Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 92 - Avviso ai creditori ed agli altri interessati 1 .

Giuseppe Dongiacomo
aggiornato da Francesco Maria Bartolini

Avviso ai creditori ed agli altri interessati 1.

 

Il curatore, esaminate le scritture dell'imprenditore ed altre fonti di informazione, comunica senza indugio ai creditori e ai titolari di diritti reali o personali su beni mobili e immobili di proprieta' o in possesso del fallito, a mezzo posta elettronica certificata se il relativo indirizzo del destinatario risulta dal registro delle imprese ovvero dall'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax presso la sede dell'impresa o la residenza del creditore:

1) che possono partecipare al concorso trasmettendo domanda con le modalita' indicate nell'articolo seguente;

2) la data fissata per l'esame dello stato passivo e quella entro cui vanno presentate le domande;

3) ogni utile informazione per agevolare la presentazione della domanda, con l'avvertimento delle conseguenze di cui all'articolo 31-bis, secondo comma, nonche' della sussistenza dell'onere previsto dall'articolo 93, terzo comma, n. 5);

4) il suo indirizzo di posta elettronica certificata2.

Se il creditore ha sede o risiede all'estero, la comunicazione può essere effettuata al suo rappresentante in Italia, se esistente.

[1] Articolo sostituito dall'articolo 77 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

[2] Comma sostituito l'articolo 17, comma 1, lettera d), del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179. Per l'applicazione del presente articolo vedi quanto disposto dai commi 4 e 5 del medesimo articolo 17.

Inquadramento

Il fallimento è una procedura volta a dare attuazione forzata a tutte (e solo a) le pretese creditorie vantate verso il debitore fallito mediante la liquidazione di tutti i beni (e solo dei beni) che costituiscono il suo patrimonio (cfr. sul punto, Guizzi, 275, 276), in tal modo distinguendosi dall'esecuzione individuale, che è volta a dare attuazione forzata alle sole pretese vantate dai creditori che hanno proceduto all'esecuzione (e che vi sono intervenuti), ma non necessariamente di tutti i crediti vantati verso il debitore, mediante la distribuzione del ricavato della vendita forzata del solo bene o dei soli beni che sono stati acquisiti mediante il pignoramento, e non necessariamente di tutti i beni che costituiscono il suo patrimonio.

L'intera disciplina del fallimento è, quindi, ispirata essenzialmente ad un unico obiettivo: consentire al curatore l'acquisizione alla procedura di tutti i beni (e solo dei beni) che costituiscono il patrimonio del fallito, per liquidarlo e distribuire il denaro così ricevuto, secondo l'ordine stabilito dalla legge, tra tutti i suoi creditori (e solo tra questi).

La realizzazione di tale obiettivo è assicurata da due principi di fondo.

Il primo, sul versante dell'attivo, consiste nell'attribuzione al curatore: del potere, in via esclusiva, di acquisire (art. 84 ss. l.fall.) ed amministrare tutti i beni e diritti che costituiscono il patrimonio del debitore (artt. 2740 c.c. e 31 e 42 l.fall.) e di proporre tutte le azioni volte a tutelare o a ripristinare l'integrità del patrimonio del fallito (e della garanzia che lo stesso rappresenta per i suoi creditori), a fronte delle lesioni ad esso inferte dallo stesso fallito e/o da terzi, prima ovvero dopo il fallimento (artt. 44 e 64 ss. l.fall.), se del caso subentrando al fallito nei giudizi in corso (art. 43 l.fall.); del potere, tendenzialmente esclusivo, di liquidare i beni appresi alla massa (artt. 104 ter ss. l.fall.), tant'è che i creditori, a seguito del fallimento, non possono continuare né procedere ad azioni esecutive individuali sui beni acquisiti al patrimonio del fallito (art. 51 l.fall.), salvi i casi previsti dalla legge (come nel caso del credito derivante da un finanziamento fondiario); e del potere esclusivo (che non ha eccezioni, neppure nel caso in cui eccezionalmente il creditore fondiario può iniziare o proseguire l'azione esecutiva individuale) di procedere alla ripartizione tra i creditori del fallito delle somme ricavate dalla liquidazione (fallimentare o, nei casi eccezionali in cui è possibile, extrafallimentare) dei beni acquisiti al fallimento (art. 110 l.fall.), secondo l'ordine di graduazione stabilito dalla legge (artt. 2745 ss c.c. e 111 ss. l.fall.), con il corrispondente divieto di procedere alla definitiva ripartizione extrafallimentare delle somme ottenute dalla liquidazione dei beni acquisiti alla massa, anche quando la loro vendita sia stata eccezionalmente compiuta fuori del fallimento (come nel caso dei beni ipotecati che siano stati pignorati dal creditore fondiario e venduti in sede esecutiva: art. 110, comma 1, l.fall.).

Il secondo, sul versante del passivo, consiste nella concentrazione, nella sede fallimentare, dell'accertamento, per un verso, di tutti i crediti vantati verso il fallito, onde verificarne l'an ed il quantum della relativa pretesa (nonché il grado, rispetto agli altri crediti) e consentire — nei soli limiti così stabiliti (e non più suscettibili di ulteriore sindacato, quanto meno fino alla chiusura del fallimento, come, ad es., in sede di reclamo al progetto di riparto: cfr. Cass. n. 525/2016, per cui, in sede di ripartizione dell'attivo fallimentare, il giudice delegato deve normalmente limitarsi a risolvere le questioni relative alla graduatoria dei privilegi ed alla collocazione dei crediti, mentre non può apportare modifiche allo stato passivo, impugnabile solo nelle forme previste dalla legge) sopravvenuto alla dichiarazione di esecutività dello stato passivo e, dunque, nuovo e posteriore rispetto al giudicato endofallimentare; in precedenza, con riguardo alle osservazioni al progetto di riparto, Cass. n. 2493/2001) — la partecipazione ai riparti delle somme ricavate dalla liquidazione del beni acquisiti (Bonfatti, 6; dopo la riforma, Fabiani, 2010, 316; Spiotta, 1978; in giurisprudenza, Cass. n. 24847/2011), e, per altro verso, dei diritti vantati dai terzi sui beni acquisiti alla massa, allo scopo o di escludere dalla massa attiva da liquidare (costituita dai beni e solo dai beni del fallito, che costituiscono la garanzia patrimoniale per i suoi creditori: art. 2740 c.c.) i beni o i diritti che appartengono a terzi (Bonfatti, 6; Spiotta,, 1978), o di consentire di opporre i diritti stessi a chi acquisti dal curatore i beni appresi alla massa (es. una servitù su un fondo di proprietà del fallito), nei limiti in cui le norme sostanziali in tema di vendita forzata lo consentano (si pensi, ad es., ai diritti di locazione sui beni venduti in sede forzata, che sono opponibili all'acquirente solo nei limiti previsti dall'art. 2923 c.c.).

Il giudizio di verificazione, regolato dagli artt. 92 ss. l.fall., costituisce, appunto, il procedimento predisposto dalla legge per il compimento, in via tendenzialmente esclusiva (art. 52 l.fall.), di tale accertamento (Guizzi, 196; Fabiani, 2010, 316 ss).

Si tratta, come si vedrà meglio in seguito, di un giudizio strutturato in forme speciali (Spiotta, 1979), perché, da un lato, si svolge – almeno nella fase iniziale — innanzi al giudice delegato al fallimento, in deroga a tutti gli ordinari criteri di competenza, e, dall'altro lato, legittima la partecipazione ad esso di tutti gli interessati, vale a dire il debitore fallito, i creditori ed i titolari di diritti sui beni appresi alla procedura, oltre al curatore in rappresentanza della massa dei creditori, onde consentire a ciascuno di contestare, in ragione della possibile riduzione della percentuale di realizzo, le pretese e i diritti degli altri (Guizzi, 295; in giurisprudenza, Cass. n. 1065/2002; Cass. n. 28481/2005, per cui il giudizio di verificazione costituisce «... un rito esclusivo, che attribuisce al giudice delegato una cognizione inderogabile sull'esistenza, l'ammontare ed il grado dei crediti, i quali solo dopo tale verifica diventano concorrenti e partecipano al riparto, chiaramente finalizzato ad esaltare il concorso, consentendo suddetta verifica nel contraddittorio universale di tutti creditori e nello spirito di celerità e speditezza che impronta la procedura, e che soffre pertanto deroga solo per espressa volontà del legislatore, nei casi tipici e tassativi»).

Esistono, tuttavia, come si vedrà in seguito, casi tipici nei quali, eccezionalmente, l'accertamento del diritto verso il fallito, in forme opponibili alla massa, è svolto, in tutto o in parte, fuori dal giudizio di verificazione.

Il giudizio di verificazione

I creditori verso il fallito, e cioè coloro che, prima del fallimento (Cass. n. 2423/1994), abbiano acquistato ex art. 1173 c.c. una ragione di credito verso il fallito (rimasta, ovviamente, in quel momento, in tutto o in parte, insoddisfatta), a seguito della sentenza dichiarativa, per realizzare coattivamente la loro pretesa, non possono più iniziare o proseguire azioni esecutive individuali sui beni del fallito compresi nel fallimento (art. 51 l.fall.), ma hanno l'onere di assoggettarsi alle regole previste dalla legge fallimentare in ordine all'accertamento delle loro pretese verso il fallito (cd. concorso formale): solo se (e nella misura in cui) le loro pretese sono state così accertate, infatti, possono, poi partecipare ai riparti dell'attivo ricavato dalla liquidazione operata dagli organi della procedura fallimentare, secondo l'ordine di preferenza stabilito dall'art. 2741 c.c. (cd. concorso sostanziale).

L'art. 52, comma 2, l.fall. afferma, infatti, tanto il principio (che non soffre alcuna eccezione, estendendosi anche ai creditori già muniti di sentenza contro il fallito passata in giudicato) per cui tutti i creditori del fallito, anche se muniti di prelazione, per poter partecipare alla procedura fallimentare e alle ripartizioni dell'attivo hanno l'onere di proporre domanda per l'accertamento del proprio credito, quanto il principio per cui (salve le eccezioni previste dalla legge) tale accertamento, per poter essere opponibile alla massa, deve essere compiuto nelle forme (tendenzialmente esclusive) del giudizio di verificazione previste dagli artt. 92 e ss. l.fall.

La riforma della legge fallimentare (d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), modificando l'art. 52 l.fall., ha esteso tali principi (e cioè l'onere di insinuarsi al passivo e l'onere di farlo nelle forme esclusive del giudizio di verificazione) ai titolari i diritti, reali o personali, su «beni» mobili (compresi – secondo qualcuno — i beni immateriali e le opere dell'ingegno: Ferraro, 1320) o immobili che, rispettivamente, sono nel possesso del fallito ovvero allo stesso «intestati» nei registri immobiliari, acquisiti o acquisibili al fallimento (artt. 89, 92, 103 l.fall.). L'art. 24 l.fall., in effetti, prevede che il tribunale che ha dichiarato il fallimento conosce di tutte le azioni che ne derivano, ivi comprese le azioni reali immobiliari (contro il fallito), in precedenza assoggettate alle regole ordinarie in materia di rito e di competenza (Coppola, 329).

Lo scopo è quello di concentrare in sede fallimentare l'accertamento non solo delle pretese creditorie verso il fallito, ma anche dei diritti (reali o personali) relativi ai singoli beni (mobili o immobili) acquisiti o acquisibili alla massa attiva: la sottrazione definitiva di tali beni dalla massa attiva (ovvero il riconoscimento di diritti altrui sui beni appresi alla massa attiva in modo che gli stessi siano opponibili a chi li acquista dal curatore), infatti, finisce per incidere anche sui diritti di credito perché, in corrispondenza del valore di mercato sottratto alla massa attiva, ne riduce la possibilità o la percentuale di soddisfazione.

Di qui l'opportunità di consentire al curatore e a tutti i singoli creditori la possibilità di proporre le eccezioni volte a paralizzare tali istanze, ivi compresa quella relativa alla loro inopponibilità alla massa.

L'art. 52, comma 3, l.fall., introdotto dalla riforma del 2007, ha, poi, espressamente esteso i principi dell'onere di insinuarsi al passivo e l'onere di farlo nelle forme esclusive del giudizio di verificazione anche ai creditori per i quali non vale il divieto di iniziare o proseguire, dopo il fallimento, le azioni esecutive individuali sui beni appresi alla massa attiva, come nel caso dei crediti derivanti da finanziamenti fondiari.

Come è noto, l'art. 41, comma 2, del d.lgs. n. 385/1993 (Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) prevede che «l'azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia di finanziamenti fondiari può essere iniziata o proseguita dalla banca anche dopo la dichiarazione di fallimento del debitore. Il curatore ha facoltà di intervenire nell'esecuzione. La somma ricavata dall'esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettante alla banca, viene attribuita al fallimento».

Parte della dottrina ha escluso che il creditore fondiario abbia l'onere di insinuare il proprio credito nel passivo fallimentare, in tal senso deponendo un'interpretazione letterale della disposizione citata, nella parte in cui prevede, come visto, che «la somma ricavata dall'esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettante alla banca, viene attribuita al fallimento»: non avrebbe, altrimenti, alcun senso la previsione dell'attribuzione al fallimento della somma residua, essendo, in caso di riparto fallimentare, ogni somma già detenuta dal fallimento.

Tale ricostruzione, tuttavia, risulta inconciliabile con la facoltatività dell'intervento del curatore fallimentare nell'esecuzione individuale, la quale contrasta con l'obbligo di attribuzione al fallimento della somma residua.

L'art. 41, inoltre, deroga soltanto al divieto di azioni esecutive individuali previsto dall'art. 51 l.fall., ma non alla norma imperativa di cui all'art. 52 l.fall., secondo la quale – già nel testo anteriore alla riforma della legge fallimentare — «ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve essere accertato secondo le norme» della legge fallimentare, «salvo diverse disposizioni della legge».

Tale eccezione, però, non è rinvenibile nell'art. 41: anzi, è proprio il riferimento da parte della norma all'adempimento del riparto che rende insostenibile la tesi contraria. Ed infatti, in difetto di intervento del curatore, che rappresenta tutti i creditori del fallito, non si vede quale riparto debba ordinare il giudice dell'esecuzione individuale, posto che gli altri creditori, per il divieto di cui all'art. 51 l.fall., non possono intervenire nell'espropriazione promossa dal creditore fondiario.

L'insinuazione al passivo fallimentare costituisce, pertanto, un onere per la banca mutuante al fine dell'esercizio del diritto di trattenere definitivamente quanto percepito (Cass. n. 23572/2004; conf. Cass. n. 17368/2012; diff., Cass. n. 5806/1994 e Cass. n. 1395/1999, per cui, nell'azione esecutiva individuale, iniziata o proseguita durante il fallimento del debitore, da un istituto di credito fondiario non è necessario che, per partecipare alla distribuzione della somma ricavata, l'istituto creditore si sia previamente insinuato al passivo fallimentare, in quanto, proseguendo l'esecuzione individuale anche dopo la vendita dell'immobile pignorato, alla distribuzione del ricavato devono applicarsi le regole proprie di tale forma di esecuzione, con la conseguenza che incombe al curatore del fallimento del debitore — in sede di esame del progetto di distribuzione o nella fase di contestazione dello stesso — dimostrare che i crediti insinuati prevalgono, in tutto o in parte, in ragione del grado della loro prelazione, su quello dell'istituto mutuante).

Il diritto del creditore fondiario di iniziare o proseguire l'azione esecutiva pur a fronte del fallimento del debitore mutuatario si risolve, in definitiva, in un privilegio meramente processuale, che non deroga al principio di esclusività del giudizio di verificazione stabilito dall'art. 52 l.fall., trattandosi di un'assegnazione a carattere provvisorio, che attribuisce un'anticipazione di valuta in favore delle banche erogatrici di finanziamenti fondiari e consente alle stesse di disporre immediatamente di quanto loro spettante: fermo restando, però, l'onere della banca, che intenda rendere definitiva tale attribuzione, di insinuarsi al passivo del fallimento, in modo da consentire – in sede fallimentare (Cass. n. 6738/2014, con riferimento al caso di un creditore fondiario ammesso al passivo in collocazione chirografaria) — la graduazione dei crediti.

Tale interpretazione è stata codificata dalla riforma della legge fallimentare, la quale, come detto, prevede espressamente, nel nuovo testo dell'art. 52, l'onere di insinuazione anche per i creditori esentati dal divieto di cui all'art. 51 l.fall. (Cass. n. 6377/2015), i quali, pertanto, per poter partecipare ai riparti predisposti dal curatore (e fare definitivamente proprie le somme solo provvisoriamente acquisite in sede di riparto esecutivo), hanno, appunto, l'onere di insinuarsi al passivo nelle forme esclusive del giudizio di verificazione.

In tal senso depone anche l'art. 110, comma 1, l.fall., a norma del quale vanno iscritti al riparto anche i crediti per i quali non vale il divieto delle azioni esecutive individuali, con la conseguenza che il curatore, in sede di riparto, deve computare, quale attivo ripartibile, anche il ricavato dalla vendita – compiuta in sede esecutiva – dei beni ipotecati a garanzia del credito fondiario e dal creditore pignorati pur in pendenza del fallimento: ricavato, appunto, che sarà dal creditore fondiario definitivamente acquisito solo se corrisponde alla somma per cui, a seguito della verifica della relativa pretesa e della sua conseguente graduazione con tutti gli altri crediti accertati verso il fallito (ivi comprese le prededuzioni maturate durante la procedura, se opponibili al creditore ipotecario), lo stesso risulta iscritta al riparto fallimentare; se, invece, la somma che ha ricevuto in sede esecutiva è maggiore rispetto a quella per la quale il creditore fondiario risulta iscritto al riparto fallimentare, deve restituire al curatore l'eccedenza (Galletti, 1267, 1268; Guizzi, 289).

L'art. 52, comma 2, l.fall., come modificato dal d.lgs. n. 5/2006,   ha esteso, infine, l'onere dell'accertamento nelle forme esclusive della verifica del passivo ai crediti in prededuzione, previsti dall'art. 111, comma 2, l.fall. (che subiscono espressamente il divieto di azioni esecutive individuali: art. 51 l.fall.).

Nel vigore della precedente disciplina, in effetti, la giurisprudenza aveva affermato il principio per cui la preclusione rispetto a forme di tutela diverse da quelle dell'accertamento endofallimentare opera certamente anche nei confronti dei crediti prededucibili: ed infatti, la regola dell'assoggettamento a concorso formale di «ogni credito», dettata dall'art. 52 l.fall. con nesso di strumentalità e complementarità rispetto al divieto delle azioni esecutive individuali, dettato dall'art. 51 l.fall., non consente la proposizione nella sede ordinaria di una azione di condanna (o anche di mero accertamento che risulti prodromica ad una condanna) perché «nessuna fattispecie satisfattoria di posizioni creditorie particolari, incidente con effetto depauperatorio sul patrimonio del fallito vincolato al soddisfacimento paritetico dei creditori... può legittimamente trovare luogo al di fuori del concorso» (Cass. n. 11379/1998).

Pertanto, anche i crediti prededucibili non possono farsi valere con le forme ordinarie, essendo, invece, applicabili le norme sulla formazione del passivo (Cass. n. 1065/2002; Cass. n. 10759/1998; Cass. n. 1356/1999; Cass. n. 1065/2002; Cass. n. 17839/2005, per la quale anche il debito cosiddetto «di massa», che sia controverso per non essere stato contratto direttamente dagli organi del fallimento, deve essere verificato attraverso il procedimento previsto dagli artt. 93 ss. e 101 l.fall., come l'unico idoneo ad assicurare il principio della concorsualità anche nella fase di cognizione, implicando esso la necessaria partecipazione ed il contraddittorio di tutti i creditori, con la conseguenza che, se il creditore che pretenda d'essere soddisfatto in prededuzione non si sia avvalso dei mezzi apprestati per l'accertamento del passivo, ma, a fronte della contestazione in ordine alla prededucibilità del credito, abbia attivato il procedimento camerale endofallimentare con l'istanza al giudice delegato ed abbia poi reclamato al tribunale il provvedimento negativo al riguardo, l'intero procedimento è affetto da radicale nullità).

Ne consegue che se il creditore che pretende d'essere soddisfatto in prededuzione non si sia avvalso dei mezzi apprestati per l'accertamento del passivo, ma, a fronte della contestazione in ordine alla prededucibilità del credito, abbia attivato il procedimento camerale endofallimentare con l'istanza al giudice delegato ed abbia poi reclamato al tribunale il provvedimento negativo emesso al riguardo, il procedimento tutto è affetto da radicale nullità (Cass. n. 9623/2010).

La riforma della legge fallimentare ha confermato, almeno in parte, tali assunti, estendendo il giudizio di accertamento del passivo anche ai crediti in prededuzione, ma solo se esistono due condizioni, e cioè che si tratti di crediti contestati (nell'an, nel quantum o nella collocazione) e diversi dai compensi liquidati a soggetti nominati a norma dell'art. 25 l.fall., come nel caso dei difensori del curatore (art. 25, n. 6, l.fall.).

In quest'ultimo caso, infatti, in caso di contestazione, l'accertamento del credito è svolto non in sede di verifica del passivo ma nelle forme previste dall'art. 26 l.fall., e cioè con reclamo al tribunale (art. 111-bis, comma 1, l.fall.), così come sono esonerati dal giudizio di verificazione i crediti prededucibili liquidi, esigibili e non contestati, i quali, infatti, sempre che l'attivo sia capiente, possono essere pagati dal curatore al di fuori del riparto a norma dell'art. 111-bis, comma 4, l.fall. (Spiotta, 1985).

L'esclusività del giudizio di verificazione, ai fini dell'accertamento dei crediti in prededuzione, vale anche se tali pretese sono opposte in compensazione.

In tal senso si è, di recente, pronunciata la Corte di cassazione che, con ordinanza n. 2694/2016, ha affermato come «l'accertamento dei crediti prededucibili vantati nei confronti della massa è tutelabile nelle sole forme di cui agli artt. 93 e seguenti l.fall., sicché anche il credito opposto in compensazione può essere riconosciuto esclusivamente in sede fallimentare, deponendo in tal senso l'art. 111-bis, comma 1, l.fall. ..., il quale assoggetta espressamente alle modalità previste per l'accertamento del passivo i crediti prededucibili, con esclusione soltanto di quelli non contestati, per collocazione e ammontare, nonché di quelli sorti a seguito di provvedimento di liquidazione dei compensi dei soggetti nominati ai sensi dell'art. 25 l.fall. (Nella specie, la S.C. ha confermato il decreto impugnato, evidenziando che la prededucibilità del credito opposto in compensazione al fallimento, derivante da una sentenza ex art. 2932 c.c. emessa in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento, era stato oggetto di contestazione da parte del curatore)».

Nella nuova disciplina (d.lg.s. n. 5/2006 e d.lgs. n. 169/2007), quindi, il giudizio di verificazione ha per oggetto:

1) l'accertamento di tutti i crediti vantati verso il fallito, ivi compresi quelli maturati in occasione o in funzione della procedura fallimentare, onde verificare l'an, determinare il quantum (artt. 54 ss. l.fall.) e stabilire il grado della relativa pretesa: e solo se e nei limiti così stabiliti i creditori del fallito possono partecipare ai riparti delle somme ricavate dalla liquidazione del beni acquisti alla massa;

2) l'accertamento dei diritti reali o personali vantati dai terzi sui beni, mobili o immobili, in possesso o nella proprietà del fallito, acquisiti alla massa, onde accertarne l'an e l'oggetto: e solo se e nei limiti così stabiliti, il bene in possesso o nella proprietà del fallito può essere escluso dalla massa attiva o il diritto del terzo sul bene del fallito opposto a chi acquisti il bene dal curatore (es. un diritto di servitù su un fondo di proprietà del fallito oppure un diritto personale di godimento su un bene del fallito), salve le norme sostanziali in tema di vendita forzata.

Non è chiaro, invece, se il giudizio di verificazione riguardi i diritti reali di garanzia sui beni del fallito a garanzia di un credito altrui (in senso positivo, Cederle, 829 ss, 834 ss.; Fabiani, 320, 321; Coppola, 328).

La Corte di cassazione (Cass. I, n. 18790/2019; Cass. n. 2540/2016) è, tuttavia, di contrario avviso, avendo ribadito il principio già affermato sotto il vigore della previgente legge fallimentare, secondo cui i titolari di diritti di prelazione (nella specie, d'ipoteca) su beni immobili compresi nel fallimento, e già costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito, non possono avvalersi del procedimento di verificazione di cui all'art. 52 l.fall., il quale non sottopone a concorso la posizione soggettiva del terzo, che non è creditore diretto del fallito; né è configurabile un'ammissione atipica al passivo, che sia circoscritta al soli beni oggetto della predetta garanzia, valendo per la loro realizzazione in sede esecutiva, in virtù del richiamo di cui all'art. 105 l.fall., le modalità di cui agli artt. 602-604 c.p.c. in tema di espropriazione contro il terzo proprietario. Nel vigore della legge anteriore, in effetti, la giurisprudenza aveva ritenuto che i titolari di diritti di prelazione, come un'ipoteca, su beni immobili compresi nel fallimento, e già costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito, non possono avvalersi del procedimento di verificazione, in quanto l'art. 52 l.fall. sottopone ogni credito a concorso solo se il fallito si identifica con il debitore ma non anche nel caso in cui il fallito è rimasto estraneo al rapporto obbligatorio, per cui il debito corrispondente non può incidere sulla massa passiva: i predetti crediti, anche se esclusi dal concorso formale, sono peraltro assoggettabili a verifica, ai sensi dell'art. 108 ultimo comma, l.fall. (nel testo anteriore alle modifiche apportate con la riforma), nella fase posticipata della liquidazione del bene gravato, rappresentando il titolo che costituisce la prelazione una passività di cui il patrimonio del fallito deve essere depurato prima della ripartizione del ricavato ai creditori concorsuali, sempre che la sua validità ed attualità, oltre che opponibilità alla massa, non siano state contestate dal curatore con le apposite azioni: Cass. n. 2429/2009).

Il riferimento ai diritti reali, contenuto nel secondo coma dell'art. 52 l.fall., nel testo successivo alle modifiche apportate con la riforma («... nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V»), non comprende, infatti, secondo la Corte, i diritti reali di garanzia costituiti dal terzo non debitore (o terzo datore della garanzia), poi fallito.

Tali diritti, in effetti, si pongono al di fuori dello stato passivo fallimentare perché il terzo non è creditore diretto del fallito e perché, in ogni caso, ove anche si volesse estendere la detta disposizione fino a comprendere anche quell'accertamento del diritto verso il terzo datore di ipoteca, si dovrebbe introdurre un anomalo contraddittorio con una ulteriore parte, quella corrispondente al debitore garantito proprio dall'ipoteca data dal terzo.

Di qui la conclusione per cui, anche dopo la novella del comma 2 dell'art. 52 l.fall., introdotta dalla riforma del 2006, i creditori titolari di un diritto di ipoteca sui beni immobili compresi nel fallimento, costituiti in garanzia dei crediti vantati verso debitori diversi dal fallito, non possono avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo, in quanto il terzo non è creditore diretto del fallito e l'accertamento dei suoi diritti non può essere sottoposto alle regole del concorso, dovendosi, piuttosto, avvalere, per la realizzazione dei loro diritti in sede esecutiva, delle modalità di cui agli artt. 602-604 c.p.c. in tema di espropriazione contro il terzo proprietario (in senso contrario a tale soluzione, Spiotta,, e nt. 25, dove evidenzia come il progetto di riparto, quale atto del curatore, è suscettibile solo di reclamo per violazione di legge ai sensi dell'art. 36 l.fall.).

L'oggetto dell'accertamento del giudice delegato: il diritto e la sua opponibilità

L'accertamento svolto dal giudice nel giudizio di verificazione è un accertamento che ha un oggetto più ampio e complesso di quello che, sullo stesso diritto, si svolge in sede ordinaria.

Infatti, il giudizio di verificazione non ha solo lo scopo di accertare se il diritto di credito esiste (l'an) e per quale ammontare (il quantum), come accade nel giudizio ordinario (ad es. di condanna del debitore inadempiente), ma, più estensivamente, di verificare se ed in che misura il creditore del fallito possa far valere tale diritto nei confronti degli altri creditori e, per l'effetto, partecipare, in concorso con essi, alla ripartizione del ricavato della liquidazione dei beni acquisisti alla massa secondo l'ordine di graduazione stabilito dall'art. 2741 c.c.

Nello stesso modo, il giudizio di verificazione non ha solo lo scopo di accertare se il diritto alla restituzione del bene (acquisito alla massa), in possesso o in proprietà del fallito, esiste (e quale bene abbia ad oggetto), ma, più ampiamente, se il terzo possa far valere tale diritto nei confronti dei creditori del fallito e, per l'effetto, sottrarre il bene (in via, a seconda dei casi, definitiva o temporanea, totale o parziale) alla liquidazione fallimentare ed alla conseguente soddisfazione dei creditori.

Ciò si traduce, evidentemente, non tanto in un diverso petitum mediato (che resta pur sempre l'accertamento del diritto di credito o del diritto di restituzione: il petitum immediato, invece, è l'ammissione al passivo del credito/diritto alla restituzione), quanto in una fattispecie costitutiva (causa petendi) del diritto azionabile più ampia ed articolata (perché, appunto, da far valere, oltre che verso il debitore, rappresentato ex art. 43 l.fall. dal curatore, nei confronti di tutti i creditori anteriori e dello stesso curatore che ne rappresenta gli interessi) e, correlativamente, in possibili fatti estintivi, modificativi ed impeditivi che, in quanto azionabili (anche) dai creditori e dal curatore, solo ulteriori e diversi rispetto a quelli che sarebbero stati deducibili, ad opera del (solo) debitore, nel giudizio di accertamento dello stesso diritto in sede ordinaria.

Nel caso dei diritti di credito, il giudizio di verificazione non ha, quindi, semplicemente ad oggetto l'accertamento dell'an e/o del quantum della pretesa sorta nei confronti del fallito.

A differenza del giudizio ordinario relativo al medesimo diritto fuori del fallimento, l'accertamento svolto in tale procedimento, infatti, deve stabilire (oltre all'esistenza ed alla misura del credito, nonché la sua collocazione chirografaria o privilegiata) anche l'opponibilità del credito alla massa (ed è per questo che l'onere di insinuarsi riguarda anche il creditore munito di giudicato contro il debitore poi fallito e, come tale, relativo solo all'an ed al quantum della pretesa) e cioè, per un verso, la sua certa origine anteriore rispetto alla sentenza di fallimento (essendo, come è noto, inopponibili alla massa i crediti che derivano da atti o fatti compiuti o imputabili al fallito dopo il fallimento ex art. 44 l.fall. — fatto salvo, naturalmente, il caso della prededuzione — o, comunque, privi dei requisiti per essere efficaci verso i terzi ex art. 45 l.fall.) e, per altro verso, il suo fondamento in atti (che, oltre ad essere anteriori ed efficaci verso i terzi, nonché validi ed efficaci sul piano negoziale, siano anche idonei a rimanere) efficaci verso i creditori (e cioè atti non riconducibili alle ipotesi previste dagli artt. 64 ss. l.fall.).

Nello stesso modo, se si tratta di diritto (di origine reale o personale) alla restituzione di un bene in possesso o di proprietà del fallito ed appreso alla massa, il giudizio di verificazione non ha per oggetto solo l'accertamento dell'an del diritto e del suo oggetto (ad es., accertando la proprietà del terzo sul bene appreso alla massa ovvero la nullità, l'annullabilità, la simulazione, ecc., dell'atto di acquisto in capo al soggetto poi fallito, con il conseguente diritto alla restituzione), ma anche che tale diritto è stato acquistato dal terzo con un atto o un fatto di sicura origine prefallimentare (arg. ex art. 44 l.fall.) ed efficace verso i terzi (arg. ex art. 45 l.fall.) che (oltre ad essere privo di vizi genetici e funzionali sul piano negoziale) sia anche idoneo a rimanere) efficace verso i creditori a norma degli artt. 64 ss. l.fall.

In definitiva — come è stato giustamente affermato (Bonfatti, 273) — l'ammissione al passivo «... suppone una valutazione di fondatezza sostanziale della pretesa: e se essa ha per oggetto un credito od una causa di prelazione..., si traduce in un giudizio sulla sussistenza del titolo costitutivo del credito o della causa di prelazione, fatto valere nei confronti del fallito. È tuttavia facile osservare che se alcun credito giudicato «insussistente» avrebbe mai ragione di essere ammesso a partecipare all'esecuzione fallimentare nei confronti del (non) debitore: non è però vero il principio contrario, il quale assumesse che tutti i crediti «sussistenti» nei confronti del fallito hanno diritto di partecipare al concorso fallimentare... riservato alle pretese (per titoli) anteriori alla sentenza dichiarativa (... l'onere della dimostrazione di tale presupposto cade sull'insinuante...): così che (se la prova dell'anteriorità del titolo non riesce) un credito potrebbe essere pacificamente «sussistente»... ma non «ammissibile» al passivo, perché inopponibile agli altri creditori – quelli sì dotati invece di un titolo (riconosciuto) anteriore all'apertura del fallimento —.... una pretesa potrebbe essere giudicata «sussistente»; ed anche opponibile al fallimento sotto il profilo della anteriorità del titolo costitutivo rispetto alla sentenza dichiarativa; e tuttavia potrebbe rivelarsi inefficace nei confronti degli altri creditori a causa del mancato compimento di formalità integrative alle quali la legge subordina l'opponibilità dell'atto, produttivo degli effetti da far valere nei confronti del fallito, anche ai terzi (art. 45 legge fall.): per essi la pretesa non potrebbe essere riscontrata con un provvedimento di «ammissione», benché pacificamente sussistente; ed altrettanto pacificamente connessa ad un titolo formatosi in epoca anteriore alla sentenza dichiarativa.... infine... la pretesa del creditore può essere contrastata dal curatore fallimentare attraverso la proposizione di eccezioni, che prescindono dalla sussistenza o meno del diritto fatto valere; dalla sua anteriorità rispetto al fallimento; dalla completezza delle formalità poste in essere per l'opponibilità degli effetti conseguiti verso il fallito, anche ai terzi. Eccezioni, anzi, che proprio supponendo che il credito o la causa di prelazione siano sussistenti; opponibili sotto il profilo dell'anteriorità rispetto all'apertura del concorso; efficaci sotto il profilo del compimento tempestivo delle eventuali formalità alle quali allude l'art. 45 l.fall.; tuttavia vengono opposte all'ammissione al passivo della pretesa insinuata, sul presupposto della revocabilità del titolo costitutivo della stessa» [conf., in dottrina, Bozza-Schiavon, 7 ss.; Russo, 94 ss.; Giorgietti, 1268 ss, 1276. Dopo la riforma: Fabiani, 2010, 329, per cui «colui che presenta la domanda di ammissione al passivo oltre a dimostrare l'esistenza del credito deve anche far valere i) una ragione di credito che si sia formata prima del fallimento e ii) una ragione di credito che derivi da un atto o negozio che non sia affetto da vizi di inefficacia concorsuale», nel senso cioè che «il titolo che sta al fondo della domanda di ammissione deve essere un titolo opponibile perché formatori prima... delle formalità di cui all'art. 45 legge fall.... e non revocabile (artt. 64 ss legge fall.)». Guizzi, 280 e 296; Fabiani, 2011, 1093 ss, 1098. Sdino, 641 e 655, nt. 26; Pagni, 2010, 1392 ss, 1395 ss.; Staunovo-Polacco, 2011, 684 ss. Di Corrado, 359. Galletti, 1279 e 1281 ss].

In giurisprudenza: Cass. n. 22711/2010, in motiv., per cui «... l'anteriorità del credito... assume i connotati di un elemento costitutivo del diritto di partecipare al concorso e, quindi, alla distribuzione dell'attivo fallimentare. Non si tratta, dunque, di eccezione in senso stretto riservata all'iniziativa di parte (curatore o creditori concorrenti». Cass. n. 24432/2011, per la quale l'anteriorità del credito di cui si chieda l'ammissione al passivo, essendo un elemento costitutivo del diritto di partecipare al concorso e, quindi, alla distribuzione dell'attivo. In senso apparentemente contrario, Cass. S.U., n. 4213/2013, in motiv., la quale, in effetti, pur affermando che «... la distribuzione dell'onere della prova nell'ambito dei generali principi esistenti deve tener conto anche del principio della disponibilità dei mezzi di prova, che induce a privilegiare interpretazioni della legge che non rendano impossibile o troppo difficile il diritto di azione costituzionalmente garantito (Cass. n. 6008/2012, Cass. n. 15406/2009, Cass. n. 10744/2009), eccessiva difficoltà, se non impossibilità, che si determinerebbe nel caso in cui si volesse imporre al creditore che formula istanza di ammissione al passivo l'onere di dimostrare l'anteriorità del credito all'apertura della procedura concorsuale», si è, tuttavia, occupata della natura della eccezione di mancanza di data certa a norma dell'art. 2704 c.c. nella scrittura privata prodotta in sede di verifica quale prova di una pretesa creditoria, affermando, al riguardo, il principio per cui «la mancanza di data certa nelle scritture prodotte si configura come fatto impeditivo all'accoglimento della domanda oggetto di eccezione in senso lato, in quanto tale rilevabile anche di ufficio dal giudice».

La mancanza dei fatti costitutivi o, correlativamente, la emergenza dagli atti ritualmente acquisiti di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo, come sopra ricostruiti, è, secondo le regole generali, rilevabile d'ufficio dal giudice, salvo che non costituisca un'eccezione in senso stretto, come l'eccezione di revocabilità del titolo, rimessa, quindi, all'iniziativa del curatore e, forse, a quella dei creditori concorrenti (Cass. n. 24432/2011, per la quale l'anteriorità del credito di cui si chieda l'ammissione al passivo, essendo un elemento costitutivo del diritto di partecipare al concorso e, quindi, alla distribuzione dell'attivo, non forma oggetto di eccezione in senso stretto riservata alla sola iniziativa di parte, ossia del curatore o dei creditori concorrenti: nella specie, la S.C. ha rilevato che correttamente il tribunale aveva rigettato la domanda muovendo, implicitamente, dalla rilevabilità d'ufficio della carenza dell'anteriorità del credito; in dottrina, Pagni, Accertamento, 1392 ss, 1399).

A tale complessa articolazione della fattispecie costitutiva (e dei correlativi fatti estintivi, modificativi ed impeditivi) corrisponde una altrettanto complessa configurazione delle rispettive prove e del relativo onere.

Nel giudizio di verificazione, infatti, a differenza del giudizio ordinario, le prove devono riguardare, oltre ai fatti costitutivi del diritto azionato e la validità negoziale e l'integrità funzionale dell'atto che ne costituisce il fondamento (ed ai corrispondenti fatti estintivi, modificativi ed impeditivi), anche la sua opponibilità ed efficacia verso la massa.

Più precisamente, l'opponibilità alla massa (e cioè la certa origine prefallimentare del diritto) è un elemento della fattispecie costitutiva del credito o del diritto e, come tale, al pari degli altri elementi costitutivi del diritto verso il fallito (es. contratto di mutuo, di lavoro subordinato, fatto illecito, ecc.), deve essere dimostrata, secondo le regole generali (art. 2697, comma 1, c.c.), da chi propone la domanda di accertamento del diritto verso il fallito (sull'onere del ricorrente di fornire la prova del titolo dal quale deriva il suo diritto, v. Cass. n. 19095/2007 e, in dottrina, Conte, 534 ss, 535; Zoppellari, 672).

Un problema risolto dalla giurisprudenza riguarda la prova dell’anteriorità del credito rispetto al fallimento quando l’asserito credito ha titolo in un contratto. Cass. I, ord. n. 9074/2018 ha affermato che la mancanza di data certa del contratto comporta l’inopponibilità delle clausole al fallimento ma ciò non esclude che possa risultare altrimenti un credito di restituzione per versamenti effettuati dal creditore in forza del contratto; la detta inopponibilità esclude soltanto che le clausole riportate nella documentazione priva di data possano essere considerate ai fini dell’effettiva regolamentazione del rapporto. Il creditore può dimostrare la certezza della data attraverso fatti, quali che siano, equipollenti a quelli previsti dall’art. 2704 c.c. (Cass. VI, ord. n. 2987/2018, che ha dichiarato irrilevante la documentazione prodotta al fine di provare non il titolo bensì lo svolgimento delle obbligazioni da esso derivanti; Cass. I, ord. n. 27203/2019, per la quale l’esistenza del contratto può comunque essere oggetto di prova, prescindendo dal documento, con tutti gli altri mezzi consentiti dall’ordinamento). In questi casi il giudice ha il compito di valutare la sussistenza e l’idoneità dei fatti allegati a stabilire la certezza della data del documento, i quali non devono essere riconducibili al soggetto che li invoca e devono essere sottratti alla sua disponibilità (Cass. I, ord. n. 4509/2018).

L'inefficacia (ex art. 64 ss. l.fall.) dell'atto (di certo compimento prefallimentare) da cui è sorto il diritto (o la prelazione che lo assiste) può costituire, al pari della deduzione di un vizio genetico o funzionale dell'atto e degli altri fatti impeditivi, modificativi, estintivi (pagamento, rinuncia, prescrizione, transazione, giudicato, compensazione, ecc.), l'oggetto di un'eccezione (riconvenzionale) del curatore (o, se ritenuti legittimati a farlo, degli altri concorrenti: in senso contrario Cass. n. 25323/2011; in senso favorevole, invece, Pagni, Il nuovo diritto, 359, 360) che può, in tutto o in parte, paralizzare l'accoglimento della domanda, e che, come tale, secondo le regole generali (art. 2697, comma 2, c.c.), deve essere dimostrata da chi la solleva (sull'onere del curatore di provare l'estinzione del credito, v. Cass. n. 19095/2007 e, in dottrina, Conte, 535).

Ne deriva che, nell'ambito di un unico contenitore processuale, da un lato, il titolare della pretesa (creditoria e/o restitutoria) verso il fallito propone la domanda di ammissione del credito ovvero di rivendicazione/restituzione del bene, deducendo in giudizio i relativi fatti costitutivi (ivi compresa, come detto, la certa origine prefallimentare del diritto), con l'onere di fornire le corrispondenti prove, mentre, dall'altro, il curatore (e, forse, gli altri ricorrenti ed il fallito) hanno il potere di sollevare le eccezioni che possono paralizzare le domande proposte dagli altri ricorrenti, deducendo — nei limiti in cui siano ritenuti legittimati a farlo e vi abbiano un interesse concreto — i relativi fatti estintivi, impeditivi e modificativi (ivi compresa, come detto, quale eccezione riconvenzionale, l'inefficacia ex artt. 64 ss. l.fall. dell'atto che ne costituisce il fondamento), con l'onere di offrire in giudizio le relative prove.

La particolare configurazione della fattispecie costitutiva del diritto azionato, al pari della correlativa fattispecie estintiva, modificativa o impeditiva, determina la necessità che il credito sia verificato alla stregua dei requisiti, oltre che di esistenza del diritto di credito, anche, ed ulteriormente, dei requisiti di opponibilità e di efficacia del credito stesso nei confronti del fallimento, anche in presenza di una statuizione avente efficacia di giudicato tra le parti: Cass. n. 7774/2012.

L'inderogabilità e l'esclusività del giudizio di verificazione e le sue conseguenze

L'art. 52 l.fall. stabilisce, come detto, il principio per cui il giudizio di verificazione è, salvi i casi previsti dalla legge, l'unico strumento processuale utilizzabile per ottenere l'accertamento, con effetti opponibili alla procedura, di un diritto di credito o di un diritto (reale o personale) alla restituzione di un bene in possesso o nella disponibilità del fallito.

Il soggetto (che assume di essere) titolare di un diritto di credito ovvero di un diritto personale o reale alla restituzione di un bene in possesso del fallito ed appreso alla massa, se intende farlo valere nei confronti del curatore (nel senso che intende partecipare ai riparti fallimentare ovvero sottrarre il bene alla liquidazione concorsuale od opporre i propri diritti sul bene a chi lo acquisti dal curatore), ha, quindi, l'onere di far valere il proprio diritto nelle forme del giudizio di verificazione, che sono tendenzialmente esclusive: nel senso che escludono, almeno con effetto nei confronti della procedura, ogni altra possibile forma di accertamento processuale del diritto verso il fallito (Fabiani, 316; Ferraro, 1324).

Ciò significa che, se la pretesa o il diritto al bene sono azionati in sede ordinaria (o perché pendeva un giudizio ordinario contro il fallito che, dopo la sua interruzione ex art. 43 l.fall., viene proseguito nei confronti del curatore, o perché la domanda è proposta direttamente contro il curatore in sede ordinaria, se del caso per ottenerne la condanna al pagamento del debito del fallito) — anche arbitrale o cautelare (come nel caso di un'azione possessoria ovvero ex art. 700 c.p.c., onde sottrarre il bene mobile acquisito all'attivo della procedura fallimentare: cfr. rispettivamente, Trib. Ancona 12 dicembre 2009, in Fall. 2010, 718 e Coppola, 323) — la domanda proposta, in difetto di una corretta identificazione non semplicemente del giudice innanzi al quale agire ma, addirittura, del procedimento stesso con il quale far valere la pretesa azionata, è, rispettivamente, improcedibile (fermi restando gli effetti sostanziali prodotti, come l'interruzione della prescrizione) o inammissibile (Spiotta, 1980 e nt. 12; Cass. n. 5552/2017).

Non si tratta, cioè, di una domanda proposta innanzi ad un giudice incompetente a decidere sulla stessa ma, più radicalmente, di una domanda proposta attraverso un procedimento diverso da quello a tal fine imposto dalla legge, che non è, come detto, il giudizio ordinario (nelle sue molteplici manifestazioni: es. giudizio ordinario, opposizione al decreto ingiuntivo, giudizio del lavoro, processo societario, giudizio arbitrale, ecc.) ma, appunto, il giudizio di verificazione, nelle forme previste dagli artt. 92 ss. l.fall., con la conseguenza che, trattandosi di una questione di rito e non di competenza, la pronuncia che deve essere resa non è di incompetenza ma, come detto, di inammissibilità o di improcedibilità della domanda: ed è tale pur quando, erroneamente, il giudice abbia formalmente dichiarato la propria incompetenza.

Il rito della verifica, infatti, si caratterizza e si distingue non semplicemente perché attribuisce la relativa competenza (funzionale ed inderogabile) al giudice delegato (almeno nella fase tempestiva) ma anche, e soprattutto, perché è regolato in forme tali da consentire la contemporanea partecipazione di tutti i creditori onde consentire a ciascuno di essi, oltre che al curatore, di sindacare la corretta formazione dello stato passivo (con l'accertamento dei soli crediti effettivamente sussistenti verso il fallito) e della massa attiva (con l'esclusione dei soli beni che effettivamente appartengano a terzi), tant'è che ciascuno può poi impugnare le decisioni prese sul punto dal giudice delegato.

La precisazione (che si tratta di una questione di rito e non di competenza) rileva sotto molteplici punti.

Intanto, la pronuncia (anche quando sia formalmente di incompetenza) è sempre di inammissibilità o improcedibilità della domanda proposta in sede ordinaria e non è, quindi, impugnabile con il regolamento di competenza ma solo con l'appello (Cass. n. 9030/2014, per la quale il provvedimento con il quale il tribunale, in funzione di giudice del lavoro, abbia rigettato l'eccezione di improponibilità o di inammissibilità della domanda di reintegrazione nel posto di lavoro e di pagamento di indennità risarcitoria, escludendone la devoluzione al giudice della procedura concorsuale cui era stata assoggettata la società datrice di lavoro, non attiene alla competenza ma al rito, con la conseguenza che non può essere impugnato con regolamento di competenza.; nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il regolamento di competenza proposto avverso una sentenza con la quale il giudice del lavoro, adito ai sensi dell'art. 1, commi 47 e ss., l. n. 192/2012, ritenendo ritualmente proposta dinanzi a sé la domanda di impugnazione di licenziamento collettivo, per violazione dei criteri di scelta di cui all'art. 5, comma 1, l. n. 223/1991, aveva escluso l'applicazione della disciplina processuale sull'accertamento dei crediti dinanzi al tribunale fallimentare; Cass. n. 21669/2013, secondo cui le questioni concernenti l'autorità giudiziaria dinanzi alla quale va introdotta una pretesa creditoria nei confronti di un debitore dichiarato fallito, anche se impropriamente formulate in termini di competenza, sono in realtà questioni di rito; pertanto, qualora sia proposta una domanda diretta a far valere, nelle forme ordinarie, una pretesa creditoria nei confronti del fallimento dell'obbligato e il giudice adito dichiari l'improcedibilità della domanda, perché non introdotta in sede concorsuale nelle forme dell'accertamento del passivo, la relativa pronuncia non è assoggettabile a regolamento di competenza ma è impugnabile con l'appello, in quanto, ancorché formalmente espressa in termini di declinatoria di competenza del giudice adito in favore di quello fallimentare, non è sostanzialmente una statuizione sulla competenza, ma sul rito che la parte deve seguire).

L'inammissibilità o l'improcedibilità della domanda è, inoltre, rilevabile di ufficio, in ogni grado e stato del giudizio (Cass. n. 9623/2010; Cass. n. 17839/2005; Cass. n. 10414/2005, per la quale «le questioni concernenti l'autorità giudiziaria dinanzi alla quale va introdotta una pretesa creditoria nei confronti di un debitore dichiarato fallito costituiscono questioni attinenti al rito, che non implicano questioni di competenza, quando il tribunale fallimentare coincida con il tribunale ordinario; pertanto, qualora una domanda sia diretta a far valere, nelle forme ordinarie, una pretesa creditoria soggetta al regime del concorso, il giudice adito è tenuto a dichiarare non la propria incompetenza, bensì, secondo i casi, l'inammissibilità, l'improcedibilità o l'improponibilità della domanda, siccome proposta secondo un rito diverso da quello previsto come necessario dalla legge, quindi inidonea a conseguire una pronuncia di merito, configurando detta questione una vicenda «litis ingressum impediens», concettualmente distinta dalla incompetenza, che deve essere esaminata e rilevata dal giudice di merito prima ed indipendentemente dall'esame della questione di competenza che, eventualmente, concorra con essa»; Cass. n. 1065/2002, per cui «si tratta... di una exceptio litis ingressum impediens concettualmente distinta da una eccezione di incompetenza, con la quale... può anche non coesistere»; Di Corrado, 360; Galletti, 1280), ed anche oltre, quindi, le preclusioni previste dall'art. 38 c.p.c. per eccepire l'incompetenza (Cass. n. 1065/2002, per cui «...la relativa questione non soggiace alla preclusione prevista dall'art. 38, comma 1, c.p.c. (nella formulazione in vigore dopo il 30 aprile 1995) e può essere eccepita o rilevata d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio»).

La domanda proposta in via ordinaria è, infine, inammissibile o improcedibile anche quando sia stata proposta innanzi al tribunale che ha dichiarato il fallimento, che pure è, a norma dell'art. 24 l.fall., competente su tutte le azioni che derivano dal fallimento (Cass. n. 1065/2002, per la quale, infatti, le questioni concernenti la sede innanzi alla quale deve essere introdotta una pretesa creditoria nei confronti di un debitore assoggettato a fallimento, anche se spesso impropriamente formulate esclusivamente in termini di competenza, sono anzitutto questioni attinenti al rito, non implicanti affatto problemi di competenza quando il tribunale fallimentare coincide con il tribunale in sede ordinaria: «pertanto, proposta una domanda tendente a far valere nelle forme ordinarie una pretesa soggetta al concorso, il giudice adito deve dichiarare, secondo i casi, l'improcedibilità o l'improponibilità della domanda, siccome proposta secondo un rito diverso da quello previsto come necessario dalla legge del concorso e, pertanto, inidonea a conseguire una pronuncia di merito... Tale inidoneità è definitiva e non può essere superata né dalla coincidenza del tribunale fallimentare con il tribunale adito nelle forme ordinarie, né dal fatto che, comunque, è stata raggiunta la finalità di assicurare il contraddittorio tra le parti...»), ovvero in via riconvenzionale (Cass. n. 8782/2012, per la quale nel giudizio promosso dal curatore fallimentare per la revocatoria di un contratto (nella specie, vendita immobiliare conclusa in periodo sospetto), la domanda riconvenzionale, diretta ad ottenere la condanna del fallimento al pagamento di un credito derivante dal medesimo contratto (nella specie, restituzione del prezzo versato) è inammissibile, per violazione degli artt. 52 e 93 l.fall., i quali sanciscono l'esclusività del rito speciale di accertamento del passivo; ne consegue che l'omessa pronuncia, in quanto relativa a domanda inammissibile, non integra un vizio della sentenza, né rileva come motivo di ricorso per cassazione, facendo difetto l'obbligo del giudice di pronunciarsi sul merito).

La declaratoria di inammissibilità o improseguibilità della domanda (e non, invece, di incompetenza) comporta, poi, da un lato, che il giudice non deve fissare alcun termine per la riassunzione del giudizio in sede fallimentare ex art. 50 c.p.c. e, dall'altro, che la riproposizione della domanda nelle forme dell'insinuazione al passivo fallimentare non si configura, tecnicamente, come una riassunzione, anche se avviene nel termine previsto dall'art. 50 c.p.c., con la conseguenza che, a differenza della declaratoria di incompetenza, non si determina l'effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione che consegue alla proposizione di una domanda innanzi al giudice incompetente ed alla sua tempestivamente riassunzione innanzi al giudice dichiarato competente (artt. 2943, comma 3, e 2945, comma 2, c.c.), ma, al più, solo l'effetto interruttivo della prescrizione (e sospensivo fino alla dichiarazione di fallimento, che determina, a norma dell'art. 43 l.fall., l'automatica interruzione del processo e, quindi, l'improcedibilità della domanda, quanto meno nei confronti del curatore), quando l'atto introduttivo del giudizio sia stato ritualmente notificato al fallito prima del fallimento. Secondo Cass. n. 8686/2013, tuttavia, la domanda di pagamento di un credito concorsuale, proposta nei confronti del curatore fallimentare secondo il rito ordinario, anziché nei modi previsti dalla speciale procedura della insinuazione al passivo, pur essendo certamente inammissibile, non impedisce l'effetto interruttivo e sospensivo delle prescrizione ai sensi degli artt. 2943, commi 1 e 2, e 2945, comma 2, c.c.

Nello stesso modo, il curatore non può promuovere, in sede ordinaria, un giudizio di accertamento negativo del credito concorsuale (Spiotta, 1981), né proseguire il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo pronunciato nei confronti del debitore, poi fallito (Cass. n. 6502/2004).

Né un'eccezione a tale principio può derivare dalla circostanza che la domanda proposta in sede ordinaria per l'accertamento di un credito verso il fallito attenga ad un'azione che comporti il necessario intervento di più litisconsorti, come nel caso previsto dall'art. 23 della l. n. 990/1969, posto che, in esito alla riforma della legge fallimentare (che non prevede più l'opposizione allo stato passivo nelle forme dell'ordinario processo di cognizione), è sicuramente esclusa la presenza di parti estranee al fallimento nell'ambito di un procedimento che, comunque si voglia individuarne l'oggetto, non prevede pronunce di condanna o anche solo di accertamento destinate ad avere efficacia in ambito extraconcorsuale nei confronti del litisconsorte in bonis (Cass. n. 17035/2011).

Non può, d'altra parte, sottovalutarsi la possibilità che, sebbene in modo erroneo, il giudizio in sede ordinaria prosegua nonostante il fallimento del debitore (es. con l'accoglimento della domanda e la condanna del debitore fallito al pagamento del debito ovvero il rigetto dell'opposizione al decreto ingiuntivo che lo stesso aveva promosso e la sua condanna al pagamento del debito, ecc.).

In tali ipotesi, la sentenza resa dopo il fallimento è senz'altro inopponibile alla massa: il creditore (senza poter invocare l'effetto interruttivo-sospensivo della domanda proposta in sede ordinaria ma, al più, l'effetto interruttivo conseguente alla rituale proposizione della domanda nei confronti del fallito prima del fallimento) deve, quindi, riproporre la domanda in sede fallimentare e, se del caso, assumere nuovamente in quella sede le prove già articolate ed assunte in sede ordinaria (es. testimonianze, consulenze tecniche, ecc.), a meno che il giudice delegato non ritenga di utilizzarne i risultati quali prove atipiche (più o meno attendibili a seconda del grado di contraddittorio che ne ha qualificato l'assunzione)

Se, invece, il giudizio ordinario è stato proposto o riassunto nei confronti del curatore, il rischio è che, se il curatore non si costituisca contando sulla declaratoria ufficiosa dell'inammissibilità o dell'improseguibilità della domanda, il giudice ordinario, sia pure in modo erroneo, pronunci nel merito accertando il credito verso il fallito: se tale sentenza passa in giudicato, in quanto resa in un giudizio cui ha partecipato il curatore, è ad esso opponibile.

L'improponibilità della domanda in sede extrafallimentare e la rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado di tale vizio va, infatti, coordinata con il sistema delle impugnazioni e la disciplina del giudicato, con la conseguenza che il vizio procedimentale, ove non dedotto come motivo di gravame, resta superato dall'intervenuto giudicato, senza che — in ragione del principio di conversione delle nullità in motivi di impugnazione e in armonia con il principio della ragionevole durata del processo — possa ulteriormente dedursi nelle successive fasi del giudizio (Cass. n. 1115/2014, la quale, in applicazione dell'anzidetto principio, ha rigettato il gravame proposto dalla curatela fallimentare, evidenziando che il fallimento era sopravvenuto nel corso del giudizio di primo grado, con conseguente interruzione del processo e riassunzione nei confronti della curatela medesima, che non aveva mai posto la questione procedurale né nel giudizio riassunto né in grado di appello, ma solo in sede di legittimità).

D'altro canto, il riacquisto della capacità processuale del fallito determinato dalla chiusura (o dalla revoca) del fallimento provoca l'interruzione dei processi in cui sia parte il curatore della procedura, per cui il giudizio ex art. 98 l.fall. può essere riassunto nei confronti del debitore tornato in bonis, o da lui proseguito, al fine di giungere all'accertamento giudiziale sull'esistenza, o meno, del credito di cui si era chiesta l'insinuazione, dovendosi ritenere irrilevante la circostanza che le conclusioni del creditore continuino ad essere formulate in termini di ammissione al passivo, piuttosto che di condanna al pagamento dell'invocato credito, atteso che la domanda di insinuazione, inserendosi in un processo esecutivo concorsuale e tendendo all'accertamento del credito in funzione esecutiva mediante la sua collocazione sul ricavato dell'attivo fallimentare, ricomprende quella di condanna richiesta nel giudizio ordinario (Cass. n. 13337/2013; Spiotta, 1980).

L'art. 52 l.fall. stabilisce, come detto, il principio per cui il giudizio di verificazione è l'unico strumento processuale utilizzabile per l'accertamento di un diritto di credito o di un diritto alla restituzione opponibile alla massa.

L'onere di presentare la domanda di insinuazione riguarda tutti i creditori: non solo i creditori chirografari e muniti di privilegio generale, ma anche quelli che vantano un privilegio speciale sui beni del fallito o che hanno già conseguito un titolo esecutivo giudiziale, come, ad esempio, una sentenza passata in giudicato, nonché l'agente della riscossione, il creditore che ha presentato istanza di fallimento, le amministrazioni pubbliche, ecc.

Tale onere ricade, come detto, anche su quei creditori che hanno promosso azione giudiziale e il relativo processo è ancora in corso al momento della dichiarazione di fallimento. La riforma non si è interessata di tale ipotesi se non per stabilire che «l'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo» (art. 43, comma 3, l.fall.): non ha, quindi, ritenuto di prevedere, ad esempio, una disposizione che, in qualche modo, «conservasse» gli atti compiuti in quel giudizio, come ad esempio le prove assunte, e gli effetti prodotti dalla domanda introduttiva, in particolare l'effetto sospensivo della prescrizione.

Pur in mancanza di una espressa norma di legge, sembra, tuttavia, necessario riconoscere, come già detto, che, la domanda di insinuazione comporti comunque la conservazione dell'effetto sospensivo della prescrizione prodotto dall'originaria domanda giudiziale, almeno fino al fallimento, che determina l'interruzione del giudizio pendente, fermo restando l'effetto interruttivo della prescrizione in conseguenza della rituale notifica dell'atto introduttivo dello stesso.

L'art. 52 l.fall., peraltro, dopo aver stabilito il principio di inderogabilità ed esclusività del giudizio di verificazione, ammette, però, che la legge possa stabilire diversamente.

Esistono, infatti, casi tipici di crediti verso il fallito sottratti al giudizio di verificazione: o meglio, non sottratti all'onere della domanda di ammissione (che riguarda tutti i crediti verso il fallito, persino quelli portati da sentenza già passata in giudicato prima del fallimento ovvero da decreto ingiuntivo diventato definitivo prima del fallimento) ma piuttosto all'accertamento del giudice delegato, nel senso che, in qualche misura, tali pretese sono, nell'an e/o nel quantum, rimesse all'accertamento di un altro giudice e, quindi, di un altro giudizio, che si svolge, a seconda dei casi, in forme ordinarie o speciali (ferma restando, però, la rimessione in via esclusiva al giudice delegato, in sede di verifica, di sindacarne l'opponibilità o meno alla massa e di attribuire l'eventuale privilegio).

Ciò accade, in particolare, per: 1) i crediti relativi ai tributi (ed alle sanzioni tributarie) che il fallito, prima del fallimento (ove la sentenza resa dal giudice tributario non sia, in quel momento, già definitiva) e/o il curatore (a seguito della notifica dell'atto impositivo ovvero riassumendo il giudizio tributario già proposto dal fallito) abbiano contestato, nelle forme previste dagli artt. 1 ss. d.lgs. n. 546/1992, e per questo, a norma dell'art. 96, comma 3, n. 3, l.fall. o degli artt. 87 e 88 del d.P.R. n. 602/1973 (come modificati dalla l. n. 46/1999), ammessi al passivo con riserva dell'impugnazione, posto che l'accertamento degli stessi, nell'an e/o nel quantum, è riservato al giudice tributario, residuando, quindi, al giudice delegato solo il potere di verificarne l'opponibilità alla massa ovvero di attribuire o meno il richiesto privilegio (Cass. S.U., n. 20112/2005; Cass. n. 7791/2006; Cass. n. 6126/2014, per la quale, l'ammissione al passivo dei crediti tributari è richiesta dalle società concessionarie per la riscossione, come stabilito dall'art. 87, comma 2, d.P.R. n. 602/1973, nel testo introdotto dal d.lgs. n. 46/1999, sulla base del semplice ruolo, senza che occorra, in difetto di espressa previsione normativa, anche la previa notifica della cartella esattoriale, salva la necessità, in presenza di contestazioni del curatore, dell'ammissione con riserva, da sciogliere poi ai sensi dell'art. 88, comma 2, del d.P.R. n. 602, allorché sia stata definita la sorte dell'impugnazione esperibile davanti al giudice tributario; conforme Cass. I, ord. n. 16112/2019, per la quale, poiché il processo di informatizzazione dell’amministrazione finanziaria rende indisponibile un documento cartaceo di ruolo, gli estratti del ruolo, consistenti in copie operate su supporto analogico di un documento informatico, se formate in osservanza delle regole dettate al riguardo, hanno piena efficacia probatoria ove il curatore non contesti la loro conformità all’originale; Cass. n. 21483/2015, per la quale l'attribuzione alle commissioni tributarie — a norma dell'art. 2 del d.lgs. n. 546/1992, come sostituito dall'art. 12, comma 2, della l. n. 448/2001 — della cognizione di tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, si estende ad ogni questione relativa all'an o al quantum del tributo, sicché anche l'eccezione di prescrizione, quale fatto estintivo dell'obbligazione tributaria, rientra nella giurisdizione del giudice che abbia giurisdizione in merito alla predetta obbligazione e non può, quindi, essere dedotta nel giudizio di verificazione dello stato passivo fallimentare); 2) i crediti assoggettati alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Fabiani, 2010, 319); 3) i crediti assoggettati alla giurisdizione del giudice contabile, come nel caso dei rapporti di dare ed avere tra società concessionaria del servizio di riscossione delle imposte ed ente impositore e del risultato contabile finale, il cui accertamento, in base alle norme degli artt. 13 e 44 del r.d. n. 1214/1934 ed alle successive di cui al d.P.R. n. 603/1973 ed al d.P.R. n. 858/1963, è devoluto alla giurisdizione contenziosa della Corte dei conti (cfr. in tema, Cass. S.U., n. 23302/2016); 4) i crediti accertati con sentenza (ma non – almeno così si ritiene — con decreto ingiuntivo: sul punto, v. sub art. 96) pronunciata prima del fallimento, i quali, a norma dell'art. 96, comma 3, n. 3, l.fall., devono essere ammessi al passivo con riserva del giudizio di impugnazione che il curatore ha l'onere di promuovere o proseguire nei confronti della sentenza se vuole evitare che la pretesa relativa sia ammessa in via definitiva: ferma restando, naturalmente, la possibilità di contestare la sua inopponibilità alla massa o l'inefficacia del titolo da cui origina il credito o di negare il richiesto privilegio. Cass. I, ord. n. 12854/2018 ha affermato che, essendo il contribuente fallito legittimato ad impugnare l’accertamento tributario nell’inerzia degli organi fallimentari, il curatore può eccepire il giudicato favorevole al contribuente con il risultato di far ammettere al passivo l’agente della riscossione nei limiti della minor somma acclarata in via definitiva in sede contenziosa.  Anche  per i crediti concernenti i contributi previdenziali è necessario il rito dell’accertamento del passivo, nel cui ambito la relativa domanda di ammissione è proponibile in base al mero estratto di ruolo; è consentita al curatore, in sede di insinuazione al passivo, la loro contestazione in ordine all'an ed al quantum, senza che sia richiesta la previa notifica della cartella di pagamento (Cass. I, ord. n. 24589/2019, che ha ritenuto l’avviso di addebito dell’INPS equivalente all’estratto di ruolo). La contestazione può riguardare la prescrizione dei contribuiti (peraltro rilevabile di ufficio: cfr. Cass. n. 330/2002), senza alcun onere di proporre l'impugnazione della relativa cartella davanti al giudice del lavoro. La stessa conclusione vale per la sanzioni amministrative: fermo il potere dell'ente impositore di determinare l'ammontare della sanzione pecuniaria, il relativo credito è, infatti, soggetto alle regole concorsuali e deve essere fatto valere con insinuazione al passivo del fallimento e non mediante ordinanza-ingiunzione a norma dell'art. 18 della l. n. 689/1981, la quale se emessa è priva di efficacia ai fini del concorso collettivo (Cass. n. 3838/2001, la quale, però, ha ritenuto che il curatore può impugnare in via autonoma l'ordinanza ingiunzione emessa nei confronti del fallito, stante la sussistenza del suo interesse ad un accertamento negativo, ma il giudice, adito in sede di giudizio di opposizione a norma dell'art. 22 l. n. 689/1981, una volto edotto dell'esistenza del fallimento, deve limitarsi a dichiarare l'inefficacia dell'ordinanza ingiunzione nei confronti della massa, senza poter esaminare le altre ragioni eventualmente dedotte dall'opponente, essendo le stesse riservate al giudice del fallimento).

Per contro, l'esclusività del giudizio di verificazione comporta che se, nel giudizio promosso dal curatore per il recupero di un credito contrattuale del fallito, il convenuto propone domanda riconvenzionale diretta all'accertamento di un proprio credito nei confronti del fallimento (ipotesi assimilabile a quella in cui il giudizio, promosso da un soggetto ancora in bonis, sia proseguito dal curatore o nei confronti dello stesso, a seguito della dichiarazione di fallimento dell'attore), la domanda proposta dal convenuto, in quanto soggetta al rito speciale previsto dagli artt. 92 ss. l.fall. per l'accertamento del passivo, dev'essere dichiarata inammissibile o improcedibile nel giudizio di cognizione ordinaria: la domanda proposta (o proseguita) dal curatore prosegue, invece, dinanzi al giudice adito, non operando per la stessa la vis attractiva del tribunale fallimentare, né in forza dell'art. 36 c.p.c. o dell'art. 24 l.fall., in quanto l'applicazione dell'art. 52 l.fall. non pone una questione di competenza, ma di rito, né in virtù del principio del simultaneus processus, il quale, non costituendo un principio di carattere assoluto, incontra un limite nella previsione di un rito speciale ancorato ad una competenza esclusiva applicabile ad una delle cause connesse (Cass. n. 24847/2011; Cass. S.U., n. 23077/2004; Cass. S.U., n. 21499/2004, per cui qualora, nel giudizio promosso dal curatore per il recupero di un credito contrattuale del fallito, il convenuto proponga domanda riconvenzionale diretta all'accertamento di un proprio credito nei confronti del fallimento, derivante dal medesimo rapporto, la suddetta domanda, per la quale opera il rito speciale ed esclusivo dell'accertamento del passivo ai sensi degli artt. 93 e ss. della legge fallimentare, deve essere dichiarata inammissibile (o improcedibile se formulata prima della dichiarazione di fallimento e riassunta nei confronti del curatore) nel giudizio di cognizione ordinaria, e va eventualmente proposta con domanda di ammissione al passivo su iniziativa del presunto creditore, mentre la domanda proposta dalla curatela resta davanti al giudice per essa competente, che pronuncerà al riguardo nelle forme della cognizione ordinaria; in dottrina, Spiotta, 1981; in senso diff., Cass. S.U., n. 3878/1979, per la quale, invece, qualora, nel giudizio promosso dal curatore per il recupero di un credito contrattuale del fallito, il convenuto, invocando contrapposte ragioni derivanti dal medesimo contratto, proponga domanda riconvenzionale, diretta all'accertamento di un proprio credito nei confronti del fallimento, ai fini del concorso fallimentare entrambe le pretese, inscindibilmente devolute alla cognizione di un unico giudice, ai sensi dell'art. 36 c.p.c., vanno trasferite, su iniziativa spettante tanto all'una che all'altra parte, nella sede concorsuale del procedimento di accertamento e verificazione dello stato passivo, tenuto conto che solo in tale sede, secondo i principi fissati dall'art 52 l.fall., è ammissibile la costituzione di un titolo creditorio nei confronti della massa. Peraltro, se l'indicato procedimento si concluda con l'evidenziare un saldo attivo a favore del fallito, e, quindi, con il rigetto della domanda di ammissione al passivo contenuta in quella riconvenzionale, resta onere del curatore di agire in sede ordinaria per conseguire l'accertamento del relativo credito e la condanna della controparte al pagamento; Cass. n. 5722/2002; in dottrina, per tale soluzione, Coppola, 331).

Tale conclusione non vale, invece, per il caso in cui il terzo, convenuto nel giudizio proposto o proseguito dal curatore fallimentare, oppone il proprio credito, in via di eccezione, per ottenere la dichiarazione di compensazione con quello fatto valere dall'attore, anche quando il predetto credito non sia stato accertato in sede di verificazione del passivo ed anche quando tale accertamento non sia stato neppure richiesto, giacché in tal caso il terzo chiede l'accertamento della sua pretesa creditoria, non ai fini della partecipazione al concorso, ma soltanto per contrastare la pretesa del curatore (Cass. n. 24847/2011; Cass. n. 15562/2011; Cass. n. 14418/2013, per la quale, nel giudizio promosso dalla curatela per il recupero di un credito contrattuale del fallito, il convenuto può eccepire in compensazione, in via riconvenzionale, l'esistenza di un proprio controcredito verso il fallimento, non operando al riguardo il rito speciale per l'accertamento del passivo previsto dagli artt. 93 e ss. l.fall., atteso che tale eccezione — diversamente dalla corrispondente domanda riconvenzionale, il cui petitum riguarda, invece, una pronuncia idonea al giudicato a sé favorevole, di accertamento o di condanna all'importo in tesi spettante alla medesima parte, una volta operata la compensazione — è diretta esclusivamente a neutralizzare la domanda attrice ed ad ottenerne il rigetto, totale o parziale; Cass. n. 481/2009; Cass. n. 287/2009; Cass. n. 18223/2002; Trib. Napoli 8 agosto 2014; Spiotta, 1981, nt. 18).

La stessa conclusione vale per il caso dell'eccezione di usucapione sollevata dal terzo a fronte della domanda di rivendica promossa, in sede ordinaria, dal curatore al fine di recuperare un bene immobile acquisito sulla base delle risultanze dei registri immobiliari, laddove, al contrario, è attratta al giudizio di verificazione la corrispondente domanda riconvenzionale proposta dal terzo volta di accertamento dell'usucapione.

L'esclusività del giudizio di verificazione opera anche se il credito è devoluto alla cognizione degli arbitri. Per consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti, in sede arbitrale non possono essere fatte valere ragioni di credito vantate verso una parte sottoposta a fallimento o ad amministrazione straordinaria, giacché l'effetto attributivo della cognizione agli arbitri, proprio del compromesso o della clausola compromissoria, è in ogni caso paralizzato dal prevalente effetto, prodotto dal fallimento o dall'apertura della procedura in amministrazione straordinaria, dell'avocazione dei giudizi aventi ad oggetto l'accertamento di un credito sottoposto alla procedura concorsuale allo speciale e inderogabile procedimento di verificazione dello stato passivo (Cass. S.U., n. 9070/2003; Cass. n. 3918/2011; Cass. n. 17891/2004; Cass. S.U., 15200/2015).

L'esclusività del giudizio di verificazione non determina, invece, il trasferimento davanti in sede fallimentare della intera causa proposta quando il creditore abbia domandato l'accertamento del proprio credito, oltre che nei confronti del debitore, poi fallito, anche di un condebitore solidale dello stesso.

A tale proposito, infatti, vale il principio per cui, in tema di obbligazioni solidali, la regola dell'improcedibilità nella sede ordinaria della domanda di adempimento e della conseguente attrazione a quella fallimentare, ai sensi dell'art. 24 l.fall., non trova applicazione, in caso di sopravvenuto fallimento di uno dei condebitori, anche se per mera garanzia, allorché contro tale soggetto non sia svolta alcuna domanda volta ad ottenere un titolo per partecipare al concorso e, dunque, il creditore possa proseguire il giudizio verso il condebitore in bonis (Cass. n. 25403/2009; Cass. n. 25674/2015; in senso diff., invece, Cass. n. 13875/2004, per la quale l'onere dell'insinuazione al passivo sussiste anche nel caso in cui si tratti di domande aventi ad oggetto l'accertamento dei crediti nei confronti di un soggetto poi dichiarato fallito, ove l'attore, a tutela della propria situazione soggettiva, faccia valere in giudizio l'esistenza di una obbligazione solidale per l'adempimento di una medesima prestazione, così da poter richiedere l'adempimento per l'intero a ciascuno degli obbligati solidali: in tal caso, infatti, se uno dei condebitori viene dichiarato fallito, l'esistenza di un unico interesse, cui non può che corrispondere un unico diritto, rende operativa la vis attractiva ex art. 24 l.fall., con conseguente spostamento della competenza presso il tribunale fallimentare anche della controversia relativa al rapporto corrente tra il creditore ed il condebitore non fallito, diversamente da quanto accade, invece, in presenza delle obbligazioni solidali di garanzia, dove è possibile, invece, la scissione tra la domanda verso il debitore poi fallito, devoluta alla sede fallimentare, e quelle proposte nei confronti degli altri, che proseguono in sede ordinaria).

L'onere dell'insinuazione, infine, non sussiste nel caso di mero subingresso di un soggetto ad un altro nella titolarità di un credito concorsuale già ammesso al passivo.

Nella vigenza della normativa abrogata, in realtà, il nuovo creditore aveva l'onere di presentare domanda di insinuazione, in via tardiva, a norma dell'art. 101 l.fall., a prescindere dalla causa del sub ingresso (cessione di credito ovvero surrogazione ex lege in favore del terzo che abbia eseguito il pagamento).

Si riteneva, infatti, che la definitiva ammissione al passivo fallimentare, risultando finalizzata alla realizzazione del concorso dei creditori sul patrimonio del fallito, postulasse una valutazione del credito non nella sua astratta oggettività, ma riferita ad un ben determinato soggetto, la cui concreta individuazione non era irrilevante per il debitore che, in caso di errore, è esposto al rischio della mancata liberazione dall'obbligazione (Cass. n. 6469/1998; Cass. n. 11038/2002).

La Suprema Corte, infatti, aveva ritenuto che, in mancanza di una specifica disposizione legislativa, la tutela del credito, già ammesso al passivo e poi ceduto, poteva essere richiesta dal cessionario non con la mera notificazione al fallimento della cessione, ma mediante la insinuazione tardiva, ai sensi dell'art. 101 l.fall. (Cass. n. 13221/1991).

In seguito, però, la Corte di cassazione, pur senza prendere posizione sulla necessità dell'insinuazione tardiva, ha puntualizzato che il pagamento con surrogazione «ha il limitato effetto di soddisfare il creditore originario senza liberare il debitore, con la conseguenza che il rapporto obbligatorio non si estingue e il solvens si sostituisce al creditore originario subentrando nel medesimo rapporto, sì che il credito mantiene il suo carattere concorsuale, senza che per effetto della successione nella titolarità dello stesso si determini danno per i creditori, perché il pagamento del creditore principale non viene effettuato con denaro della massa, ma del fideiussore, e perché nel concorso nulla viene a modificarsi per quanto concerne i rapporti tra i creditori» (Cass. n. 19097/2007).

La riforma della legge fallimentare del 2006, tuttavia, ha mutato il testo dell'art. 115, il quale, al comma 2, prevede che il curatore, se prima della ripartizione i crediti ammessi sono stati ceduti, «attribuisce le quote di riparto ai cessionari, qualora la cessione sia stata tempestivamente comunicata, unitamente alla documentazione che attesti, con atto recante le sottoscrizioni autenticate di cedente e cessionario, l'intervenuta cessione», provvedendo, poi, alla «rettifica formale» dello stato passivo.

Infine, il decreto correttivo del 2007 ha introdotto nell'art. 115 l.fall. un'ulteriore norma in virtù della quale le stesse disposizioni previste per il pagamento dei crediti ceduti si applicano anche «in caso di surrogazione del creditore», in tal modo escludendo l'onere dell'insinuazione al passivo anche per il fideiussore che abbia eseguito il pagamento dopo il fallimento e, più in generale, per le ipotesi di mero mutamento soggettivo nella titolarità di un credito già ammesso al passivo (Cass. n. 15660/2011).

L'onere della verifica nelle forme esclusive previste dalla legge fallimentare vale, ovviamente, solo nel caso in cui il titolare del diritto di credito o del diritto personale o reale mobiliare o immobiliare intenda farlo valere nei confronti del fallimento, nel senso cioè di voler partecipare ai riparti ovvero, a seconda dei casi, per sottrarre i beni alla liquidazione concorsuale ovvero per opporre il proprio diritto all'acquirente in sede concorsuale.

Se, invece, il terzo non intende ottenere tali effetti (subendone le conseguenze), può ben astenersi dalla proposizione della domanda di ammissione/restituzione e, se del caso, proporre o proseguire un giudizio ordinario nei confronti del fallito e conseguire così un titolo da opporre, come consente l'art. 120, comma 3, l.fall., al fallito quando torna in bonis (Cass. n. 2976/1983), salvi gli eventuali effetti dell'esdebitazione, che, a norma dell'art. 144 l.fall., opera anche nei confronti dei creditori che non hanno proposto la domanda di ammissione (Spiotta, 1978).

L'esclusività del giudizio di verificazione, peraltro, non significa che lo stesso sia una fase indefettibile della procedura né che sia deputata esclusivamente all'accertamento dei crediti e dei diritti reali o personali su beni in possesso del fallito.

La riforma della legge fallimentare, infatti, per un verso, consente di non procedere all'accertamento laddove sia configurabile la previsione di un attivo insufficiente, tale da precludere una distribuzione ai creditori che abbiano chiesto l'ammissione al passivo, fatto salvo il soddisfacimento dei crediti prededucibili e le spese della procedura (art. 102 l.fall.) e, per altro verso, prevede che i creditori, una volta conclusa l'adunanza dei creditori, e prima del decreto di esecutività, provvedano, a maggioranza, a chiedere al tribunale la sostituzione del curatore (art. 37-bis l.fall.).

Un ulteriore caso in cui la legge ha espressamente derogato alla necessità del giudizio di verificazione è ravvisabile nell'ipotesi della cd. restituzione in via breve prevista dall'art. 87 bis, comma 1, l.fall., il quale dispone che i beni mobili, sui quali il terzo vanti diritti reali o personali chiaramente riconoscibili, possano essere restituiti dal curatore senza essere inventariati e, comunque, senza necessità di accertamento nelle forme ordinarie, ferma restando, tuttavia, la necessità che il terzo dimostri il proprio diritto nel rispetto del regime probatorio previsto, per effetto del rinvio operato dall'art. 103 l.fall., dall'art. 621 c.p.c., come nei casi di titolo avente data certa opponibile al fallimento ovvero di situazioni in cui l'esistenza del diritto del terzo sia resa verosimile dalla professione e dal commercio da questi esercitata.

Le domande proponibili

Le domande giudiziali proponibili in sede di verifica, quindi, sono, per un verso, le domande di insinuazione, aventi per oggetto l'accertamento di un credito pecuniario o suscettibile di determinazione monetaria, verso il debitore fallito e, per altro verso, le domande di rivendicazione/restituzione di beni mobili o immobili (o di una pluralità di beni mobili e/o immobili, pur se organizzati in azienda o rami di azienda), e cioè di accertamento di un diritto reale o personale su beni mobili o immobili di proprietà o possesso del fallito o nella sua disponibilità, ed acquisiti o acquisibili alla massa, e del conseguente diritto alla restituzione, ovvero alla consegna del bene mobile o al rilascio del bene immobile oggetto del diritto reale o personale accertato, come nel caso dell'azione di rivendica di un immobile fondata su titolo (di acquisto originario o contrattuale) opponibile alla massa, dell'azione di accertamento negativo della proprietà esclusiva in capo al fallito di un immobile, dell'azione di accertamento di un diritto reale (es. usufrutto o servitù) o personale di godimento (es. derivante da un contratto di affitto o di locazione o di comodato) su un bene del fallito, dell'azione di accertamento di un'ipoteca su beni immobili del fallito iscritta a garanzia di un debito altrui, dell'azione di restituzione fondata su un titolo contrattuale opponibile al curatore, ecc..

Si discute, invece, dell'azione di restituzione conseguente all'impugnazione di un «atto di acquisto» compiuto dal fallito per ragioni di nullità, annullabilità, simulazione e rescissione.

La riforma della legge fallimentare, infatti, si è limitata a regolare – conformemente alle conclusioni cui era già pervenuta la giurisprudenza (Cass. n. 12396/1998) — le conseguenze del fallimento dell'acquirente in caso di azione di risoluzione dell'atto di acquisto, prevedendo, all'art. 72, comma 5, che l'azione di risoluzione del contratto promossa nei confronti della parte inadempiente, (solo se) promossa (e, nei casi in cui è prevista, trascritta) prima del suo fallimento (o meglio: della sua iscrizione nel registro delle imprese: artt. 16 e 45 l.fall., in relazione al principio generale stabilito dall'art. 2915 c.c.), spiega i suoi effetti nei confronti del curatore.

L'azione di risoluzione, quindi, riassunta nei confronti del curatore (art. 43 l.fall.), prosegue in sede ordinaria, fino alla decisione sul merito della domanda (Cass. n. 3953/2016).

Le pretese restitutorie che conseguono alla risoluzione, invece, tanto nel caso in abbiano ad oggetto una somma di denaro o un bene fungibile, quanto nel caso in cui riguardino un bene determinato (mobile o immobile), devono essere fatte valere, al pari del risarcimento del danno, non in sede ordinaria, ma — se del caso in via condizionata all'accoglimento della domanda di risoluzione ex art. 55 l.fall., e quindi con riserva a norma dell'art. 96, comma 3, n. 1, l.fall. — con l'insinuazione al passivo (Cass. n. 3953/2016; Trib. Salerno 1 febbraio 2013, in Fall. 2013, 1391 ss.; in dottrina, Patti, 1618; Galletti, 1295; sul rito applicabile, Di Marzio, 1183; in senso contrario, Zanichelli, 162, 163, per il quale, invece, tanto la domanda di risoluzione, quanto la domanda di restituzione e di risarcimento del danno, devono essere proposte nel giudizio di verificazione del passivo; così anche Fabiani, 2010, 319; Montanari, 1394 ss).

La norma, se, da un lato, conferma che il contraente in bonis non può proporre, dopo il fallimento, la domanda di risoluzione del contratto per effetto dell'inadempimento del fallito, pur se questo è anteriore all'inizio della procedura (Vattermoli, 999; in precedenza, Cass. n. 7178/2002), dovendo, in tal caso, trovare applicazione le norme in tema di rapporti contrattuali pendenti (artt. 72 ss. l.fall.), dispone, dall'altro, che la domanda di risoluzione, ove proposta (ed, in caso di beni immobili e di beni mobili registrati, trascritta) prima del fallimento del contraente poi fallito, è opponibile al curatore, ed impedisce a quest'ultimo, a norma dell'art. 1453, comma 3, c.c., di scegliere il subingresso nel contratto per ottenere l'adempimento della prestazione, così come impedisce al contraente in bonis di richiedere, a norma dell'art. 1453, comma 2, c.c., l'adempimento della prestazione (Andrioli,, 417, 418. Vattermoli, 999).

La legge, invece, non regola i casi in cui l'atto di acquisto da parte del soggetto poi dichiarato fallito sia stato impugnato per nullità, annullabilità, simulazione o rescissione.

Secondo l'opinione che appare preferibile, l'azione di impugnazione, ove pendente al momento del fallimento, dev'essere riassunta nei confronti del curatore e prosegue in sede ordinaria mentre la conseguente domanda di restituzione dev'essere proposta nelle forme della verifica, se del caso in forma condizionata, a norma dell'art. 55 l.fall., all'accoglimento dell'impugnazione negoziale (Nonno, 1142).

Ma, in mancanza di un espresso rinvio all'art. 72, comma 5, l.fall. (e, quindi, in mancanza del divieto, che lo stesso implicitamente pone, di proposizione dell'impugnazione negoziale dopo il fallimento dell'acquirente), lo stesso schema operativo vale per il caso in cui l'azione di nullità, annullamento, ecc., sia stata proposta dopo il fallimento dell'acquirente: la domanda principale dev'essere proposta, in sede ordinaria, nei confronti del curatore, quale gestore delle posizioni contrattuali dell'acquirente fallito, mentre le domande conseguenti di restituzione (tanto nel caso in abbiano ad oggetto una somma di denaro o un bene fungibile, quanto nel caso in cui riguardino un bene determinato, mobile o immobile), devono essere fatte proposte, al pari della pretesa al risarcimento dell'eventuale danno, non in sede ordinaria, ma (se del caso in via condizionata all'accoglimento della domanda di risoluzione ex art. 55 l.fall., e quindi con riserva a norma dell'art. 96, comma 3, n. 1, l.fall.) con l'insinuazione al passivo.

La Corte di cassazione si è, di recente, pronunciata sulla prima ipotesi: Cass. n. 3953/2016, infatti, equiparando il regime giuridico della domanda di risoluzione a quella di simulazione, ha ritenuto che le domande principali (prodromiche) di simulazione e risoluzione contrattuale, trascritte anteriormente alla dichiarazione di fallimento della parte convenuta in giudizio, proseguono legittimamente con il rito ordinario attesa l'opponibilità della relativa sentenza alla massa dei creditori in ragione dell'effetto prenotativo della trascrizione, mentre le pretese, accessorie, di restituzione e risarcimento del danno devono necessariamente procedere, previa separazione dalle prime, nelle forme degli art. 93 e ss. l.fall., in quanto assoggettate alla regola del concorso e non suscettibili di sopravvivere in sede ordinaria.

La Suprema Corte ha, peraltro, affermato che la domanda di risoluzione/simulazione e quelle accessorie di restituzione o risarcitorie andrebbero assoggettate a riti diversi «previa separazione delle cause».

Sul piano processuale, tale soluzione genera una situazione complessa: anche a volere fare applicazione degli artt. 103, comma 2, e 104 c.p.c., ai quali, verosimilmente, i Giudici di legittimità hanno implicitamente fatto riferimento, non si vede come il giudice ordinario potrebbe emettere un'ordinanza di rimessione delle domande restitutorie o risarcitorie al giudice delegato.

Al di là del fatto che le domande di ammissione al passivo devono essere veicolate e seguire l'iter procedimentale stabilito dall'art. 93 l.fall., resta il fatto che tali domande devono contenere la domanda di partecipazione al concorso: ciò che la domanda restitutoria o risarcitoria promossa prima della dichiarazione di fallimento non può evidentemente contenere.

Lo schema sopra descritto vale anche per il caso in cui l'atto di acquisto compiuto dal contraente, poi fallito, è impugnato con l'azione revocatoria (fallimentare ovvero ordinaria) proposta dal curatore e, più in generale, per le azioni di mero accertamento e le azioni costitutive.

Per ciò che riguarda queste ultime, le azioni di mero accertamento e le azioni costitutive devono essere proposte innanzi al giudice ordinario, secondo le regole ordinarie di competenza e di rito, mentre le pretese creditorie e restitutorie conseguenti vanno azionate nelle forme del giudizio di verificazione (prima della riforma, in tal senso Pajardi, 345; in senso contrario, tuttavia, Cass. n. 11038/1991, la quale, relativamente all'azione di nullità del contratto costitutivo di un rapporto obbligatorio nei confronti del fallito, ha ritenuto che anche nei confronti delle azioni di mero accertamento la proseguibilità in sede ordinaria deve essere sempre esclusa quando l'accertamento di un diritto costituisca la base concettuale di una domanda, ammettendo, per contro, la proseguibilità dei giudizi «nei quali l'accertamento non venga chiesto in via strumentale rispetto ad una successiva istanza di condanna o di insinuazione nel passivo fallimentare»; in tal senso, Fabiani, 2010, 319, per il quale le azioni di mero accertamento e le azioni costitutive possono essere proposte al di fuori del procedimento di formazione dello stato passivo soltanto nel caso in cui gli istanti «non intendano, poi, far derivare dalla sentenza diritti di credito o diritti restitutori»).

Conclusioni analoghe sono state esposte per il caso del licenziamento illegittimo individuale intimato da una impresa successivamente fallita: in tale ipotesi, infatti, la competenza funzionale del giudice del lavoro è limitata alla domanda diretta ad ottenere l'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18 della l. n. 300/1970, mentre per le pretese creditorie proposte in correlazione alla declaratoria di illegittimità del licenziamento stesso è funzionalmente competente il tribunale fallimentare in base al combinato disposto degli arti. 24, 52 e 93 l.fall., sulla base delle regole proprie dell'accertamento del passivo (Cass. n. 26701/2016)

La domanda di impugnazione negoziale, aventi ad oggetto beni immobili o beni mobili registrati, anche se proposta dopo che il fallimento dell'acquirente è stato iscritto nel registro delle imprese (art. 2652 c.c.), può essere trascritta, allo scopo, evidentemente, di opporre la sentenza che dovesse accoglierle al terzo che abbia acquistato il bene dal curatore (art. 2919 c.c.).

Per ciò che riguarda, invece, l'azione revocatoria (tanto quella fallimentare, quanto quella ordinaria: v. l'art. 66 l.fall.) proposta dal curatore del fallimento, il combinato disposto degli artt. 24 e 52 l.fall. implica che il tribunale, da cui è stato dichiarato il fallimento del debitore che ha compiuto l'atto pregiudizievole ai creditori, resta il solo competente a decidere l'inefficacia (o meno) dell'atto, mentre le successive e consequenziali pronunce di restituzione competono al tribunale che ha dichiarato il fallimento del beneficiario del pagamento revocato, secondo le modalità stabilite per l'accertamento del passivo e dei diritti dei terzi (Cass. n. 3672/2012).

Pertanto, qualora il convenuto in revocatoria fallimentare sia dichiarato fallito nelle more del giudizio, quest'ultimo prosegue davanti al tribunale del pregresso fallimento, al quale il curatore ha proposto la domanda revocatoria, atteso che il conflitto ravvisabile tra l'art. 24 l.fall. (secondo cui il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere delle azioni che ne derivano) e l'art. 52 l.fall. (per il quale, aperto il fallimento, ogni credito deve essere accertato secondo le norme previste per l'insinuazione e la verificazione dello stato passivo) dev'essere risolto nel senso che, mentre il tribunale che ha dichiarato il fallimento del debitore che ha compiuto l'atto pregiudizievole ai creditori resta competente a decidere l'inefficacia (o meno) dell'atto, le pronunzie di pagamento o di restituzione, conseguenziali alla dichiarazione d'inefficacia, competono al tribunale che ha dichiarato il fallimento del terzo, secondo le modalità stabilite per l'accertamento del passivo e dei diritti dei terzi (Cass. n. 17989/2011).

In definitiva, ove il convenuto in revocatoria fallimentare sia dichiarato fallito nelle more del giudizio, le pronunce di pagamento o di restituzione, conseguenziali alla dichiarazione d'inefficacia, competono al tribunale che ha dichiarato il fallimento del terzo, secondo le modalità stabilite per l'accertamento del passivo e dei diritti dei terzi (Cass. n. 19795/2016, la quale ha aggiunto che la pronuncia di statuizioni dipendenti dall'accoglimento dell'azione revocatoria nei confronti della curatela del fallito è inibita al giudice che abbia pronunciato su detta azione, dovendosi attuare solo in sede di formazione dello stato passivo avanti al tribunale che ha dichiarato il fallimento).

L'azione revocatoria ordinaria o fallimentare non è, invece, ammissibile dopo il fallimento, stante il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso ed il carattere costitutivo della predetta azione; il patrimonio del fallito è, infatti, insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque, poiché l'effetto giuridico favorevole all'attore in revocatoria si produce solo a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l'azione sia stata esperita dopo l'apertura della procedura stessa (Cass. n. 10486/2011, in una vicenda relativa ad azione proposta dal curatore del fallimento di una società nei confronti di altra società fallita e volta alla dichiarazione di revoca di pagamenti fatti da una prima società alla seconda allorché entrambe erano ancora in bonis e alla pronuncia di condanna alla restituzione della corrispondente somma).

Le fasi del giudizio di verificazione

Il giudizio di verificazione è rimasto strutturato in due fasi.

La fase preparatoria, che culmina con la presentazione delle domande di ammissione/restituzione, e la fase decisionale, che si conclude con l'esame delle domande e la decisione sulle stesse attraverso il decreto di esecutività e la relativa comunicazione.

La riforma della legge fallimentare ha modificato la regolamentazione di entrambe le fasi.

La nuova disciplina ha inteso perseguire due obiettivi: assicurare al giudizio di verifica, tempi certi e brevi, a tal fine prevedendo innumerevoli termini perentori, con conseguenti decadenze e preclusioni, e, per quanto possibile, evitare opposizioni ed impugnazioni, a tal fine assicurando un pieno contraddittorio tra tutti i soggetti partecipanti ed attribuendo alle parti ed al giudice delegato ampi poteri istruttori, sia pure compatibilmente con le esigenze di speditezza del procedimento.

La fase preparatoria consta di due momenti: 1) la trasmissione da parte del curatore di un avviso con il quale comunica ai creditori ed ai titolari di diritti reali o personali su beni mobili o immobili di proprietà o in possesso del fallito la possibilità che gli stessi hanno di partecipare al concorso depositando la domanda di ammissione o di rivendicazione/restituzione (art. 92 l.fall.); 2) la presentazione da parte dei creditori e dei titolari di diritti reali o personali su beni mobili o immobili di proprietà o in possesso del fallito delle domande di ammissione o di rivendicazione/restituzione (art. 93 l.fall.).

L'avviso ai creditori ed agli altri interessati

L'art. 92 l.fall. prevede che il curatore comunica ai creditori ed a coloro che sono titolari di diritti reali o personali su beni mobili o immobili di proprietà o in possesso del fallito:

1) la possibilità di partecipare al concorso, proponendo domanda di insinuazione o rivendicazione/restituzione;

2) la data dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo;

3) la data entro la quale la domanda deve essere presentata;

4) ogni altra informazione utile per agevolare la presentazione della domanda, con l'avvertimento delle conseguenze previste dall'art. 31-bis, comma 2, l.fall., nonché della sussistenza dell'onere previsto dall'art. 93, comma 3, n. 5), l.fall.

5) l’indirizzo di posta elettronica certificata (numero inserito nell’art. 92 dall’art. 17 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv., con modif., in l. 17 dicembre 2012, n. 221).

La norma aggiunge che l'avviso deve essere trasmesso senza indugio, sulla base dei dati acquisiti a seguito dell'esame delle scritture contabili del fallito e delle informazioni raccolte, a mezzo di posta elettronica certificata, se il relativo indirizzo del destinatario risulta dal registro delle imprese ovvero dall'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax presso la sede dell'impresa o la residenza del creditore.

L'avviso ha una duplice funzione: per un verso, indicando ai creditori ed ai titolari di diritti sui beni in possesso del fallito la data fissata nella sentenza di fallimento (art. 16, comma 1, n. 4, l.fall.) per l'esame delle domande, il termine (di trenta giorni prima della predetta data: art. 16, comma 1, n. 5, l.fall.) per la loro presentazione (tempestiva) ed «ogni utile informazione per agevolare la presentazione delle domande» (come, in particolare, la possibilità che tali domande siano proposte e sottoscritte dalla parte personalmente, senza la necessità dell'assistenza di un difensore, e che tali domande siano proposte, oltre che a mezzo di deposito in cancelleria, a mezzo di altri mezzi di trasmissione purché ne sia conservata la prova: Abete, 524) ha lo scopo di favorire la presentazione di domande tempestive, in tal modo integrando la pubblicità della sentenza di fallimento prevista dall'art. 17 l.fall. (Bozza-Schiavon, 66); per altro verso, avvertendo i creditori ed i titolari di diritti sui beni in possesso del fallito dell'onere che gli stessi hanno di indicare, con la presentazione della domanda, l'indirizzo di posta elettronica certificata al quale ricevere tutte le comunicazioni relative alla procedura (art. 93, comma 3, n. 5) e della conseguenza che ne subirebbero in caso di mancata indicazione del predetto indirizzo, e cioè che le comunicazioni relative alla procedura sono eseguite mediante deposito in cancelleria (artt. 31-bis, comma 2 e 95, comma 5), ha lo scopo di favorire la comunicazione degli atti da parte del curatore per via telematica, come quelle relative alla decisione assunta dal giudice delegato sulla domanda (art. 97 l.fall.), al progetto di ripartizione predisposto dal curatore (art. 110, comma 2, l.fall.), alla fissazione dell'udienza di discussione del rendiconto della gestione (art. 116, comma 3, l.fall.) ed alla proposta di concordato fallimentare (art. 125, comma 2, l.fall.). L'avviso, d'altro canto, deve anche contenere l'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata del curatore: vale a dire l'indirizzo dove i creditori o i titolari di diritti sui beni in possesso del fallito hanno, poi, l'onere di trasmettere, a norma dell'art. 93, comma 2, l.fall., le rispettive domande.

L'avviso deve essere trasmesso dal curatore — il quale, peraltro, come emerge dall'art. 32, comma 1, l.fall., non può servirsi, per il relativo compimento, di un delegato — «senza indugio»: ciò significa che il curatore deve provvedervi non appena abbia terminato l'esame delle scritture contabili e delle risultanze delle ulteriori informazioni raccolte, ed, in ogni caso, in congruo anticipo rispetto alla scadenza del termine di trenta giorni prima della data dell'udienza fissata nella sentenza di fallimento (Ghedini, 668; Abete, 525; Zanichelli, 210).

L'avviso deve essere trasmesso ai creditori ed ai titolari di diritti reali o personali su beni mobili o immobili di proprietà o in possesso del fallito che sono o appaiono tali sulla base dei dati acquisiti a seguito dell'esame non solo delle scritture contabili che il fallito ha depositato (artt. 14 e 16, comma 1, n. 3, l.fall.), ma anche delle altre informazioni raccolte (artt. 48, 49 e 88, comma 1, l.fall.), quali, ad esempio, quelle tratte dalla corrispondenza commerciale, dalla notifica di atti giudiziali, ecc. (Sdino, 646). ). L’avviso non ha per destinatari i creditori titolari di un diritto di ipoeteca o di pegno su beni compresi nel fallimento costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito, in quanto non sono creditori del fallito e non possono né avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo né della domanda di separazione ex art. 103 l. fall. (Cass. I, n. 18790/2019).

La norma dispone che il curatore trasmetta l'avviso mezzo di posta elettronica certificata, a norma degli artt. 20 ss. del d.lgs. n. 82/2005 (cd. codice dell'amministrazione digitale), se il relativo indirizzo del destinatario risulta dal registro delle imprese ovvero dall'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax. Questi altri due mezzi di trasmissione che la norma prevede, e cioè il telefax o la lettera raccomandata, sono, quindi, utilizzabili solo a condizione che l'indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario non risulti, quale che ne sia la ragione, dal registro delle imprese ovvero dall'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti.

L'art. 31-bis, comma 2, ha previsto che il curatore, per tutta la durata della procedura e fino a due anni dopo la sua chiusura, abbia l'obbligo di conservare i messaggi di posta elettronica certificata che abbia trasmesso: ivi compreso, dunque, l'avviso previsto dall'art. 92, ove trasmesso a mezzo di posta elettronica certificata.

Sebbene analogo obbligo non sia previsto, deve ritenersi che il curatore debba conservare la prova della trasmissione dell'avviso anche quando lo stesso sia stato trasmesso a mezzo di lettera raccomandata o telefax (Abete, 525).

La legge non richiede che l'avviso sia trasmesso in modo da ottenere e conservare, oltre alla prova della sua trasmissione, anche la prova della sua ricezione (nel senso che l'avviso deve essere trasmesso purché sia possibile fornire la prova della sua ricezione, Fabiani, 2010, 334; così anche Valerio, 350, 351).

In tale ipotesi, l'avviso deve essere trasmesso alla sede dell'impresa o la residenza del creditore (o, deve ritenersi, il titolare di diritti reali o personali su beni mobili o immobili di proprietà o in possesso del fallito).

Si tratta, nel caso in cui il creditore sia un imprenditore (individuale), di luoghi alternativi, nel senso che è possibile trasmettere l'avviso sia presso la sede dell'impresa, sia presso la sua residenza.

Se si tratta di società o ente, l'avviso va trasmesso solo alla sede.

Se, invece, si tratta di persona fisica che non svolge attività d'impresa, l'avviso deve essere trasmesso presso la sua residenza.

La sede dell'impresa, naturalmente, è quella indicata presso il registro delle imprese (art. 2196, comma 1, n. 4, c.c.) ma questa vale solo in via presuntiva, potendo, quindi, valere anche la sede effettiva (Abete, 525).

L'avviso deve essere comunicato alla residenza o alla sede del destinatario al momento in cui è inviato e non alla data della dichiarazione di fallimento (Staunovo-Polacco, 2010, 71 ss., 74).

L'avviso deve essere trasmesso ai destinatari personalmente: tant'è che solo se il destinatario ha sede o risiede all'estero, la norma prevede che l'avviso possa essere trasmesso al suo rappresentante in Italia, se esistente (Bonfatti, 19)

Non è previsto, come invece consentito in caso di concordato fallimentare (art. 126 l.fall.), che il curatore possa avvalersi, nel caso in cui i destinatari siano di «rilevante numero», della comunicazione a mezzo della pubblicazione del suo testo integrale su uno o più quotidiani a diffusione nazionale o locale (per la soluzione positiva, prima della riforma, Ragusa Maggiore, 361; per la soluzione negativa, prima della riforma, Bonfatti,, 17 e, dopo la riforma, Abete, 525; per la soluzione positiva, Ghedini, 668).

L'avviso ai creditori si configura come una mera provocatio ad agendum verso coloro che risultino creditori in base alle scritture contabili dello stesso fallito, così che essi siano informati della pendenza della procedura e possano, entro il termine loro assegnato, far valere i propri diritti nel concorso.

Il curatore, quindi, inviando detta comunicazione, non esprime alcun giudizio preventivo sulla fondatezza dell'eventuale futura richiesta di ammissione al passivo che ciascun creditore poi faccia, restando ogni valutazione al riguardo riservata alla fase della successiva verifica, disciplinata dagli artt. 93 ss. l.fall.

Ne consegue, per un verso, che la curatela è tenuta ad inviare la prescritta comunicazione, ai sensi dell'art. 92, a chi dalle scritture contabili del fallito appaia essere creditore, indipendentemente da ogni rilievo in ordine all'eventuale prescrizione del credito (non potendosi in quel momento ancora escludere, oltre tutto, che il creditore sia in grado di dimostrare l'esistenza di atti interruttivi della prescrizione non rilevabili dal semplice esame delle scritture contabili del fallito), e, per altro verso, che l'invio di detta comunicazione non può avere alcun effetto preclusivo della potestà del curatore di sollevare contestazioni in ordine all'esistenza del credito, nel corso del successivo giudizio di verificazione, e neppure, quindi, di eccepire che il credito in discussione è prescritto (Cass. n. 6083/1996; Fabiani, 335).

L'avviso non può neppure valere come riconoscimento dei debito ai fini dell'interruzione della prescrizione, a norma dell'art. 2943 c.c. (Spiotta, 1994).

L'avviso è dovuto anche nel caso di previsione di insufficiente realizzo a norma dell'art. 102 l.fall. (Spiotta, 1995).

Quanto, infine, alle conseguenze per il caso di irrituale o mancata trasmissione dell'avviso, si è discusso se il creditore, che non l'abbia ricevuto, possa, o meno, invocare la non imputabilità del ritardo ai fini della presentazione della c.d. domanda supertardiva.

La giurisprudenza – escluso ogni rilievo alla presunzione di conoscenza iuris ed de iure che deriva dall'iscrizione della sentenza di fallimento nel registro delle imprese ai sensi dell'art. 17 l.fall. (Trib. Reggio Calabria 24 giugno 2001, in Fall. 2012, 1209; così anche Didone, 455 ss) — è orientata in senso parzialmente positivo, affermando, per un verso, che ai fini dell'ammissibilità della domanda tardiva di cui all'ultimo comma dell'art. 101 l.fall. (cd. supertardiva), il mancato avviso al creditore da parte del curatore del fallimento, previsto dall'art. 92 l.fall., integra la causa non imputabile del ritardo da parte del creditore, e, per altro verso, che il curatore ha facoltà di provare, ai fini dell'inammissibilità della domanda, che, indipendentemente dalla ricezione dell'avviso, il creditore abbia avuto comunque notizia del fallimento (Cass. n. 4310/2012; conf. Cass. n. 21316/2015, la quale ha ritenuto ammissibile la domanda proposta dalla banca istante, avendo quest'ultima ricevuto l'avviso ex art. 92 l.fall. allorquando non era ancora subentrata, a seguito di fusione per incorporazione, all'originario creditore della società fallita, non potendo ritenersi che il rapporto di controllo preesistente tra le due società implicasse anche la trasmissione della conoscenza del fallimento; Cass. n. 23302/2015, la quale ha respinto il ricorso per cassazione avverso il decreto con cui il tribunale aveva ritenuto l'effettiva conoscenza da parte del creditore, oltre che del fallimento della società, anche di quelli personali dei soci, nei quali intendeva tardivamente insinuarsi, in ragione della comunicazione della sentenza di fallimento e della trasmissione della stessa via fax;  laCass. n. 17416/2017 ha escluso che la prova della non imputabilità del ritardo al creditore possa consistere nella mera irregolarità della comunicazione a lui effettuata dal curatore ai sensi dell'art. 92 l.fall. (nella specie trasmessa alla direzione generale anziché alla sede legale della società creditrice), quando l'atto sia comunque pervenuto nella sfera di conoscenza del destinatario;  in tal senso, in dottrina, Fabiani, 2010, 334; Sdino, 646; Valerio, 352). Ai fini di tale prova, peraltro, Trib. Torino 29 ottobre 2013, Fall. 2014, 815 ss. ha ritenuto che il curatore possa limitarsi ad allegare e provare l'esistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti tali da far ritenere verosimile che il creditore avesse avuti pregressa conoscenza del fallimento. Trib. Taranto 8 maggio 2009, in Fall. 2011, 120 ss. ha, invece, ritenuto che «l'avviso ai creditori ex art. 92 l.fall. ha il solo scopo di sollecitare la presentazione delle domande tempestive di ammissione da parte dei creditori risultanti dalle scritture contabili dell'imprenditore fallito; ne consegue che la sua omissione non costituisce causa non imputabile del ritardo nell'insinuazione al passivo supertardiva».

Se si tratta di una società, anche di persone, rileva la conoscenza effettiva del fallimento da parte del suo legale rappresentante, valendo per esse il principio, desumibile dall'art. 1391 c.c., dell'attribuibilità della conoscenza di un fatto di pertinenza della società sulla base dell'atteggiamento psichico delle persone che la rappresentano (Cass. n. 20120/2016).

Se, invece, il creditore ha ricevuto l'avviso ex art. 92 l.fall. ma oltre il termine annuale di cui al successivo art. 101, comma 1, l.fall., può chiedere di insinuarsi al passivo ai sensi dell'ultimo comma della medesima disposizione, ma deve farlo nel tempo necessario a prendere contezza del fallimento ed a redigere la suddetta istanza, dovendo quel tempo essere indicato non già in un termine predeterminato, ma rimesso alla valutazione del giudice di merito, secondo un criterio di ragionevolezza, in rapporto alla peculiarità del caso concreto (Cass. n. 23975/2015).

Quanto all’efficacia sostanziale e processuale dell’avviso ai creditori, Cass. III, n. 31010/2018 ha precisato che esso costituisce strumento idoneo a fornire comunicazione dell’effetto interruttivo del processo in corso cagionata dall’intervenuta dichiarazione di fallimento, a condizione, però, che sia indirizzato al difensore della parte processuale, contenga un esplicito riferimento alla lite pendente interrotta e sia corredata di copia autentica della sentenza di fallimento.

Il curatore che omette la trasmissione dell'avviso o lo trasmette in ritardo tale da non consentire al creditore di proporre utilmente la domanda, neppure in via supertardiva, è, infine, personalmente responsabile, a norma dell'art. 38 l.fall., sia nei confronti della procedura, che creditore non avvertito (Fabiani, 335), sempre che sia accertato il nesso di causalità tra tale condotta ed il danno lamentato (Cass. n. 25624/2007, la quale ha escluso la responsabilità del curatore in un caso nel quale era risultata la tempestiva conoscenza della pendenza della procedura fallimentare e della data d'udienza di verifica dello stato passivo da parte del creditore, con la conseguente esclusione dell'efficienza causale del comportamento omissivo lamentato e del suo collegamento eziologico con il danno).

Naturalmente, la responsabilità del curatore presuppone che il nome del creditore non avvertito risultasse dalla scritture contabili del fallito o dalle altre informazioni utilizzabili dal curatore (Ghedini, 668; Spiotta, 1997).

La mancata, irrituale o tardiva trasmissione dell'avviso, infine, non determina alcuna conseguenza sul giudizio di verificazione né sullo svolgimento della procedura.

Pertanto, se, in conseguenza della mancata trasmissione dell'avviso, non risultano depositate domande di ammissione, non per questo il fallimento deve essere chiuso a norma dell'art. 118, n. 1, l.fall. (Bonfatti, 23; Pellegrino, 204; Russo, 230; Valerio,, 352).

La mancata trasmissione dell'avviso, infine, può determinare, a norma dell'art. 37 l.fall., la revoca del curatore (Spiotta, 1997). 

Bibliografia

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