono limiti all'apprensione alla massa fallimentare.

Ne deriva, dunque, che i beni esclusi dal fallimento costituiscono una categoria potenzialmente più ampia di quella dei beni assolutamente impignorabili di cui all'art. 514 c.p.c., potendo i primi riguardare anche altri beni o diritti di natura strettamente personale, mentre gli altri beni qualificati come relativamente impignorabili dal codice di procedura civile non sono di per sé esclusi dalla procedura fallimentare.

Viceversa, ci sono beni, come quelli costituiti in fondo patrimoniale, che, finché l'atto di destinazione non sia aggredito vittoriosamente con l'azione revocatoria, non possono essere acquisiti alla massa fallimentare, bensì possono essere fatti oggetto di espropriazione individuale dai creditori con i quali il debitore ha contratto per scopi inerenti ai bisogni della famiglia, in deroga all'art. 51 l.fall.: per tutelare questi ultimi, infatti, si deve giocoforza sostenere che, non essendo i beni costituiti in fondo acquisiti alla massa fallimentare, non può essere limitata l'azione esecutiva individuale in capo a loro per la soddisfazione delle loro ragioni creditorie (sulla non acquisibilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale alla massa fallimentare, cfr. Cass. n. 21494/2011).

Si discute di quali siano le forme per risolvere le dispute relative all'assoggettabilità o meno di beni e diritti alla procedura concorsuale.

Se si parte dalla considerazione che con riferimento ai beni esclusi dal fallimento in base all'art. 46 l.fall. il fallito non ne perde la disponibilità e l'amministrazione, e conseguentemente nemmeno la legitimatio ad processum in funzione della relativa tutela, la tutela del fallito dovrebbe potersi spiegare nelle sedi ordinarie, secondo le forme del processo di cognizione (cfr. Jaeger, Sacchi, 8).

Secondo un altro orientamento, invece, le questioni indicate vanno decise in ambito endofallimentare, con un ricorso al g.d. ed eventuale successivo reclamo ex art. 26 l.fall. (Provinciali, II, 832).

L'art. 146 d.lgs. n. 14/2019 - Codice della crisi e dell'insolvenza (in vigore dal 15 agosto 2020) rappresenta la trascrizione sostanziale  dell'articolo in commento: i beni non compresi nel fallimento, a norma dell'articolo in commento  nella formulazione successiva al d.lgs. n. 5 del 9 gennaio 2006, sono divenuti i “beni non compresi nella liquidazione giudiziale”. L'unica differenza sostanziale sta nella formulazione del comma 2 dei rispettivi articoli: il provvedimento di fissazione del limite alla esclusione dalla liquidazione giudiziale degli assegni alimentari, degli stipendi, delle pensioni, dei salari e di ciò che il debitore guadagna con la sua attività, nel vigore della vecchia legge fallimentare, poteva essere emanato anche “in solitudine” dal giudice delegato; dopo l'entrata in vigore del codice della crisi e dell'insolvenza, tale provvedimento deve essere emanato “sentiti il curatore e il comitato dei creditori”.

I beni di natura strettamente personale, gli assegni, il salario e il fondo patrimoniale

In giurisprudenza, si è ritenuto che è un diritto di natura strettamente personale quello di rinunciare all'eredità, sicché l'impugnazione da parte del curatore della rinuncia dell'ascendente, che costituisce il fondamento della chiamata ereditaria in favore dei discendenti per rappresentazione, non toglie che il rinunciante, nonostante che sia fallito, abbia il pieno ed esclusivo diritto di rinunciare all'eredità del de cuius. Orbene, in tema di imposta sulle successioni, secondo l'art. 7 del d.lgs. n. 346 del 1990, si è stabilito che presupposto dell'imposizione tributaria è la chiamata all'eredità e non già l'accettazione, per cui l'imposta è determinata considerando come eredi i chiamati che non provino di aver rinunciato all'eredità o di non avere titolo di erede legittimo o testamentario; se si realizza ex art. 467 c.c., come nella specie, il fenomeno giuridico della rappresentazione (per avere l'ascendente rinunziato al diritto di accettare l'eredità), il discendente subentra al suo genitore quale chiamato all'eredità del nonno, divenendo soggetto passivo della imposta di successione, essendo irrilevante che la predetta rinuncia sia stata impugnata dal curatore sul presupposto che sia stata resa da un soggetto dichiarato fallito, in quanto il regime delle limitate incapacità di cui all'art. 46 l.fall. non priva il fallito dell'esercizio di un siffatto diritto di natura strettamente personale; ne consegue la correttezza dell'avviso di liquidazione dell'imposta e dell'irrogazione delle sanzioni in dipendenza della denuncia di successione, poiché il rinunciante deve essere ritenuto dotato di piena capacità di agire» (Cass. V, n. 6327/2008).

Con riferimento ai trattamenti pensionistici, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che tra le «pensioni» alle quali fa riferimento la disposizione del n. 2 dell'art. 46 l.fall., nel prevedere i beni ed i diritti esclusi dal fallimento nei limiti in cui siano necessari per il mantenimento del fallito e della sua famiglia, vanno annoverate anche le pensioni di invalidità, che assolvono una funzione reintegratrice della permanente riduzione della capacità di guadagno del lavoratore in occupazioni confacenti alla sua attitudine, a causa di infermità o di difetto fisico o mentale, senza che sia ravvisabile alcuna disparità di trattamento, in contrasto con l'art. 3 Cost., tra dette pensioni e le somme spettanti o liquidate a persona fisica, successivamente fallita, a titolo di risarcimento del danno biologico o morale, che rientrano nella previsione del primo comma dell'art. 46 l.fall., e non sono, pertanto, attribuibili al fallimento, attesa la natura strettamente personale, sin dall'origine, del relativo diritto (Cass. I, n. 2719/2007).

Anche le somme spettanti o liquidate a persona fisica, successivamente fallita, a risarcimento del danno biologico o del danno morale, attesa la natura strettamente personale, sin dall'origine, del relativo diritto, rientrano nella previsione dell'art. 46, primo comma, l.fall., e non possono essere quindi attribuite al fallimento: e ciò anche nel caso di morte del fallito nel corso della procedura concorsuale ed in data anteriore a quella di introduzione del giudizio volto all'acquisizione delle somme alla massa fallimentare, trattandosi di vicende che non mutano la natura personale dell'attribuzione patrimoniale di che trattasi. (Cass. I, n. 392/2006).

Di converso, è acquisibile alla massa attiva del fallimento — non rientrando fra i beni e diritti di natura strettamente personale, di cui all'art. 46, n. 1, della l.fall. — l'indennità assicurativa corrisposta al fallito in relazione ad un infortunio lesivo dell'integrità personale, intesa a ristorare (nella specie, alla luce delle previsioni contrattuali e dei criteri di liquidazione concretamente adottati dalla commissione arbitrale), non il danno biologico o il danno morale, ma il solo danno patrimoniale in senso stretto, conseguente alle lesioni subite in termini di perdita e di mancato guadagno (Cass. I, n. 15493/2005).

In tema di pensioni, alle quali fa riferimento la disposizione del n. 2 dell'art. 46, primo comma, l.fall., nel prevedere i beni ed i diritti esclusi dal fallimento nei limiti fissati dal giudice delegato, non trovano applicazione anche gli ulteriori limiti di pignorabilità posti dall'art. 545, terzo e quarto comma, c.p.c., non estensibili alla esecuzione concorsuale, per la specialità di disciplina di questa, restando affidato al predetto organo giudiziale il potere di determinare la eventuale devoluzione al fallito, e conseguente sottrazione all'acquisizione all'attivo fallimentare, di una parte delle somme a lui dovute; né si può dubitare della legittimità costituzionale dell'art. 46 citato, con riguardo agli artt. 32, primo comma e 38, primo comma, Cost., poiché la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 506 del 2002 — nel dichiarare la illegittimità costituzionale dell'art. 128 r.d.l. n. 1827 del 1935 e, in via derivata, degli artt. 1 e 2, primo comma, d.P.R. n.180 del 1950 — ha rimosso lo squilibrio prima di allora derivante dalla prevista, generale, impignorabilità delle pensioni se non per crediti qualificati, conseguendone un sistema che, ad un limite massimo predeterminato nella esecuzione individuale (con la possibilità di estendere il pignoramento, per il simultaneo concorso di più cause, fino alla metà delle somme ex art. 545, quinto comma, c.p.c.), affianca ora, per il fallimento, una non irragionevole devoluzione al giudice del potere di individuazione delle somme necessarie, secondo una discrezionalità non piena, ma vincolata all'adeguatezza degli assegni percepiti dal fallito al mantenimento proprio e familiare, senza pervenire a soddisfare il parametro del tenore di vita socialmente adeguato, tenuto conto della pluralità dei creditori concorrenti nella procedura concorsuale (Cass. I, n. 2939/2008).

Tra i beni esclusi dal fallimento rientrano anche le somme corrisposte dall'assicuratore in forza di una polizza sulla vita: secondo una datata giurisprudenza, le somme dovute dall'assicuratore in forza di assicurazione sulla vita (le quali, a mente del primo comma dell'art. 1923 c.c., «non possono essere sottoposte ad azione esecutiva o cautelare») vanno escluse dall'attivo fallimentare, ex art. 46 n. 5 l.fall., soltanto se esse costituiscano l'oggetto del contratto in relazione alla funzione tipica di quest'ultimo, riferita al momento della naturale cessazione del rapporto. Ne consegue che, essendo la fattispecie contrattuale dell'assicurazione sulla vita funzionale al conseguimento dello scopo di previdenza («rectius», del risparmio finalizzato alla previdenza), tale finalità può dirsi raggiunta soltanto nel caso in cui il contratto abbia raggiunto il suo scopo tipico (quello, cioè, della reintegrazione del danno, provocato dall'evento morte e/o sopravvivenza, attraverso la prestazione dell'assicuratore preventivamente stimata idonea a soddisfare l'interesse leso da tale evento), e non anche in quello in cui l'assicurato, mercè l'esercizio del diritto di recesso «ad nutum», recuperi al suo patrimonio somme che, pur realizzando lo scopo di «risparmio», non integrano altresì gli estremi della funzione «previdenziale», e che, pertanto, vanno del tutto legittimamente acquisite all'attivo fallimentare (operandosi in tal caso lo scioglimento del contratto «ipso iure», e senza che rilevi, in contrario, la dizione letterale dell'art. 1923 cit., nel quale il riferimento alle «somme dovute», pur non contenendo alcuna distinzione di titolo obbligatorio, è pur sempre rapportabile all'obbligazione principale dedotta in contratto, mentre il versamento dell'importo del riscatto a seguito di recesso postula una situazione esattamente contraria, e cioè la cessazione anticipata del rapporto stesso). (Cass. I, n. 8676/2000). Tale posizione è stata rivisitata criticamente dalle Sezioni Unite, che hanno affermato che ai sensi dell'art. 46, n. 5, l.fall., attesa la natura previdenziale delle somme dovute al fallito in ragione di un'assicurazione sulla vita, il curatore non è legittimato ad agire per il riscatto della polizza nei confronti dell'assicuratore (Cass., S.U. n. 8271/2008).

In tema di patrimonio familiare, istituto antesignano del fondo patrimoniale, se ne è statuita l'esclusione dalla massa attiva del fallimento: il giudicato, che accerti l'opponibilità alla curatela del fallimento di un atto costitutivo di patrimonio familiare (art. 169, vecchio testo, c.c.) e, quindi, l'inespropriabilità dei beni del patrimonio stesso in quanto esclusi dall'attivo fallimentare, spiega effetti anche nei confronti di coloro che abbiano comprato i beni medesimi in sede di liquidazione concorsuale, nonché dei successivi acquirenti, considerato che il loro diritto, presupponendo il potere dispositivo del curatore, resta travolto dal suddetto accertamento. (Cass. I, n. 1661/1989).

Con riferimento a un sinistro stradale verificatosi in data anteriore alla dichiarazione di fallimento, si è stabilito che il curatore del fallimento che proponga domanda giudiziale di risarcimento dei danni conseguenti ad un sinistro stradale verificatosi, in danno del fallito, in epoca antecedente al fallimento, non agisce in sostituzione dei creditori al fine della ricostruzione del patrimonio originario del fallito stesso, e cioè nella veste di terzo, ma esercita un'azione rinvenuta nel patrimonio di quest'ultimo, come suo avente causa, ponendosi, conseguentemente, nella sua stessa posizione sostanziale e processuale; ne consegue che, in caso di chiusura del fallimento per concordato, l'eventuale assuntore del concordato fallimentare che prosegua il giudizio iniziato dal curatore viene a trovarsi nella medesima posizione processuale di quest'ultimo. La menomazione della capacità lavorativa specifica, configurando un pregiudizio patrimoniale, deve essere ricondotta nell'ambito del danno patrimoniale e non del danno biologico; ne consegue che le somme riconosciute a titolo di danno da perdita della capacità di guadagno futuro, integrando un danno patrimoniale, rientrano nella massa attiva del fallimento e devono essere in questa ricomprese, non potendo essere sussunte nelle fattispecie di cui all'art. 46, primo comma, nn. 1) e 2), della legge fallimentare. (Cass. I, n. 1879/2011).

L'elaborazione del novero dei diritti e dei beni di natura strettamente personale è opera per lo più della dottrina.

Sono stati ritenuti beni o diritti di natura strettamente personale, e dunque esclusi dal fallimento, i diritti potestativi (Provinciali, II, 824). A tal proposito, deve precisarsi che non tutti i diritti potestativi sono da ritenersi strettamente personali.

Lo sono quelli che incidono su status personali, ma non quelli che incidono su situazioni di carattere esclusivamente patrimoniale, come ad esempio il diritto di agire per ottenere una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.

Tra i diritti potestativi a contenuto strettamente personale vi è quello di agire per la revoca della donazione: i motivi dell'azione di revoca e i riflessi personali che genera la donazione (es. la nascita di un obbligo alimentare verso il donante) inducono a ritenere che le azioni connesse alla donazione siano escluse dal fallimento.

Alla stessa conclusione si giunge con riferimento alle azioni di stato, alle azioni di impugnazione del matrimonio, alle azioni relative ad alimenti o all'assegno divorzile, agli atti di disposizione del corpo, alla tutela del nome (Rocco di Torrepadula, 738), ai diritti di uso e di abitazione, al diritto al sepolcro.

Con riferimento al diritto di autore, si è detto che il diritto morale di autore, con le connesse facoltà, è strettamente personale e dunque non rientra nel fallimento, mentre il diritto di sfruttamento economico della propria opera rientra nella massa attiva del fallimento.

Il diritto di pubblicare una propria opera, in qualsiasi forma, è un diritto personale, come il diritto di ritirare la propria opera dal commercio ai sensi dell'art. 2582 c.c. (Satta, 153).

La disposizione di cui al n. 2 del primo comma dell'art. 46 l.fall., che va letta in combinato con l'ultimo comma dello stesso articolo, esclude dal fallimento sia i proventi del fallito rivenienti da attività di lavoro subordinato o da prestazioni previdenziali o assistenziali, sia ciò che il fallito guadagna da un'attività di lavoro autonomo o imprenditoriale.

La norma si ricollega alla circostanza che la dichiarazione di fallimento non incide sulla capacità di agire del fallito, che dopo il fallimento può continuare a lavorare e può anche iniziare nuove attività imprenditoriali.

Con riferimento agli stipendi, alle pensioni e ai salari, ciò che il fallito percepisce è da considerarsi già al netto delle spese sostenute per la produzione del reddito, sicché non si pone il problema di detrarre da essi i costi e le spese sostenute per la loro produzione o per il loro incasso.

Il discorso cambia con riferimento ai guadagni del fallito. L'espressione «ciò che il fallito guadagna con la sua attività», infatti, è da intendersi come residuale rispetto all'elencazione degli assegni alimentari, degli stipendi, delle pensioni e dei salari, e si riferisce ai proventi dell'attività imprenditoriale o libero professionale del fallito.

La norma, in questa parte, va letta in correlazione con l'art. 42, comma 2, l.fall.: i guadagni sopravvenuti del fallito sono acquisibili al fallimento detratte le passività incontrate per la produzione (acquisto) dei medesimi (De Martini, 161; Cass., n. 10736/1994).

Si è detto, in particolare, che il giudice delegato, nella determinazione della quota di reddito da lavoro dipendente disponibile per il fallito e della corrispondente quota da destinare alla soddisfazione dei creditori, a norma dell'art. 46 l.fall., non esercita un potere pienamente discrezionale, ma deve considerare, da un lato, che il mantenimento del fallito e della sua famiglia non può essere ridotto alle esigenze puramente alimentari (a differenza di quanto previsto dal successivo art. 47), dovendo invece essere ragguagliato quantitativamente ad una misura che costituisca premio ed incentivo per l'attività produttiva e reddituale svolta; dall'altro, che detto mantenimento non può essere elevato al limite astratto del minimo tenore di vita socialmente adeguato, secondo il principio dell'art. 36 Cost., dovendosi considerare che nella condizione sociale del fallito esiste la sua situazione di debitore verso una collettività di creditori concorrenti. Da un punto di vista processuale, poi, il decreto del Tribunale, emesso in sede di reclamo avverso il provvedimento con il quale il giudice delegato, a norma dell'art. 46 l.fall., determina la quantità del salario percepito dal fallito da destinare alle esigenze di questo e della sua famiglia, incidendo sui diritti del fallito e su quelli dei creditori e presentando i caratteri della decisorietà e della definitività, è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione a norma dell'art. 111 Cost. (Cass. I, n. 10736/1994).

Dunque, la determinazione della somma da lasciare nella disponibilità del fallito ai sensi del comma 2 dell'art. 46 l.fall. deve essere fatta al netto della quota di costi sopportata dal fallito per l'acquisizione del guadagno.

La determinazione dei limiti di apprensione al fallimento, secondo il comma 2 dell'art. 46 l.fall., degli emolumenti percepiti a titolo di stipendio salario o pensione e dei guadagni netti dall'attività libera del fallito è particolarmente complessa con riferimento a questi ultimi.

La retribuzione o l'assegno, infatti, ha un carattere fisso e predeterminato nel tempo, mentre il corrispettivo dovuto a fronte di una attività libero professionale o imprenditoriale ha carattere temporale frammentario, episodico.

È molto probabile, per questo motivo, ancor più rispetto a quanto capita con riferimento agli assegni e ai salari, che il decreto del Giudice delegato di fissazione dei limiti dell'acquisizione al fallimento del guadagno netto del fallito venga emesso ex post, dopo che cioè egli lo abbia incassato.

Si pone allora il problema di stabilire la natura del decreto di fissazione dei limiti da parte del giudice delegato, ex art. 46, secondo comma, l.fall., nonché il regime di opponibilità al terzo solvens di tale decreto, oltre che i limiti della diligenza esigibile da quest'ultimo all'atto del pagamento.

La casistica giurisprudenziale riguarda anche emolumenti corrisposti una tantum con carattere misto, retributivo e previdenziale. Con riferimento al trattamento di fine rapporto, ad esempio, si è ritenuto che la natura assistenziale e previdenziale del trattamento di fine rapporto ne giustifica, in caso di fallimento dell'avente diritto, l'assoggettabilità allo speciale regime previsto dall'art. 46 della l.fall., che, in deroga alla generale regola della indisponibilità del patrimonio del fallito posta dall'art. art. 44 della l.fall., esclude dall'attivo fallimentare, nei limiti di quanto occorre per il mantenimento del fallito e della sua famiglia, le somme spettanti al fallito stesso a titolo di stipendio, pensione o salario, così come determinate con decreto del giudice delegato; l'efficacia retroattiva di tale decreto determina a sua volta l'inopponibilità, nei confronti dei creditori concorsuali, del pagamento nel frattempo disposto, in favore del fallito, dal terzo debitore, qualora il giudice delegato abbia disposto l'acquisizione per intero alla procedura fallimentare del citato emolumento, senza che il «solvens» possa invocare la rilevanza del proprio stato soggettivo, ai sensi dell'art. 1189 c.c. (Cass. I, n. 17751/2009).

Si tratta, in altri termini, di capire se il pagamento delle spettanze al fallito prima dell'emissione del decreto che ne dispone i limiti dell'acquisizione al fallimento sia o meno, ed in quale misura, liberatorio per il solvens.

Dalla formulazione letterale della norma sembra che il decreto del Giudice delegato sia necessario per escludere gli emolumenti dall'attivo fallimentare, sì che in assenza del decreto tutto l'emolumento dovrebbe essere corrisposto al curatore.

Tale interpretazione si aggiunge a quella secondo la quale il decreto avrebbe natura dichiarativa: le somme corrisposte al fallito sono ripetibili dalla curatela nei limiti in cui il successivo decreto del g.d. ex art. 46, secondo comma, l.fall. non ne abbia lasciato il corrispondente diritto di credito in testa al fallito.

In giurisprudenza, infatti, si è affermato che il pagamento degli stipendi, pensioni, salari ed altri emolumenti di cui all'art. 46, primo comma, n. 2, l.fall., effettuato dal debitore direttamente al fallito prima dell'emanazione del decreto con cui il giudice delegato, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, fissa i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua famiglia, è inefficace, ai sensi dell'art. 44, secondo comma, legge cit., soltanto per gli importi eccedenti detti limiti, come determinati dal giudice delegato con riferimento al periodo anteriore al suo decreto (Cass. I, n. 20325/2007, con nota di Bruschetta, Temperamenti giurisprudenziali al principio della inefficacia oggettiva dei pagamenti ricevuti dal fallito: l'ombra della buona fede del solvens, in Fall., 2008).

Ed ancora, posto che il diritto del fallito di percepire e trattenere gli emolumenti necessari al mantenimento suo e della sua famiglia sussiste prima ed indipendentemente dal decreto del giudice delegato che, ai sensi dell'art. 46 l.fall., ne fissi la misura, può affermarsi l'inefficacia, nei confronti del fallimento, del pagamento eseguito a mani del fallito da colui che quegli emolumenti è tenuto a corrispondere soltanto se, e nella parte in cui, esso risulti eccedente rispetto al limite fissato dal predetto decreto, avente natura dichiarativa ed efficacia retroattiva, e la cui preventiva emissione il Curatore ha altresì l'onere di richiedere a quel giudice così da poter, poi, documentare in causa l'eventuale eccedenza di quanto pagato direttamente al fallito rispetto ai limiti fissati in tale decreto (Cass. I, n. 18843/2012).

Tale orientamento, tuttavia, presta il fianco a critiche.

Gli assegni, gli stipendi, i ratei pensionistici e i salari sono non solo diritti di credito, ma anche mezzi con i quali un soggetto trova sostentamento e soddisfazione delle esigenza di vita, per se e per la sua famiglia.

Orbene, quando il fallito viene assunto come lavoratore subordinato o riceve un trattamento pensionistico, sarebbe inesigibile che il datore di lavoro o l'ente che eroga l'assegno indagasse, foss'anche tramite una visura del registro delle imprese, per verificare se il lavoratore o il titolare del trattamento pensionistico sia stato dichiarato fallito: ne verrebbe compromessa la continuità della retribuzione o della corresponsione dell'assegno, normalmente volti alla soddisfazione di primarie esigenze di vita del creditore.

Spetterebbe dunque al curatore, in un simile caso, tramite gli strumenti ordinariamente a sua disposizione, accedere a banche dati pubbliche per verificare se il fallito riceva uno stipendio o un assegno pensionistico, onde successivamente sollecitare il Giudice delegato all'emissione del decreto di cui all'art. 46, comma 2, l.fall.

Dunque, nel tempo anteriore rispetto all'emissione del detto decreto, il solvens paga efficacemente nelle mani del fallito, e non potrebbe essere costretto a ripetere il pagamento nelle mani del curatore.

Il decreto che fissa il limite del pagamento dello stipendio o dell'assegno pensionistico o alimentare, inoltre, andrebbe anche comunicato al debitore del fallito, in quanto nessuna norma ne prevede una forma di pubblicità.

A tale proposito, va segnalato che un recente arresto di legittimità ha stabilito che poiché la disposizione dettata dall'art. 44, comma 2, l.fall. deve essere coordinata con le disposizioni dettate dagli artt. 42, comma 2, e 46, comma 1 n. 2, l.fall., il pagamento ricevuto dal fallito quale corrispettivo per una attività svolta dopo la dichiarazione di fallimento non è inefficace quanto all'importo delle passività connesse a detta attività e neppure quanto al residuo netto, ove non sia stato emesso il decreto con cui il giudice delegato fissa i limiti entro i quali ciò che il fallito guadagna con la sua attività occorre al mantenimento suo e della famiglia. Il decreto di cui all'art. 46, comma 2, l.fall. avrebbe, pertanto, natura soltanto dichiarativa, in quanto destinato ad individuare i limiti quantitativi di un diritto che ad esso preesiste; con la conseguenza che non può essere dichiarata l'inefficacia dei pagamenti compiuti dal debitore direttamente al fallito prima dell'emanazione del decreto ovvero senza che il decreto sia stato mai emanato (Cass. I, n. 1724/2015).

Tale arresto, rispetto alla giurisprudenza precedente, compie un passo in avanti, in quanto riconosce che prima che sia emesso il decreto ex art. 46, comma, 2 l.fall., il solvens paga efficacemente nelle mani del fallito se il pagamento trova il suo titolo in un corrispettivo professionale spettante al fallito.

Senonché, il revirement non sembra totale, in quanto lo stesso arresto ora citato ribadisce la natura soltanto dichiarativa del decreto di fissazione del limite ex art. 46 comma 2 l.fall.: orbene, non si comprende come si possa dire che il solvens paghi efficacemente il debito nelle mani del fallito per uno dei titoli di cui al n. 1, primo comma, art. 46 l.fall., se poi è sufficiente un decreto, anche emesso successivamente al pagamento, per rendere ripetibile dal solvens tutta o parte della somma versata nelle mani del fallito.

Questa aporia logica spiega il motivo per il quale una parte della dottrina (Pajardi, 229) ritiene che il decreto del g.d. in parola non segni tanto il limite dell'acquisibilità al fallimento delle somme che trovano titolo in assegni, pensioni, salari, stipendi o guadagni, quanto il limite dell'acquisibilità al patrimonio personale del fallito. In questa ottica, dunque, il decreto avrebbe natura costitutiva, anche se finora la giurisprudenza non ha compiuto tale ulteriore passo (sul decreto come limite all'acquisibilità al patrimonio personale degli assegni sembra però aprire uno spiraglio Cass. I, n. 24416/2009, secondo la quale l'assegno di mantenimento erogato a norma dell'art. 13 del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 ai collaboratori di giustizia ha natura integralmente alimentare, in quanto conferito a chi si trovi nell'impossibilità di svolgere attività lavorativa e determinato in ragione delle condizioni del collaboratore e delle persone a suo carico; pertanto, in caso di intervenuto fallimento del collaboratore, il giudice delegato non può disporne l'acquisizione neppure parziale all'attivo fallimentare, essendo tale potere, ai sensi dell'art. 46, secondo comma, della l.fall., esercitabile sulle sole quote di reddito che non abbiano tale specifica destinazione).

Anche tale ultima proposta interpretativa, tuttavia, non lascia pienamente soddisfatti.

Un limite predeterminato rispetto all'acquisizione da parte del fallito delle somme rivenienti dai titoli di cui al primo comma, n. 2, l.fall. è concepibile rispetto agli stipendi e agli assegni, che sono corrisposti a cadenza periodica ed hanno una misura fissa e predeterminata, ma non rispetto ai «guadagni» che in genere il fallito può incassare per la attività imprenditoriale o libero professionale eventualmente e legittimamente svolta in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento.

I corrispettivi che trovano titolo nell'attività imprenditoriale o libero professionale del fallito, infatti, non hanno una cadenza periodica definita e possono essere del più svariato ammontare, sicché fissare per essi un limite fisso di acquisibilità al patrimonio personale del fallito è impensabile.

Si potrebbe, allora, immaginare che il g.d., su impulso del curatore o anche di ufficio, in presenza di un fallito persona fisica che non abbia in corso un rapporto di lavoro subordinato e che viva della sua attività imprenditoriale o libero professionale, fissi ex ante un limite proporzionale oltre il quale il corrispettivo maturato, detratte le spese sostenute, deve essere versato all'attivo fallimentare.

A tale proposito, proprio in quanto il limite fissato dal g.d. non gode di alcun regime di pubblicità, assume rilievo dirimente la buona fede del solvens: in presenza di stazioni appaltanti o di soggetti committenti di lavori di importi considerevoli, essi hanno l'onere di usare negli atti giuridici una diligenza commisurata alla rilevanza economica e sociale degli stessi, sicché prima (almeno) di effettuare il pagamento devono verificare se l'appaltatore o il professionista sia fallito e, in caso positivo, devono chiedere al g.d. istruzioni su come e a chi pagare il corrispettivo, oltre che in quali misure; onere di diligenza che, invece, non si può pretendere dal cittadino comune per servizi ed opere di modesto valore dei quali siano obbligati a pagare il corrispettivo ad un soggetto eventualmente dichiarato fallito.

Con riferimento al quantum da lasciare nella disponibilità del fallito, il secondo comma dell'art. 46 l.fall. stabilisce che il g.d. debba tener conto della condizione personale del fallito e di quella della sua famiglia, che però non può non essere contemperata con la situazione, in cui il fallito si trova, di debitore di una pluralità di creditori concorrenti (per un significato della norma che non tenda ad attribuire al fallito la possibilità di godere dello stesso tenore di vita avuto prima del fallimento, cfr. Cavalli, 346.)

Oltre ai beni di natura strettamente personale e agli assegni alimentari, pensioni, salari e stipendi nei limiti determinati con decreto del giudice delegato ex art. 46 comma 2 l.fall., sono esclusi dall'attivo fallimentare, come si diceva supra, anche i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, oltre che i frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli.

In vero si è già dato conto di una discrasia uscita dalla riforma del 2006: mentre i frutti dei beni dei figli su cui è costituito l'usufrutto legale a favore del fallito non entrano nell'attivo fallimentare, essendo stato soppresso il riferimento all'art. 326 c.c. contenuto nel n. 3 del primo comma dell'art. 46 l.fall., qualche dubbio si pone per quanto riguarda i beni del fallito costituiti in fondo patrimoniale ed i frutti da essi prodotti, per i quali è rimasto nel medesimo n. 3 del primo comma dell'art. 46 l.fall. il riferimento alla deroga prevista dall'art. 170 c.c.: il dubbio, cioè, è che i beni costituiti in fondo patrimoniale con i relativi frutti rientrano nel fallimento ma che su di essi si possano soddisfare, tra i creditori ammessi al passivo, solo quelli per debiti contratti, realmente o apparentemente, per soddisfare i bisogni della famiglia.

In altri termini, vi è il dubbio che i beni costituiti in fondo patrimoniale e i suoi frutti rappresentino, all'interno dell'attivo fallimentare, un patrimonio separato destinato alla soddisfazione di una categoria di creditori del fallito.

È prevalsa sia in dottrina che in giurisprudenza la tesi negativa, secondo la quale, cioè, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i suoi frutti sono esclusi dal fallimento, per la considerazione empirica che l'attrazione al fallimento sarebbe incompatibile con la loro destinazione ai bisogni della famiglia, sicché quei beni e i frutti sarebbero assoggettabili ad esecuzione individuale ma non ad esecuzione concorsuale (Rocco Di Torrepadula, 234; Cass. n. 1112/2010, che ha sostenuto che l'art. 46, n. 3, della l.fall. (nel testo anteriore al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), secondo cui non sono compresi nel fallimento i redditi dei beni costituiti in patrimonio familiare, salvo quanto disposto dagli artt. 170 e 326 c.c., sebbene dettato per l'abrogato istituto del patrimonio familiare, si applica anche al nuovo istituto del fondo patrimoniale, ad esso succeduto, in quanto, pur non coincidendo le relative discipline, per l'attenuazione dei vincoli di inalienabilità ed inespropriabilità previsti in riferimento al fondo patrimoniale, risultano identici i fini perseguiti dai due istituti e lo strumento a tal fine predisposto, consistente nella previsione di un patrimonio separato costituito da un complesso di beni determinati, assoggettati ad una speciale disciplina di amministrazione ed a limiti di alienabilità ed espropriabilità).

Tuttavia, come atto dispositivo che sottrae beni sui quali potrebbero soddisfarsi i creditori concorsuali, la costituzione del fondo patrimoniale è revocabile quale atto a titolo gratuito (Cass. n. 6267/2005).

A tale proposito, occorre chiedersi se il nuovo articolo 2929-bis c.c., introdotto dall'art. 12, comma 1, d.l. n. 83/2015, convertito in l. n. 132/2015, si applichi anche all'espropriazione in ambito fallimentare di beni.

Ebbene, se si ritiene che la costituzione in fondo patrimoniale implichi un trasferimento patrimoniale a favore di uno o di entrambi i coniugi, l'azione revocatoria sarà necessaria per rendere la disposizione patrimoniale a favore del soggetto non fallito inopponibile alla massa ed attrarre il bene alla liquidazione fallimentare.

Il secondo comma dell'art. 2929-bis c.c., infatti, pone quale condizione per l'aggressione esecutiva del bene trasferito a titolo gratuito a terzi che entro un anno dalla trascrizione dell'atto dispositivo il creditore eserciti l'azione esecutiva nei confronti del terzo nelle forme dell'espropriazione contro il terzo proprietario, sicché, senza un titolo esecutivo (art. 474 c.p.c.) e senza il previo esercizio dell'azione revocatoria, non sembra potersi dire che il fallimento possa attrarre nella liquidazione concorsuale anche i beni che a titolo gratuito il fallito abbia trasferito con atto trascritto nell'anno antecedente alla dichiarazione di fallimento.

Se invece si ritiene che la norma sull'applicazione delle norme regolanti l'amministrazione della comunione legale (art. 168 u.c. c.c.) non implichi che il bene costituito in fondo debba essere di proprietà di entrambi i coniugi, allora si potrebbe sostenere che la dichiarazione di fallimento del debitore costituente il bene in fondo, intervenuta non oltre un anno dopo la trascrizione del vincolo sul bene, possa esimere il curatore dallo spiegare l'azione revocatoria entro il termine dell'art. 69-bis l.fall., purché nel passivo si siano insinuati creditori con titolo anteriore all'atto impositivo del vincolo.

In tal caso, il g.d. emetterà il decreto ex art. 25 l.fall. per apprendere alla massa il bene del coniuge fallito costituito in fondo, che potrà reagire, così come l'altro coniuge cui spettano i poteri di amministrazione del bene, nelle forme della tutela endofallimentare ex art. 26 l.fall.

Incidendo il decreto su diritti soggettivi in maniera definitiva, il decreto del tribunale ex art. 26 l.fall. sarà impugnabile per cassazione ex art. 111 l.fall.

Una recente pronuncia della Suprema Corte, la n. 8768/2011, ha infatti ribadito che perché il decreto del tribunale fallimentare reso in sede di reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato di autorizzazione alla vendita abbia carattere decisorio e sia suscettibile di ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost., occorre che esso provveda su contestazioni in ordine alla legittimità di provvedimenti del giudice delegato incidenti su diritti soggettivi di natura sostanziale (nella specie, attinenti all'accertamento di proprietà ostative alla vendita), e non meramente processuale, connessi alla regolarità procedurale della liquidazione dell'attivo.

Le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge

Ad una prima lettura, le «cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge» sembrano essere le entità materiali di cui all'art. 514 c.p.c. (Cass. n. 2399/1968; Cass. n. 372/1962).

Senonché, il termine generico di «cosa» non è incompatibile con la ricomprensione dei diritti immateriali, con l'esclusione dal fallimento anche dei crediti impignorabili.

Su questa scia interpretativa si è ritenuto che in tema di contratto di assicurazione sulla vita, alla dichiarazione di fallimento del beneficiario non consegue lo scioglimento del contratto, né il curatore — al pari di quanto previsto per le «somme dovute», di regola già impignorabili secondo l'art. 1923 c.c. — può agire contro il terzo assicuratore per ottenere il valore di riscatto della relativa polizza stipulata dal fallito quand'era «in bonis», non rientrando tale cespite tra i beni compresi nell'attivo fallimentare ai sensi dell'art. 46, primo comma, n.5 legge fall., considerata la funzione previdenziale riconoscibile al predetto contratto, non circoscritta alle sole somme corrisposte a titolo di indennizzo o risarcimento (Cass. S.U., n. 8271/2008, in Fall., 2008, 1278 con nota di Finardi, Acquisibilità al fallimento di somme derivanti da polizza vita: intervento delle Sezioni Unite; Giur. comm., 2009, II, 26 con nota di Tina, La legittimazione del curatore all'esercizio del diritto di riscatto della polizza vita al vaglio delle Sezioni Unite).

Si è detto supra che, invece, l'esclusione dal fallimento non si estende alle cose di cui agli artt. 515 e 516 c.p.c., che tendono a soddisfare esigenze di continuità e di salvaguardia di interessi aziendali che nel fallimento non possono avere rilievo, in quanto tutti i beni del debitore, tranne quelli espressamente ed una volta per tutte escluse ab initio dall'attivo fallimentare, sono vincolati al soddisfacimento dei creditori concorsuali.

I crediti parzialmente impignorabili indicati nel n. 2 del comma 1 dell'art. 46 l.fall., poi, sono assoggettati ad una disciplina speciale rispetto a quella che li governa nell'ambito delle norme sull'espropriazione forzata individuale, disciplina dettata dal secondo comma dell'art. 46 l.fall. ed analizzata sopra.

Bibliografia

Cavalli, Gli effetti del fallimento per il debitore, in Ambrosini, Cavalli, Jorio, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, Padova, 2009; De Martini, Il patrimonio del debitore nelle procedure concorsuali, Milano, 1956; Jaeger-Sacchi, Fallimento (Effetti per il fallito), in Enc. giur., Roma, 1989; Pacchi, sub art. 46, in La riforma del diritto fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, Torino, 2006; Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano 2008; Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974; Rocco di Torrepadula, Il nuovo diritto fallimentare, in Comm. Jorio – Fabiani, Bologna, 2007; Satta, diritto fallimentare, Padova, 1996; Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 1996.

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