Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 93 - Domanda di ammissione al passivo 1 .

Giuseppe Dongiacomo
aggiornato da Francesco Maria Bartolini

Domanda di ammissione al passivo1.

 

La domanda di ammissione al passivo di un credito, di restituzione o rivendicazione di beni mobili e immobili, si propone con ricorso da trasmettere a norma del comma seguente almeno trenta giorni prima dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo 2.

Il ricorso puo' essere sottoscritto anche personalmente dalla parte ed e' formato ai sensi degli articoli 21, comma 2, ovvero 22, comma 3, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni e, nel termine stabilito dal primo comma, e' trasmesso all'indirizzo di posta elettronica certificata del curatore indicato nell'avviso di cui all'articolo 92, unitamente ai documenti di cui al successivo sesto comma. L'originale del titolo di credito allegato al ricorso e' depositato presso la cancelleria del tribunale 3.

Il ricorso contiene:

1) l'indicazione della procedura cui si intende partecipare e le generalità del creditore;

2) la determinazione della somma che si intende insinuare al passivo, ovvero la descrizione del bene di cui si chiede la restituzione o la rivendicazione;

3) la succinta esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono la ragione della domanda;

4) l'eventuale indicazione di un titolo di prelazione, [ anche in relazione alla graduazione del credito,] nonché la descrizione del bene sul quale la prelazione si esercita, se questa ha carattere speciale4;

5) l'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata, al quale ricevere tutte le comunicazioni relative alla procedura, le cui variazioni e' onere comunicare al curatore5.

Il ricorso è inammissibile se è omesso o assolutamente incerto uno dei requisiti di cui ai nn. 1), 2) o 3) del precedente comma. Se è omesso o assolutamente incerto il requisito di cui al n. 4), il credito è considerato chirografario.

Se e' omessa l'indicazione di cui al terzo comma, n. 5), nonche' nei casi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario si applica l'articolo 31-bis, secondo comma 6.

Al ricorso sono allegati i documenti dimostrativi del diritto del creditore ovvero del diritto del terzo che chiede la restituzione o rivendica il bene.

[ I documenti non presentati con la domanda devono essere depositati, a pena di decadenza, almeno quindici giorni prima dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo. ] 7

Con la domanda di restituzione o rivendicazione, il terzo può chiedere la sospensione della liquidazione dei beni oggetto della domanda.

Il ricorso può essere presentato dal rappresentante comune degli obbligazionisti ai sensi dell'articolo 2418, secondo comma, del codice civile, anche per singoli gruppi di creditori.

Il giudice ad istanza della parte può disporre che il cancelliere prenda copia dei titoli al portatore o all'ordine presentati e li restituisca con l'annotazione dell'avvenuta domanda di ammissione al passivo.

[1] Articolo sostituito dall'articolo 78 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

[2] Comma sostituito dall'articolo 17, comma 1, lettera e), numero 1), del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179. Per l'applicazione del presente comma vedi quanto disposto dai commi 4 e 5 del medesimo articolo 17.

[3] Comma sostituito dall'articolo 17, comma 1, lettera e), numero 2), del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179come modificato dall'articolo 1, comma 19, punto 3), della Legge 24 dicembre 2012, n. 228. Per l'applicazione del presente comma vedi quanto disposto dai commi 4 e 5 del medesimo articolo 17.

[4] Numero modificato dall'articolo 6, comma 1, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007.

[5] Numero sostituito dall'articolo 17, comma 1, lettera e), numero 3), del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179. Per l'applicazione del presente comma vedi quanto disposto dai commi 4 e 5 del medesimo articolo 17.

[6] Comma sostituito dall'articolo 17, comma 1, lettera e), numero 4), del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179. Per l'applicazione del presente comma vedi quanto disposto dai commi 4 e 5 del medesimo articolo 17.

Inquadramento

L'art. 93 disciplina la forma che, sul piano processuale, deve assumere la domanda di ammissione al passivo di un credito o di rivendicazione/restituzione di un bene mobile o immobile in possesso o nella disponibilità del fallito.

L'art. 390 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, dispone: sono definiti ancora con le norme del r.d. n. 267/1942 i ricorsi per l'apertura del concordato preventivo depositati prima dell'entrata in vigore del d.lgs. (15 luglio 2022); sono definite secondo le norme del r.d. n. 267/1942 le procedure di concordato preventivo pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. nonchè le procedure aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande di concordato preventivo.

La forma della domanda

La norma, confermando le conclusioni cui era giunta la dottrina nella vigenza della disciplina abrogata (cfr., per tutti, Bozza-Schiavon, 74), dispone che la domanda è proposta con ricorso al giudice delegato, che non ammette equipollenti (Spiotta, 1999).

La norma, nella versione immediatamente successiva alla riforma del 2006, prevedeva che il ricorso poteva essere presentato o con il deposito in cancelleria ovvero con la spedizione (anche in forma telematica o con altri mezzi di trasmissione, come il fax, la posta elettronica, un'agenzia di spedizione, ecc.), purché fosse possibile fornire la prova della sua «ricezione».

Nella sua versione attuale, invece, quale emerge dalle modifiche apportate dal d.l. n. 179/2012, conv. dalla l. n. 221/2012, la norma prevede che il ricorso non è più depositato in cancelleria ma è formato ai sensi dell'art. 21, comma 2, ovvero dell'art. 22, comma 3, del d.lgs. n. 82/2005 (cd. codice dell'amministrazione digitale), ed è, quindi, trasmesso all'indirizzo di posta elettronica certificata del curatore indicato nell'avviso di cui all'art. 92 e comunicato al Registro delle imprese.

Il ricorso depositato, in forma cartacea, in cancelleria — nonostante il riferimento a tale forma di presentazione della domanda, contenuto nell'art. 16, comma 1, n. 5, l.fall. — non è, quindi, ammissibile (Spiotta, 2015), salvo che per i titoli di credito ad esso allegati (arg. ex art. 93, comma 10).

 Il ricorso per insinuazione al passivo va trasmesso all’indirizzo PEC del curatore da lui comunicato ai creditori, a pena di improcedibilità; fatti salvi gli effetti della sanatoria dell’atto per raggiungimento dello scopo se la domanda è comunque stata inserita nel progetto di stato passivo ed esaminata, in contraddittorio, all’udienza di verifica. Se il curatore non ha ottemperato all’obbligare di comunicare il proprio indirizzo PEC la domanda non può essere dichiarata improcedibile, a meno che la parte interessata dimostri la conoscenza o la conoscibilità dell’indirizzo comunicato dal curatore al Registro delle imprese (Cass. I, ord. n. 29258/2019).

Il ricorso deve essere trasmesso nel termine di almeno trenta giorni prima dell'udienza fissata, nella sentenza di fallimento (art. 16, comma 1, n. 4, l.fall.), per l'esame dello stato passivo.

Il termine è perentorio (art. 16, comma 1, n. 5, l.fall.). Il ricorso trasmesso oltre tale termine, tuttavia, non è inammissibile ma soltanto degradato ex lege a domanda tardiva (art. 101 l.fall.).

Il termine (che non è qualificabile come libero) è determinato sulla base dell'udienza fissata nella sentenza dichiarativa del fallimento per l'esame delle domande. Non sembra, quindi, che, in caso di rinvio dell'udienza, il termine di trenta giorni prima possa essere determinato con riferimento a ciascuna udienza di verifica.

Il termine di trenta giorni prima della data fissata per l'udienza è assoggettato – al pari di quello fissato per le domande tardive dall'art. 101, comma 1, l.fall. (Cass. n. 4408/2016) — alla sospensione feriale.

La Corte di cassazione, infatti, con la sentenza n. 12960/2012, ha stabilito che: il termine perentorio per la presentazione delle domande di insinuazione al passivo fallimentare, sancito dagli artt. 16, comma 1, n. 5, e 93, comma 1, l.fall., è soggetto alla sospensione feriale, sulla base delle indicazioni desumibili dagli artt. 92 del r.d. n. 12/1941 e 36-bis l.fall., in quanto si tratta di termine processuale, entro il quale il giudizio deve necessariamente essere proposto, non essendo concessa altra forma di tutela del diritto; la soggezione alla sospensione feriale concerne anche il termine perentorio di fissazione dell'adunanza per l'esame dello stato passivo, stabilito dall'art. 16, comma 1, n. 4, l.fall., in quanto l'applicazione della regola della sospensione al solo termine di presentazione delle domande di insinuazione, che si calcola a ritroso rispetto all'adunanza (e con sospensione nel periodo feriale), potrebbe pregiudicare il diritto di azione dei creditori, impedendo loro di usufruire di un tempo adeguato ad approntare la domanda (lasciato al prudente apprezzamento del giudice, nei predetti casi di automatica riduzione per il periodo feriale); a sua volta l'udienza, per errore fissata in anticipo dal tribunale, dovrà essere differita automaticamente per il numero dei giorni intercorsi tra la dichiarazione di fallimento e la data fissata.

La soluzione contraria – ha rilevato la Corte — non trova giustificazione nel disposto dell'art. 92 r.d. n. 12/1941, che, fra i procedimenti trattati durante il periodo feriale, contempla, in materia fallimentare, unicamente le cause relative alla dichiarazione ed alla revoca dei fallimenti, e riceve ulteriore smentita dall'art. 36-bis l.fall., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 5/2006, il quale, stabilendo che non sono soggetti a sospensione i termini processuali previsti dagli artt. 26 e 36 della legge fallimentare, consente, in base ad un argomento a contrario, di ritenere, invece, applicabile la sospensione a tutti gli altri procedimenti endofallimentari.

Non può dubitarsi, d'altro canto, della natura processuale tanto del termine entro il quale il tribunale deve fissare l'udienza per l'esame dello stato passivo (art. 16, comma 1, n. 4, l.fall.), quanto del termine di trenta giorni prima per la proposizione delle domande di ammissione (art. 16, comma 1, n. 5, l.fall.).

Quanto al primo, la Corte ha osservato che: che la data dell'adunanza non è indifferente per i creditori, in quanto segna il dies a quo della decorrenza a ritroso del termine (di almeno trenta giorni prima) per il deposito delle domande di ammissione, oltrepassato il quale le domande presentate sono considerate tardive (art. 101 l.fall.); che, nel processo a cognizione ordinaria, il giudice, allorché fissa un'udienza da cui decorre a ritroso il termine assegnato alla parte per il compimento di un'attiva (ad es. rinnovo della notifica della citazione, da eseguire almeno novanta giorni prima) deve conteggiare in più i giorni corrispondenti al periodo feriale, qualora il periodo di sospensione ricada all'interno del rinvio; che, infine, accedendo alla tesi che qui si contesta, si finirebbe per comprimere ingiustificatamente il diritto dei creditori ad avvalersi della difesa tecnica, posto che la ratio dell'istituto della sospensione risiede nella necessità di assicurare un periodo di riposo a favore degli avvocati, anche in funzione di garanzia del diritto di difesa della parte.

Quanto al termine per la presentazione della domanda di ammissione, la Corte ha rilevato che non appare condivisibile il ragionamento di chi ne ha escluso la natura processuale siccome previsto a pena di decadenza, e per il mero espletamento di un'attività preparatoria alla successiva fase di verifica: intanto, la nozione di termine processuale non può ritenersi limitata nell'ambito del compimento degli atti successivi all'introduzione del giudizio, ma deve intendersi estesa, in base ad una regola ermeneutica di portata generale, anche ai termini entro i quali il giudizio deve necessariamente essere proposto, non essendo concessa al cittadino altra forma di tutela del proprio diritto; la natura decadenziale del termine non ne comporta, d'altro canto, il carattere sostanziale, in quanto alla mancata presentazione della domanda non consegue la perdita de diritto di credito, che il creditore potrà ancora far valere in via tardiva o, eventualmente, contro il fallito tornato in bonis (in senso contrario, Trib. Terni 16 settembre 2010, in Fall. 2011, 220; in dottrina, Conte, 220 ss).

Resta, tuttavia, il tema della mancata sospensione dei termini nel caso in cui si tratta delle domande di ammissione al passivo proposte dai lavoratori subordinati.

Le Sezioni Unite, investite della questione, con la sentenza n. 10944/2017, hanno ribadito il principio — già affermato dalla sentenza, parimenti resa a Sezioni Unite, n. 24665/2009, e poi confermato da Cass. n. 24862/2015, Cass. n. 16494/2013 e Cass. n. 17044/2011 - per cui l'art. 3 della l. n. 742/ 1969, nel disporre che la sospensione non si applica alle controversie previste dall' art. 429 (ora 409) c.p.c., fa riferimento alla loro specifica natura, avente per oggetto rapporti individuali di lavoro, con la conseguenza che, benché i giudizi di accertamento dei crediti concorsuali siano tutti ugualmente regolati dallo speciale rito fallimentare e, in virtù del combinato disposto dell'art. 92 del r.d. n. 12/1941 e dell'art. 1 della l. n. 742/1969 cit., siano in via generale soggetti al regime della sospensione dei termini feriali, la sospensione non opera allorché in essi si dibatta dell'ammissione di un credito da lavoro. Pertanto, nel caso in cui il termine per la presentazione della domanda tempestiva (pari, a norma degli artt. 16, comma 1, n. 4 e n. 5, e 92, comma 1, n. 2, ad almeno trenta giorni prima della data fissata per l'adunanza), ricada nel periodo di sospensione feriale, l'inoperatività della sospensione per le domande aventi ad oggetto crediti di lavoro si risolvere in un vantaggio per il dipendente, atteso che (poiché il termine per la presentazione delle domande va calcolato a ritroso dalla seconda data) la sua domanda risulterà tempestiva purché depositata trenta giorni prima dell'adunanza. Nello stesso modo, non potendo tenersi conto del periodo di sospensione feriale, non può essere considerata tardiva (con la conseguenza che ne andrà, di volta in volta, verificata l'ammissibilità ai sensi dell'art. 101, ult. comma, l.fall.) la domanda presentata dal dipendente anche un solo giorno dopo la scadenza del termine di dodici mesi (o di diciotto mesi nel caso di particolare complessità della procedura) dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo. Pur trattandosi di domanda giudiziale e di procedimento avente natura contenziosa che si svolge dinanzi al tribunale, il legislatore ha previsto, in deroga all'art. 82, comma 3, c.p.c. Il ricorso possa essere sottoscritto anche personalmente dalla parte (o dal legale rappresentante della società o ente) ricorrente: non è, quindi, necessaria l'assistenza di un difensore (Zanichelli, 213). La norma ha indubbiamente lo scopo di evitare che il creditore subisca i costi connessi alla necessità di avvalersi di una difesa tecnica, anche per si tratta, per lo più, di crediti di agevole accertamento. La mancanza di una difesa tecnica può, tuttavia, comportare difficoltà al ricorrente in conseguenza degli oneri deduttivi e probatori che la nuova disciplina prevede a carico delle parti e del conseguente rischio di vizi o carenze che possono determinare l'inammissibilità del ricorso o la perdita di un privilegio (Zanichelli, 213; Fabiani, 338, per il quale, quindi, la parte può personalmente solo introdurre la domanda ma se sono necessarie altre attività, come l'assunzione di prove, la resistenza ad eccezioni del curatore o dei creditori, la difesa tecnica diviene necessaria). La difesa tecnica, peraltro, torna ad essere obbligatoria nelle fasi eventuali delle impugnazioni (art. 98 l.fall.).

Le domande di ammissione al passivo dei crediti sopravvenuti al fallimento devono essere presentate nel termine di un anno a decorrere dal momento in cui si verificano le condizioni per partecipare al concorso (Cass. VI, ord. n. 28799/2019; Cass. I, n. 18544/2019), la quale ha osservato che per il principio di uguaglianza non può riconoscersi al creditore sopravvenuto un termine più breve di quello a disposizione di creditori preesistenti). I crediti prededucibili, sorti prima o dopo la dichiarazione di fallimento (se non sono contestati o se sorti a seguito di liquidazione di compensi) devono essere accertati nelle forme della verifica dello stato passivo e sono soggetti ai termini di decadenza previsti per le domande tardive ex art. 101 l. fall. (Cass. I, ord. n. 17594/2019).

Se il ricorso è proposto a mezzo di un difensore, trovano applicazione gli artt. 125 e 83 c.p.c. (Zoppellari, 673).

La legittimazione

La legittimazione spetta, secondo le regole generali, a chi si affermi titolare di un diritto di credito nei confronti del fallito ovvero di un diritto restitutorio, a carattere reale o personale, su un bene mobile o immobile in possesso o intestato al fallito, purché fondata su un titolo (costitutivo del credito o del diritto), contrattuale o meno, perfezionatosi anteriormente alla dichiarazione di fallimento (art. 44 l.fall.) ed, in base al regime giuridico che gli è proprio, opponibile alla procedura (art. 45 l.fall.).

L'iniziativa può essere assunta congiuntamente da più creditori che intendano far valere pretese assimilabili (Lo Cascio, 1021 ss.), come nel caso dei lavoratori dipendenti (Trib. Genova 28 febbraio 2000, in Fall. 2001, 597).

Nei casi previsti dalla legge, la domanda di ammissione può essere proposta anche da un legittimato in via straordinaria (art. 81 c.p.c.), come nel caso dell'azione surrogatoria ex art. 2900 c.c. (Lo Cascio, 1021 ss.; Spiotta, 2004; Nardone, 2010, 1199; in senso conf., nel vigore della normativa abrogata, Cass. n. 1647/1997, la quale ha ritenuto che l'azione surrogatoria potesse essere esercitata anche mediante domanda di ammissione al passivo del fallimento del debitore del proprio debitore, atteso che nell'esercizio di tale azione il creditore svolge, nei limiti del proprio interesse, le medesime pretese creditorie del debitore surrogato e deve quindi proporle nella stessa sede in cui è tenuto a farlo quest'ultimo, e considerato anche che in caso contrario in presenza di un fallimento le azioni surrogatorie resterebbero paralizzate o dovrebbero svolgersi al di fuori della procedura fallimentare).

Non è, tuttavia, chiaro se, nell'attuale assetto normativo, il creditore possa proporre la domanda di ammissione al passivo in via tempestiva. Infatti, se il presupposto dell'azione revocatoria è, a norma dell'art. 2900 c.c., l'inerzia del debitore, tale inattività dovrebbe verificarsi solo con la scadenza del termine di trenta giorni prima dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo: solo dopo questo momento, in effetti, si può ritenere che il debitore sia rimasto inattivo, con la conseguenza che il creditore potrebbe, appunto, proporre soltanto domanda in via tardiva.

In altra prospettiva, invece, il debitore può considerarsi inerte quando, avendo acquisito notizia del fallimento, non abbia proposto la domanda, indipendentemente dal tempo trascorso e da quello residuo prima della scadenza del termine per la presentazione della domanda tempestiva (Nardone, 2010, 1199): fermo restando che la presentazione della domanda da parte del debitore fa venir meno la legittimazione sostitutiva del creditore surrogante.

Altra questione è se l'esercizio dell'azione surrogatoria mediante la domanda di ammissione richieda, o meno, la partecipazione, nel giudizio di verificazione, del debitore, ai sensi dell'art. 2900, comma 2, c.c. (Nardone, 2010, 1200, il quale ritiene che la domanda di insinuazione debba essere notificata al debitore surrogato con indicazione dell'adunanza di verifica).

L'ammissione del creditore surrogante, infine, non lo legittima a partecipare, direttamente, al piano di riparto, per cui lo stesso, una volta ottenuta l'ammissione, deve presentare o domanda di sostituzione ex art. 511 c.p.c. o, in alternativa, pignorare il credito del proprio debitore presso il terzo fallimento (Nardone, 2006, 530, 531).

Trovano applicazione, poi, applicazione le norme che, in generale, regolano la rappresentanza processuale, volontaria o legale (artt. 75 ss. c.p.c.), a partire da quella che gli artt. 87 e 88 del d.P.R. n. 602/1973 espressamente riconoscono al concessionario del servizio di riscossione dei tributi.

Tale legittimazione, tuttavia, ha una valenza esclusivamente processuale, nel senso che il potere rappresentativo dell'Amministrazione Finanziaria, riconosciuto al concessionario, non vale ad escludere la titolarità del credito da parte di quest'ultima e, per l'effetto, il diritto di farlo valere nell'ambito della procedura fallimentare (conf. Cass. n. 24963/2010). In tal senso depone innanzitutto la circostanza che il legislatore non ha dettato alcuna disciplina speciale derogatoria, rispetto alla normativa vigente in materia fallimentare. Inoltre, appare di assoluta evidenza come una interpretazione di segno opposto, non sorretta come detto da disposizioni normative di sorta, si porrebbe in contrasto con il dettato costituzionale, e segnatamente con gli artt. 3 e 24, sotto il duplice aspetto delle irragionevoli limitazioni al diritto di azione del creditore che si verrebbe così a determinare e del trattamento deteriore che, rispetto agli altri creditori, l'Amministrazione Finanziaria, senza alcuna valida ragione, finirebbe per subire (Cass. S.U., n. 4126/2012). In tema di cessione del credito, in caso di fallimento del debitore ceduto, ai fini dell'ammissione alla procedura fallimentare il cessionario è tenuto a dare la prova del credito e della sua anteriorità al fallimento, qualora venga in discussione la sua opponibilità, ma non anche la prova dell'anteriorità della cessione al fallimento, perché la legge prevede che il cessionario di un credito concorsuale sia tenuto a dare la prova che la cessione è stata stipulata anteriormente al fallimento soltanto ai fini di una eventuale compensazione, ovvero ai fini del voto in un eventuale concordato fallimentare, restando, altrimenti, la cessione opponibile al curatore anche se ha luogo nel corso della procedura (Cass. I, ord. n. 2217/2022).

In caso di conflitto di interessi, è necessario chiedere la nomina di un curatore speciale a norma degli artt. 78 ss c.p.c. (Spiotta, 2004).

L'art. 93, inoltre, risolvendo il dibattito insorto nella vigenza della sua precedente versione, ha espressamente stabilito che il ricorso contenente la domanda può essere presentato, senza che vi sia bisogno di una specifica autorizzazione, dal rappresentante comune degli obbligazionisti, anche per singoli gruppi di creditori (Spiotta, 2005), in tal modo derogando la norma prevista dall'art. 2418, comma 2, c.c., che prevede una rappresentanza totalitaria.

Non è, tuttavia, preclusa la domanda del singolo obbligazionista prima dell'iniziativa del rappresentante comune (Spiotta, 2005, che argomenta in tal senso dell'art. 2419 c.c.; Nardone, 2010, 1200).

Se i diritti di tutti gli obbligazionisti della società fallita sono stati costituiti in trust, solo il trustee è legittimato ad insinuare i relativi crediti al passivo della società emittente poi fallita (cfr. in tal senso Cass. n. 25800/2015, la quale, in particolare, ha rilevato che, con il trust, alcuni beni vengono posti sotto il controllo di un fiduciario, il trustee, nell'interesse di uno o più beneficiari e per un fine determinato: secondo quanto prevede l'art. 2 della Convenzione dell'Aja dell'1° luglio 1985, resa esecutiva in Italia con la l. n. 364/1989, il vincolo di destinazione mantiene i beni in trust distinti dal patrimonio del trustee, cui è demandato di «amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee», sicché, per quanto il trust non abbia personalità giuridica, il trustee è l'unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone in esclusiva del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione).

Se la domanda è fondata su titoli di credito all'ordine o al portatore, il giudice delegato, a norma dell'art. 93, comma 9, può autorizzare la restituzione dei titoli al ricorrente, evidentemente per consentirgli di esperire le azioni cartolari nei confronti degli eventuali coobbligati, con annotazione sugli stessi dell'avvenuta proposizione dell'insinuazione al passivo, trattenendone una semplice copia. Il creditore munito di idoneo titolo di credito non è, peraltro, onerato di dare indicazione del rapporto causale sottostante (Nardone, 2010, 1206)

In caso di morte del creditore, ciascuno dei coeredi può agire singolarmente per insinuare al passivo fallimentare l'intero credito comune o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria (Cass. n. 24449/2015, per la quale, infatti, i crediti del de cuius non si ripartiscono tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, come stabilito anche dall'art. 727 c.c., che, nel prevedere la formazione delle porzioni con inclusione dei crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione).

La legittimazione spetta anche allo studio o all'associazione professionale, relativamente alle pretese conseguenti a prestazioni svolte dai relativi componenti (Cass. n. 17207/2013). Non deve invece avvalersi del procedimento di verificazione il creditore titolare di ipoteca su un bene compreso nel fallimento, a garanzia di un credito vantato verso un debitore diverso dal fallito, al fine di conseguire le rendite maturate sull'immobile ipotecato (Cass. VI, ord. n. 1067/2021). Invece, in tema di leasing traslativo, se dopo la risoluzione del contratto per inadempimento dell'utilizzatore interviene il fallimento, il concedente che intenda far valere il credito risarcitorio derivante da una clausola penale in suo favore deve proporre apposita domanda di insinuazione al passivo (Cass. S.U. n. 2061/2021).

La legittimazione – come detto — spetta, a norma dell'art. 103 l.fall., anche a chi (compresi il fiduciante ed il coniuge del fallito, una volta venuti meno gli ostacoli derivanti dalla cd. presunzione muciana stabilita dal previgente art. 70 l.fall.) si affermi titolare di un diritto a contenuto restitutorio, reale o personale, su un bene mobile o immobile (compresi, rispettivamente, i titoli di credito e l'azienda composta da beni immobili: Ferraro, 1321) - sempre che non si tratti di beni fungibili, come nel caso del denaro (a meno che non si tratti della rivendica dei valori mobiliari, individuati solo nel genere ed affidati in gestione fiduciaria a soggetti operanti nel settore dei servizi di investimento, per i quali vige il principio della cd. doppia separazione: art. 22 del d.lgs. n. 58/1998), o individuati solo per la loro appartenenza ad un genere, in difetto di specificazione anteriore al fallimento a norma dell'art. 1378 c.c., spettando in tal caso solo il diritto al tandundem, da soddisfarsi in moneta fallimentare (Cass. n. 10206/2005) – di volta in volta in possesso o di proprietà del fallito, sempre che sia fondato su un titolo, contrattuale o meno, perfezionatosi anteriormente alla dichiarazione di fallimento (art. 44 l.fall.) ed, in base al regime giuridico che gli è proprio, opponibile alla procedura (art. 45 l.fall.).

La legittimazione, quindi, spetta non solo a chi rivendichi il diritto di proprietà sui beni mobili o immobili in possesso o intestati al fallito (e tale non è, ad es., il promittente acquirente, che abbia proposto azione ex art. 2932 c.c., pur se regolarmente trascritta, davanti al giudice ordinario, il quale, pertanto, non può, a seguito del fallimento del promittente venditore, proporre domanda di rivendica, neppure se condizionata all'esito negativo del giudizio proseguito in via ordinaria nei confronti della curatela, posto che il contratto preliminare non trasferisce la proprietà del bene, ma obbliga soltanto a trasferirla, sicché il promissario acquirente non può vantare alcun diritto reale che lo legittimi ad una domanda ex art. 103 l.fall.: Cass. n. 7297/2015), ma anche ai titolari di diritti reali diversi dalla proprietà, quali l'usufrutto, il diritto di pegno sul bene di cui si sia perduto il possesso, il diritto di servitù, ecc. Non possono avvalersi del procedimento di verificazione i titolari di ipoteca o di pegno su beni compresi nel fallimento costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito in quanto non sono creditori del fallito né soggetti che agiscono per la restituzione o la rivendica dei beni acquisiti al fallimento; detti creditori possono invece intervenire nel procedimento in vista della ripartizione dell'attivo per chiedere di partecipare alla distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione (Cass. S.U. n. 8557/2023).

Al contrario, prevale – come detto — l'orientamento che non ritiene legittimati alla rivendica i titolari di ipoteca iscritta sui beni del fallito a garanzia di debiti altrui.

Non sembra, invece, che la legittimazione possa essere a tal punto estesa da comprendere anche quella del fallito che intenda sottrarre all'apprensione fallimentare i beni previsti dall'art. 46 l.fall. (Ferraro,, 1324).

La legittimazione, infine, spetta a chi si affermi titolare di un diritto alla restituzione a carattere personale, relativo ad un bene, mobile o immobile, in possesso o nella disponibilità del fallito, fondato, di volta in volta, su un titolo contrattuale che attribuisca il diritto alla relativa consegna (come nel caso dell'obbligo di consegna del bene all'acquirente ex art. 1476, n. 1, c.c.) ovvero sulla sopravvenuta inefficacia — se del caso per scelta del curatore (artt. 72 ss. l.fall.) — del titolo per effetto del quale il fallito aveva il diritto alla sua detenzione con conseguente obbligo di restituzione (come nel caso del depositante, del comodante, del locatore, del concedente del bene in leasing, del venditore con patto di riservato dominio per effetto della cessazione di efficacia dei relativi rapporti contrattuali).

In tali ipotesi, la domanda di restituzione prescinde dall'affermazione di un diritto di proprietà o altro diritto reale ma, evidentemente, non ne esclude l'esistenza.

Tanto la domanda di rivendicazione, quanto la domanda di restituzione, peraltro, presuppongono che il bene, al momento del fallimento, sia nel possesso o nella disponibilità del fallito — e quindi inventariato(artt. 87 ss. l.fall.) o, comunque, acquisito alla massa attiva (art. 88 l.fall.), e, successivamente, non perduto — o, quanto meno, recuperabile da parte del curatore: tant'è che, ove il fallito ne abbia perduto il possesso e il bene non è recuperabile, al terzo non resta altro che proporre domanda di insinuazione al passivo per il tandundem, in chirografo se il possesso del bene è stato perduto prima del fallimento, oppure in prededuzione se il possesso del bene è stato perduto dopo l'apposizione dei sigilli (Ferraro, 1322).

L'art. 103, comma 2, inoltre, ha confermato la salvezza della disciplina dettata dall'art. 1706 c.c. sugli acquisti del mandatario.

Si tratta, come è noto, dell'ipotesi di cd. «rivendicazione fallimentare» in senso stretto prevista dal primo comma dell'art. 1706 c.c. per il carattere meramente obbligatorio del mandato: il mandante diviene immediatamente titolare dei beni mobili non registrati acquistati dal mandatario senza rappresentanza e può, quindi, rivendicarli dal mandatario stesso (e, quindi, dal suo fallimento, a norma dell'art. 103 l.fall.) con un'azione di natura reale, salvi i diritti dei terzi in buona fede, e sempre che il mandato risulti da scrittura avente data certa opponibile al fallimento.

A tale ipotesi va aggiunta quella dell'azione di rivendicazione proposta dal mandante relativamente ai beni consegnati al mandatario per la vendita e non ancora alienati alla data del suo fallimento.

Diverso, invece, è il caso dell'acquisto di beni immobili o di beni mobili registrati da parte del mandatario senza rappresentanza: in tal ipotesi, a fronte dell'impossibilità di prevedere un sistema automatico di acquisizione in capo al mandante, l'art. 1706, comma 2, c.c. prevede la necessità di un formale atto di trasferimento da parte del mandatario e, in caso di inadempimento, la legittimazione del mandante all'azione ex art. 2932 c.c.. Il curatore del fallimento del mandatario è, quindi, tenuto a provvedere al trasferimento ed, in mancanza, il mandante in bonis può esperire l'azione ex art. 2932 c.c., sempre che abbia trascritto la relativa domanda (art. 2652, n. 1, c.c.) prima (art. 45 l.fall.) che la sentenza di fallimento sia stata iscritta nel registro delle imprese (artt. 16, comma 2, l.fall., e 1707 c.c.).

La legittimazione spetta, inoltre, anche a chi vanti una pretesa restitutoria su un bene, mobile o immobile, nella disponibilità del fallito ed acquisito alla massa, in conseguenza del vittorioso esperimento dell'azione di risoluzione del contratto che, prima del fallimento, ne aveva determinato l'acquisito in capo al fallito.

Come già detto, la riforma della legge fallimentare si è, in tema, limitata a regolare le conseguenze del fallimento dell'acquirente solo in caso di azione di risoluzione dell'atto di acquisto, prevedendo, all'art. 72, comma 5, che l'azione di risoluzione del contratto promossa nei confronti della parte inadempiente, (solo se) promossa (e, nei casi in cui è prevista, trascritta) prima del suo fallimento (o meglio: della sua iscrizione nel registro delle imprese: artt. 16 e 45 l.fall., in relazione al principio generale stabilito dall'art. 2915 c.c.), spiega i suoi effetti nei confronti del curatore.

L'azione di risoluzione, quindi, riassunta nei confronti del curatore (art. 43 l.fall.), prosegue in sede ordinaria, fino alla decisione sul merito della domanda (Cass. n. 3953/2016).

Le pretese restitutorie che conseguono alla risoluzione, invece, tanto nel caso in abbiano ad oggetto una somma di denaro o un bene fungibile, quanto nel caso in cui riguardino un bene determinato (mobile o immobile), devono essere fatte valere, al pari del risarcimento del danno, non in sede ordinaria, ma — se del caso in via condizionata all'accoglimento della domanda di risoluzione ex art. 55 l.fall., e quindi con riserva a norma dell'art. 96, comma 3, n. 1, l.fall. — con l'insinuazione al passivo (Cass. n. 3953/2016).

La norma, se, da un lato, conferma che il contraente in bonis non può proporre, dopo il fallimento, la domanda di risoluzione del contratto per effetto dell'inadempimento del fallito, pur se questo è anteriore all'inizio della procedura, dovendo, in tal caso, trovare applicazione le norme in tema di rapporti contrattuali pendenti (artt. 72 ss. l.fall.), dispone, dall'altro, che la domanda di risoluzione, ove proposta (ed, in caso di beni immobili e di beni mobili registrati, trascritta) prima del fallimento del contraente poi fallito, è opponibile al curatore ed impedisce a quest'ultimo, a norma dell'art. 1453, comma 3, c.c., di scegliere il subingresso nel contratto per ottenere l'adempimento della prestazione, così come impedisce al contraente in bonis di richiedere, a norma dell'art. 1453, comma 2, c.c., l'adempimento della prestazione.

La legge, invece, non regola i casi in cui l'atto di acquisto da parte del soggetto poi dichiarato fallito sia stato impugnato per nullità, annullabilità, simulazione o rescissione.

Secondo l'opinione che appare preferibile, l'azione di impugnazione, ove pendente al momento del fallimento, dev'essere riassunta nei confronti del curatore (art. 43 l.fall.) e prosegue in sede ordinaria mentre la conseguente domanda di restituzione dev'essere proposta nelle forme della verifica, se del caso in forma condizionata, a norma dell'art. 55 l.fall., all'accoglimento dell'impugnazione negoziale (Nonno, 1142): tuttavia, in mancanza di un espresso rinvio all'art. 72, comma 5, l.fall. (e, quindi, in mancanza del divieto, che lo stesso implicitamente pone, di proposizione dell'impugnazione negoziale dopo il fallimento dell'acquirente), lo stesso schema operativo vale per il caso in cui l'azione di nullità, annullamento, ecc., sia stata proposta dopo il fallimento dell'acquirente.

Ne consegue che, in siffatta ipotesi, la domanda principale di nullità, annullamento, simulazione o rescissione del contratto dev'essere proposta, in sede ordinaria, nei confronti del curatore, quale gestore delle posizioni contrattuali dell'acquirente fallito (se del caso, in caso di beni immobili o mobili registrati, con la sua trascrizione, a norma dell'art. 2652, n. 1, n. 4 e n. 6, c.c., onde poter opporre la sentenza di accoglimento al terzo che, nelle more del giudizio, abbia acquistato il bene dal curatore).

Le domande conseguenti di restituzione (nel caso in cui riguardino un bene determinato, mobile o immobile), devono essere fatte proposte, al pari della pretesa all'equivalente del bene non recuperabile in forma specifica ed al risarcimento dell'eventuale danno, non in sede ordinaria, ma (se del caso in via condizionata all'accoglimento dell'impugnazione negoziale proposta ex art. 55 l.fall. e, quindi, con riserva a norma dell'art. 96, comma 3, n. 1, l.fall.), con l'insinuazione al passivo ai sensi degli artt. 52, 93 ss e 103 l.fall.

Per le domande di rivendicazione, si pone, infine, la questione, in caso di beni immobili o beni mobili registrati, della loro trascrivibilità, onde poter opporre, a norma dell'art. 2653, n. 1, c.c., il decreto di accoglimento al terzo che abbia, nelle more del giudizio di verificazione, acquistato dal curatore il bene conteso: il tema, peraltro, interferisce con quello relativo alla efficacia meramente endoconcorsuale dei decreti che si pronunciano su tali domande (art. 96, ult. comma, l.fall.), cui, pertanto, si rinvia.

Gli artt. 93 e 103 non consentono più la proposizione delle cd. domande di separazione, già previste dall'art. 103 nella versione anteriore alla riforma, vale a dire le domande volte ad impedire la liquidazione di beni mobili che il terzo intendeva far dichiarare estranei alla garanzia comune dei creditori, senza contestualmente proporre una domanda a contenuto restitutorio: oggetto della domanda erano, in via alternativa, cose destinate a rimanere in possesso della procedura, quali i beni concessi in locazione o leasing al fallito con contratti rispetto ai quali il curatore non aveva esercitato la facoltà di recesso, ovvero beni in ordine ai quali il terzo intendesse esclusivamente impedire che la vendita avvenisse senza il rispetto del suo diritto sul bene medesimo, non incompatibile con la liquidazione concorsuale dello stesso.

Le esigenze di tutela sottostanti a tali domande sono, in effetti, assorbite dalla legittimazione alla proposizione delle domande di accertamento di un diritto reale o personale sui beni mobili o immobili in possesso del fallito ed acquisiti alla procedura, nonché, in funzione cautelare, dalla facoltà di chiedere, nelle more del relativo giudizio, la sospensione della liquidazione ove attuata in forme incompatibili con il diritto azionato dal terzo (Ferraro, 1323).

Il contenuto necessario del ricorso

L'art. 93, nel testo in vigore prima della riforma, si limitava a disporre che «la domanda di ammissione al passivo deve contenere il cognome e il nome del creditore, l'indicazione della somma del titolo da cui il credito deriva, delle ragioni di prelazione e dei documenti giustificativi... l'elezione di domicilio».

La norma, nella sua attuale formulazione, indica in modo minuzioso il contenuto del ricorso, stabilendo altresì le conseguenze dell'omissione o dell'incertezza dei requisiti richiesti.

Il contenuto può essere distinto in una parte necessaria e in una parte solo eventuale.

Il contenuto necessario è formato da:

1) l'indicazione della procedura cui si intende partecipare e le generalità del creditore;

2) la determinazione della somma che si intende insinuare al passivo (e questo vale anche per i crediti aventi ad oggetto prestazioni non pecuniarie le quali, ai fini del concorso, si convertono in crediti monetari: art. 59 l.fall.) ovvero la descrizione del bene di cui si chiede la restituzione o la rivendicazione;

3) la succinta esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono la ragione della domanda;

4) l'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata, al quale ricevere tutte le comunicazioni relative alla procedura.

Quanto al requisito sub 1), la questione che si è posta è se possa ritenersi idonea ad ottenere l'ammissione al passivo del fallimento di tutti i soci illimitatamente responsabili, individualmente falliti in proprio, una domanda che, nell'epigrafe, si limiti ad indicare il numero del fallimento ed i nominativi di tutti i soggetti falliti, senza, tuttavia, indicare la procedura o le procedure cui il creditore intenda insinuarsi.

La Corte di cassazione ha, sul punto, fornito una risposta negativa.

L'indicazione della procedura è, infatti, implicita solo nel caso cui la procedura, nella quale l'istante intenda insinuarsi, è unica, nel senso che unico è il patrimonio in liquidazione e unica la massa dei creditori.

Se, invece, il procedimento cumula procedure diverse, ancorché intrinsecamente connesse, come nel caso di fallimento di una società di persone e dei singoli soci illimitatamente responsabili, la norma dell'art. 93, nel testo successivo alla riforma, ma già i principi generali in tema di domande giudiziali — le quali sono identificate dalle persone, oltre che dalla causa petendi e dal petitum — esigono che il creditore indichi in modo puntuale la procedura alla quale intende partecipare (procedura che non equivale al numero di ruolo che la contrassegna ma indica la massa nei confronti della quale si vuoi far valere il proprio diritto). Né alla mancanza di tale indicazione può supplirsi demandando al giudice di stabilire, sulla base dei titoli presentati a corredo della domanda, quali siano le masse passivamente legittimate.

Ne consegue che, a norma dell'art. 93 l.fall., la domanda d'insinuazione al passivo richiede l'esatta individuazione della procedura alla quale s'intende partecipare, che può ritenersi implicita nel solo caso in cui la procedura abbia ad oggetto il fallimento di un solo soggetto (Cass. n. 7278/2013).

Tale conclusione, tuttavia, vale solo nel caso in cui si tratta di far valere il proprio credito nei confronti soltanto di uno o più soci falliti: non anche quando il creditore faccia valere il proprio credito verso la società, che, a norma dell'art. 148, comma 3, l.fall., si intende dichiarato, senza necessità di un'apposita domanda, anche nel fallimento dei singoli soci (Spiotta, 2002).

Le generalità del creditore comprendono il numero di codice fiscale (Spiotta, 2003) o la partita IVA (Sdino, 647), del ricorrente.

Quanto al requisito sub 3), vale a dire la succinta esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono la ragione della domanda, la norma impone al ricorrente la deduzione in giudizio del fatto o dei fatti costitutivi (e cioè la causa petendi) della pretesa o del diritto azionato.

A tale riguardo, come nel processo civile ordinario, così ai fini del giudizio di verificazione, occorre distinguere, in ragione del diverso valore che spetta al rispettivo fatto costitutivo, tra diritti autodeterminati e diritti etero determinati (Fabiani, 337).

La prima figura (alla quale sono, di regola, ricondotti i diritti reali di godimento e di garanzia, i diritti relativi aventi per oggetto una prestazione specifica, come quella di dare una cosa determinata) ricorre quando risulti impossibile l'esistenza, in un dato momento storico, di più diritti di uguale contenuto in capo allo stesso soggetto, per cui non è necessario (né utile) fare riferimento, per individuare la situazione giuridica fatta valere rispetto alle altre dello stesso tipo e natura, al titolo costitutivo (Menchini, 1987, 207 ss.).

L'irrilevanza del titolo di acquisto comporta che il mutamento del titolo di acquisto (ad es., usucapione anziché compravendita) non comporta la novità dell'azione né impedisce, rispetto alla deduzione di un diverso titolo in un successivo giudizio, l'efficacia preclusiva del giudicato formatosi su un altro fatto costitutivo (Menchini, 1987, 212, 213).

Nei diritti autodeterminati, quindi, la causa petendi risulta sostanzialmente costituita dal solo diritto (di proprietà, di servitù, di credito ad una determinata prestazione, ecc.) affermato dall'attore e non anche dal fatto costitutivo o acquisitivo di tale diritto, per cui il giudicato sull'esistenza o l'inesistenza del diritto azionato si estende non solo al fatto costitutivo dedotto ma tutti i possibili fatti costitutivi (Pugliese, 863, 864; Menchini, 1987, 103 ss.; Mandrioli, 163, 164. In giurisprudenza di legittimità, Cass. n. 22598/2010).

La seconda figura (alla quale appartengono, in sostanza, solo i crediti a prestazioni di somme di denaro o di altri beni fungibili, vale a dire le sole obbligazioni di genere) ricorre, invece, in tutti i casi in cui sia possibile la coesistenza, nella medesima unità di tempo, tra gli stessi soggetti, di più situazioni sostanziali identiche: ne consegue che, per stabilire quale sia, tra i più crediti aventi ad oggetto prestazioni generiche (specie, pecuniarie), quello che l'attore intende vedere tutelato dal giudice, rileva la deduzione (peraltro a pena di nullità dell'atto introduttivo, a norma dell'art. 163, n. 4, c.p..c, nel giudizio ordinario ed a pena di inammissibilità, a norma dell'art. 93, comma 3, n. 3, l.fall.) del relativo fatto (storico) costitutivo (Menchini, 1987, 218 ss, 226 ss, 235 ss, 273, 274; in giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. n. 17408/2012).

Il mutamento del fatto che ne costituisce il fondamento comporta, quindi, il mutamento del diritto stesso, per cui la domanda con la quale l'attore faccia valere in un secondo processo un diritto dallo stesso contenuto di quello già azionato ma sul fondamento di un diverso fatto costitutivo, ha, evidentemente, per oggetto un diritto diverso e non è, come tale, preclusa dal giudicato che ha accertato l'esistenza o l'inesistenza del primo diritto azionato (Menchini, 2002, 115 ss; Proto Pisani, 61 ss, 70; Mandrioli, 161, 162).

Il mutamento del tipo giuridico, al quale il medesimo fatto allegato va ricondotto, non comporta di per sé un diverso diritto soggettivo: restando fermi il contenuto della prestazione invocata ed il fatto storico dedotto, cioè, la diversa qualificazione giuridica del credito non modifica l'identità del diritto azionato (Menchini, 2002, 232 ss.; in giurisprudenza, cfr. Cass. n. 10702/2008).

Quando, infine, siano dedotti in giudizio due fatti storici ontologicamente differenti, pur riconducibili alla stessa norma giuridica astratta (ad es.: due contratti di mutuo, cronologicamente e funzionalmente distinti), si è in presenza di due diritti diversi (ad es., alla restituzione delle differenti somme mutuate) e, per l'effetto, a distinte domande giudiziali.

Ai fini della determinazione della causa petendi non rileva, peraltro, la fattispecie legale stratta, dedotta dall'attore a fondamento della pretesa esercitata: il fatto costitutivo che identifica il diritto di credito è il mero accadimento materiale, considerato nella sua esclusiva consistenza strutturale, in base alle circostanze di spazio e di tempo che concorrono a connotarlo, per cui il mutamento del titolo giuridico prospettato non incide sulla individualità del diritto azionato e della corrispondente azione (Cass. n. 5144/1992).

L'identificazione della pretesa o del diritto azionato fissa i limiti oggettivi della domanda e, quindi, del corrispondente accertamento del giudice e del relativo effetto di giudicato (sia pur, come si vedrà sub art. 96, con effetti solo endofallimentari), il quale, infatti, consiste, anche nel giudizio di verificazione, in un accertamento: e, precisamente, nell'accertamento dell'esistenza (o dell'inesistenza) del diritto azionato (petitum) dall'attore nei confronti della massa dei creditori (opponibilità), avendo riguardo ai fatti costitutivi dedotti (causa petendi) e dei correlativi fatti estintivi, modificativi ed impeditivi (Menchini, 2002, 69, 99 ss.; Mandrioli, 154 ss. Proto Pisani, 65; Pugliese, 862, 863; Cass. n. 3366/1999), con l'effetto di precludere la successiva proposizione, tra le stesse parti (e, quindi, nell'ambito della stessa procedura), di una domanda avente ad oggetto l'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza dello stesso diritto (petitum) e per fondamento (causa petendi) gli stessi fatti che, come fatti costitutivi ovvero estintivi, modificativi o impeditivi, sono stati dedotti o avrebbero potuto essere dedotti nel precedente giudizio.

Il tema dell'identificazione del diritto azionato è particolarmente complesso in caso di crediti pecuniari, specie a carattere risarcitorio.

Si ritiene, in effetti, che tali crediti siano sempre dedotti in giudizio come tali: l'oggetto di tali obbligazioni, infatti, non si identifica con la somma in concreto domandata ma con la prestazione stessa, a nulla, quindi, rilevando, per evitare gli effetti preclusivi del giudicato, che in un successivo giudizio il credito sia diversamente quantificato, pur se con l'allegazione di circostanze nuove ma deducibili già nel primo processo (Menchini, 1987, 276 ss, nt. 149 e 150; Menchini, 2002, 117, 118; Mandrioli, 148, nt 3; Cerino Canova, 445 ss, 454, 455, 456, 457, e nt. 32, dove, per un verso, osserva che «... il diritto risarcitorio è sempre uno e unico rispetto al medesimo fatto lesivo», che «le varie voci di danno non possono essere estrapolate dell'entità elementare cui ineriscono per formare oggetto di un distinto giudizio», che «non può, invero, vertere su frazioni o aspetti di un diritto, ma sul diritto medesimo nella sua interezza», che «l'attore sottopone sempre a tutela processuale il diritto nella sua integralità e provoca una sentenza che sul diritto fa stato», con la conseguenza che «l'accertamento, sia concepito in termini di esistenza o di inesistenza, fa stato sul diritto sostanziale al risarcimento e spiega una conseguente efficacia. In particolare, esso impedisce che una nuova azione ed un successivo processo possano essere legittimamente sviluppati in ordine alla medesima situazione sostanziale materiale già decisa ed incontrovertibilmente definita», e, per altro verso, che «se più sono i diritti, la pronuncia fa stato solo in ordine a quelli pronunciati; gli altri diritti..., possono evidentemente formare oggetto di un autonomo e successivo processo...»; in giurisprudenza, per l'applicazione di questo principio: Cass. n. 11520/2000).

Per le stesse ragioni, il titolare di un diritto di credito non può far valere la rivalutazione monetaria non richiesta in un precedente giudizio quando la stessa costituisca, per disciplina sostanziale, non un diritto diverso, seppure accessorio, rispetto al credito principale, ma una parte di questo, come accade per i crediti da lavoro subordinato (Menchini, 2002, 118, il quale evidenzia che, proprio in forza di tale principio, «stante la natura non autonoma del maggior danno da svalutazione monetaria, rispetto al correlativo credito di lavoro, qualora il giudice abbia già pronunciato, con sentenza passata in giudicato, sull'esistenza e misura di quest'ultimo, non può essere proposta un'autonoma domanda, tendente ad ottenere la rivalutazione o gli interessi legali; l'art. 429, 3 comma, c.p.c., contiene, infatti, una disposizione di carattere sostanziale, per la quale la rivalutazione costituisce parte integrante il credito di lavoro, ed una di carattere processuale, per la quale il giudice deve provvedere d'ufficio ad essa». In materia, cfr., nella giurisprudenza di legittimità, Cass. n. 7395/2010).

Viceversa, in caso di inadempimento dei crediti pecuniari ordinari, il creditore ha il diritto al risarcimento del danno, costituito dagli interessi moratori (art. 1224, comma 1, c.c.) e, previa prova, del maggior danno subìto (art. 1224, comma 2, c.c.): si tratta di un diritto che, sia pur a carattere accessorio, integra una situazione sostanziale autonoma e distinta rispetto a quella principale, con la conseguenza che, pur a seguito della sentenza di condanna al «pagamento» dell'obbligo pecuniario (o dell'ammissione al passivo per tale pretesa), il creditore può agire, in separato giudizio, per il risarcimento del danno subìto a causa dell'inadempimento, chiedendo, appunto, gli interessi di mora e la rivalutazione monetaria, in precedenza non richiesta né esplicitamente o implicitamente negati dal giudice (Menchini, 2002, 118, 119; in giurisprudenza di legittimità: Cass. n. 2008/1990; Cass. n. 7178/2004).

Per le stesse ragioni, in materia di responsabilità extracontrattuale, poiché gli interessi e la rivalutazione monetaria, per la somma dovuta a titolo di risarcimento, costituiscono parte integrante di questo diritto, tant'è che devono essere liquidati di ufficio, il passaggio in giudicato della sentenza che quantifica il danno preclude al creditore la possibilità di riproporre la pretesa concernente gli interessi, in separato giudizio: e ciò anche nel caso in cui gli interessi sono stati richiesti ed il giudice del primo processo abbia omesso di pronunciare in ordine agli stessi costituendo tale domanda parte integrante dell'azione di risarcimento del danno di cui gli interessi costituiscono solo una voce (Menchini, 2002, 121. Sui limiti oggettivi del giudicato nelle azioni risarcitorie, v. Roselli, 97 ss.; Cass. n. 7275/1997).

Il requisito sub 2), per il quale la domanda di ammissione al passivo deve indicare il cd. petitum, e cioè la «... somma che si intende insinuare al passivo» o il «bene di cui si chiede la restituzione o la rivendicazione» (nello stesso modo in cui, ai fini dell'opposizione, l'art. 99, comma 2, n. 3, l.fall., impone che anche l'opposizione allo stato passivo si strutturi, oltre che con l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, con «le relative conclusioni»), non assolve solo ad elementari esigenze di chiarezza di una domanda giudiziale, ma risponde in modo diretto ad una logica di reciproco controllo, nell'unico contesto concorsuale, di tutte le posizioni di credito prospettate, nell'interesse dei singoli creditori, oltre che del fallito nonché per agevolare i compiti gestori ed organizzativi degli organi della procedura, sicché, in mancanza, la domanda non può essere ritenuta idonea all'insinuazione (Cass. n. 26781/2016).

La somma di cui si chiede l'insinuazione deve essere, quindi, determinata o, quantomeno, determinabile per relationem (Spiotta, 2005).

Il requisito vale non solo per i crediti aventi ad oggetto una prestazione pecuniaria ma anche i crediti aventi ad oggetto una prestazione diversa dal denaro, i quali, a norma dell'art. 59 l.fall., concorrono secondo il valore che hanno al momento della dichiarazione di fallimento.

I beni immobili sono identificati mediante l'indicazione dei dati catastali o del titolo contrattuale posto a fondamento della domanda; per i beni mobili registrati, possono essere utilizzati i criteri di identificazione utilizzati nella prassi commerciale, quali i numeri di targa di matricola, ecc. (Nardone, 2010, 1204); i beni mobili non registrati possono essere descritti mediante rinvio all'inventario del curatore (Fabiani, 336).

L'onere di indicare la somma che si intende insinuare al passivo si riverbera anche sugli accessori, per cui il ricorrente, ove domandi l'ammissione al passivo per un credito avente ad oggetto una somma di denaro, deve domandare, oltre all'ammissione del credito al capitale, anche l'ammissione del credito agli interessi, con l'indicazione del relativo tasso, ed alla rivalutazione monetaria (Cass. n. 2493/2001, per la quale gli interessi sul credito garantito da ipoteca, benché siano oggetto del trattamento preferenziale di cui all'art. 2855, comma 3, c.c., che prevede l'estensione agli accessori del grado ipotecario, non si sottraggono alla necessità di una specifica domanda di ammissione al passivo; in tal senso, in dottrina, Nardone, 2010, 1204).

Il diritto agli interessi, infatti, è accessorio rispetto a quello relativo al capitale nel senso che sorge solo se e nella misura in cui sia sorto e duri quest'ultimo: tuttavia, una volta sorto (in base alle rispettive fattispecie costitutive, quali descritte, a seconda del tipo, dagli artt. 1282, 1224, 1499 e 1815 c.c., ecc.), il credito al pagamento delle relative somme è autonomo e indipendente rispetto a quello principale ed è, come tale, suscettibile di vicende modificative e/o estintive (cessione, pagamento, prescrizione, ecc.) distinte rispetto a quelle che (eventualmente) riguardino il credito al pagamento del capitale;

Il credito relativo agli interessi, quindi, nelle sue differenti articolazioni (interessi di pieno diritto, che sono gli interessi dovuti quale compenso per il vantaggio derivante dalla disponibilità da parte del debitore di una somma di denaro liquida ed esigibile e, quindi, attualmente spettante al creditore ex art. 1282, comma 1, c.c., indipendentemente dal fatto che il debitore sia, o meno, in ritardo imputabile nel pagamento; interessi compensativi, che sono, a norma dell'art. 1499 c.c., gli interessi maturati sul prezzo non ancora scaduto spettanti al venditore quando il compratore abbia già ricevuto la cosa e questa sia produttiva di frutti o altri proventi, a prescindere dalla esigibilità del credito al prezzo e dal ritardo imputabile al compratore; interessi moratori, che sono gli interessi dovuti a titolo di liquidazione forfettaria minima del danno per il ritardo imputabile nel pagamento delle obbligazioni pecuniarie ex art. 1224 c.c., salva la prova del maggior danno, e sono, quindi, fondati non sulla mera liquidità ed esigibilità del debito, ma sul ritardo imputabile al debitore e la sua costituzione in mora ex art. 1219 c.c., benché i fatti, in concreto, possano coesistere e sovrapporsi; interessi corrispettivi, che sono gli interessi dovuti quale compenso giuridicamente spettante a chi concede ad altri un capitale, come nei casi previsti dagli artt. 1815, 1782, comma 2, 1825, 1834, 1842, 1846 e 1858 c.c. e sono pagati, per lo più, in rate comprensive di una quota di capitale e di una quota di interessi, alla cui scadenza maturano gli interessi di puro di diritto ovvero, in caso di ritardo imputabile, gli interessi di mora) si fonda, in linea di principio, su presupposti autonomi e distinti rispetto al credito relativo al capitale: la domanda giudiziale relativa al capitale, quindi, non comprende gli interessi maturati e dovuti.

Ne consegue che, in caso di fallimento del debitore, il creditore che intenda conseguire, in caso di inadempimento, gli interessi maturati sul capitale (naturalmente, nei limiti quantitativi e temporali stabiliti dagli artt. 54 e 55 l.fall.), ha l'onere di presentare, nelle forme previste dall'art. 93 l.fall., la relativa domanda di ammissione.

Ciò comporta, per un verso, che il giudice delegato non può procedere all'ammissione degli interessi maturati in via ufficiosa ma solo su domanda del creditore (sul punto, in generale, sulla necessità della domanda giudiziale, v. Menchini, 1987, 276 ss, nt. 149 e nt. 150; Bianca, 1994, 217 ss, dove osserva che «il diritto agli interessi moratori è distinto rispetto alla somma capitale e... la condanna al pagamento di tali interessi presuppone la domanda di parte.... Il creditore che, invece, si limiti a domandare il pagamento della somma capitale, non potrà ottenere la condanna del debitore alla corresponsione degli interessi...». Cass. n. 11151/2003) e, per altro verso, che, in caso di proposizione della domanda relativa al solo capitale, l'ammissione di tale pretesa non preclude al creditore di chiedere, in via tardiva (art. 101 l.fall.), l'ammissione al passivo per la (diversa) pretesa creditoria relativa agli interessi, oltre, se del caso, ai maggiori danni previsti dall'art. 1224, comma 2, c.c. (Cass. S.U., n. 6060/2015, per la quale la proposizione tardiva della domanda di ammissione al passivo fallimentare del credito accessorio agli interessi moratori, in quanto fondata sul ritardo nell'adempimento, non è preclusa, stante la diversità della rispettiva causa petendi, dalla definitiva ammissione in via tempestiva del credito relativo al capitale; Cass. n. 4554/2012, per cui «l'ammissione tardiva al passivo fallimentare relativamente agli interessi già maturati alla data del fallimento non è preclusa in conseguenza della già avvenuta richiesta ed ammissione dello stesso credito per il solo capitale; infatti il credito degli interessi, per quanto accessorio sul piano genetico a quello del capitale, è un credito autonomo, azionabile separatamente, anche successivamente al credito principale già riconosciuto con decisione passata in giudicato»; Del Vecchio, 232, dove, a fronte dell'autonomia del debito relativo agli interessi rispetto al debito per capitale, afferma che «in materia fallimentare, il credito relativo agli interessi può formare oggetto di domanda di ammissione tardiva, senza che la domanda di ammissione tempestiva al passivo stesso per il solo capitale possa precluderne la proposizione»; Grasso, 1195 ss., il quale, tra l'altro, osserva che «il credito per interessi deve ritenersi ontologicamente e giuridicamente diverso rispetto a quello per il capitale, con la conseguenza che, ottenuta l'ammissione al passivo di quest'ultimo, può legittimamente richiedersi l'ammissione del credito costituito dagli interessi del medesimo. Se infatti si può registrare l'identità di causa petendi, non può negarsi che sul piano del petitum non trattasi di mero adempimento dell'originaria richiesta, bensì di richiesta nuova e diversa, atteso che non viene insinuato lo stesso credito»; in senso diff., Cass. n. 21241/2010; Cass. n. 2476/2003, per cui l'ammissione tardiva al passivo fallimentare rappresenta, al pari di quella ordinaria, una fase del medesimo procedimento giurisdizionale, sicché le determinazioni prese in tale ultima sede hanno valore di giudicato interno rispetto alla domanda tardiva, la quale, pertanto, deve avere ad oggetto un credito del tutto diverso — sia per petitum che per causa petendi — da quello già ammesso, coprendo il giudicato endofallimentare sia il dedotto che il deducibile: nella fattispecie, la S.C. ha escluso l'ammissibilità della domanda tardiva relativa agli interessi sul capitale richiesto in sede ordinaria, avendo le due pretese la medesima causa petendi; in dottrina, in tal senso, Bozza-Schiavon, 300, sul rilievo che «il decreto di esecutività dello stato passivo opera una preclusione interna su tutto ciò che è stato richiesto e che poteva essere chiesto in relazione al rapporto esaminato». Didone, 33 ss; Trisorio Liuzzi, 1034 ss, per cui «non è possibile proporre l'istanza in via tardiva per pretendere maggiori importi che si assumono discendenti dallo stesso titolo fatto valere con la domanda tempestiva (ad esempio per interessi)»).

La necessità della domanda vale, però, solo nei casi, come quelli illustrati, in cui gli interessi invocati abbiano un fondamento autonomo rispetto all'obbligazione principale cui accedono.

Se, invece, gli interessi sono una componente del diritto principale (come nel caso del credito per risarcimento del danno extracontrattuale) azionato dall'attore, che, al pari di quest'ultimo, origina dal medesimo fatto generatore, la domanda relativa al capitale comprende anche la domanda per gli interessi (così, in generale, Menchini, 2002, 121; Bianca, 1990, 176, nt. 7; Del Vecchio, 242, 243, 244).

Ne deriva, in siffatte ipotesi, da un lato, che il giudice delegato procede alla liquidazione ed alla ammissione degli interessi in via ufficiosa, senza che sia a tal fine necessaria una domanda espressa dell'avente diritto e, dall'altro lato, che, in caso di omessa liquidazione degli interessi, l'ammissione al passivo sulla pretesa risarcitoria, ove definitiva, preclude la possibilità (non solo di una sua diversa quantificazione, ma anche) di una successiva domanda (in via tardiva) relativa agli interessi o alla rivalutazione monetaria (Cass. S.U., n. 6060/2015; Bianca, 1994, 218, nt. 80; Menchini, 1987, 218 ss, 221).

Anche la rivalutazione e gli interessi previsti dall'art. 429 c.p.c. sono liquidati di ufficio dal giudice, senza la necessità di una domanda da parte del lavoratore (Cass. n. 18894/2010) con la conseguenza che, ove non richiesti (e comunque non liquidati dal giudice), il creditore non può chiederne la liquidazione e l'ammissione con una domanda tardiva.

In definitiva, la domanda del creditore è necessaria per l'ammissione al passivo del credito agli interessi ed alla rivalutazione, a meno che non si tratti di crediti al risarcimento dei danni extracontrattuali e di crediti di lavoro, nei quali, invece, interessi e rivalutazione possono essere riconosciuti d'ufficio (Spiotta, 2006).

Discussa è la possibilità di chiedere l'ammissione delle spese legali sostenute per la predisposizione della domanda di ammissione ma la natura non obbligatoria della difesa tecnica induce a sostenere la soluzione contraria.

Già nel periodo anteriore alla riforma, era dominante l'opinione che escludeva l'ammissione allo stato passivo fallimentare delle somme erogate dal creditore, a titolo di compenso, al suo difensore, ove la domanda fosse stata presentata, anziché personalmente, con il patrocinio di un avvocato (Cass. n. 661/1979, per la quale l'ammissione al passivo fallimentare può essere richiesta, oltre che per il credito, per le spese vive inerenti alla presentazione della relativa domanda, ma non anche per quanto sborsato a titolo di diritti ed onorari di procuratore od avvocato, all'uopo incaricato dal creditore, atteso che quest'ultimo e abilitato a proporre personalmente detta domanda, nonché a svolgere ogni successiva attività fino alla formazione dello stato passivo, senza obbligo di ricorrere al ministero di un procuratore legalmente esercente; conf., Cass. n. 3875/1976; Cass. n. 2587/1972).

Le spese sostenute per l'eventuale incarico al difensore, in quanto frutto di una valutazione di opportunità del creditore, non potevano partecipare al concorso, tanto più che, così facendo, sarebbero stati danneggiati gli altri creditori che avessero rinunciato a presentare la domanda con il ministero di un difensore (tra gli altri, Bozza-Schiavon, 516).

La soluzione negativa si impone anche nel nuovo quadro normativo. Ed infatti, come giustamente sostenuto da Trib. Taranto 2 febbraio 2011, in Fall. 2011, 474 ss., le spese legali sopportate per la presentazione della domanda di ammissione non possono essere insinuate, «ostandovi innanzitutto il principio cardine del diritto fallimentare della c.d. «cristallizzazione» dello stato passivo al momento della dichiarazione di insolvenza; in base a tale indiscusso principio, rinveniente dagli artt. 44 e 52 l.fall., nonché da tutto il sistema della disciplina concorsuale, con la dichiarazione di fallimento si apre il concorso sui beni del fallito di tutti (e soltanto) i crediti anteriori alla sentenza di cui all'art. 16 l.fall., con esclusione di quelli maturati successivamente; ciò esclude categoricamente la possibilità di ammettere al passivo un credito, come quello per le spese legali relative alla domanda di insinuazione, maturato in epoca successiva all'apertura del concorso, né può valere in senso contrario la considerazione del suo collegamento logico-funzionale con il credito principale fatto valere con l'istanza di ammissione al passivo, poiché proprio ai sensi dell'art. 93 l.fall. la difesa tecnica non costituisce un elemento essenziale del ricorso per insinuazione; – l'espressa previsione legislativa contenuta nella citata norma..., che non richiede necessariamente la difesa tecnico-legale per la presentazione della domanda di ammissione al passivo rende ancor più evidente che non si tratta di un «accessorio» del credito principale, ma di una mera facoltà concessa alla parte; nel difficile «bilanciamento» degli opposti interessi del fallito, della massa e dei singoli creditori, la Riforma delle procedure concorsuali, allo scopo evidente di non «appesantire» il passivo fallimentare con gli importi relativi alle spese legali (che in ipotesi di credito prelatizio dovrebbero ex art. 2749 c.c. e 54 l.fall. seguirne la sorte e quindi assorbire in ipotesi gran parte dell'attivo), ha quindi confermato il principio della loro estraneità al concorso, potendo (ma non dovendo) il singolo creditore avvalersi di un legale per la presentazione della domanda di insinuazione; in altri termini, essendo la difesa tecnico-legale una mera facoltà e non un obbligo per la parte, dovrà essere il singolo creditore a valutarne la convenienza, sopportandone le relative spese, non ripetibili a scapito della massa... inoltre, in assenza di un espressa norma di legge in senso contrario (come avviene per le spese prededucibili ex art. 111 u.c. l.fall. ...), vige sovrano il principio della «cristallizzazione» dello stato passivo al momento della dichiarazione di fallimento, che non consente l'insinuazione di crediti, come quello per il rimborso della spese legali in questione, sorti successivamente a tale data» (in senso conf., in dottrina, Zoppellari, 1031; Dimundo-Quatraro, 999; Cataldo, 475 ss.; Fabiani, 337).

Diverso è solo il caso del concessionario del servizio della riscossione dei tributi, il quale, infatti — come consentito da molteplici fonti normative (che sul punto derogano al citato principio di «cristallizzazione»), quali l'art. 1 lett. e) l. n. 337/1998, l'art. 17, comma 6, d.lgs. n. 112/1999, gli artt. 87 e ss. d.P.R. n. 602/1973 nonché, infine, il decreto del ministro delle finanze del 21 novembre2009, che fissa la misura del rimborso di dette spese, ha il diritto di insinuare al passivo le spese d'insinuazione (Cass. n. 4861/2010; Cass. n. 7868/2014; Cass. n. 25802/2015, per la quale le spese d'insinuazione al passivo sostenute dall'Agente della riscossione (cd. diritti di insinuazione) rappresentano i costi normativamente forfetizzati di una funzione pubblicistica e, in quanto previste da una disposizione speciale equiordinata rispetto al principio legislativo di eguaglianza sostanziale e di pari accesso al concorso di tutti i creditori di cui agli artt. 51 e 52 l.fall., hanno natura concorsuale e vanno ammesse al passivo fallimentare in ragione di un'applicazione estensiva dell'art. 17 d.lgs. n. 112/1999, che prevede la rimborsabilità delle spese relative alle procedure esecutive individuali, atteso che un trattamento differenziato delle due voci di spesa risulterebbe ingiustificato, potendo la procedura concorsuale fondatamente ritenersi un'esecuzione di carattere generale sull'intero patrimonio del debitore. Il credito per le spese di insinuazione va, peraltro, riconosciuto in via chirografaria e non privilegiata, dovendo escludersi l'inerenza delle stesse al tributo riscosso).

Anche nel giudizio di verificazione opera il divieto di frazionamento del credito in una pluralità di domande di ammissione (così, in dottrina, Sdino, 649).

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 9317/2013, in motiv., ha rilevato che «... le sezioni unite di questa Corte, in relazione ad una ipotesi in cui il creditore aveva chiesto ed ottenuto un distinto decreto ingiuntivo per ogni fattura non pagata (o gruppo di fatture non pagate), ha affermato che «non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale» (massima di Cass. S.U., n. 23726/2007). La citata decisione, peraltro, ha preso in esame la questione della frazionabilità del credito soltanto con riferimento al regime delle spese e non con riferimento «alla statuizione di accoglimento, e di presupposta ammissibilità dell'esame, delle domande di pagamento frazionato del credito, in ordine alla quale non è stata proposta impugnazione incidentale». Certamente, tuttavia, il principio della infrazionabilità del credito è stato affermato anche ai fini della proponibilità della domanda, come si desume sia dall'ampiezza della sua enunciazione sia, soprattutto, dal fatto che le sezioni unite, nell'occasione, hanno precisato di abbandonare il contrario principio già accolto da Cass. S.U., n. 108/2002 che aveva cassato con rinvio una decisione affermativa dell'improponibilità di una domanda di pagamento parziale di un credito con riserva di agire per il residuo...»

La Corte ha, poi, parlato di «forza espansiva del principio di infrazionabilità del credito», ritenendo che lo stesso possa superare l'autonomia dei fatti costitutivi, nell'ambito di un rapporto complesso quale quello di lavoro, ma soltanto se il rapporto si è concluso con la conseguente definizione delle posizioni di debito e di credito ed il creditore, pur mostrando di avere unitaria contezza del proprio credito, dichiari di volere agire soltanto per una parte di esso. «Il principio di infrazionabilità del credito si fonda, infatti, secondo la citata decisione delle sezioni unite n. 23276/2007, da un lato, sulla valorizzazione della regola di correttezza e buona fede (art. 88 c.p.c.) e, dall'altro, sui canoni del giusto processo che rendono la moltiplicazione dei processi inconciliabile con l'obiettivo, costituzionalizzato nell'art. 111 Cost., della «ragionevole durata del processo». Quando, tuttavia, siano distinti i fatti costitutivi delle singole porzioni del credito, solo l'atteggiamento del creditore di consapevole (o di colposa) parcellizzazione di un credito, che lo stesso creditore ritiene (o dovrebbe ritenere) già definito nel suo ammontare complessivo, consente di considerare violati gli obblighi di protezione della controparte processuale implicati dalla regola di correttezza e buona fede e consente di ritenere che la pluralità di giudizi instaurati sia il frutto di un abuso del processo, in contrasto con l'obiettivo della ragionevole durata del processo. Se, invece, il creditore non ha effettuato, senza versare in colpa, una tale unitaria considerazione di distinte voci di credito aventi ciascuna autonomi elementi costitutivi, sia pure nella cornice di un unitario rapporto, non può predicarsi una abusività della condotta del creditore, che legittimamente può anticipare l'azione per quelle voci di credito per le quali non ritiene necessari accertamenti e valutazioni ulteriori. Nella fattispecie in esame, se è vero che al momento della presentazione della domanda tempestiva di insinuazione al passivo il rapporto di lavoro si era concluso, nemmeno è stata prospettata una consapevole o colposa parcellizzazione del credito, che peraltro avrebbe dovuto essere valutata tenendo conto sia dell'esiguità del tempo (dieci giorni) trascorso tra il licenziamento e la domanda tempestiva, sia della natura dei crediti (venter non patitur dilationem), sia del presumibile intento di sfuggire, per la parte azionata tempestivamente, ai limiti nelle ripartizioni dell'attivo previsti per i creditori ammessi tardivamente (art. 112 Legge fall., nel testo anteriore alla riforma)». Di qui la conclusione per cui, in materia di insinuazione al passivo di crediti derivanti da un unico rapporto di lavoro subordinato, il principio di infrazionabilità del credito determina l'inammissibilità della domanda frazionata solamente nel caso in cui il rapporto si sia concluso, con conseguente definizione delle rispettive posizioni di debito e credito, ed il creditore abbia dichiarato, nonostante l'unitaria contezza delle proprie spettanze, di voler agire soltanto per una parte di esse, dovendosi, per contro, ritenere ammissibili una pluralità di domande, ove il creditore non abbia effettuato, senza essere in colpa, una considerazione unitaria di distinte voci di credito, ciascuna con autonomi elementi costitutivi, sia pure nella cornice di un unitario rapporto, restando esclusa, in tal caso, una connotazione di abusività della condotta. In precedenza, invece, la sanzione della violazione del divieto di frazionamento è stata rinvenuta nella compensazione delle spese di lite: Cass. n. 26761/2011, in motiv., estendendo, peraltro, il divieto al caso di distinte pretese creditorie («per retribuzioni relativa ad un determinato segmento temporale del rapporto di lavoro rispetto a quella attinente ad altro segmento»), con conseguente esclusione di qualsiasi «impedimento a richiederne il riconoscimento nell'ambito del rito fallimentare in tempi diversi, salvo ovviamente il regime delle spese in caso di ingiustificato frazionamento della domanda».

Va, tuttavia, segnalato che, di recente, le Sezioni Unite, con la sentenza Cass. S.U., n. 4090/2017, hanno affermato il principio per cui le domande relative a diversi e distinti diritti, pur se conseguenti al medesimo rapporto contrattuale, possono essere proposte in distinti giudizi: tuttavia, se tali diritti, oltre ad essere iscrivibili nel medesimo rapporto contrattuale, sono fondati sul medesimo fatto costitutivo, possono essere azionati in distinti giudizi solo se il creditore non risulti avere un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata.

I vizi del ricorso e le relative sanzioni

L'art. 93 indica espressamente gli effetti che si determinano per il caso in cui i predetti elementi non sono indicati o sono assolutamente incerti.

Se è emessa o è assolutamente incerta l'indicazione della procedura nella quale si intende proporre la domanda ovvero le generalità del ricorrente ovvero i fatti posti a suo fondamento (causa petendi) o la somma o il bene invocati (petitum), il ricorso non è ammissibile.

Si tratta, come è evidente, di vizi che, nel giudizio ordinario, comportano la nullità dell'atto di citazione e sono tendenzialmente sanabili: l'art. 164 c.p.c., infatti, prevede che, in caso di omissione o assoluta incertezza circa i soggetti, l'oggetto e le ragioni della domanda, la conseguenza è la nullità della citazione o del ricorso, con possibilità di sanare il vizio, sia pur con effetti differenti a seconda che il vizio riguardi il nucleo della vocatio in ius (sanatoria ex tunc) o della editio actionis (sanatoria ex nunc).

Nel caso della domanda di ammissione o di rivendicazione/restituzione, invece, la norma ha previsto l'inammissibilità del ricorso.

L'inammissibilità del ricorso, che può essere dichiarata anche di ufficio (Spiotta, 2012; Zanichelli, 215), non preclude, tuttavia, la riproposizione della domanda (art. 96, comma 1, l.fall.). In questa ipotesi, tuttavia, essendo scaduto il termine perentorio di trenta giorni prima dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo, la domanda dovrà essere proposta in via tardiva (Fabiani, 340; Spiotta, 2012; Guizzi, 302).

Non è chiaro, invece, se, a fronte dell'espressa previsione dell'inammissibilità, il ricorrente, a mezzo delle osservazioni al progetto di stato passivo predisposto dal curatore o direttamente in udienza di discussione, possa, o meno, sanare i vizi della domanda, come, ad esempio, la mancata o assolutamente incerta indicazione del titolo posto a fondamento della domanda ovvero del bene rivendicato o della somma insinuata.

La soluzione positiva è stata invocata – quanto meno fino a quando il giudice non abbia formalmente provveduto alla declaratoria di inammissibilità della domanda – sul rilievo che il ricorso non deve essere necessariamente predisposto da un legale ed, in ogni caso, per ragioni di economia processuale: il fatto che la domanda può essere riproposta in via tardiva indurrebbe, infatti, ad optare, nonostante il silenzio della legge sul punto, per l'emendabilità, tanto più che l'art. 164 c.p.c. prevede la correzione dell'atto di citazione nullo o mediante la sanatoria del vizio o la rinnovazione dell'atto nullo, solo escludendo in talune ipotesi l'efficacia ex tunc. A maggior ragione, la correzione del vizio deve ammettersi nella fattispecie in esame, ove il ricorso introduttivo può essere redatto personalmente dalla parte e il procedimento, pur segnato da cadenze, non è equiparabile al processo ordinario: così Bozza, 2011, 1080 ss, 1089; Bozza, 2014, 759 ss.; Dimundo-Quatraro, 1004).

La soluzione negativa è stata, invece, sostenuta sul rilievo che la normativa introdotta dalla riforma ha espressamente previsto tanto la sanzione che consegue a tali vizi, e cioè l'inammissibilità del ricorso (art. 93, coma 4, l.fall.), quanto il rimedio per il caso in cu la domanda è stata dichiarata inammissibile, e cioè la sua riproposizione, anche se in via tardiva (art. 96, comma 1, l.fall.). Ed in tal senso si è espressa la Corte di cassazione (Cass. n. 15702/2011), per la quale, in effetti, la sanzione dell'inammissibilità, che l'art. 93 stabilisce in luogo della nullità prevista per il giudizio ordinario di cognizione, esclude che, nelle ipotesi di omessa o assolutamente incerta indicazione dei requisiti previsti dall'art. 93, comma 3, n. 2 e n. 3, l.fall., possa trovare applicazione il regime di sanatoria e di integrazione dettato dall'art. 164 c.p.c., essendo, peraltro, espressamente prevista la riproponibilità (ovviamente in via tardiva) della domanda dichiarata inammissibile.

Del resto, ove si ritenesse che i vizi attinente al petitum ed alla causa petendi sono suscettibili di sanatoria, l'unico vantaggio sarebbe quello di conservare l'effetto processuale della collocazione della domanda sanata tra quelle tempestive, posto che la sanatoria dei predetti vizi, così come accade nella corrispondente ipotesi dell'art. 164 c.p.c., non potrebbe che operare, sul piano sostanziale (ad es., ai fini dell'interruzione della prescrizione), ex nunc.

L'inammissibilità della domanda resta, comunque, una soluzione estrema, da non adottare, quindi, tutte le volte in cui le lacune della domanda possano essere, anche in via ufficiosa, colmate facendo riferimento all'atto nel suo complesso ed alla documentazione prodotta ovvero a quella che è nella disponibilità del curatore (su quest'ultimo punto, v., in particolare, Nardone, 2010, 1210, 1211).

In caso di declaratoria dell'inammissibilità della domanda proposta, la normativa introdotta con la riforma non ha previsto uno specifico rimedio di tipo impugnatorio.

L'opposizione, infatti, a norma dell'art. 98, comma 2, l.fall., è prevista solo per il caso di rigetto, in tutto o in parte, della domanda, e cioè per ragioni di merito e non anche per vizi del ricorso a carattere formale (Zoppellari, 470; Dimundo-Quatraro, 1006; Valerio, 375).

L'unico rimedio, quindi, è la riproposizione della domanda, anche se in via tardiva (art. 96, comma 1, l.fall).

Se, invece, non è indicata o è assolutamente incerta l'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata, la conseguenza è che le successive comunicazioni si compiono mediante deposito in cancelleria (artt. 36-bis e 93, comma 5, l.fall.).

Il contenuto eventuale del ricorso

Il ricorso contenente la domanda di ammissione al passivo o la domanda di rivendicazione/restituzione, oltre ai requisiti essenziali in precedenza descritti, può avere anche un contenuto meramente eventuale.

Nelle domande di rivendicazione e di restituzione, l'istante, può, nel corso dell'udienza di discussione (ma anche in ricorso, in via subordinata), modificare l'originaria domanda, se il bene non è stato acquisito alla massa, chiedendo l'ammissione (in collocazione chirografaria) per il suo controvalore al momento del fallimento, ovvero, se il curatore ha perduto il possesso del bene dopo averlo acquisito, in prededuzione (art. 103 l.fall.). L'azione di rivendica può, inoltre, convertirsi, in corso di causa, in azione di restituzione, qualora il curatore non contesti la proprietà dedotta dal ricorrente ma si limiti a negare di dover riconsegnare la cosa sulla base di un rapporto giuridico intervenuto con l'attore stesso e, d'altra parte, questi riconosca l'esistenza di tale rapporto, adducendone il successivo venir meno (Cass. n. 1051/1978).

Nelle domande di rivendicazione e di restituzione, infine, il ricorrente, a norma dell'art. 93, comma 8, può chiedere la sospensione della liquidazione del bene oggetto della pretesa fino alla decisione sulla domanda (Fabiani, 337, dove rileva che la norma si spiega perché, con la riforma, l'attività di liquidazione può essere svolta ancor prima che lo stato passivo sia reso esecutivo), con provvedimento che ha natura cautelare ed è impugnabile con reclamo ex art. 26 l.fall. (Fabiani, 337). Qualora il curatore, nel caso di mancata presentazione ovvero di mancato accoglimento dell'istanza di sospensione, proceda alla liquidazione del bene, il rivendicante può richiedere il controvalore in prededuzione, in applicazione del principio applicabile in via generale alle ipotesi di perdita del possesso dopo il fallimento dei beni inventariati dal curatore.

La domanda di ammissione, inoltre, può contenere, ai sensi dell'art. 40, comma 1, l.fall., la disponibilità del creditore ad assumere l'incarico di componente del comitato dei creditori o la segnalazione di altri nominativi aventi i requisiti previsti per rivestire l'incarico (Zanichelli, 217; Nardone, 2010, 1208) ed anche la dichiarazione di volontà di conseguire le somme dai creditori irreperibili, ai sensi dell'art. 117, comma 5, l.fall. (Nardone, 2010, 1208).

La questioni più importanti riguardano, tuttavia, l'indicazione del titolo di prelazione che assiste la pretesa azionata: se si tratta di domande di ammissione di un credito, infatti, il ricorso può contenere l'indicazione del titolo di prelazione che assiste la pretesa azionata.

Il legislatore della riforma ha considerato le eventuali ragioni di prelazione del credito come un elemento costitutivo della causa petendi della domanda di ammissione al passivo: il creditore, quindi, al pari di tutti le altre componenti della fattispecie costitutiva del diritto, non può limitarsi alla generica richiesta di ammissione del credito al passivo con i privilegi spettanti ma ha il preciso onere di specificare la causa o le cause di prelazione che, nelle proposte conclusioni, invoca.

L'art. 93, comma 4, prevede, in effetti che, se tale «requisito» non è indicato oppure è assolutamente incerto, il credito è «considerato» chirografario.

La fattispecie descritta dalla norma, per poter essere distinta da quella in cui il ricorrente chieda semplicemente l'ammissione al passivo in collocazione chirografaria, senza invocare alcuna prelazione, è quella in cui il creditore domandi l'ammissione al passivo in collocazione privilegiata senza, tuttavia, indicare (o indicando in modo assolutamente incerto) il relativo «titolo».

La volontà del creditore di ottenere l'insinuazione al passivo fallimentare del proprio credito con la collocazione ipotecaria non richiede necessariamente un'espressa istanza di riconoscimento della prelazione, quanto meno nei casi in cui essa possa inequivocamente emergere dalle complessive indicazioni contenute nella domanda e dai documenti alla stessa allegati (Cass. n. 19714/2015, la quale — con riferimento ad una domanda d'insinuazione al passivo in cui la ricorrente, nel chiedere l'ammissione al passivo del proprio credito, aveva fatto esplicitamente riferimento alla natura ipotecaria dello stesso, richiamando il contratto di mutuo stipulato con atto notarile e la nota d'iscrizione dell'ipoteca, dei quali aveva anche specificato gli estremi, allegandoli comunque all'istanza — ha ritenuto che, pur in mancanza di conclusioni recanti l'espressa richiesta di riconoscimento della prelazione ipotecaria, gli elementi addotti a sostegno dell'istanza dovessero considerarsi sufficienti ai fini della prospettazione della sua applicabilità, trattandosi di atti dai quali emergeva con chiarezza il titolo del credito e la garanzia che lo assisteva, e dalla cui indicazione poteva quindi desumersi inequivocabilmente la volontà della ricorrente di ottenere l'ammissione al passivo del credito con il grado specificato).

Anche volontà del creditore di ottenere l'insinuazione al passivo fallimentare del proprio credito con la collocazione privilegiata può desumersi, ove manchi un'espressa istanza di riconoscimento della prelazione, dalla chiara esposizione della causa del credito in relazione alla quale essa è richiesta, dovendosi determinare l'oggetto della domanda giudiziale alla stregua delle complessive indicazioni contenute in quest'ultima e dei documenti alla stessa allegati (Cass. n. 17710/2014, che, in forza del suddetto principio, ha cassato la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto l'ammissione al passivo del credito in via chirografaria, negando il riconoscimento del privilegio in virtù della mera assenza di una specifica richiesta in tal senso, e trascurando quindi gli elementi risultanti dall'istanza d'insinuazione tardiva e dalla documentazione ad essa allegata, il cui chiaro riferimento all'oggetto della pretesa, costituito da retribuzioni dovute per prestazioni di lavoro subordinato, era tale da non lasciar residuare alcun dubbio in ordine alla volontà dell'istante di ottenere l'ammissione in via privilegiata, avuto riguardo alla causa del credito fatto valere ed all'insussistenza di incertezze in ordine al tipo di privilegio specificamente applicabile alla fattispecie).

La volontà di conseguire l'ammissione del credito in collocazione privilegiata, del resto, non richiede l'uso di formule sacramentali, risultando sufficiente che dalle indicazioni contenute nel ricorso e dalla documentazione allegata possa evincersi senza incertezze l'intento della parte istante di ottenere l'ammissione al passivo con la collocazione prevista dalla legge in relazione alla causa del credito.

Il ricorso, inoltre, deve contenere la descrizione del bene sul quale la prelazione si esercita, se si tratta di prelazione speciale

L'art. 93 l.fall., nel testo anteriore alla riforma, si limitava a richiedere, ai fini del riconoscimento del privilegio generale o speciale, che il creditore indicasse le ragioni della prelazione (Cass. S.U., n. 16060/2001), tant'è che, anche di recente, la giurisprudenza ha ritenuto che, ai fini dell'ammissione al passivo fallimentare di crediti assistiti da privilegio, la mancata indicazione di tali beni da parte del creditore è priva di rilievo, atteso che l'eventuale mancanza dei beni oggetto di privilegio speciale rileva unicamente nella fase attuativa, come impedimento di fatto all'esercizio del privilegio stesso, sicché la verifica della loro esistenza non è questione da risolvere in fase di accertamento del passivo, ma, attenendo all'ambito dell'accertamento dei limiti di esercitabilità della prelazione, è demandata alla fase del riparto (Cass. n. 10387/2012), risultato, piuttosto, sufficiente che la parte indichi la causa del credito (Cass. n. 6800/2012).

Il legislatore della riforma, discostandosi da tali indicazioni, ha, invece, stabilito che il ricorso deve contenere la «descrizione», e cioè la specifica indicazione del bene sul quale la prelazione si esercita, quando questa ha carattere speciale.

La norma – che, peraltro, non sembra possa trovare applicazione allorquando il privilegio ha ad oggetto beni fungibili, come nel caso dell'indennità dovuta dall'assicuratore (art. 2767 c.c.) — nella parte in cui stabilisce che il ricorso con il quale si propone la domanda di ammissione al passivo deve contenere «l'eventuale indicazione del titolo di prelazione, nonché la descrizione del bene sul quale la prelazione si esercita, se questa ha carattere speciale», non lascia spazio ad una diversa interpretazione: non v'è dubbio, quindi, che nel caso in cui il creditore che ha chiesto il riconoscimento di un privilegio speciale ometta di specificare su quale bene intende esercitare la prelazione, il credito dallo stesso insinuato debba essere ammesso al chirografo (Cass. n. 11656/2016).

La descrizione del bene, peraltro, può essere contenuta, oltre che nel ricorso, nella documentazione allegata (Cass. n. 7287/2013, per la quale l'indicazione del titolo della prelazione e della descrizione del bene sul quale essa si esercita, se questa ha carattere speciale, sancita dall'art. 93, comma 3, n. 4, l.fall., deve essere verificata dal giudice tenendo conto del principio generale secondo cui l'oggetto della domanda si identifica sulla base delle complessive indicazioni contenute in quest'ultima e dei documenti alla stessa allegati).

Analoghi rilievi possono essere fatti, sebbene la norma non ne parli, per la richiesta di riconoscimento della prededucibilità del credito (Nardone, 2010, 1207), la quale, pertanto, non solo non può essere riconosciuta dal giudice in via ufficiosa (Sdino, 649, 650), ma neppure proposta per la prima volta in sede di opposizione allo stato passivo (Cass. n. 5167/2012; Spiotta, 2008).

Si tratta, a questo punto, di stabilire se, prima dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo ma dopo il deposito del progetto da parte del curatore, il creditore possa, o meno, integrare la domanda di ammissione al passivo con la richiesta di privilegio non contenuta nella sua prima formulazione.

Già nel periodo anteriore alla Riforma della legge fallimentare, la Corte di cassazione aveva puntualizzato che, ai sensi dell'art. 93 l.fall., «la domanda di insinuazione al passivo deve indicare non solo il titolo da cui il credito deriva, ma anche le ragioni delle prelazioni, di guisa che, anche questa seconda indicazione... assurge ad elemento costitutivo della causa petendi fatta valere con la suddetta domanda, configurato dal legislatore per fini di tutela della «par condicio» dei creditori concorrenti. Ne consegue che, in prosieguo della procedura concorsuale e segnatamente nel giudizio di opposizione allo stato passivo ex art. 98 della citata Legge Fallimentare non è consentito non solo far valere un credito diverso o di diverso ammontare rispetto a quello specificato con l'istanza di insinuazione, ma neanche addurre una diversa connotazione dello stesso credito, nel senso che, pur avendo il creditore indicato, in detta istanza, trattarsi di credito privilegiato ex art. 2751-bis c.c., n. 3, possa poi sostenere, in sede di opposizione che spetti il diverso connotato della prededuzione per essere il credito sorto durante il periodo di amministrazione controllata che ha preceduto la dichiarazione di fallimento» (Cass. n. 10241/1992).

Il fondamento di tale indirizzo interpretativo era fondato sul rilievo (formulato già da Cass. n. 5751/1990) per il quale non esiste nel nostro ordinamento una generale qualificazione dei crediti privilegiati fondata su un unico presupposto, ma esistono tanti privilegi quante sono le situazioni dalla legge qualificate come tali, ciascuna delle quali ancorate ad un determinato presupposto di fatto, costituente il campo di indagine necessario per il riconoscimento del singolo titolo di prelazione richiesto.

Ed infatti, secondo il dettato dall'art. 2745 c.c., il privilegio è accordato dalla legge in considerazione della causa del credito e l'allegazione, nonché l'accertamento, della singola causa di credito costituisce la causa petendi (ed il campo di indagine singolare e relativo) di ciascuna domanda volta al riconoscimento di un privilegio.

Ne consegue che la deduzione della singola causa di credito di fronte ad un'originaria domanda (sul punto) generica, pur non immutando il petitum, introduce un campo di indagine di fatto del tutto nuovo, tale da incidere sulla novità della domanda rendendola inammissibile nella fase eventuale dell'accertamento del passivo.

A seguito della riforma, la Corte di cassazione (Cass. n. 15702/2011) ha confermato l'orientamento restrittivo, estendendolo, tuttavia, oltre che alla fase eventuale dell'opposizione allo stato passivo, anche a quella necessaria dell'accertamento del passivo da parte del giudice delegato. Secondo la Corte, l'art. 93, nella parte in cui ha espressamente previsto che, in caso di omessa o assolutamente incerta indicazione delle ragioni della prelazione invocata, «il credito è considerato chirografario», ha inteso configurare l'indicazione del privilegio come un elemento costitutivo della causa petendi, la cui modifica, quindi, si configura come una mutatio e non una emendatio libelli (così anche Spiotta, 2013), con la conseguenza che la domanda di insinuazione, formulata senza specifica richiesta del privilegio, non può essere integrata mediante ulteriore atto successivo al deposito, da parte del curatore, dello stato passivo (in senso conf., Cass. n. 4306/2012, secondo la quale «in tema di accertamento del passivo, la domanda di insinuazione presentata senza specifica richiesta del privilegio, non può essere integrata mediante ulteriore atto successivo al deposito, da parte del curatore, dello stato passivo ex art. 95, comma 2, l.fall., configurando tale richiesta, in fattispecie regolata dal d.lgs. n. 169/2007, una mutatio e non una emendatio libelli e derivandone, nella fase sommaria e per la perentorietà dei termini ivi previsti, la considerazione del credito stesso come chirografo; la non sanabilità dell'omissione (o dell'assoluta incertezza) delle ragioni della prelazione implica altresì, da un lato, che lo stesso credito – con la richiesta del privilegio e senza un ritiro della domanda tempestiva – non possa essere insinuato in via tardiva e, dall'altro, il rigetto dell'opposizione allo stato passivo»; Cass. n. 1168/2014).

Per le stesse ragioni, una volta definitivamente ammesso il credito in collocazione chirografaria, è preclusa la formulazione di una successiva domanda tardiva per il riconoscimento di un diritto di prelazione sul medesimo credito, fermo restando che è l'onere del curatore di provare che la domanda tardiva si riferisce ad un credito già insinuato, trattandosi di fatto impeditivo all'ammissione (Cass. n. 14936/2016). In proposito si è affermato che, nel caso di domanda “supertardiva” o “ultratardiva”, il mancato avviso al creditore dell'apertura della procedura concorsuale integra una causa di ritardo non imputabile al creditore; è pertanto onere del commissario dimostrare, ai fini dell'ammissibilità della domanda, che pur in difetto di prova della conoscenza legale, il creditore ha avuto conoscenza effettiva e tempestiva della sentenza dichiarativa e che in tal modo si è realizzato il risultato pratico dell'avviso, irrilevante restando il mero fatto notorio (Cass. I, ord. n. 21760/2022).

Non è necessario, invece, dedurre e tanto meno dimostrare che il bene sia attualmente acquisito al patrimonio fallimentare.

L'ammissione al passivo fallimentare di un credito in via privilegiata non presuppone, infatti, ove si tratti di privilegio speciale su determinati beni, che questi siano già presenti nella massa, non potendosi escludere la loro acquisizione successiva all'attivo fallimentare, ad es., a seguito del vittorioso esperimento di un'azione di recupero o di revoca.

Ne consegue che, in sede di verifica dello stato passivo, è sufficiente l'accertamento dell'esistenza del credito e della correlativa causa di prelazione, dovendosi demandare alla successiva fase del riparto la verifica della sussistenza o meno dei beni stessi, da cui dipende l'effettiva realizzazione del privilegio speciale (Cass. S.U., n. 16060/2001; Cass. n. 6849/2011).

La domanda di ammissione dev'essere, quindi, formulata con richiesta di riconoscimento della prelazione (ad es., il diritto di ipoteca) pur se il bene, che ne è l'oggetto, non fa più parte del patrimonio fallimentare, ad es. perché trasferito dal fallito a terzi prima del fallimento, potendo, in tal caso, chiedere l'ammissione con la relativa prelazione condizionatamente al recupero del bene al patrimonio fallimentare (cfr. Cass. n. 4565/2003, in motiv.; Cass. n. 1816/1994, per cui è possibile comprendere nel concetto di credito condizionalo anche il credito condizionale limitatamente a diritto di prelazione ad esso afferente, quando l'evento, cui è subordinato il riconoscimento del diritto, riguarda non il credito in sé ma la sola prelazione).

Il creditore, in definitiva, una volta ammesso al passivo per il credito, non può chiedere l'ammissione, in via tardiva, per la sola prelazione (Cass. n. 14936/2016), pur se il bene, che ne è l'oggetto, sia stato recuperato solo in seguito.

L'indicazione dei beni, peraltro, non richiede che l'istante deve indicare singolarmente i beni che sono oggetto della prelazione, essendo sufficiente che il creditore fornisca i criteri per la loro individuazione e, quindi, anche per categoria di appartenenza (Cass. n. 334/2004)

A seguito del decreto correttivo del 2007, invece, non è più richiesta l'indicazione del grado invocato.

L'individuazione del grado del diritto di prelazione, infatti, non si presta a valutazioni, discendendo direttamente dalla legge, sicché, una volta individuato il tipo di prelazione in sede di verificazione, le questioni relative alla graduazione dei crediti vanno esaminate in sede di riparto (Cass. n. 27044/2006).

Né è prescritta, a pena di decadenza, l'indicazione degli estremi delle norme di legge che fondano il diritto fatto valere, in base al principio per il quale jura novit curia (Cass. n. 6800/2012).

Sino all'udienza di formazione dello stato passivo il creditore ha la facoltà di precisare e modificare la domanda proposta (Spiotta, 2006).

La domanda di insinuazione o di rivendica/restituzione può essere ritirata sino alla pronuncia del decreto di esecutività dello stato passivo mentre, in seguito, il creditore può rinunciare all'ammissione.

Tanto il ritiro della domanda, quanto la rinuncia all'ammissione al passivo da parte del creditore già ammesso non incidono sul credito azionato e non precludono, quindi, di far valere nuovamente, sia nei confronti del debitore quanto torna in bonis, quanto mediante riproposizione dell'istanza di insinuazione in via tardiva, il diritto sostanziale già dedotto, anche da parte di chi, nelle more, se ne sia reso cessionario (Cass. n. 814/2016).

La rinuncia alla domanda di ammissione non richiede l'accettazione del curatore (Zoppellari, 472; in senso contrario, Fabiani, 339).

I documenti dimostrativi

Il comma 6, infine, prevede che «al ricorso sono allegati i documenti dimostrativi del diritto del creditore ovvero del diritto del terzo che chiede la restituzione o rivendica il bene» (sul punto, v. sub art. 95).

Bibliografia

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