Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 95 - Progetto di stato passivo e udienza di discussione 1 .

Giuseppe Dongiacomo

Progetto di stato passivo e udienza di discussione 1.

 

Il curatore esamina le domande di cui all'articolo 93 e predispone elenchi separati dei creditori e dei titolari di diritti su beni mobili e immobili di proprietà o in possesso del fallito, rassegnando per ciascuno le sue motivate conclusioni. Il curatore può eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, nonché l'inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione.

Il curatore deposita il progetto di stato passivo corredato dalle relative domande nella cancelleria del tribunale almeno quindici giorni prima dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo e nello stesso termine lo trasmette ai creditori e ai titolari di diritti sui beni all'indirizzo indicato nella domanda di ammissione al passivo. I creditori, i titolari di diritti sui beni ed il fallito possono esaminare il progetto e presentare al curatore, con le modalita' indicate dall'articolo 93, secondo comma, osservazioni scritte e documenti integrativi fino a cinque giorni prima dell'udienza2.

All'udienza fissata per l'esame dello stato passivo, il giudice delegato, anche in assenza delle parti, decide su ciascuna domanda, nei limiti delle conclusioni formulate ed avuto riguardo alle eccezioni del curatore, a quelle rilevabili d'ufficio ed a quelle formulate dagli altri interessati. Il giudice delegato può procedere ad atti di istruzione su richiesta delle parti, compatibilmente con le esigenze di speditezza del procedimento. In relazione al numero dei creditori e alla entita' del passivo, il giudice delegato puo' stabilire che l'udienza sia svolta in via telematica con modalita' idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione dei creditori, anche utilizzando le strutture informatiche messe a disposizione della procedura da soggetti terzi3.

Il fallito può chiedere di essere sentito.

Delle operazioni si redige processo verbale.

[1] Articolo sostituito dall'articolo 80 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

[2] Comma sostituito dall'articolo 6, comma 2, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007 e dall' articolo 17, comma 1, lettera f), del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179. Per l'applicazione del presente comma vedi quanto disposto dai commi 4 e 5 del medesimo articolo 17.

[3] Comma modificato dall'articolo 6, comma 1, lettera b), del D.L. 3 maggio 2016, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 giugno 2016, n. 119 .

Inquadramento

Il curatore deve predisporre elenchi separati dei creditori e dei titolari di diritti su beni mobili e immobili di proprietà o in possesso del fallito.

Nella disciplina introdotta dalla riforma, quindi, sembra assumere un ruolo rilevante la norma – nel passato per lo più disattesa — prevista dall'art. 89 l.fall.

Sul punto, la relazione al d.lgs. n. 5/2006 si limita a ribadire che la disposizione ora richiamata impone al curatore di compiere una analisi prodromica all'accertamento dei crediti, ossia la redazione di un analitico elenco dei creditori, che indichi anche i rispettivi importi e le eventuali cause di prelazione.

Nella pratica, tuttavia, la norma sembra destinata a non trovare una reale applicazione: essa, infatti, presuppone che al curatore venga consegnata una contabilità ordinata dalla quale si possa, ad esempio, evincere l'ammontare e l'origine dei crediti, laddove, come è noto, nella maggior parte dei casi, la documentazione contabile che il fallito deposito è inattendibile, in tutto o in parte, e, comunque, non è aggiornata al momento della sentenza dichiarativa.

La fase preparatoria: l'esame delle domande

Il curatore, predisposti gli elenchi, procede, quindi, all'esame delle domande di ammissione e di restituzione, verificando, in particolare, se, alla luce delle prove offerte dal ricorrente e della documentazione in suo possesso, la pretesa azionata sussiste effettivamente (ed in quale misura), se è opponibile al fallimento e se, per caso, esistano fatti impeditivi, modificativi o estintivi che ne precludano, in tutto o in parte, il riconoscimento.

Il progetto di stato passivo

Il curatore, all'esito dell'esame delle domande, predispone il progetto di stato passivo.

Nel progetto di stato passivo, il curatore, per ogni domanda, solleva le eccezioni (e cioè deduce i fatti estintivi, modificativi ed impeditivi ovvero l'inefficacia del titolo sul quale è fondato il diritto azionato o la garanzia) e, quindi, formula le sue conseguenti e motivate conclusioni, in termini, di volta in volta, di accoglimento ovvero di rigetto, in tutto o in parte, della domanda nonché di declaratoria di inammissibilità della stessa.

Il progetto di stato passivo, quindi, il contenuto tipico di una comparsa di risposta (pur non potendo contenere atti di chiamata in causa e domande riconvenzionale, perché estranee alla verifica del passivo ed ai suoi scopi).

Il curatore, quindi, non è più un mero collaboratore del giudice delegato ma una vera e propria parte del procedimento, sebbene in funzione non dei suoi interessi né di quelli del fallito o di questo o quel creditore, ma della massa indifferenziata dei creditori, e quindi imparziale, ferma restando, però, che, sul piano sostanziale, il curatore non agisce quale avente causa o sostituto del fallito ma in posizione di terzietà rispetto ai rapporti dedotti in giudizio, con tutte le conseguenze in tema di opponibilità degli atti compiuti dal fallito e di certezza della data apposta alle scritture private ex art. 2704 c.c.: ed in effetti, come si vedrà di qui a poco, il curatore, quale parte formale del procedimento, ha gli oneri conseguenti alla necessità di sollevare eccezioni rimesse alla volontà delle parti, come la prescrizione dei diritti azionati, mentre, come terzo, può sollevare eccezioni che il fallito non poteva sollevare, come la revoca o l'opponibilità degli atti o delle garanzie, o che il fallito non ha interesse a sollevare, come il difetto di una prelazione.

Non a caso, si discute se, proprio in forza di tale contenuto, il curatore, nell'esaminare le domande e nel presentare il progetto, possa (o addirittura debba) munirsi di un difensore (ed, in caso positivo, quale sia il suo compenso) o, quanto meno, di un consulente, per assisterlo nella redazione dell'atto nella situazioni di particolare complessità (in quest'ultimo senso, Lamanna, 361).

Le eccezioni che il curatore può (anzi, deve, con la conseguenza che, in difetto, può essere revocato o sostituito, oltre a poter essere chiamato a rispondere dei danni: cfr. in tema Ferri, 1072 ss.; Spiotta, 2015, nt. 167) possono riguardare sia i profili processuali (Spiotta, 2018), che il merito della domanda proposta, e, sotto quest'ultimo profilo, consistono nella deduzione in giudizio dei fatti estintivi, modificativi ed impeditivi del diritto fatto valere (art. 2697, comma 2, c.c.), tanto se rilevabili di ufficio, come la nullità del contratto invocato a fondamento della domanda o il pagamento del debito (cd. eccezioni in senso lato), quanto se rilevabili solo su eccezione di parte, come la prescrizione, la revocabilità del titolo o della garanzia, ecc. (cd. eccezioni in senso stretto).

Quanto alle eccezioni processuali, il curatore può dedurre l'inammissibilità della domanda, come nel caso di difetto (o assoluta incertezza) dei requisiti previsti dall'art. 93, comma 3, n. 1, 2 e 3, l.fall., ovvero la sua tardività, perché proposta oltre il termine stabilito dall'art. 101, comma 1, l.fall., ovvero il difetto (o l'assoluta incertezza) del requisito previsto dall'art. 93, comma 3, n. 4, l.fall.

Quanto alle eccezioni di merito, il curatore può dedurre, per impedire l'ammissione di un credito o di un diritto, tutti i fatti estintivi, modificativi ed impeditivi a tal fine utili o rilevanti, come il pagamento del debito, la prescrizione del diritto, l'inesistenza o la nullità del titolo, la simulazione, la rescindibilità, l'annullabilità, la risoluzione del contratto, l'eccezione di inadempimento del contratto ex art. 1460 c.c., la compensazione, l'inefficacia o la revocabilità dell'atto o della garanzia ex artt. 64 ss. l.fall. ovvero l'inopponibilità dell'atto o della garanzia ex art. 44 e 45 l.fall. ed, in generale, le preclusioni previste dagli artt. 2913 e 2914 c.c., prima fra tutte l'eccezione di opponibilità delle cessioni di credito non notificate al debitore ceduto a norma dell'art. 2914, n. 2 c.c.

Il curatore, peraltro, può sollevare non solo le eccezioni che avrebbe potuto sollevare il fallito, come il pagamento, la prescrizione, ecc., ma anche le eccezioni che il fallito non avrebbe potuto sollevare, quali la revoca o l'inopponibilità degli atti o delle garanzie, o che il fallito non avrebbe avuto interesse a sollevare, come il difetto di un diritto di prelazione.

Molte eccezioni di merito, peraltro, richiedono la collaborazione del debitore (o del legale rappresentante della società fallita), come quelle che ineriscono alla veridicità del titolo o alla falsità della relativa sottoscrizione, ai vizi del consenso di un contratto o alla vessatorietà delle clausole che lo compongono, alla sussistenza di vizi e difetti che comportino il venir meno dell'obbligazione azionata dal creditore (con la relativa tempestiva denunzia, che dovrà essere dedotta e provata dal curatore), ecc..

Spetta, poi, al curatore, onde poter paralizzare la domanda di ammissione di crediti in prededuzione, anche l'eccezione di difetto o vizio nell'autorizzazione prevista dall'art. 167 l.fall. per l'atto compiuto nel corso di una procedura concorsuale minore che abbia preceduto il fallimento.

L'art. 95, comma 1, espressamente prevede che il curatore può eccepire i fatti estintivi, modificativi ed impeditivi del diritto fatto valere dal ricorrente e l'inefficacia del titolo o della garanzia anche le relativa azione si è prescritta.

La norma, in realtà, non trova applicazione nei casi: di eccezione inesistenza, nullità o simulazione del titolo posto a fondamento della domanda, perché le relative azioni sono imprescrittibili; di eccezione di annullabilità del titolo posto a fondamento della domanda, visto che la norma dell'art. 1442, comma 4, c.c. già prevede la possibilità di sollevare senza limiti di tempo l'eccezione di annullamento del contratto pur se l'azione si sia prescritta; di eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., del pari ritenuta proponibile dal curatore indipendentemente dall'intervenuta prescrizione dell'azione di risoluzione del contratto per inadempimento dell'altra parte, per paralizzare una domanda di ammissione al passivo di un credito fondato su un contratto al quale il ricorrente era inadempiente.

La norma, piuttosto, si applica nei casi di eccezione di rescindibilità e, soprattutto, di revocabilità del contratto (cd. revocatoria breve) posto a fondamento della domanda (Nardone, 2006, 542)

In entrambi i casi, infatti, la possibilità del curatore di paralizzare la pretesa azionata facendo valere, in via di eccezione, la rescindibilità e la revocabilità del contratto dedotto dal ricorrente, sarebbe preclusa, in via generale, dal fatto che le relative eccezioni si prescrivono nello stesso termine in cui si prescrivono l'azione di rescissione (art. 1449, comma 2, c.c.) e l'azione revoca, come ritenuto, pur in mancanza di una norma espressa, dalla giurisprudenza di legittimità: ed infatti, prima della riforma, si è ritenuto che, una volta decorso il termine di prescrizione per l'esercizio dell'azione revocatoria, non è più consentito al curatore di sollevare l'eccezione per contestare l'ammissione del credito o della garanzia (Cass. n. 1635/1998, che ha, infatti, ritenuto non condivisibile la tesi che considera la regola posta dall'art. 1442, comma 4, c.c., per cui «l'annullabilità può essere opposta dalla parte convenuta per l'esecuzione del contratto, anche se è prescritta l'azione per farla valere», come espressione di un principio generale, ribadendo l'interpretazione secondo la quale il principio temporalia ad agendum erpetua ad excipendum, è espressione di una norma singolare, che, se è suscettibile di interpretazione estensiva nell'ambito delle azioni di annullamento, è, invece, inapplicabile, in via analogica, alle azioni revocatorie).

Nel primo caso, la nuova norma dell'art. 95, comma 1, costituisce, in sede fallimentare, una vera e propria deroga rispetto al diverso principio fissato dall'art. 1449 c.c..

Nel secondo caso, la predetta norma estende all'azione revocatoria, ove proposta dal curatore, e, quindi, con riguardo tanto all'azione revocatoria ordinaria (art. 66 l.fall.), quanto all'azione revocatoria fallimentare (art. 67 ss. l.fall.), il principio della imprescrittibilità dell'eccezione già stabilito dall'art. 1442 c.c. in materia di azione di annullamento (Nardone, 2006, 542).

In definitiva, se un diritto o una garanzia sono fondati su un contratto rescindibile o revocabile (in sede ordinaria o fallimentare), il curatore può eccepire l'inefficacia verso la massa del titolo anche se è decorso, rispettivamente, il termine di un anno dal contratto (art. 1449 c.c.) ovvero i termini (di tre anni dalla dichiarazione di fallimento e di cinque anni dal compimento dell'atto) previsti — sia pur in termini di decadenza (Pagni, 356; in senso contrario, tuttavia, Rosapepe, 896, per il quale, invece, se l'art. 69-bis l.fall. prevede un'ipotesi di decadenza, il decorso di tale termine escluderebbe la proponibilità dell'eccezione di inefficacia da parte del curatore; così anche Nardone, 2010, 1227, 1228) — dall'art. 69-bis l.fall., che si applica non solo all'azione revocatoria fallimentare, ma anche all'azione revocatoria ordinaria esperita in sede fallimentare, senza essere costretto ad agire in giudizio con l'azione di rescissione ovvero di revoca (Spiotta, 2017).

La norma, poi, trova applicazione anche all'eccezione di compensazione. L'art. 1242 c.c. prevede che la compensazione estingue i crediti contrapposti dal momento della loro coesistenza e che, se in tale momento non è maturata la prescrizione, la successiva prescrizione di uno dei crediti non impedisce la compensazione: ciò comporta, quindi, che se al momento della coesistenza dei crediti contrapposti uno dei due era già prescritto, l'eccezione di compensazione non è proponibile. Con la norma in esame, invece, tale preclusione sembra superata: il curatore, quindi, può eccepire la compensazione facendo valere un credito del fallito già prescritto al momento della coesistenza con il credito azionato con la domanda di ammissione (Nardone, 2010, 1228).

Naturalmente, se il giudice delegato accoglie l'eccezione di rescissione, revoca o di compensazione, la relativa decisione (che, ovviamente, non pronuncia la rescissione né la revoca né la compensazione, limitandosi alla mera esclusione, in tutto o in parte, del credito o della garanzia: Cass. n. 26504/2013) ha una valenza esclusivamente endofallimentare: chiuso il fallimento e riproposta in via ordinaria la pretesa (non ammessa per l'accoglimento di eccezioni «prescritte»), il fallito non potrà avvalersene trovando applicazione il regime ordinario (Nardone, 2006, 1228).

Il curatore, naturalmente, può anche non contestare i fatti posti a fondamento delle domande, nel senso che non contesta la verità storica dei fatti dedotti (sul punto, v. infra) così come può contestare la verificazione storica dei fatti allegati dal ricorrente ovvero la correttezza della loro qualificazione giuridica.

Il deposito del progetto di stato passivo e la sua trasmissione ai creditori e ai titolari di diritti sui beni

L'art. 95, al comma 2, prevede che il curatore, una volta redatto il progetto di stato passivo, lo deposita nella cancelleria del tribunale, corredato dalle relative domande, almeno quindici giorni prima dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo e, nello stesso termine, lo trasmette ai creditori e ai titolari di diritti sui beni all'indirizzo indicato nella domanda di ammissione al passivo. I creditori e i titolari di diritti sui beni, oltre al fallito, possono esaminare il progetto di stato passivo e presentare al curatore, nei modi indicati dall'art. 93, comma 2, osservazioni scritte e documenti integrativi, fino a cinque giorni prima dell'udienza.

La norma, nella stesura immediatamente successiva alla riforma del 2006, disponeva che, da un lato, il curatore, dopo aver depositato il progetto di stato passivo, desse avviso del deposito ai creditori ed ai titolari di diritti sui beni, nonché al fallito, e, dall'altro lato, che questi potessero prendere visione del progetto e presentare osservazioni scritte fino a cinque giorni prima dell'udienza.

Il decreto correttivo aveva, tuttavia, rimosso la comunicazione ai creditori dell'avvenuto deposito del progetto di stato passivo, prevedendo che i creditori, i titolari di diritti sui beni, nonché il fallito potevano esaminare il progetto e presentare osservazioni scritte, insieme agli eventuali documenti integrativi, fino all'udienza.

Il d.l. n. 179/2012, conv. con l. n. 221/2012, ha, infine ulteriormente modificato la norma, ripristinando, almeno in parte, il testo iniziale, nel senso cioè che:

- il curatore deposita il progetto di stato passivo nella cancelleria del tribunale, corredato dalle relative domande, almeno quindici giorni prima dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo;

- lo trasmette, nel medesimo termine, ai creditori e ai titolari di diritti sui beni all'indirizzo indicato nella domanda di ammissione al passivo;

- i creditori, i titolari di diritti sui beni ed il fallito possono esaminare il progetto di stato passivo e presentare al curatore, nei modi indicati dall'art. 93, comma 2, osservazioni scritte e documenti integrativi, fino a cinque giorni prima dell'udienza.

Le osservazioni al progetto di stato passivo

Il creditore ha la facoltà di formulare osservazioni allo stato passivo predisposto e comunicato dal curatore: dapprima, fino all'udienza, e poi, nella versione in vigore, fino a cinque giorni prima dell'udienza (deve escludersi, quindi, che le osservazioni possano essere proposte, in forma orale, in udienza, comprese, come detto, quelle di rinvio, fino all'ultima, ed ivi verbalizzate: in tal senso, Bozza, 2007, 1053 ss., 1058).

Si discute se il creditore abbia non solo la facoltà ma addirittura l'onere di presentare le osservazioni, con la conseguenza che, in difetto, qualora il giudice si limiti a recepire nel decreto che ammette o esclude il credito le indicazioni del curatore, il creditore perderebbe il diritto di spiegare opposizione ai sensi dell'art. 98 l.fall. (in tal senso, Trib. Aosta 18 novembre 2008, in Fall. 2009, 698).

La giurisprudenza di legittimità ha, tuttavia, aderito alla soluzione negativa: la mancata presentazione da parte del creditore di tempestive osservazioni al progetto di stato passivo predisposto dal curatore non comporta, infatti, acquiescenza alla proposta e conseguente decadenza dalla possibilità di proporre opposizione, non potendo trovare applicazione l'art. 329 c.p.c., rispetto ad un provvedimento non ancora emesso.

Inoltre, l'art. 95, comma 2, nel testo introdotto con il decreto correttivo del 2007, prevede che i creditori possano esaminare il progetto, senza, tuttavia, porre a loro carico un onere di replica alle difese ed alle eccezioni del curatore (Cass. n. 5659/2012, in motiv.; conf. Cass. n. 19937/2017).

Escluso, quindi, che la norma in esame ponga a carico del creditore l'onere, nel termine fissato, di replicare alla difese ed alle eccezioni del curatore, deve, conseguentemente, escludersi che il termine predetto sia deputato alla definitiva e non più emendabile individuazione delle questioni controverse che riguardano la domanda di ammissione (Cass. n. 5659/2012; conf., Cass. n. 20583/2013; Cass. n. 27124/2014; Trib. Udine 21 maggio 2010, in Fall. 2011, 365; Trib. Treviso 4 febbraio 2009, in Fall. 2009, 693; in dottrina, Spiotta, 2020, 2021).

La stessa conclusione vale per il curatore: il progetto di stato passivo deve contenere la deduzione di tutte le eccezioni ma, in mancanza di una norma che espressamente sanzioni con la decadenza dal relativo potere l'inosservanza del termine di quindici giorni fissato per il deposito del progetto di stato passivo, deve ritenersi che il curatore non perde il potere di sollevare eccezioni e difese che non siano contenute in quel progetto (Cass. n. 8246/2013, per la quale il curatore, alla stregua di quanto specificamente sancito dall'art. 99, comma 7, l.fall., può proporre nel successivo giudizio di opposizione quelle eccezioni che non abbia sollevato in sede di verifica: cosi statuendo, la S.C. ha confermato, sul punto, il provvedimento impugnato, rilevando che il curatore, costituendosi nel giudizio di opposizione, aveva sostenuto che la rettifica dello stato passivo era derivata da una sua eccezione di revocabilità della garanzia ipotecaria invocata dal creditore, ancorché non risultante dalla statuizione del giudice delegato).

Del resto, come è stato giustamente osservato (Bozza, 2011, 1080 ss.) il contraddittorio nel procedimento di accertamento del passivo non è quello tecnico-giuridico che si attua nel processo ordinario, basato sulla individualità del rapporto ed in cui l'intervento di terzi è episodico e formalizzato, ma è quello che si attua tra i creditori nell'udienza di verifica, che costituisce il luogo e il momento della partecipazione di tutti i creditori, i quali, una volta presentata la domanda di insinuazione, hanno la legittimazione ad interloquire sulle posizioni altrui dal cui accoglimento potrebbero essere danneggiati.

La definitiva determinazione della materia del contendere si realizza solo all'udienza fissata per l'esame dello stato passivo (ed in quelle successivamente fissate a seguito di rinvio): non prima.

Tale disciplina non appare coerente con l'esigenza di concentrazione dei tempi della verifica che, al contrario, onde assicurare il pieno contraddittorio tra le parti, può notevolmente dilatarsi nel tempo.

Risponde, però, alla logica di determinare la piena e definitiva formazione della materia del contendere già in sede di giudizio di verifica tempestiva, evitandone il differimento alla fase delle impugnazioni.

In definitiva, in mancanza di indicazioni normative che possano deporre chiaramente in senso contrario, è l'udienza di discussione il momento (finale) per il pieno dispiegamento del contraddittorio incrociato tra tutte le parti del procedimento (Spiotta, 2020), in modo da consentire a ciascuna parte non solo di replicare al curatore ed agli altri ricorrenti, ma anche di sollevare le eccezioni di cui non poteva avere avuto consapevolezze e contezza se non avendo riguardo alle allegazione altrui.

Ciò significa, in sostanza, che i ricorrenti possono, con le osservazioni ovvero in udienza, oltre che precisare e modificare la domanda proposta (come, del resto, espressamente consentito dall'art. 103, comma 1, in fine, l.fall.), anche replicare alle eccezioni sollevate dal curatore (ad es., l'esatta decorrenza di un termine di prescrizione).

Il curatore, dal suo canto, può, fino all'udienza, oltre che modificare le conclusioni rese nel progetto di stato passivo, non solo per un personale ripensamento, ma anche perché può condividere le osservazioni presentate dal ricorrente (Cass. n. 5659/2012, in motiv.), anche replicare alle eccezioni sollevate dai ricorrenti, modificare, precisare ed integrare le eccezioni già sollevate (Spiotta, 2020) ed, infine, sollevare le eccezioni nuove o diverse o che siano conseguenza di quelle dedotte dai ricorrenti (ma non anche proporre domande riconvenzionali: Cass. n. 6900/2010).

Gli stessi ricorrenti, infine, possono sollevare le eccezioni che siano conseguenza di quelle sollevate dal curatore (ad es., interruzione della prescrizione) e le eccezioni (che il curatore non ha sollevato), anche se non rilevabili d'ufficio (Bozza, 2011, 1080 ss.), sempre che ne abbiano l'interesse, volte a paralizzare le pretese o i diritti azionati da altri (ad es., la prescrizione del diritto ex art. 2939 c.c., l'inopponibilità o la revoca dell'atto o della garanzia: su quest'ultimo punto, Cass. n. 4959/2013, per la quale, posto che il creditore che impugni lo stato passivo del fallimento può esercitare tutte le azioni volte ad escludere o postergare i crediti ammessi, ivi compresa l'azione revocatoria, in quanto portatore non solo del proprio interesse, ma anche di quello degli altri creditori, deve a maggior ragione essergli consentito, in sede di verifica, di contestare, eccependone la revocabilità, il titolo di prelazione di un credito di cui sia domandata l'insinuazione, e il giudice delegato è tenuto, ai sensi dell'art. 95, comma 3, l.fall., a decidere su detta eccezione; conf., Cass. n. 4524/2015; Pagni, 359, 360; in senso contrario, in precedenza, Cass. n. 25323/2011), nonché precisare, modificare ed integrare le eccezioni già formulate in precedenza (in sede di osservazione o in udienza).

In sede osservazioni scritte e/o in udienza, il curatore e, ove interessati, i ricorrenti (e forse il fallito) possono, quindi, possono sollevare tutte le difese volte a paralizzare, in tutto o in parte, le pretese e i diritti azionati: e quindi non solo mere difese ed eccezioni rilevabili di ufficio, ma anche eccezioni in senso stretto, rimesse cioè all'iniziativa dell'interessato e non rilevabili di ufficio (Nardone, 2010, 1232).

Al contraddittorio incrociato può partecipare anche il fallito, il quale, infatti, a norma dell'art. 95, commi 2 e 4, può presentare «osservazioni» al progetto di stato passivo del curatore e «chiedere di essere sentito», tanto dal solo giudice delegato o dal curatore, come era in passato previsto dall'art. 95 al momento della formazione del progetto di stato passivo, quanto in udienza, alla quale, comunque, ha il diritto di partecipare (Spiotta, 2023, 2024).

Non è chiaro, peraltro, se se il fallito sia vera e propria parte del procedimento di verificazione e, come tale, legittimato a sollevare eccezioni in proprio, e cioè anche se non sollevate dal curatore (in tal senso potrebbe deporre il riferimento, contenuto nell'art. 95, comma 2, al fallito quale legittimato ad esaminare il progetto di stato passivo ed presentare osservazioni ad esso), potendosi al più discutere se il fallito possa sollevare solo le eccezioni che avrebbe potuto sollevare in sede ordinaria, come la prescrizione, o anche quelle proprie del curatore, come la revoca dell'atto o di una garanzia, ovvero, al contrario, non è parte del giudizio, potendo, quindi, dedurre eccezioni solo per integrare o sollecitare le difese del curatore, che deve farle proprie.

Quest'ultima soluzione sembra, sul piano sistematico, preferibile, se non altro perché – come si vedrà sub art. 96 — l'accertamento svolto dal giudice in sede di verifica non ha efficacia extrafallimentare e ciò proprio perché il fallito non è parte del procedimento e, quindi, destinatario dei relativi effetti preclusivi.

Il fallito, quindi, non essendo parte del giudizio, partecipa all'udienza, come in passato, e, prima ancora, esamina il progetto di stato passivo solo in quanto possibile depositario di informazione a tal fine utili (Spiotta, 2024, che parla di «persona informata dei fatti»), per cui le sue contestazioni od osservazioni non possono avere valore confessorio, avendo perso la disponibilità dei beni, né integrare eccezioni in senso stretto, ma servire solo da supporto alla decisone del giudice.

La disciplina delle prove

Come già osservato sub art. 92, i creditori verso il fallito, e cioè coloro che abbiano acquistato ex art. 1173 c.c. una ragione di credito verso il fallito prima del fallimento (rimasta, ovviamente, in quel momento, in tutto o in parte insoddisfatta), a seguito della sentenza dichiarativa, per realizzare coattivamente la loro pretesa non possono più iniziare o proseguire azioni esecutive individuali sui beni del fallito compresi nel fallimento (art. 51 l.fall.), ma hanno l'onere di far accertare (nelle forme tendenzialmente esclusive del giudizio di verificazione) le loro pretese verso il fallito (cd. concorso formale): solo se (e nella misura in cui) le loro pretese sono state così accertate, infatti, possono, poi partecipare ai riparti dell'attivo ricavato dalla liquidazione operata dagli organi della procedura fallimentare, secondo l'ordine di preferenza stabilito dall'art. 2741 c.c. (cd. concorso sostanziale).

Così, infatti, dispone l'art. 52, comma 2, l.fall., il quale prevede il principio (che non soffre alcuna eccezione, estendendosi anche ai creditori già muniti di sentenza contro il fallito passata in giudicato) per cui tutti i creditori del fallito, anche se muniti di prelazione, per poter partecipare alle ripartizioni dell'attivo, hanno l'onere di proporre domanda per l'accertamento del proprio credito, nonché il principio per cui (salve le eccezioni previste dalla legge) tale accertamento, per poter essere opponibile alla massa, deve essere compiuto nelle forme (esclusive) del giudizio di verificazione previste dagli artt. 92 e ss. l.fall..

La riforma della legge fallimentare, modificando l'art. 52 l.fall., ha ampliato l'ambito di operatività di tali principi (e cioè l'onere di insinuarsi al passivo e l'onere di farlo nelle forme esclusive del giudizio di verificazione), estendendolo, da un lato, ai titolari i diritti reali o personali e mobiliari o immobiliari, su cose che, di volta in volta, sono nella proprietà o nel possesso o nella disponibilità del fallito, acquisite o acquisibili al fallimento (cfr. artt. 89, 92, 103 l.fall.): l'art. 24 l.fall., in effetti, prevede che il tribunale che ha dichiarato il fallimento conosce di tutte le azioni che ne derivano, ivi comprese le azioni reali immobiliari (contro il fallito), in precedenza assoggettate alle regole ordinarie (di competenza e, soprattutto, di rito), e, dall'altro lato, ai titolari di crediti in prededuzione — che subiscono espressamente il divieto di azioni esecutive individuali (art. 51 l.fall.) — ma solo se si tratti di crediti contestati nell'an, nel quantum o nella collocazione, e sempre che siano diversi dai compensi liquidati ai sensi dell'art. 25 l.fall., ad es., in favore dei difensori del curatore: in quest'ultima ipotesi, infatti, in caso di contestazione, l'accertamento è svolto nelle forme previste dall'art. 26 l.fall., e cioè con reclamo al tribunale (art. 111-bis, comma 1, l.fall.).

Nella nuova disciplina, quindi, il giudizio di verificazione ha per oggetto:

1. l'accertamento di tutti i crediti vantati verso il fallito, ivi compresi quelli maturati in occasione o in funzione della procedura fallimentare, onde verificarne l'an, il quantum ed il grado della relativa pretesa: nei soli limiti così stabiliti (e non più suscettibili di ulteriore sindacato, ad es. in sede di reclamo al progetto di riparto), i creditori del fallito possono partecipare ai riparti delle somme ricavate dalla liquidazione del beni del debitore fallito;

2. l'accertamento dei diritti vantati dai terzi sui beni in possesso o nella proprietà del fallito ed acquisiti alla massa, onde accertarne l'an e l'oggetto: solo se e nei limiti così stabiliti, il bene in possesso o nella proprietà del fallito, che appartiene ad un terzo (se del caso a seguito dell'accoglimento dell'azione di impugnazione dell'atto di acquisto in capo al fallito per nullità, annullamento, simulazione, rescissione e risoluzione), può essere escluso dalla massa attiva (la cui liquidazione deve e non può che riguardare i soli beni del fallito, che, a norma dell'art. 2740 c.c., costituiscono la garanzia patrimoniale dei creditori), e solo nei limiti così stabiliti il diritto del terzo sul bene del fallito può essere opposto alla massa (es. diritto di ipoteca su un bene del fallito a garanzia di un credito altrui) ovvero a chi acquisti il bene dal curatore (es. un diritto di servitù su un fondo di proprietà del fallito oppure un diritto personale di godimento su un bene del fallito), nei limiti, ovviamente, in cui le norme sostanziali in tema di vendita forzata lo consentano (es. i diritti di locazione sui beni venduti in sede forzata sono opponibili all'acquirente nei limiti previsti dall'art. 2923 c.c.).

Si tratta, però, di un accertamento che ha un oggetto più ampio e complesso di quello che, sullo stesso diritto, si svolge in sede ordinaria.

Infatti, il giudizio di verificazione non ha solo lo scopo di accertare se il diritto di credito esiste e per quale ammontare, come accade nel giudizio ordinario (ad es. di condanna del debitore inadempiente), ma, più estensivamente, di verificare se ed in che misura il creditore del fallito possa (abbia il diritto di) partecipare, in concorso con (e, quindi, nei confronti de) gli altri creditori secondo l'ordine di graduazione stabilito dall'art. 2741 c.c., alla ripartizione del ricavato della liquidazione dei beni acquisisti alla massa.

Nello stesso modo, il giudizio di verificazione non ha solo lo scopo di accertare se il diritto (reale o personale) alla restituzione del bene appreso alla massa esiste e su quale bene, ma, più ampiamente, se il terzo ha il diritto a sottrarre il bene al fallimento ed alla soddisfazione dei creditori (Dongiacomo, 820).

Ciò si traduce, evidentemente, in una fattispecie costitutiva del diritto azionabile più ampia ed articolata e, correlativamente, in possibili fatti estintivi, modificativi ed impeditivi ulteriori e diversi rispetto al giudizio di accertamento dello stesso diritto in sede ordinaria.

Nel caso dei diritto di credito, il giudizio di verificazione non ha, quindi, semplicemente ad oggetto l'accertamento dell'an e/o del quantum della pretesa verso il fallito (ad es., per effetto di un mutuo contratto dal fallito): a differenza del giudizio ordinario relativo al medesimo diritto fuori del fallimento, l'accertamento svolto in tale procedimento, infatti, deve stabilire (oltre alla sua collocazione chirografaria o privilegiata) anche l'opponibilità del credito alla massa, e cioè, per un verso, la sua certa origine anteriore rispetto alla sentenza di fallimento (essendo, come è noto, inopponibili alla massa i crediti che derivano da atti o fatti compiuti o imputabili al fallito dopo il fallimento ex art. 44 l.fall.) e, per altro verso, il suo fondamento in atti (che, oltre ad essere validi ed efficaci sul piano negoziale, siano anche) efficaci verso i creditori (e cioè atti non riconducibili alle ipotesi previste dagli artt. 64 ss. l.fall.).

Nello stesso modo, se si tratta di diritto (di origine reale o personale) alla restituzione di un bene in possesso o di proprietà del fallito ed appreso alla massa, il giudizio di verificazione non ha per oggetto solo l'accertamento dell'an del diritto e del suo oggetto (ad es., accertando la proprietà del terzo sul bene appreso alla massa ovvero la nullità, l'annullabilità, la simulazione, ecc., dell'atto di acquisto in capo al soggetto poi fallito, con il conseguente diritto alla restituzione), ma anche che tale diritto (fatto salvo, naturalmente, il caso della prededuzione) è stato acquistato dal terzo con un atto o un fatto di sicura origine prefallimentare e che (oltre ad essere privi di vizi genetici e funzionali sul piano negoziale), sia anche efficace verso i creditori ex artt. 64 ss. l.fall.

L'oggetto dell'accertamento del passivo, in definitiva, non è limitato alla verifica della sussistenza del credito nei confronti del fallito, ma deve necessariamente estendersi alla verifica della natura concorsuale della pretesa azionata, e cioè della loro anteriorità rispetto alla dichiarazione di fallimento (Cass. n. 22711/2010, in motiv., per cui «... l'anteriorità del credito...assume i connotati di un elemento costitutivo del diritto di partecipare al concorso e, quindi, alla distribuzione dell'attivo fallimentare...»; in senso contrario, v. Costantino, 74, ritenendo che l'anteriorità del credito sia invece «un fatto negativo che non richiede alcun onere di allegazione»: non sarebbe «ragionevole» sostenere che la anteriorità sia un fatto costitutivo posto che la sua mancanza «può essere correttamente qualificata come fatto impeditivo»): solo così, infatti, il credito è opponibile alla massa dei creditori. Si tratta di un principio che da tempo ha trovato affermazione da parte della giurisprudenza di legittimità, per la quale, infatti, «... la norma che sancisce l'opponibilità ai creditori degli atti compiuti del fallito solo se compiuti prima della dichiarazione di fallimento postula che detti creditori, che sono terzi rispetto ai suddetti atti, vantino una situazione di tutela in base ad un'altra norma, qual è quella dell'art. 52, che dispone che il fallimento apre il concorso dei creditori nel patrimonio del fallito, di guisa che quest'ultima deve essere letta come se dicesse apre il concorso dei creditori anteriori. Fra questi creditori e quelli posteriori al fallimento si crea un conflitto giuridico, il quale emerge in sede di formazione della massa passiva, di opposizione ex art. 98 e di impugnazione ex art. 100...» (Cass. S.U., n. 8879/1990; più di recente, in tal senso Cass. n. 21251/2010).

A tale complessa struttura della fattispecie costitutiva (e dei correlativi fatti estintivi, modificativi ed impeditivi) corrisponde una altrettanto complessa configurazione delle rispettive prove e del relativo onere.

Nel giudizio di verificazione, infatti, a differenza del giudizio ordinario, le prove devono o possono riguardare, oltre ai fatti costitutivi del diritto azionato e la validità negoziale e l'integrità funzionale dell'atto che ne costituisce il fondamento (ed ai corrispondenti fatti estintivi, modificativi ed impeditivi), anche la sua opponibilità ed efficacia verso la massa.

Più precisamente, l'opponibilità alla massa (e cioè la certa origine prefallimentare del diritto) è un elemento della fattispecie costitutiva del credito o del diritto e, come tale, al pari degli altri elementi costitutivi del diritto verso il fallito (es. contratto di mutuo, di lavoro subordinato, fatto illecito, ecc.), deve essere dimostrata, secondo le regole generali (art. 2697, comma 1, c.c.), da chi propone la domanda di accertamento del diritto verso il fallito.

L'inefficacia (ex art. 64 ss. l.fall.) dell'atto (di certo compimento prefallimentare) da cui è sorto il diritto (o la prelazione che lo assiste) può costituire, al pari della deduzione di un vizio genetico o funzionale dell'atto e degli altri fatti impeditivi, modificativi, estintivi (pagamento, rinuncia, prescrizione, transazione, giudicato, ecc.), l'oggetto di un'eccezione (riconvenzionale) del curatore (o, se ritenuti legittimati a farlo, degli altri concorrenti) che può in tutto o in parte paralizzare l'accoglimento della domanda, e che, come tale, secondo le regole generali (art. 2697, comma 2, c.c.), deve essere dimostrata da chi la solleva.

Ne deriva che, nell'ambito di un unico contenitore processuale, da un lato, il titolare della pretesa (creditoria e/o restitutoria) verso il fallito propone la domanda di ammissione del credito ovvero di rivendicazione/restituzione del bene, deducendo in giudizio i relativi fatti costitutivi (ivi compresa, come detto, la certa origine prefallimentare del diritto), con l'onere di fornire le corrispondenti prove, mentre, dall'altro, il curatore (e, forse, gli altri ricorrenti ed il fallito) hanno il potere di sollevare le eccezioni che possono paralizzare le domande proposte dagli altri ricorrenti, deducendo — nei limiti in cui siano ritenuti legittimati a farlo e vi abbiano un interesse concreto — i relativi fatti estintivi, impeditivi e modificativi (ivi compresa, come detto, quale eccezione riconvenzionale, l'inefficacia ex artt. 64 ss l.fall. dell'atto che ne costituisce il fondamento), con l'onere di offrire in giudizio le relative prove.

Si tratta, a questo punto, di esaminare più in dettaglio la disciplina che, in materia di prove, è stata introdotta dalla riforma (e che, a differenza del passato, è dichiaratamente identica sia nel giudizio di verificazione tempestiva che nel giudizio di verifica tardiva: cfr. l'art. 101, comma 2, l.fall.), distinguendo tra le norme che riguardano le prove documentali e le norme che riguardano le prove diverse dai documenti (o prove costituende).

Le prove documentali.

L'art. 93, commi 6 e 7, l.fall., nella versione immediatamente successiva alla riforma, prevedeva che il ricorrente dovesse produrre i documenti «dimostrativi del diritto del creditore ovvero del diritto del terzo che chiede la restituzione o rivendica il bene» (rectius: dei fatti costitutivi del diritto, ivi compresa, come detto, la sua origine in fatti o atti di certo compimento prefallimentare) al momento del deposito del ricorso, allegandoli allo stesso, oppure, a pena di decadenza, fino a quindici giorni prima dell'udienza fissata per l'esame del passivo.

I documenti prodotti oltre quest'ultimo limite, quindi, non erano ammissibili e, quindi, utilizzabili ai fini della decisione sulla relativa domanda.

Si trattava, tuttavia, di una conseguenza chiaramente incompatibile con l'espressa previsione, nella disciplina introdotta dalla riforma, del potere del curatore e degli altri partecipanti di sollevare, in sede di progetto di stato passivo e di osservazioni, contestazioni alle domande proposte, in termini, di volta in volta, di rilievo della mancanza di prova idonea, di contestazione della verità storica dei fatti dedotti ovvero di allegazione di fatti estintivi, modificativi ed impeditivi del diritto azionato.

A fronte di tali poteri (che, come visto, possono estendersi fino all'allegazione di nuovi fatti), infatti, doveva necessariamente ritenersi che i ricorrenti avessero il diritto di replicare e, per l'effetto, produrre, fino all'udienza, ulteriori documenti o, comunque, dedurre nuove prove a dimostrazione dei fatti allegati, in funzione della piena esplicazione del contraddittorio tra tutte le parti del giudizio.

Si pensi, ad es., al caso in cui il curatore, nel progetto di stato passivo, avesse sollevato un'eccezione di prescrizione: il ricorrente, in sede di osservazioni, doveva poter replicare deducendo il fatto della sua interruzione ed offrendone la relativa dimostrazione.

Nello stesso modo, se l'eccezione di prescrizione era sollevata, nelle osservazioni (al progetto di stato passivo) presentate da un creditore concorrente, il ricorrente doveva, a sua volta, poter replicare la sua interruzione in udienza, offrendo la relativa prova.

D'altra parte, la preclusione stabilita dalla norma in esame poteva essere facilmente aggirata o con la presentazione di una domanda tardiva oppure, se la domanda è stata già presentata in via tempestiva, mediante la sua rinuncia (ove ritenuta possibile) e la sua presentazione come domanda tardiva, depositando la relativa documentazione (di fatto, oltre il termine predetto), senza particolari conseguenze se, nelle more, non sono compiute ripartizioni parziali.

Infine, la preclusione non era coordinata con la espressa previsione del potere del ricorrente di chiedere l'ammissione di prove costituende fino all'udienza.

E così, prendendo atto di tali incoerenze, il decreto correttivo ha modificato la disciplina introdotta dalla riforma.

Innanzitutto, ha abrogato il comma 7 dell'art. 93, nella parte in cui prevedeva che i documenti non allegati al ricorso dovevano essere prodotti, a pena di decadenza, nel termine di quindici giorni prima dell'udienza fissata per l'esame delle domande.

In secondo luogo, ha stabilito, nell'art. 95, comma 2, che i ricorrenti possono produrre «documenti integrativi» «fino all'udienza», potendosi intendere come tale sia l'udienza fissata nella sentenza di fallimento, sia l'udienza (tra le molteplici udienze in cui in cui il giudizio di verificazione può articolarsi: v. l'art. 96, comma 3, l.fall.) in cui la domanda viene concretamente esaminata, sia, infine, l'udienza che chiude l'adunanza dei creditori e quindi, di fatto, fino alla pronuncia definitiva sulla domanda contenuta nel del decreto di esecutività (in questo senso, Cass. n. 19697/2009, in motiv., per cui, a seguito del decreto correttivo, «...la produzione di documenti in sede di verifica è consentita senza limiti temporali sino alla pronuncia del giudice delegato sulla domanda di insinuazione del credito»; così anche Bozza, 2006, 1055 e 1057), come è senz'altro preferibile, ben potendo il giudice delegato sempre revocare o modificare i decreti adottati medio tempore, fino alla formale chiusura del giudizio di verificazione.

La norma, infine, è stata ulteriormente modificata.

Il d.l. n. 179/2012, conv. con l. 221/2012, ha, infatti, previsto che i creditori ed i titolari di diritti sui beni ed il fallito possono trasmettere «documenti integrativi» all'indirizzo di posta elettronica certificata del curatore indicato nell'avviso di cui all'articolo 92, comma 2, «fino a cinque giorni prima dell'udienza».

Non si tratta, tuttavia, a differenza di quello stabilito dall'art. 93 nel testo introdotto dalla riforma del 2006, di un termine perentorio né risulta espressamente fissato a pena decadenza (Spiotta, 2014).

Del resto, come in precedenza osservato, i ricorrenti ed il curatore possono dedurre, fino all'udienza, fatti nuovi rispetto a quelli in precedenza dedotti, rispetto ai quali, evidentemente, non può che consentirsi agli stessi di fornire il corrispondente supporto probatorio.

Si tratta, come del resto già nella versione originaria della norma, di una conclusione obbligata in quanto l'unica ad essere costituzionalmente orientata: «...se infatti il creditore incontra il termine di decadenza per la produzione di documenti previsto dall'art. 93, che scade prima che egli sia posto in grado di conoscere le eccezioni sollevate dal curatore, ne deriva che egli deve essere posto in grado di porre in essere quelle produzioni documentali che tali eccezioni abbiano richiesto» (Cass. n. 19697/2009, in motiv.).

I documenti integrativi.

Si discute, tuttavia, sul reale significato da attribuire all'espressione «documenti integrativi» introdotta, nell'art. 95, dal decreto correttivo.

Secondo una prima ricostruzione (Zanichelli, 231, 232; Fabiani, 633 ss, 636; Montanari, 495 ss., 500; Spiotta, 2014), i documenti «dimostrativi» dei fatti costitutivi devono essere «allegati», a pena di decadenza, al ricorso, come depone la norma dell'art. 93, comma 6 (o meglio, trasmessi, unitamente al ricorso, all'indirizzo di posta elettronica certificata del curatore: cfr l'art. 93, comma 2, in fine, che fa espresso riferimento ai «documenti di cui al successivo sesto comma»): i documenti che possono essere prodotti in seguito (dapprima «fino all'udienza» e poi, nella versione in vigore, «fino a cinque giorni prima dell'udienza») sono soltanto i documenti «integrativi», vale a dire i soli documenti che si rendono necessari in ragione delle eccezioni, in termini di deduzione di fatti estintivi, impeditivi e modificativi, sollevate dal curatore in sede di progetto di stato passivo ovvero da un concorrente in sede di osservazioni (come, ad es., la prova del fatto interruttivo a fronte di un'eccezione di prescrizione).

In altra prospettiva (Bozza, 2006, 1053 ss., 1057; Ferri, 1077) invece, ad onta dell'espressione letterale utilizzata dalla norma («documenti integrativi» anziché «documenti giustificativi»), possono essere prodotti (o meglio, trasmessi all'indirizzo di posta elettronica certificata del curatore) fino all'udienza (e, nella versione in vigore, fino a cinque giorni prima) tutti i documenti possibili, e cioè non solo i documenti che si rendono necessari in conseguenza delle eccezioni in senso stretto (in termini di deduzione di fatti estintivi, impeditivi e modificativi) sollevate dal curatore o dagli altri concorrenti, ma anche i documenti rivolti semplicemente alla dimostrazione di tutti i fatti costitutivi del diritto azionato: la cui mancanza (e cioè la mancanza di prova di tutti i fatti costitutivi) ha indotto il curatore a concludere, in termini di mera difesa, e cioè di negazione della verità storica dei fatti costitutivi allegati (o di deduzione della mancanza di prova della loro verità storica), per il rigetto della domanda proposta (come ad es. nel caso di prova integrativa dei fatti costitutivi del credito per trattamento di fine rapporto, quando il rapporto di lavoro subordinato sia stato contestato, nel tempo e/o nei modi, dal curatore).

La seconda opzione sembra preferibile.

Innanzitutto, sul piano letterale, la differente espressione usata dalla legge (documenti dimostrativi e documenti integrativi) può essere ragionevolmente spiegata nel senso che, dopo il deposito del ricorso e fino all'udienza, il ricorrente può produrre, ad integrazione di quelli già prodotti, nuovi ed ulteriori documenti per dimostrare tutti i fatti costitutivi del diritto azionato.

Depone, poi, in tal senso anche l'esigenza di equiparare i tempi di ingresso nel giudizio di verificazione delle prove documentali rispetto a quelle diverse dai documenti, per le quali non è stabilita alcuna differenza tra quelle dimostrative e quelli integrative, e cioè, nella prospettiva in esame, quelle volte a fornire la prova dei fatti allegati in reazione alle eccezioni sollevate dal curatore o dal un concorrente: ed, in effetti, appare singolare che la legge, mentre consente la prova documentale dei fatti costitutivi solo in sede di deposito del ricorso (e neanche più fino a quindici giorni prima dell'adunanza), consente la prova dei medesimi fatti con prove costituende richieste solo in udienza.

Del resto, sul piano pratico, un'interpretazione della norma di tal genere può essere facilmente aggirata o con la presentazione di una domanda tardiva ovvero con la espressa rinuncia alla domanda proposta e la sua riproposizione nelle forme della domanda tardiva: è vero che ciò determina un indubbio allargamento dei tempi del procedimento ma è anche vero che ciò è in qualche modo insito in procedimento nel quale hanno fatto ingresso prove diverse dai documenti.

D'altra parte, solo la piena deduzione già in sede di verifica tempestiva di tutte le prove consente la riduzione del numero e dei tempi delle impugnazioni, che ha costituito altro obiettivo dichiarato della riforma.

Inoltre, la possibilità di produrre nuove prove documentali in sede di opposizione (in tal senso, Cass. n. 19697/2009, in motiv.) sembra deporre nel senso della loro completa deducibilità fino all'udienza di verifica (e, più precisamente, fino all'ultima delle udienze in cui il giudizio può articolarsi), essendo irragionevole non consentire prima (e cioè la produzione di documenti dimostrativi della pretesa) ciò che è possibile fare dopo (e cioè la produzione di quei documenti in sede di opposizione).

Del resto, non si vede perché la possibilità di produzione di documenti integrativi fino all'udienza debba considerarsi consentita solo a fronte di eccezioni del curatore o degli altri concorrenti (in termine di deduzione di fatti estintivi, impeditivi e modificativi) e non anche quando il curatore, limitandosi ad eccepire la mancata prova di tutti i fatti costitutivi della pretesa, e cioè svolgendo una mera difesa, concluda, parimenti, nel senso del rigetto della domanda.

Nello stesso senso, infine, depone la relazione al decreto correttivo, per cui la modica normativa ha espressamente inteso consentire al creditore di depositare, fino all'udienza (oggi, fino a cinque giorni prima dell'udienza), i documenti «resi necessari a seguito delle conclusioni e delle eccezioni sollevate dal curatore».

La produzione dei documenti e le esigenze di speditezza del giudizio di verificazione

La legge, salvo quello temporale (da riferirsi, come detto, all'udienza di discussione), non pone limiti alla produzione (rectius: alla trasmissione all'indirizzo di posta elettronica certificata del curatore) di nuovi documenti nel corso del giudizio.

Al riguardo, si è affermato che i documenti trasmessi dal creditore al curatore tramite posta elettronica certificata e da questo inviati telematicamente alla cancelleria del giudice delegato entrano a fare parte del fascicolo d’ufficio informatico della procedura, ai sensi dell’art. 9, comma 1, del d.m. n. 44 del 2011 (Cass. n. 12548/2017).

Anche per i documenti, peraltro, vale il limite (espressamente previsto per le sole prove costituende) della compatibilità di nuove produzioni con le esigenze di speditezza del procedimento (Cass. n. 19697/2009, in motiv.: «la previsione di una produzione in sede di udienza di verifica non è espressa ed è da ritenere che sia limitata, come per le prove costituende, dalle esigenze di speditezza della procedura...»).

L'ammissione con riserva di produzione del titolo

L'art. 96, comma 3, n. 2, l.fall. prevede l'ammissione con riserva del credito per il quale la mancata produzione del «titolo» dipende da fatto non riferibile al creditore, salvo che la produzione non avvenga nel termine assegnato dal giudice.

La norma fa riferimento al caso in cui il ricorrente, per fatto a lui non imputabile, non è in grado di produrre i documenti né in sede di deposito del ricorso, né in udienza.

Si pensi al caso in cui il ricorrente abbia chiesto l'ammissione al passivo di un credito portato da una cambiale sequestrata ovvero detenuta da una banca e non ancora consegnata (Cass. n. 22847/2016, per cui, in sede di domanda di ammissione al passivo fallimentare, anche il portatore di un titolo di credito che eserciti l'azione causale ha l'onere di produrre il titolo in originale ai sensi dell'art. 66 r.d. n. 1669/1933 e dell'art. 58 r.d. n. 1736/1933, e, in mancanza, il credito verso il traente fallito deve essere ammesso con riserva, essendo la produzione del titolo intesa ad evitare la possibilità di insinuazione da parte di altri creditori in via cambiaria, ovvero ad assicurare al debitore l'esercizio di eventuali azioni cambiarie di regresso).

In tale ipotesi, il ricorrente, fino alla conclusione dell'adunanza dei creditori, può richiedere al giudice delegato di fissare un termine per la produzione del documento mancante.

Se il giudice delegato ritiene che l'impedimento alla produzione del documento sia imputabile al ricorrente, rigetta la domanda di ammissione al passivo (a meno che non ritenga, discrezionalmente, di rinviare l'udienza).

Se invece, il giudice delegato ritiene che effettivamente la mancata produzione del documento non è imputabile al ricorrente, assegna il termine, che, però, dovendo essere contenuto nei limiti dell'adunanza dei creditori, non può che importare il rinvio dell'udienza: se il titolo è prodotto nel termine fissato, il giudice delegato ammette in via definitiva; se, invece, il titolo non è prodotto nel termine fissato, il giudice delegato ammette con riserva della sua produzione.

La norma, quindi, sembra imporre al giudice delegato, nel caso in cui il ricorrente dimostri che l'impedimento alla produzione del documento non gli è imputabile, la sua rimessione in termini, rinviando l'udienza per l'esame della domanda.

Se, invece, l'impedimento alla produzione del documento mancante non è ritenuto inimputabile al ricorrente, il giudice delegato ha solo il potere ma non l'obbligo di rinviare l'udienza.

Peraltro, in caso di mero rinvio dell'udienza, se i documenti mancanti non sono depositati, la domanda deve essere rigettata: nel caso in esame, invece, se il documento mancante non è depositato nel termine concesso (che può essere l'udienza di rinvio), il credito azionato è ammesso al passivo, sia pur con la riserva del documento mancante.

La norma, quindi, a differenza del normale effetto della rimessione in termini (che consente il compimento dell'atto ma non assicura l'accoglimento delle istanze ivi contenute), produce un effetto più ampio, e cioè l'accoglimento della domanda, sia pure con riserva.

Sembra, pertanto, preferibile un'interpretazione restrittiva della norma, ritenendo che la stessa non faccia riferimento a qualsiasi documento probatorio del credito ma solo al documento che, per la sua concludenza, come nel caso del documento che incorpora il diritto o che sia richiesto ad probationem o ad substantiam, ne costituisca il «titolo» (Nardone, 2010, 1242).

In tal senso, in effetti, sembra deporre il fatto che, nella disciplina riformata, una volta prodotto il documento mancante (se del caso a seguito di azione del creditore volta alla materiale consegna del titolo, se il suo diritto sul documento è contestato dal terzo che lo detiene), il giudice delegato deve ammettere la domanda in via definitiva (art. 113-bis l.fall.): non vi è spazio, quindi, per un decreto che, a scioglimento della riserva (di produzione del titolo), sia di rigetto della domanda proposta (a differenza della disciplina previgente, quando l'ammissione con riserva della produzione dei documenti indicati in ricorso implicava la necessità di proporre l'opposizione al passivo per sciogliere la riserva, con conseguente possibilità di un rigetto).

Ciò significa, in concreto, che eventuali contestazioni (in termini ad es. di prescrizione del credito, di inopponibilità del titolo invocato, ecc.) vanno sollevate prima dell'ammissione con la riserva del titolo.

La norma è applicabile, quindi, solo quando non vi è incertezza sull'esistenza effettiva del documento e/o sulla possibilità (astratta) che il creditore possa poi depositarlo, nonché sulla decisività del titolo (documentale) ai fini dell'ammissione.

L'apposizione della riserva prevista dall'art. 96, comma 2, n. 2, l.fall. costituisce un potere officioso del giudice di merito, il quale, pertanto può legittimamente apporre, ove fondata su titoli prodotti in mera copia (nella specie, relativi ad un prestito obbligazionario), la riserva della loro esibizione in originale, pur se l'ammissione con riserva non sia stata richiesta o sia stata richiesta tardivamente (Cass. n. 24449/2015).

I documenti probatori e la terzietà del curatore

La rituale e tempestiva produzione in giudizio, nei modi indicati, del documento non è, però, sufficiente per l'ammissione del diritto.

A parte, ovviamente, i possibili rilievi in termini di insufficienza, inidoneità o non pertinenza rispetto ai fatti da provare, il documento, una volta che sia stato ritualmente e tempestivamente prodotto in giudizio, è idoneo a fornire la prova dei fatti (costitutivi) in esso dimostrati solo se munito di data certa e, più precisamente, di data certamente anteriore rispetto alla sentenza di fallimento.

Solo che il curatore, nel giudizio di verificazione, agisce in qualità di terzo sia rispetto ai creditori del fallito che richiedono l'insinuazione al passivo sia rispetto al fallito stesso, per cui la certezza della data nei suoi confronti va determinata alla luce della norma che, in generale, regola la certezza della data nei confronti dei terzi, e cioè l'art. 2704 c.c. (Cass. n. 24320/2007; Cass. S.U., n. 4213/2013, per la quale in sede di formazione dello stato passivo il curatore deve considerarsi terzo rispetto al rapporto giuridico posto a base della pretesa creditoria fatta valere con l'istanza di ammissione, conseguendone l'applicabilità della disposizione contenuta nell'art. 2704 c.c. e la necessità della certezza della data nelle scritture allegate come prova del credito), la cui mancanza è rilevabile di ufficio (Cass. S.U., n. 4213/2013, per la quale la mancanza di data certa nelle scritture private si configura come fatto impeditivo all'accoglimento della domanda ma, in considerazione della straordinarietà delle eccezioni in senso stretto, che sono soltanto quelle per le quali l'ordinamento prevede espressamente che debbano essere sollevate dalla parte, la sua mancanza non è oggetto di eccezione in senso stretto, per cui, ferma restando la necessità che risulti dagli atti, il giudice delegato può rilevarla d'ufficio; conf. Cass. n. 5069/2017, per la quale, la mancanza di data certa nelle scritture private si configura come fatto impeditivo all'accoglimento della domanda, sicché essa resta oggetto di eccezione in senso lato, in quanto tale rilevabile anche di ufficio dal giudice; Cass. n. 3404/2015; in precedenza, si era dibattuto se attribuire alla data certa il valore di elemento costitutivo del diritto di partecipazione al concorso, la cui prova spettava al creditore, ovvero se configurare la mancanza di data certa come un fatto impeditivo del diritto azionato, nel qual caso si poneva la necessità di stabilire ulteriormente se la deduzione del detto fatto dovesse essere oggetto di eccezione in senso stretto, deducibile soltanto dalla parte, e cioè il curatore, come ritenuto da Cass. n. 20268/2010, o potesse essere qualificata come eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio, come ritenuto da Cass. n. 24432/2011).

Sono, pertanto, inopponibili nei confronti dei creditori concorrenti gli atti e le scritture (ivi compresi i contratti ed i titoli di credito) la cui data anteriore alla dichiarazione del fallimento «non risulti in modo certo, secondo le regole poste dall'art. 2704 c.c., per la cui osservanza — quando non sussista uno dei fatti dalla norma stessa indicati specificamente come idonei a conferire siffatta certezza alla data della scrittura privata non autenticata (registrazione, morte o sopravvenuta impossibilità fisica di uno dei sottoscrittori, riproduzione in un atto pubblico) e debba, invece, apprezzarsi, da parte del giudice, il ricorso ad altri fatti dai quali sia desumibile in modo egualmente certo l'anteriorità della formazione del documento all'evento suddetto — è necessario che tali ultimi fatti abbiano carattere di obbiettività e soprattutto che non possano farsi risalire al soggetto stesso che li invoca e siano sottratti alla sua portata» (così Cass. n. 1016/1993; si veda anche, tra tante, Cass. n. 4646/1997).

Ovviamente, nel caso in cui si tratti soltanto di accertare la anteriorità di un fatto (dedotto quale fonte del credito) documentato senza data certa, la inutilizzabilità della prova documentale non impedisce al creditore di provare altrimenti l'anteriorità del fatto stesso e, quindi, l'opponibilità del credito che ne consegue.

Quando, invece, il documento privo di data certa sia finalizzato a provare un contratto, occorre tenere conto della disciplina normativa del contratto medesimo ed in particolare della sua sottoposizione o meno a requisiti formali.

Nei contratti non formali, per i quali cioè la forma scritta non è richiesta ad substantiam o ad probationem, come nel caso del contratto d'appalto (Cass. n. 16530/2016) o del mandato professionale per l'espletamento di attività di consulenza e, comunque, di attività stragiudiziale (Cass. n. 2319/2016), la mancanza di data certa nella scrittura priva prodotta in giudizio per la relativa dimostrazione non esclude che la prova della stipulazione del contratto (prima del fallimento) — e del suo contenuto — possa essere acquisita aliunde, vale a dire indipendentemente dalla prova della certezza della data sulla scrittura (si veda, in tal senso, Cass. n. 12684/2004, per cui «l'art. 2704 c.c. richiede che la prova dell'anteriorità del contratto venga fornita nel caso in cui lo stesso abbia assunto la forma della scrittura privata, tramite l'autenticazione della sottoscrizione, salva la sussistenza di altre ipotesi in relazione alle quali sia possibile determinare comunque con certezza la data dell'atto — registrazione, morte di una delle parti etc. — ma, al tempo stesso, implicitamente consente che detta prova possa essere fornita con qualsiasi altro mezzo, e quindi anche tramite testimoni, nel caso in cui il contratto sia stato stipulato con forma orale nelle ipotesi in cui ciò è consentito dalla legge»), e cioè, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza, anche con testimoni (Cass. n. 2319/2016, la quale ha osservato come «l'inopponibilità, per difetto di data certa ex art. 2704 c.c., non riguarda il negozio, ma la data della scrittura prodotta, sicché il negozio e la sua stipulazione in data anteriore al fallimento possono essere oggetto di prova, prescindendo dal documento, con tutti gli altri mezzi consentiti dall'ordinamento, salve le limitazioni derivanti dalla natura e dall'oggetto del negozio stesso»).

Se, invece, si tratta di contratti formali (come, ad es., quelli relativi ad operazioni e servizi bancari, a norma dell'art. 117 del d.lgs. n. 385/1993: Trib. Napoli 22 gennaio 2013, in Dir. Fall., 2014, II, 400 ss), la carenza di data certa del documento che lo contiene determina l'inopponibilità al fallimento del contratto medesimo e l'inopponibilità della scrittura, che lo contiene, si traduce nella mancata prova (che deve essere necessariamente scritta) del contratto stesso.

In siffatta ipotesi, quindi, il creditore, per fornire la prova del contratto stipulato con il fallito, non può limitarsi a dimostrare la stipulazione del contratto prima del fallimento ma ha l'onere di dimostrare, nei modi previsti dall'art. 2704 c.c., la data certa del documento che (necessariamente) lo contiene, fornendo (evidentemente in mancanza di autenticazione, registrazione, ecc.) la prova di fatti tali che, per provenienza, obbiettività e specificità, sono tali da consentire di stabilire in modo egualmente certo l'anteriorità della formazione del documento contrattuale rispetto alla dichiarazione di fallimento e, quindi, la sua opponibilità alla massa dei creditori.

In base all'art. 2704 c.c., hanno data certa gli atti pubblici e le scritture private autenticate.

La data delle scritture private non autenticate è certa da giorno della loro registrazione ovvero dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in atti pubblici, dalla morte o dalla sopravvenuta impossibilità fisica del sottoscrittore ovvero dalla verificazione di ogni altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l'anteriorità della formazione del documento rispetto alla dichiarazione di fallimento. Si pensi, ad es., alla riproduzione della scrittura in un ricorso per decreto ingiuntivo depositato prima del fallimento ovvero nello stesso ricorso di fallimento ovvero in un atto di precetto notificato prima del fallimento, oppure l'annotazione della scrittura nei registri contabili del ricorrente in epoca anteriore alla sua vidimazione di chiusura, l'annotazione del rapporto di locazione finanziaria sul libretto di circolazione.

In generale, ove sia dedotto un fatto diverso da quelli tipizzati nell'art. 2704 c.c. (registrazione, morte o sopravvenuta impossibilità fisica di uno dei sottoscrittori, riproduzione in un atto pubblico), il giudice di merito ha il compito di valutarne, caso per caso, la sussistenza e l'idoneità a stabilire la certezza della data del documento, con il limite del carattere obiettivo del fatto, il quale non deve essere riconducibile al soggetto che lo invoca e deve essere, altresì, sottratto alla sua disponibilità (Cass. n. 18938/2016).

Non sono ritenuti, invece, utilizzabili al medesimo fine né l'annullamento da parte dell'ufficio del registro delle marche da bollo apposte sulle cambiali, né la data apposta dalla banca al momento del ricevimento del titolo dall'ultimo portatore per l'incasso, né il bollo postale, che è apposto sul foglio e garantisce la sua certa apposizione prima del fallimento ma non anche che sia certamente anteriore rispetto al fallimento la trascrizione su quel foglio del negozio invocato a sostegno della domanda, in mancanza di un dovere da parte dell'ufficiale postale di controllare il contenuto del foglio, che potrebbe essere bianco o solo parzialmente compilato.

La terzietà del curatore esclude, poi, che possano essere utilmente invocate, in sede di verifica, le norme previste dagli artt. 2709 e 2710 c.c., in tema di efficacia probatoria dei libri e scritture contabili tra gli imprenditori (Cass. n. 14054/2015), e dall'art. 1832 c.c., in tema di approvazione tacita degli estratti del conto corrente (ad es., bancario) trasmessi al correntista e non contestati nel termine (Cass. n. 6465/2001; Cass. n. 1543/2006; Zanichelli, 225 ss.).

I documenti quali prove dei fatti dedotti come eccezioni.

La legge solo in parte detta una disciplina espressa in ordine alla produzione dei documenti quali prove non già dei fatti costitutivi del diritto del creditore ma dei fatti impeditivi, estintivi o modificativi (eventualmente) eccepiti dal curatore o dagli altri concorrenti, ivi compresi quelli che attengono alla inefficacia ex artt. 64 ss. l.fall. del titolo o della garanzia.

L'art. 95, comma 3, l.fall. fa espresso riferimento solo ai creditori concorrenti e al fallito ma è indubbio che la norma si applichi anche al curatore.

Si pensi, ad es., al caso in cui il curatore (oppure un altro ricorrente) eccepisca (avendone l'interesse) la revocabilità o l'inefficacia di un contratto dedotto a fondamento di un credito o di una garanzia, ovvero eccepisca l'estinzione del credito azionato dal ricorrente per pagamento, transazione, ecc., con il conseguente onere di dimostrare, se del caso a mezzo di documenti, il fatto o i fatti a tal fine dedotti.

La produzione in giudizio dei documenti.

In difetto di espresse preclusioni, i documenti volti a fornire la prova dei fatti invocati quali eccezioni possono essere prodotti con il medesimo atto processuale che contiene la relativa deduzione in giudizio e cioè, di volta in volta, il progetto di stato passivo presentato dal curatore, le osservazioni presentate da un altro ricorrente (o dal fallito) e le dichiarazioni rese dal curatore o dal concorrente in udienza (e cioè in una delle possibili udienze in cui si articola, fino alla chiusura, il giudizio di verificazione), che, pertanto, costituisce, di fatto, il limite preclusivo entro il quale la produzione dei documenti deve avvenire.

La norma, peraltro, non richiede espressamente, a differenza della comune disciplina processuale (es. artt. 163, n. 5, c.p.c., 414, n. 5, c.p.c.) e della norma dettata in tema di impugnazione (art. 99 l.fall.), che il ricorso, il progetto di stato passivo o le osservazioni devono contenere la specifica indicazione dei documenti che si offrono in comunicazione: ma è ragionevole applicare la normativa generale.

I documenti prodotti in udienza devono essere menzionati a verbale (art. 87 disp. att. c.p.c. e art. 95, ult. comma, l.fall.).

I documenti ed i poteri del giudice delegato.

I documenti utilizzabili ai fini della decisione sono soltanto quelli formalmente prodotti, in sede di verifica, delle parti (come può argomentarsi dalla norma dettata dall'art. 95, comma 3, in fine), vale a dire i ricorrenti, il curatore, i singoli concorrenti (e, forse, il fallito).

A differenza del passato — quando si riteneva che la natura inquisitoria del giudizio di verificazione consentisse al Giudice delegato di acquisire al processo documenti non prodotti (sia pure solo in funzione della prova dei fatti dedotti come eccezione, sollevate dal curatore o di ufficio) — deve escludersi, a seguito della riforma, che il giudice delegato (fatti salvi i casi in cui la legge, in generale glielo consente, come la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione, l'ordine di esibizione previsto dall'art. 2711 c.c., ecc.: cfr., in tema, Nardone, 2006, 1235) possa acquisire, di ufficio, documenti ulteriori e diversi rispetto a quelli depositati dalle parti, a partire, evidentemente, da quelli inseriti nel fascicolo fallimentare, quali le relazioni del curatore (con i documenti ad essi allegati) ovvero i documenti prodotti dallo stesso ricorrente in sede prefallimentare.

Il giudice delegato può, quindi, utilizzare le relazioni del curatore, con gli accertamenti dallo stesso compiuti, i documenti che ha acquisito e le informazioni che ha assunto presso terzi: a condizione, però, che siano stati formalmente depositati in sede di giudizio di verificazione.

Per il resto, non vi sono limiti all'utilizzabilità dei documenti: il giudice delegato può, quindi, utilizzare, quali prove atipiche, anche le prove già raccolte in altri giudizi, ordinari o speciali, tra il fallito ed il creditore ricorrente, quali i verbali delle testimonianze ivi ammesse e assunte, le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio libero o formale, le relazioni tecniche, ecc..

Le prove costituende

Il giudizio di verificazione è a carattere tendenzialmente documentale.

Non può escludersi, però, che i ricorrenti, allo scopo di provare i fatti costitutivi della pretesa azionata verso il fallito, ivi compresa la sua certa origine prefallimentare, possano ritenere utili o necessarie prove diverse da quelle precostituite.

Non sempre, infatti, la prova del credito richiede la scrittura.

Quando la legge non richiede la prova scritta ad substantiam (es. cambiale) o ad probationem (es. transazione), la prova dei fatti costitutivi del credito può essere fornita in qualunque modo, e cioè a mezzo di prove diverse dai documenti.

Nello stesso modo, la prova dei fatti estintivi, modificativi o impeditivi (tra i quali v'è, come detto, l'inefficacia dell'atto ex artt. 64 ss. l.fall.) può essere fornita, oltre che a mezzo di documenti, anche con prove diverse.

La riforma ha, del resto, espressamente previsto, all'art. 95, comma 3, in fine, l.fall., che il giudice delegato può compiere «atti di istruzione».

Si tratta, come è evidente, di una norma che ha profondamente innovato la disciplina prima in vigore.

Nella disciplina previgente, infatti, pur in mancanza di una espressa preclusione normativa, si riteneva diffusamente che non fossero compatibili con il giudizio di verificazione le prove diverse da quelle strettamente documentali, quanto meno se si trattava di prove che, alla luce del prudente apprezzamento del giudice, richiedevano una lunga indagine, quali le testimonianze e la consulenza tecnica di ufficio.

La nuova norma, invece, ha espressamente stabilito che anche le prove diverse dai documenti sono compatibili con il giudizio di verificazione: la loro ammissione in giudizio, però, è possibile, come nel caso dei documenti, solo a condizione che vi sia sul punto una richiesta delle parti.

Anche nel giudizio di verificazione, quindi, trova applicazione il principio dispositivo delle prove, secondo cui, come dispone l'art. 115, comma 1, c.p.c., «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti...».

Il giudice delegato, quindi, non può ammettere prove non richieste od offerte dalle parti, se non nei casi in cui può la legge espressamente gli consente di farlo: e ciò, si noti, vale anche per quei diritti (verso il fallito) che, in sede ordinaria, sarebbero eccezionalmente assoggettati ad un regime probatorio diverso, come nel caso dei rapporti riconducibili al processo del lavoro dove, come è noto, il giudice, in deroga rispetto al principio dispositivo, può ammettere di ufficio qualsiasi mezzo di prova, salvo il giuramento decisorio (art. 421, comma 2, c.p.c.).

Al pari dei documenti, la richiesta di ammissione di una prova costituenda può essere contenuta in tutti gli atti processuali che possono contenere, di volta in volta, la deduzione dei fatti da dimostrare, e cioè:

1. se si tratta dei fatti costitutivi del diritto, nel ricorso o nelle osservazioni o nelle dichiarazioni rese all'udienza;

2. se si tratta di fatti estintivi, modificativi o impeditivi, nel progetto di stato passivo, nelle osservazioni o nelle dichiarazioni rese all'udienza;

e cioè, in concreto, fino all'udienza, la cui formale conclusioni (con la pronuncia e il deposito del decreto di esecutività) costituisce il limite oltre il quale le richieste istruttorie possono essere formulate.

I limiti all'ammissione delle prove costituende: le «esigenze di speditezza del procedimento».

La legge prevede, in modo esplicito o implicito, limiti all'ammissione delle prove costituende nel giudizio di verificazione.

Il primo limite è espressamente previsto dall'art. 95, comma 3, l.fall., ed è costituito dalla compatibilità tra la prova richiesta e le «esigenze di speditezza del procedimento».

Si discute quale sia il reale significato di tale limite.

In una prima prospettiva, il limite della compatibilità riguarda l'an della prova, operando come un criterio di selezione delle prove ammissibili: in tale prospettiva, come nella disciplina previgente, anche in quella riformata non sono esperibili tutte le prove ma solo quelle che richiedano tempi di assunzione tali da essere compatibili con i tempi del giudizio di verificazione mentre non lo sono quelle prove che, richiedendo tempi di svolgimento e di assunzione più o meno lunghi, finiscono per essere, appunto, incompatibili con le esigenze di celerità che caratterizzano il giudizio di verificazione (Aprile-Vella, 2011, 1057).

Tale opinione sembra difficilmente condivisibile.

Innanzitutto, non è possibile stabilire, a priori, quali siano i tempi per così dire «giusti» del giudizio di verificazione e, conseguentemente, stabilire quali siano le prove con essi compatibili (da ammettere) e quelli non compatibili (da non ammettere).

Le stesse prove, poi, possono essere assunte in tempi più brevi o più lunghi a seconda dei casi: si pensi al caso del testimone presente in udienza ed al caso del testimone che risiede all'estero, ovvero al caso della consulenza tecnica di ufficio in materia di accertamento di differenze retributive e del trattamento di fine rapporto oppure volta a verificare i vizi dell'opera in caso nel contratto di appalto.

Inoltre, la riforma ha inequivocamente riconosciuto alle parti del giudizio di verificazione, come a quelle di un giudizio civile ordinario, un pieno diritto alla prova, ivi comprese quelle costituende, senza distinzione alcuna.

Le esigenze di speditezza del giudizio non sono altro, quindi, che una trasposizione, in sede di verifica, della necessità che tale giudizio, al pari di ogni altro, sia contenuto in tempi ragionevoli: depone, del resto, in tal senso l'art. 111, comma 2, Cost..

In tale prospettiva sembra, allora, preferibile l'idea per cui, in presenza dei requisiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità previsti in generale dalla legge, tutte le prove consentite dall'ordinamento processuale sono deducibili in sede di giudizio di verificazione: il limite della compatibilità opera solo come un criterio di regolazione da parte del giudice dei tempi della relativa assunzione, che deve essere organizzata dal giudice delegato in modo da essere compatibile, appunto, con le esigenze di celerità del procedimento, ferma restando, però, la necessità che siano osservate le norme generali che presidiano alla loro assunzione (Zanichelli, 233, 234).

Così, ad es., anche la consulenza tecnica di ufficio è compatibile con il giudizio di verificazione solo che la sua assunzione deve essere disciplinata dal giudice delegato in modo che i tempi del suo espletamento siano compatibili con quelli del giudizio, stabilendo per il deposito della relazione termini molto brevi, ecc..

Ed ancora: a fronte del disconoscimento (da parte del curatore, se del caso su sollecitazione del fallito, ovvero della dichiarazione del curatore, quale «avente causa» del fallito nella gestione del suo patrimonio, di non conoscere la sottoscrizione del fallito: art. 214, comma 2, c.p.c.) della sottoscrizione (apparentemente riconducibile al fallito) apposta su una scrittura privata prodotta in giudizio, il Giudice delegato, se la parte che l'ha prodotta abbia chiesto la verificazione dell'autenticità della sottoscrizione disconosciuta, può disporre una consulenza tecnica per svolgere tale accertamento organizzandola in tempi compatibili con le esigenze di speditezza del procedimento.

Lo stesso è a dirsi per la querela di falso sollevata, ad es., dal fallito o dal curatore, in ordine al contenuto estrinseco (sul quale fa piena prova) di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata: se la parte che ha prodotto il documento dichiara di volersene avvalere, il giudice, previo svolgimento delle formalità stabilite in presenza delle parti e del pubblico ministero, ammette ed assume le relative prove, fissandone i tempi in modo, appunto, che siano compatibili con le esigenze di speditezza del giudizio.

Devono, quindi, sia pur alle predette condizioni, considerarsi compatibili con il giudizio di verificazione mezzi di prova quali, ad es., la testimonianza (limitando nella massima misura possibile il numero dei testimoni da ascoltare e delle udienze da svolgere, ecc.), specie nella forma scritta prevista dall'art. 257-bis c.p.c., l'ordine di esibizione (ad una delle parti, ivi compreso il curatore) e la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione (fissando tempi brevi per il deposito dei documenti o delle informative).

I limiti di diritto comune.

Le prove costituende, per essere ammesse, devono essere compatibili con lo status giuridico dei soggetti che vi partecipano.

Così, ad es., non può essere dedotto ed ammesso l'interrogatorio formale del fallito (ammesso che sia parte del procedimento), che non ha la libera disponibilità del diritto (artt. 42 e 44 l.fall.), e, per lo stesso motivo, neppure l'interrogatorio formale del curatore (art. 35 l.fall.).

Si potrebbe, invece, immaginare un interrogatorio formale richiesto dal curatore nei confronti di un creditore affinché confessi un fatto a lui sfavorevole (ad es. la conoscenza dello stato di insolvenza del debitore poi fallito quale fatto che integra l'eccezione di revocabilità ex art. 67, comma 2, l.fall. di un atto o di una garanzia, oppure il pagamento del debito, ecc.).

Non sembra, invece, ammissibile il deferimento del giuramento decisorio.

Il curatore (o un concorrente o il fallito), in particolare, non avendo la disponibilità del diritto, non possono deferire il giuramento al ricorrente: se prestato, infatti, il giuramento, i fatti dedotti sono ritenuti provati con efficacia di prova legale (artt. 2736 e 2738 c.c.).

Il ricorrente, a sua volta, non può deferire il giuramento al curatore, anche perché estraneo ai fatti costitutivi del diritto azionato (ed ai correlativi fatti estintivi, modificativi ed impeditivi), né al fallito, che non ha più, a seguito del fallimento, la disponibilità del diritto controverso.

A fronte di una prescrizione presuntiva sollevata dal curatore, il ricorrente può deferire al curatore il giuramento sul fatto dell'adempimento (art. 2960 c.c.): tuttavia, poiché il curatore è estraneo al rapporto obbligatorio, il giuramento può essere solo de scientia e non de veritate (art. 2960, comma 2, c.c.) con la conseguenza che, se il curatore dichiara di non aver notizia dell'intervenuto adempimento, la domanda non può che essere accolta.

Talvolta, invece, lo status di terzo che spetta al curatore comporta il superamento di un limite di diritto comune.

Se, infatti, il curatore eccepisce che l'atto compiuto dal fallito (ed invocato a sostegno di una domanda di ammissione) sia simulato, può, quale terzo, chiedere sul punto l'ammissione di prova testimoniale o avvalersi della prova presuntiva (art. 1417 c.c.) (Zanichelli, 225; Spiotta, 2019; in senso contrario, tuttavia, Cass. n. 12965/2012).

La decisione sull'ammissione e sindacato sulla stessa.

La decisione di ammettere o meno la prova costituenda richiesta spetta al giudice delegato, previa valutazione della sua ammissibilità/rilevanza in base alle norme comuni (art. 183, comma 7, c.p.c.).

La decisione è sindacabile dal tribunale in sede di opposizione/impugnazione.

L'assunzione delle prove costituende.

L'assunzione delle prove ammessa è regolata dalle norme generali previste dagli artt. 202 ss. c.p.c., ivi compresa la decadenza di ufficio prevista dall'art. 208 c.p.c.

L'assunzione, però, come detto, deve essere regolata dal giudice delegato in modo da renderla compatibile con le esigenze di celerità del procedimento.

La legittimazione e l'interesse alla deduzione dei mezzi di prova.

La legittimazione a produrre documenti ed a chiedere l'ammissione di prove costituende deve essere, in via tendenziale, riconosciuta a tutte le parti del procedimento di verificazione, vale a dire il ricorrente, il curatore, i concorrenti ed il fallito: nei limiti, però, in cui siano ritenuti legittimati, sul piano sostanziale, a dedurre, in giudizio, fatti a sostegno, rispettivamente, della domanda di accertamento del diritto (fatti costitutivi) ovvero delle corrispondenti eccezioni (fatti estintivi, modificativi ed impeditivi).

Così, ad es., il curatore, che ha la legittimazione ad eccepire l'inefficacia/revocabilità del titolo o della garanzia, è senz'altro legittimato a fornire in giudizio le prove dei relativi fatti costitutivi. Lo stesso è a dirsi per i ricorrenti, quali legittimati a sollevare l'eccezione di revocatoria.

Naturalmente, la legittimazione deve essere riconosciuta solo nei limiti dell'interesse ad agire o ad eccepire.

Così, ad es., il soggetto che ha chiesto l'accertamento del suo diritto alla restituzione di un bene acquisito alla massa, non può sollevare eccezioni (es. di prescrizione, revocabilità, ecc.) relativamente ad un credito azionato da un creditore, non avendo alcun interesse alla rimozione del credito o della garanzia dal passivo del fallimento.

Viceversa, un creditore può sollevare contestazioni in ordine alla domanda di rivendicazione di un bene acquisito alla massa, avendone tutto l'interesse: il bene rivendicato, se non è restituito, viene liquidato anche in funzione di una sua maggiore soddisfazione.

La selezione dei fatti da provare e la non contestazione

La selezione dei fatti da provare è regolata dalle norme generali: e tali non sono, quindi, i fatti notori e quelli che non siano stati specificamente contestati dalle parti costituite (art. 115 c.p.c.).

Se il curatore (e i concorrenti) non contestano (o, addirittura, espressamente riconoscono) i fatti posti a fondamento delle domande di ammissione/restituzione (tra cui, come detto, anche la certa origine prefallimentare del diritto azionato), si discute se il giudice delegato è, o meno, vincolato al punto da dover accogliere la domanda proposta.

Una parte della dottrina ha ritenuto che, attribuendo al curatore la facoltà di non contestare la domanda, il legislatore gli ha conferito, in ultima analisi, il potere di considerare controverso o meno il diritto e dunque di attivare o no il potere decisorio del giudice delegato, con la conseguenza che, se la pretesa chiesta in sede insinuazione non è contestata dal curatore o da un creditore concorrente, il giudice delegato è tenuto ad ammetterla, anche sotto il profilo della classificazione per rango del credito, posto che pure la frazione del petitum afferente alla collocazione in un certo rango costituisce parte del contenuto delle conclusioni in cui si esprime il potere dispositivo (Lamanna, 363, 372 e 401-406).

Tale opinione non è, tuttavia, condivisibile.

Piuttosto, secondo i principi generali, il giudice delegato deve decidere sulla domanda sul presupposto che i fatti dedotti (pur se, al limite, completamente sforniti di ulteriori prove), in quanto non specificamente contestati dal curatore (ad es., perché riscontrati nella contabilità aziendale) e dagli altri concorrenti, devono considerarsi, ai sensi dell'art. 115, comma 1, c.p.c., non bisognosi di un'apposita attività istruttoria (Pagni, 367, 368): ciò che, evidentemente, non significa affatto accoglimento della domanda (e delle eccezioni) fondate sugli stessi (Dongiacomo, 829, 830).

Resta fermo, infatti, che:

- il giudice, sulla base di altri fatti legittimamente acquisiti e provati in giudizio, può ritenere diversamente provato il fatto non contestato ovvero, addirittura, inesistente, cioè non verificatosi sul piano storico;

- il giudice può liberamente qualificare sul piano giuridico i fatti pur se non contestati (iura novit curia: art. 113 c.p.c.), come ad es., nel caso in cui il ricorrente deduca, a sostegno della domanda, un rapporto di lavoro, non contestato in fatto dal curatore, che però il giudice qualifichi non come subordinato ma come autonomo, ai fini dell'esclusione del diritto al trattamento di fine rapporto invocato dal ricorrente;

- il giudice, anche se il fatto non è contestato e correttamente qualificato sul piano giuridico, può escludere che lo stesso produca le conseguenze giuridiche invocate da chi lo abbia dedotto quando siano contra ius, come, ad es., nel caso in cui il giudice delegato rigetta la domanda di ammissione di un credito per trattamento di fine rapporto fondata su un contratto di lavoro autonomo non contestato dal curatore e correttamente qualificato dall'istante;

- il giudice non può considerare come provato, pur se in punto di fatto non è stato contestato, un contratto (invocato a sostegno della domanda o di un'eccezione) per il quale la legge prevede la forma scritta a pena di validità;

- il giudice, pur a fronte di un fatto non contestato e correttamente qualificato sul piano giuridico, ha il potere di escludere che lo stesso produca le conseguenze giuridiche invocate sulla base delle eccezioni sollevate dalle parti ovvero rilevate (e rilevabili) di ufficio (e tali non sono le eccezioni ad efficacia costitutiva), sempre che i fatti posti a loro fondamento, come l'adempimento dell'obbligazione, risultino acquisiti agli atti del processo pur se non espressamente dedotti dai soggetti, e cioè il curatore e i creditori concorrenti, che sarebbero stati interessati a farlo.

Non a caso, il decreto correttivo ha stabilito che il giudice delegato deve motivare la decisione che assume sulla singola domanda anche se non contestata dal curatore (Dimundo-Quatraro, 1024 ss).

E così, in effetti, ha, di recente, giudicato la Corte di cassazione la quale, con la sentenza: Cass. n. 16554/2015, dopo aver evidenziato che il principio di non contestazione, che costituisce solo una tecnica di semplificazione di formazione della prova dei fatti allegati dalle parti, non può prevalere rispetto ai risultati dell'istruzione probatoria, positivamente esperiti od acquisiti, specie quando questi abbiano valenza contraria alle risultanze virtuali ipotizzabili in base al primo, ha ritenuto che, in tema di verificazione del passivo, tale principio non impone affatto al giudice delegato l'automatica ammissione del credito allo stato passivo quando esso, per avventura, non sia stato contestato dal curatore (o dai creditori eventualmente presenti in sede di verifica), competendo al giudice delegato ed al tribunale il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni e di applicare i principi in tema di verificazione dei fatti e delle prove, specie quando la verificazione del credito s'incentra non già su informazioni probatorie elementari, precise e circoscritte, così rendendo chiaro il loro accertamento, ma riguardi un complesso di fatti, tra di loro concatenati, la cui conferma si presenti articolata e complessa, non unidirezionale, e perciò bisognosa di prova in tutti i suoi segmenti e passaggi dimostrativi (conf. Cass. n. 535/2016; in dottrina, Minutoli, 604 ss).

I poteri del Giudice delegato in materia di prove.

Nella disciplina previgente, in ragione della ritenuta natura inquisitoria del giudizio, il giudice delegato poteva sollevare di ufficio, in deroga rispetto al principio stabilito dall'art. 112 c.p.c., eccezioni riservate dalla legge alle parti, quali le eccezioni di prescrizione, di revocabilità di un atto o di una garanzia, ecc., nonché acquisire, di ufficio, in deroga rispetto al principio stabilito dall'art. 115 c.p.c., mezzi di prova non prodotti od offerti dalle parti, sia pure solo in funzione della prova dei fatti dedotti quali eccezioni, fermi, quindi, i principi della domanda, dell'onere della prova dei fatti costitutivi della pretesa e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

La riforma, invece, ha profondamente innovato sul punto, escludendo che il giudice delegato possa non solo sollevare di ufficio eccezioni riservate alle parti ma anche che possa acquisire di ufficio (al di fuori dei casi consentiti) prove che le parti non hanno offerto o prodotto: trovano, quindi, piena applicazione i principi stabiliti, in generale, dall'art. 112 c.p.c. e dall'art. 115 c.p.c. (Nardone, 2010, 1234, 1235).

Il Giudice delegato può, quindi, disporre l'ammissione di ufficio dei mezzi di prova (costituenda o documentale) solo nei casi in cui, in base alla comuni norme processuali, può farlo senza che sia a tal fine necessaria un'istanza di parte (Pagni, 368), come nel caso della consulenza tecnica di ufficio o dell'ordine di esibizione previsto dall'art. 2711 c.c. (in tal caso, deve ritenersi che il giudice delegato deve assegnare i termini per consentire alle parti di dedurre le prove che si rendono conseguentemente necessarie: art. 183, comma 8, c.p.c.).

Negli altri casi, invece, è necessaria l'istanza della parte, come nel caso della prova testimoniale o dell'ordine di esibizione (Nardone, 2010, 1235).

Al giudice delegato spetta, secondo la disciplina generale, la valutazione della prova, vale ad dire secondo il suo prudente apprezzamento, salvi i casi di prova legale (confessione, atto pubblico, scrittura privata autenticata, ecc.).

La valutazione operata dal Giudice delegato è sindacabile dal tribunale in sede di opposizione/impugnazione.

Il giudizio di verificazione e gli atti di istruzione preventiva

Non può escludersi che le prove da utilizzare nel giudizio di verificazione possano essere richieste ed assunte, in presenza dei presupposti richiesti dalla legge, in sede di istruzione preventiva (artt. 692 ss. c.p.c.).

La norma dell'art. 51 l.fall., infatti, esclude soltanto che possano essere proposte o proseguite domande cautelari con effetti verso la massa «in sede ordinaria» ma non, evidentemente, quelle che, come le istanze di istruzione preventiva, siano «proposte» direttamente al giudice delegato quale giudice competente in via esclusiva a decidere sulle domande di accertamento dei crediti e dei diritti verso il fallito, assumendo le relative prove.

D'altra parte, non si vede la ragione per la quale, sol perché il diritto deve essere fatto valere nei confronti di un soggetto fallito, e quindi nelle forme esclusive del giudizio di verificazione del passivo, l'istanza per l'assunzione di una prova (ad es. testimonianza o consulenza tecnica di ufficio) non possa essere proposta, in caso di urgenza, nelle forme dell'istruzione preventiva (ad es., audizione dei testimoni a futura memoria, accertamento tecnico preventivo, ecc.), e quindi, ove occorra, anche prima della formale proposizione della relativa domanda di ammissione al passivo ovvero dopo la sua presentazione ma in una fase anteriore rispetto alla decisione ed assunzione delle prove in via ordinaria.

Come detto, la compatibilità delle prove (richieste dalle parti o disponibili di ufficio) con le esigenze di speditezza del procedimento, stabilita dall'art. 95, comma 3, in fine, deve essere valutata non già nell'an ma solo nel modo della loro assunzione: se ammissibili e rilevanti (in base alle norme generali dell'ordinamento giuridico e delle norme particolari del diritto concorsuale), tutte le prove possono (e devono) essere ammesse in sede di verifica solo che la loro assunzione deve essere organizzata (anche, e soprattutto, in sede di istruzione preventiva) dal giudice (art. 202 c.p.c.) in modo da essere, appunto, compatibili con le esigenze di celerità che, per legge, improntano il giudizio di verificazione del passivo.

Naturalmente, devono sussistere i presupposti richiesti, in generale, dalla legge, e cioè:

1) il fumus boni iuris, che consiste nella probabile ammissibilità e rilevanza del mezzo di prova richiesto rispetto alle domande (o eccezioni) proposte (o da proporre) nell'azione di merito, e cioè, nella specie, la domanda di ammissione di un credito o di rivendica/restituzione;

2) il periculum in mora, che consiste nel rischio che, se si attende la fase dell'istruzione probatoria del giudizio relativo all'azione di merito (e cioè la fase della decisione ed ammissione dei mezzi di prova in sede di giudizio di verificazione: si pensi, ad es., al caso delle domande tempestive nel periodo che va dalla sentenza di fallimento fino all'udienza fissata, che va collocata oltre novanta giorni, ovvero al caso delle domande tardive già presentate ma per le quali non sia stata ancora fissata l'udienza da parte del giudice delegato, ad es. perché la verifica tempestiva non si è ancora chiusa), la prova invocata non possa essere più, di fatto, raccolta o possa essere raccolta con maggiore difficoltà o minori utilità.

Resta ferma la norma generale che riserva al giudizio di merito (e cioè, nella specie, al giudizio di verificazione, ivi comprese le fasi della successiva impugnazione) delle questioni relative alla effettiva ammissibilità e rilevanza della prova invocata ed assunta in sede preventiva (art. 698, comma 2, c.p.c.).

Il regime della prova nelle domande di rivendicazione/restituzione

In caso di domanda di rivendica di un bene mobile determinato, ove inventariato presso la casa o l'azienda del debitore, non è ammissibile, per espressa previsione dell'art. 103 l.fall., che invia al regime probatorio previsto dall'art. 621 c.p.c., la prova per testimoni e, quindi, per presunzioni semplici (a norma dell'art. 2729 c.c.).

In siffatta ipotesi, quindi, la prova può essere fornita solo con documento avente data certa anteriore al fallimento, che dimostri sia l'acquisto in capo al terzo del bene, sia – ove esistente — il suo affidamento al soggetto poi fallito ad un titolo diverso dalla proprietà o di altro diritto reale (cd. «doppia prova») (Cass. n. 16158/2007; Cass. n. 12684/2006; in dottrina, Ferraro, 1326 e 1329, dove rileva che, talvolta, la prova dell'affidamento risulta dal medesimo documento con il quale è dimostrata la proprietà, come nel caso dell'atto di vendita con riserva della proprietà, dal quale si evince anche il titolo in forza del quale l'acquirente fallito detiene il bene: se, invece, il proprietario del bene lo ha affidato al fallito in base ad un titolo autonomo, non è sufficiente dimostrare l'acquisto della proprietà del bene).

Quando, invece, il bene non sia stato inventariato presso la casa o l'azienda del debitore (e, quindi, al di fuori del caso previsto dall'art. 621 c.p.c.) ovvero quando l'esistenza del diritto sia resa verosimile dalla professione o dal commercio esercitati dal terzo (come nel caso in cui l'istante esercita professionalmente l'impresa di concedere beni in locazione finanziaria) o dal debitore (come nel caso in cui il fallito esercitava l'attività di pulitura di capi di abbigliamento o di autorimessa), la proprietà o il diverso diritto reale può essere dimostrato con qualunque mezzo di prova, ivi compresa la testimonianza e la prova presuntiva, sempre che la doppia prova orale dimostri sia l'acquisito in capo al rivendicante della proprietà, che il suo affidamento al fallito ad un titolo diverso dalla proprietà o di altro diritto reale (in senso contrario, Zanichelli, 222, 223, ove rileva come «... la limitazione alla prova testimoniale valga in relazione a tutti i beni acquisiti alla procedura e pertanto oggetto di pretese restitutorie, indipendentemente dalla circostanza che siano stati rinvenuti nella casa o nell'azienda de debitore»).

Il regime probatorio previsto dall'art. 621 c.p.c. si applica anche in caso di beni mobili registrati, con la conseguenza che il terzo non può provare mediante testimoni, e quindi anche mediante presunzioni semplici il suo diritto sui beni mobili esistenti nella casa o nell'azienda del debitore, operando in tal caso una presunzione «juris tantum» di appartenenza al debitore stesso, dovendo, piuttosto, dimostrare non solo il suo titolo di acquisto sulla base di una scrittura privata di data certa, anche il titolo, diverso dalla proprietà, da cui è giuridicamente qualificabile la detenzione del bene da parte del debitore (nella specie, la S.C. ha escluso l'efficacia probatoria conseguente alla presunzione fatta valere in forza dell'intestazione del bene nel P.R.A., che è preordinata al solo fine di regolare pretese contrastanti sullo stesso veicolo, assumendo la mera natura di presunzione semplice quanto all'effetto traslativo della vendita, che può essere vinta con ogni mezzo, e, come tale, cedevole di fronte alla preclusione di cui all'art. 621 c.p.c.) (Cass. n. 13884/2015).

Nel caso della domanda di rivendica di beni immobili, il regime probatorio previsto dall'art. 621 c.p.c. non trova applicazione (Ferraro, 1329 ss.): la proprietà o il diverso diritto reale, infatti, potendo essere trasferiti a titolo derivativo solo con atti scritti a pena di nullità (art. 1350 c.c.), possono essere dimostrati solo con la produzione del documento contenente l'atto di trasferimento o di costituzione del diritto, sempre che sia stato trascritto prima della iscrizione della sentenza di fallimento nel registro delle imprese (artt. 45 l.fall. e 2914 c.c.), salvo lo smarrimento del documento senza colpa (artt. 2724 n. 3 e 2725 c.c.).

Se, però, si tratta di rivendica fondata su un titolo di acquisto originario (es. usucapione della proprietà o l'usufrutto, destinazione del padre di famiglia per una servitù, ecc.), la prova del fatto relativo non può che essere fornito con la testimonianza o la presunzione.

In caso di mera domanda di restituzione, invece, la prova richiesta non investe la proprietà dell'istante, che, in effetti, può non essere il proprietario, ma solo l'affidamento del bene al fallito ad un titolo diverso dall'attribuzione in proprietà o per altro diritto reale (es. comodato, locazione, deposito, ecc.), purché sia fornita in forme opponibili alla massa (Ferraro, 1327 e 1330).

L'accertamento del diritto già svolto in sede ordinaria.

Può accadere, infine, che la prova del credito sia costituita da un previo accertamento giudiziale dello stesso in sede ordinaria.

Se il credito risulta da una sentenza passata in giudicato o da un decreto ingiuntivo diventato definitivo prima del fallimento (perché prima della sentenza dichiarativa si è integralmente perfezionata la fattispecie che integra il giudicato), il titolo giudiziale, coprendo il dedotto e il deducibile, esclude che in sede di verifica possa essere rimessa in discussione l'esistenza del credito ovvero la validità del titolo dal quale deriva (Cass. n. 18529/2007, per la quale il decreto ingiuntivo non opposto è provvedimento idoneo ad acquistare, in difetto di opposizione, autorità di cosa giudicata, sia sulla regolarità formale del titolo che sull'esistenza del credito, tanto in ordine all'oggetto che ai soggetti così che la sua efficacia si estende a tutte le questioni relative, impedendo che in un successivo giudizio, avente ad oggetto una domanda fondata sullo stesso rapporto, si proceda a un nuovo esame).

Il giudicato, però, non esclude che il curatore possa contestare ciò che, nel giudizio ordinario, non poteva evidentemente essere accertato, e cioè l'efficacia del titolo verso i creditori a norma degli artt. 64 ss. l.fall. (Cass. n. 6126/1990): se, quindi, il credito verso il fallito risulti da una sentenza passata in giudicato ma sulla base di un titolo (es. una fideiussione rilasciata dal fallito) inefficace o revocabile, il credito può e deve essere escluso.

Analoghi rilievi possono essere svolti per il caso in cui il provvedimento giudiziale pronunciato prima del fallimento e diventato definitivo abbia accertato il diritto del terzo alla restituzione di un bene ancora in possesso o in proprietà del fallito, come nel caso di una sentenza che ha condannato il fallito alla consegna o al rilascio di un bene in favore di un terzo che lo abbia acquistato dallo stesso fallito.

Anche in tal caso, peraltro, è possibile che il curatore, pur a fronte del giudicato relativo alla condanna alla restituzione del bene, eccepisca l'inefficacia ex art. 64 ss. l.fall. del contratto con il quale il terzo abbia acquistato il bene.

La decisione del Giudice delegato

Il giudice delegato — in udienza, anche in assenza delle parti (ma l'espressione normativa sembra debba intendersi limitata ai soli creditori ed ai terzi titolari dei diritti sui beni, non essendo condivisibile l'idea che l'udienza possa svolgersi anche in assenza del curatore: Bozza, 2006, 1444; in senso contrario, Nardone, 1234) — decide sulla singola domanda, avendo riguardo alle eccezioni rilevabili di ufficio e alle eccezioni sollevate dalle parti.

Le eccezioni che il Giudice delegato può rilevare d'ufficio sono, in rito, quelle che riguardano l'ammissibilità (sotto il profilo del contenuto ex art. 93 l.fall.) ovvero la tardività della domanda (art. 101 l.fall), oltre al difetto di giurisdizione (come, ad es., in tema di tributi) o di legittimazione attiva o passiva, e, nel merito, le eccezioni con cui si fanno valere fatti (sempre che siano stati formalmente acquisiti e dimostrati in giudizio) che esplicano ipso iure efficacia estintiva, impeditiva o modificativa del diritto invocato ovvero implicano l'inesistenza o la inefficacia dello stesso fatto costitutivo, la cui deduzione in giudizio è sottratta alla esclusiva iniziativa della parte (cd. eccezioni in senso lato), come quelle di nullità del contratto (art. 1421 c.c.) — anche per cause diverse da quelle eventualmente allegate (Cass. n. 15408/2016; Cass. S.U., n. 26242/2014) ed anche se parziale, come nel caso della clausola di interessi usurari contenuta in un contratto di mutuo (art. 1815, comma 2, c.c.) — di pagamento (Cass. n. 9610/2012), di risoluzione consensuale del contratto (Cass. n. 6125/2014), di eccessiva onerosità della clausola penale (Cass. n. 24166/2006), di pendenza di una condizione sospensiva o di un termine (sebbene, per quest'ultima, di deve tener conto del principio per cui il fallimento determina la scadenza di tutti i crediti verso il fallito: art. 55 l.fall.), di giudicato interno o esterno (Cass. S.U., n. 226/2001; Cass. n. 1099/2006), di concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227, comma 1, c.c. (Cass. n. 15382/2006), di inopponibilità di un atto o di una garanzia a norma degli artt. 44 e 45 l.fall., di inefficacia ai sensi dell'art. 64 l.fall., ed, in materia di prova, le eccezioni di inopponibilità di un documento perché privo di data certa ex art. 2704 c.c. o di inammissibilità, per ragioni sostanziali, di una prova, ecc..

Anche l'eccezione di interruzione della prescrizione (a differenza di quella di prescrizione) integra un'eccezione in senso lato e non in senso stretto e, pertanto, può essere rilevata d'ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti (Cass. S.U., n. 15661/2005).

Del resto, il giudice è tenuto ad accertare, anche di ufficio e indipendentemente dall'attività processuale della parte convenuta, il fondamento giuridico della domanda, sulla base di fatti costitutivi o impeditivi della pretesa dedotta in giudizio, tranne che si tratti di eccezioni in senso stretto, che devono essere proposte in giudizio soltanto dalla parte interessata: ciò sta a significare che tutte le ragioni che possono condurre al rigetto della domanda per difetto delle sue condizioni di fondatezza, o per la successiva caducazione del diritto con essa fatto valere, possono essere rilevate anche d'ufficio, in base alle risultanze «rite et recte» acquisite al processo, nei limiti in cui tale rilievo non sia impedito o precluso in dipendenza di apposite regole processuali, con l'effetto che la verifica attribuita al giudice in ordine alla sussistenza del titolo deve essere compiuta, di norma, ex officio (Cass. n. 21482/2014).

In caso di eccezioni rilevate d'ufficio, si pone il problema se debbano, o meno, trovare applicazione gli artt. 183, comma 4, e 101, comma 2, c.p.c., ove si stabilisce che il giudice, rispettivamente, indica alle parti le questioni rilevati d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione e, se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevabile d'ufficio, assegna alle parti un termine per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione medesima.

La soluzione è necessariamente positiva: la rilevazione d'ufficio di un'eccezione, infatti, e, più in generale, di una questione che comporti nuovi sviluppi della lite non presi in considerazione dalle parti, modificando il quadro fattuale, determina la necessità di disporre la relativa comunicazione alle parti per eventuali osservazioni e richieste e subordina la decisione nel merito all'effettuazione di detto adempimento: pena, in difetto, la violazione del diritto di difesa delle parti, private dell'esercizio del contraddittorio e delle connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione (Cass. S.U., n. 4213/2013; Cass. n. 20725/2014).

Nello stesso modo, ove accerti un difetto di rappresentanza, assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice delegato deve fissare un termine perentorio per la conseguente regolarizzazione, come stabilito dall'art. 182, comma 2, c.p.c.

Il Giudice delegato non può, invece, sollevare in via ufficiosa eccezioni riservate alle parti (cd. eccezioni in senso stretto): e tali sono o le eccezioni che per norma di legge sono rimesse all'iniziativa della parte interessata (Cass. n. 1099/1998; Cass. S.U., n. 226/2001, che ha ribadito il principio della rilevabilità di ufficio delle eccezioni, derivando invece la necessità dell'istanza di parte solo dall'esistenza di una eventuale specifica previsione normativa; Cass. n. 12353/2010, che ha, tuttavia, distinto il potere di allegazione da quello di rilevazione, posto che il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile, pertanto sempre soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze), mentre il secondo compete alla parte, e soggiace perciò alle preclusioni previste per le attività di parte, solo nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva, come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva, ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l'iniziativa di parte, dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d'ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito), come, ad es., la prescrizione (art. 2938 c.c.) — salvo che non si tratti di contributi previdenziali, la cui prescrizione è rilevabile d'ufficio (Cass. n. 330/2002) - la compensazione volontaria (art. 1242, comma 1, c.c.), la decadenza su diritti disponibili (art. 2969 c.c.), l'inadempimento ex art. 1460 c.c., i danni evitabili dal creditore ex art. 1227, comma 2, c.c. (Cass. n. 15750/2015; Cass. n. 14853/2007), la remissione del debito (Cass. n. 1110/1999), la transazione novativa (Cass. n. 8086/2005) e l'usucapione, o le eccezioni che sono espressione di un diritto potestativo ad effetto costitutivo, come la revocabilità (Cass. n. 8246/2013, per la quale, a seguito della riforma, il Giudice delegato non può, rilevandone la revocabilità, escludere la garanzia di un credito per il quale sia stata iscritta ipoteca giudiziale, se non previa formulazione della corrispondente eccezione da parte del curatore), tanto ordinaria (art. 66 l.fall.), quanto fallimentare (artt. 67 ss l.fall.), l'annullabilità (artt. 1441 ss c.c.), la rescindibilità (art. 1447 ss c.c.), la risolubilità dell'atto (artt. 1453 c.c.) dedotto a fondamento della domanda o della garanzia, ecc. (in dottrina, Pagni, 350). In materia di prova, sono rilevabili solo su eccezione di parte le eccezioni relative alla incapacità soggettiva a testimoniare (Cass. n. 11377/2006) ovvero ai limiti stabiliti dagli artt. 2721 ss. c.c. (Cass. n. 3392/2004).

Naturalmente, ove tali eccezioni sono state formalmente sollevate dal curatore o dai creditori ricorrenti, il giudice delegato deve decidere sulle singole domande avendo riguardo anche ai fatti così dedotti in giudizio.

La decisione del giudice delegato è regolata dai principi che regolano, in generale, le decisioni del giudice civile: il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), il principio dispositivo delle prove (art. 115 c.p.c.), il principio della valutazione delle prove secondo il prudente apprezzamento, salvo che nei casi di prova legale (art. 116 c.p.c.), il principio della distribuzione dell'onere della prova (art. 2697 c.c.), il principio per cui iura novit curia (e cioè di qualificazione giuridica dei fatti dedotti e dei conseguenti effetti giuridici).

L'udienza telematica

L'art. 95, comma 3, in fine, nel testo assunto a seguito delle modifiche apportate con il d.l. n. 59/2016, conv. con l. n. 119/2016, prevede che il giudice delegato, in relazione al numero dei creditori e alla entità del passivo, può stabilire che l'udienza sia svolta in via telematica con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione dei creditori, anche utilizzando le strutture informatiche messe a disposizione della procedura da soggetti terzi.

Bibliografia

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