Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 118 - Casi di chiusura.Casi di chiusura. Salvo quanto disposto nella sezione seguente per il caso di concordato, la procedura di fallimento si chiude: 1) se nel termine stabilito nella sentenza dichiarativa di fallimento non sono state proposte domande di ammissione al passivo1; 2) quando, anche prima che sia compiuta la ripartizione finale dell'attivo, le ripartizioni ai creditori raggiungono l'intero ammontare dei crediti ammessi, o questi sono in altro modo estinti e sono pagati tutti i debiti e le spese da soddisfare in prededuzione2; 3) quando è compiuta la ripartizione finale dell'attivo; 4) quando nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, nè i crediti prededucibili e le spese di procedura. Tale circostanza può essere, accertata con la relazione o con i successivi rapporti riepilogativi di cui all'articolo 333. Nei casi di chiusura di cui ai numeri 3) e 4), ove si tratti di fallimento di societa' il curatore ne chiede la cancellazione dal registro delle imprese. La chiusura della procedura di fallimento della società nei casi di cui ai numeri 1) e 2) determina anche la chiusura della procedura estesa ai soci ai sensi dell'articolo 147, salvo che nei confronti del socio non sia stata aperta una procedura di fallimento come imprenditore individuale. La chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) non e' impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore puo' mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell'articolo 43. In deroga all'articolo 35, anche le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato. Le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti, nonche' le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore secondo quanto previsto dall'articolo 117, comma secondo. Dopo la chiusura della procedura di fallimento, le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti definitivi e gli eventuali residui degli accantonamenti sono fatti oggetto di riparto supplementare fra i creditori secondo le modalita' disposte dal tribunale con il decreto di cui all'articolo 119. In relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento. Qualora alla conclusione dei giudizi pendenti consegua, per effetto di riparti, il venir meno dell'impedimento all'esdebitazione di cui al comma secondo dell'articolo 142, il debitore puo' chiedere l'esdebitazione nell'anno successivo al riparto che lo ha determinato4. [1] Numero modificato dall'articolo 108, comma 1, lettera a) del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, con effetto a decorrere dal 16 luglio 2006. [2] Numero modificato dall'articolo 108, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, con effetto a decorrere dal 16 luglio 2006. [3] Numero sostituito dall'articolo 108, comma 1, lettera c) del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, con effetto a decorrere dal 16 luglio 2006. [4] Comma inserito dall'articolo 108, comma 1, lettera d) del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, successivamente modificato dall'articolo 9, comma 1, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169 , con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007 e dall'articolo 7, comma 1, lettera a), del D.L. 27 giugno 2015 n. 83 , convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132 ; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 7, del medesimo decreto. InquadramentoLa chiusura determina la cessazione della procedura fallimentare aperta a suo tempo con la sentenza dichiarativa di fallimento. Molteplici effetti si producono all'atto della chiusura ed, in certi casi, alcuni effetti indiretti sono anche più rilevanti del fatto oggettivo della cessazione della procedura. Ci si riferisce a tutte quelle conseguenze di carattere personale, patrimoniale e processuale che si determinano a seguito della chiusura. Proprio perché dalla chiusura si collegano conseguenze ulteriori rispetto ad un ordinario processo di esecuzione, in cui gli effetti tipizzati sono abbastanza scontati e diretti, dovrebbe parlarsi di «cessazione degli effetti civili della sentenza dichiarativa»: se, infatti, in senso naturalistico, la chiusura deriva dalla conclusione delle attività, è altrettanto vero che, oltre agli effetti tipizzati dal legislatore nel contesto della cessazione della procedura fallimentare, molte altre conseguenze sono, implicitamente o esplicitamente dal sistema. Sicché sembra più corretto, dal punto di vista sistematico, dare rilievo al complesso di situazione derivanti dalla cessazione anziché alla chiusura in sé (Forgillo, 1306). Allorché si verifica una delle ipotesi previste dalla norma, la procedura fallimentare, qualunque sia la fase in cui essa si trova, si arresta e si modifica nel senso che deve tendere all'emanazione, da parte del tribunale, del provvedimento di chiusura, che formalmente assume la veste del decreto. A tal proposito, il d.l. n. 83/2015 è intervenuto, di recente in materia di chiusura del fallimento, prevedendosi che la chiusura della procedura fallimentare, nel caso di riparto finale dell'attivo, non è impedita dalla pendenza dei giudizi attivi. Siccome in tal caso matureranno, nella fase di prosecuzione dei giudizi successiva alla chiusura del fallimento, vari costi processuali, la norma precisa che le somme necessarie per le spese future relative ai suddetti giudizi pendenti, nonché le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore. Dopo la chiusura, le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti definitivi sono fatte oggetto di riparto supplementare tra i creditori. Si prevede infine la tardiva ammissione all'esdebitazione del fallito quando, a seguito del riparto supplementare conseguente alla chiusura di un giudizio pendente, i creditori siano stati in parte soddisfatti. I casi di chiusura del fallimentoLa chiusura della procedura fallimentare si determina nei seguenti casi: mancata presentazione di domande di ammissione al passivo (art. 118, comma 1, n. 1, l.fall.); estinzione di tutti i debiti e delle spese della procedura, anche prima della ripartizione finale dell'attivo (art. 118, comma 1, n. 2, l.fall.); esaurimento della ripartizione finale (art. 118, comma 1, n. 3, l.fall.); insufficienza di attivo tale da non consentire neppure in parte il soddisfacimento dei creditori (art. 118, comma 1, n. 4, l.fall.). A tal proposito, è necessario tenere distinta l'ipotesi di chiusura del fallimento da quella di revoca della sentenza che lo dichiara. Sono infatti radicalmente differenti i presupposti dei due istituti: nel primo caso, trova fisiologica conclusione la procedura concorsuale; nel secondo, viene, invece, revocata, a seguito di impugnazione, l'intera procedura, perché pronunciata illegittimamente. Ne consegue che, mentre la chiusura del fallimento produce effetti ex nunc (e non incide sul giudizio di impugnazione della sentenza di fallimento eventualmente in atto), la revoca, al contrario, travolge l'intera procedura, con effetti retroattivi e pur con il rilevante limite della salvezza degli atti legalmente compiuti; resta l'importante conseguenza del venir meno del presupposto di punibilità dei reati fallimentari, ossia della valida dichiarazione di fallimento. a) La mancata presentazione di domande di ammissione al passivo. La prima ipotesi considerata dalla norma è quella della chiusura per mancata presentazione di domande di credito entro il termine fissato per il tempestivo deposito delle domande di ammissione al passivo. Non costituisce causa ostativa alla chiusura la presentazione di una insinuazione tardiva, come pura una domanda di rivendica o di restituzione di bene posseduti dal fallito (Fabiani, Nardecchia, 1076). L'art. 16 l.fall. stabilisce che le domande di ammissione devono essere presentate almeno 30 giorni prima dell'udienza di verifica (fissata nelle sentenza di fallimento); termine da ritenersi perentorio, oltre il quale, quindi, le domande di insinuazione devono ritenersi tardive anche se depositate entro l'udienza di verifica o all'udienza stessa. Deve quindi ritenersi che sia il decorso di tale termine quello da considerare ai fini della sussistenza della chiusura. Non è preclusa, peraltro, anche successivamente alla riferita scadenza, la presentazione di ulteriori domande di insinuazione, purché tuttavia, esse vengano proposte non oltre il termine di dodici mesi dal deposito del decreto che rende esecutivo lo stato passivo; termine che il tribunale, con la sentenza dichiarativa di fallimento può prorogare fino a diciotto mesi (Capo, 517). È sufficiente, quindi, la presentazione anche di una sola domanda di ammissione al passivo tempestiva per impedire la chiusura del fallimento; le insinuazioni tardive, invece, non ostano alla chiusura altrimenti non vi sarebbe più alcun termine per il deposito delle insinuazioni e la procedura fallimentare resterebbe aperta indefinitivamente: la norma è chiara nel prevedere la chiusura del fallimento «se nel termine stabilito nelle sentenza dichiarativa di fallimento non sono presentate domande di ammissione al passivo» (D'Orazio, 700). La giurisprudenza ha chiarito che la mancanza di domande di ammissione giustifica la chiusura del fallimento, ma non la revoca per difetto di stato di insolvenza, dovendosi, per l'accertamento di tale stato, fare riferimento al momento della dichiarazione di fallimento (Cass. n. 2803/1973), secondo il principio generale per cui «il giudizio sulla legittimità della dichiarazione di fallimento va fatto con riferimento all'epoca della sentenza dichiarativa, mentre eventuali fatti nuovi, idonei ad eliminare, in un secondo momento, l'insolvenza, non incidono sulla legittimità della dichiarazione di fallimento, ma possono solo provocare, se del caso, una successiva e distinta pronuncia di chiusura del fallimento stesso». Va osservato, peraltro, che, ai fini della chiusura, non rilevano i motivi che abbiano portato i creditori e non proporre domanda di ammissione al passivo. All'ipotesi di mancata presentazione delle domande vanno peraltro equiparate quelle di: a) mancato accoglimento di tutte le domande presentate; b) ritiro, prima dell'adunanza, di tutte le domande già presentate per tempo; c) successiva rinuncia all'insinuazione di tutti i creditori già ammessi al passivo (Caiafa, 472). Peraltro, il mancato accoglimento delle domande di ammissione al passivo potrebbe tradursi in opposizioni allo stato passivo, con conseguente obbligo di accantonamento ai sensi dell'art. 113, comma 1, n. 2), l.fall. per i creditori opponenti, in favore dei quali siano state disposte misure cautelari, quale, ad es., il sequestro conservativo o giudiziario; con la conseguenza che, in questi casi, il fallimento dovrebbe restare aperto quanto meno fino a consentire al curatore ed al g.d. di provvedere agli accantonamenti del caso, che peraltro non impediscono la chiusura della procedura ai sensi dell'art. 117, comma 2, l.fall. (Limitone, 1666). Le domande che precludono la chiusura della procedura sono esclusivamente quelle che riguardano crediti concorsuali, e quindi sorti anteriormente alla dichiarazione di fallimento. Volendo paventare maggiore coerenza potrebbe tuttavia sostenersi (Forgillo, 1314) che la mancanza di domande vada intesa in senso ampio, anche con riferimento all'assenza di richieste implicite di pagamento afferenti crediti prededucibili. Sotto questo aspetto, dunque, seppure l'assenza di domande avvia subito il procedimento verso la chiusura perché non c'è creditore concorsuale da soddisfare, ciò non esclude che possano realizzarsi liquidazioni di beni per soddisfare i creditori prededucibili (Lamanna, 86). La soluzione indicata sembra più in linea col disposto del n. 2 dello stesso articolo, nella parte in cui si reputa realizzata la condizione solo in conseguenza del pagamento di tutti i debiti. Ciò posto, ne discende ulteriormente che, ove non siano state presentate domande di ammissione nel termine stabilito e non vi sia attivo sufficiente per pagare, neppure in parte, crediti prededucibili e spese di procedura, deve farsi luogo alla chiusura ai sensi (non già del n. 1) bensì del n. 4 dell'art. 118 l.fall. in commento (ossia per «insufficienza di attivo», come recitava il testo previgente); mentre, pur in mancanza di tempestive insinuazioni, ove l'attivo acquisito non sia sufficiente per il soddisfacimento integrale di detti crediti e spese e si provveda, perciò, ad un riparto fra di essi (art. 111-bis, comma 3, l.fall.) e, così, ad un pagamento parziale, il fallimento si deve chiudere ai sensi (ancora una volta, non già del n. 1) bensì del n. 3 del medesimo art. 118 (ossia per «compiuta ripartizione finale dell'attivo»). Di conseguenza, in entrambe le ipotesi testé fatte, si renderanno applicabili le disposizioni del secondo comma, primo periodo, del medesimo art. 118 (in punto di cancellazione della società fallita dal registro delle imprese, anziché quella del secondo comma, secondo periodo, in punto di chiusura della procedura fallimentare nei riguardi dei soci) e dell'art. 121 l.fall. (e, quindi, sarà possibile la riapertura del fallimento, salvo che si tratti di una società, la quale a seguito della chiusura deve essere cancellata dal registro, sicché, venendo a estinguersi, non può essere più sottoposta a fallimento riaperto). Il fallimento, in ogni caso, non potrebbe chiudersi se il curatore abbia omesso di effettuare gli avvisi ai creditori ex art. 92 l.fall., o se gli stessi siano irregolari (ad es., nel caso di fissazione di un termine troppo breve o indicazione di un luogo o di un giorno di udienza errati), dovendosi, in questo caso, provvedere alla loro ripetizione, rinviando semmai l'udienza di verifica (Limitone, 1666). b) La totale soddisfazione dei creditori. A norma dell'art. 118, comma 1, n. 2 l.fall., il fallimento si chiude «quando, anche prima che sia compiuta la ripartizione finale dell'attivo, le ripartizioni ai creditori raggiungono l'intero ammontare dei crediti ammessi, o questi sono in altro modo estinti e sono pagati tutti i debiti e le spese da soddisfare in prededuzione». Al riguardo occorre preliminarmente ribadire che, secondo un'interpretazione consolidata, per pagamento deve intendersi quello integrale, inclusivo di interessi e spese; poi, per quanto concerne il concetto di estinzione occorre rifarsi all'elaborazione previgente, e, quindi ritenere che in conseguenza di qualsiasi atto o fatto esterno alla procedura, si determinano le condizioni di operatività della norma (Forgillo, 1315). Ciò posto, se la fattispecie individuata nell'art. 118, comma 1, n. 2), l.fall. richiede in primo luogo il pagamento integrale dei crediti ammessi al passivo, nell'ambito della procedura e secondo le modalità indicate dalla relativa disciplina, va da sé che l'integrazione della stessa presuppone che sia intervenuta la formazione dello stato passivo esecutivo, ove viene definito il quadro delle pretese creditorie (Capo, 523). La fattispecie in esame si realizza, dunque, quando tutto il passivo che deve essere soddisfatto nell'esecuzione concorsuale, ossia la totalità dei crediti ammessi e dei crediti prededucibili, viene ad essere integralmente estinto, vuoi mediante pagamenti compiuti in sede di operazioni fallimentari (e, quindi, mediante uno o più riparti parziali e/o il riparto finale), ovvero al di fuori della procedura (per intervento di terzi), vuoi per qualsiasi altra causa estintiva delle obbligazioni, satisfattoria o non. Difatti la «estinzione della massa passiva» fa venir meno lo scopo del fallimento, il quale, perciò, non ha più ragione di proseguire. Secondo una rigorosa quanto attendibile interpretazione, parlando la disposizione di «crediti ammessi», tale caso di chiusura presuppone che: a) si sia concluso il procedimento di accertamento del passivo; b) risulti dallo stato passivo esecutivo almeno un credito ammesso, sicché (la chiusura) non può aversi prima dell'esaurimento delle operazioni di accertamento del passivo e della pronuncia del decreto di esecutività dello stato passivo (art. 96, comma 5, l.fall.), né quando non vi sia alcun credito ammesso al passivo. Analizzando la norma, per crediti ammessi deve intendersi quei crediti ammessi dopo che siano terminati tutti i giudizi di impugnazione allo stato passivo; di talché, potrebbe procedersi alla chiusura del fallimento anche in pendenza dei giudizi di impugnazione di crediti ammessi o di revocazioni: in tal caso i crediti non potrebbero considerarsi come ammessi (D'Orazio, 703). In pratica la pendenza di impugnazioni di crediti ammessi (art. 98, comma 3, l.fall.) e di istanze di revocazione (art. 98, comma 4, l.fall.) non può impedire la chiusura, ove i crediti contestati siano anch'essi pagati o estinti. In merito alle impugnazioni dei crediti insinuati ma non ammessi ed opposti, in alcune pronunce è stato precisato che non vi sarebbe alcuna facoltà discrezionale agli organi fallimentari di protrarre la procedura differendone la chiusura (Cass. n. 26927/2006). E ciò anche in ragione del fatto che nemmeno la nuova disciplina prevede l'accantonamento per le ipotesi di crediti non ancora ammessi al passivo (Cass. n.4259/1998). Diversamente, per i crediti opposti ma riconosciuti con decreto non divenuto definitivo, vale la regola del combinato disposto degli artt. 113, comma 1, n.3 e 117, comma 2, l.fall. in ragione della quale si procede agli accantonamenti parziali sino alla decisione definitiva; oppure, in concomitanza con la chiusura, all'accantonamento in seno al piano di riparto. Giova ricordare, altresì, che la domanda tardiva di ammissione al passivo non preclude la chiusura del fallimento, in quanto la norma si riferisce ai crediti ammessi tempestivamente ma non può essere estesa a quelli tardivi: non può essere favorita l'inerzia del creditore dinanzi al principio di ragionevole durata del processo (Forgillo, 1316). Tale inciso trova conferma anche nella giurisprudenza di legittimità secondo cui «la legge non riconosce al creditore tardivo il diritto a non vedere pregiudicato il futuro soddisfacimento del credito, nelle more dell'ammissione, dall'attuazione della ripartizione dell'attivo; sicché la domanda tardiva di ammissione di un credito non comporta una preclusione per gli organi della procedura al compimento di ulteriori attività processuali, ivi compresa la chiusura del fallimento per l'integrale soddisfacimento dei crediti ammessi o per l'esaurimento dell'attivo, né comporta un obbligo per il curatore di accantonamento di una parte dell'attivo a garanzia del creditore tardivamente insinuatosi» (Cass. n. 25624/2007; Cass. n. 8575/1998). Ed ancora, secondo altre pronunce, dichiarato il fallimento, la successiva estinzione delle obbligazioni ne consente solamente la chiusura e non anche la revoca, a meno che non si tratti di elementi attinenti ad epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento ed idonei ad escludere, nel contesto delle varie circostanze, lo stato d'insolvenza (Cass. n. 19611/2004; Cass. n. 16658/2002). Il pagamento dei crediti deve essere effettivo (Ianniello, 304), e non può quindi consistere nella mera promessa di pagamento, o nel semplice deposito delle somme occorrenti; esso deve comprendere anche gli interessi riconosciuti nello stato passivo e comunque dovuti, ad eccezione di quelli sospesi ex art. 55 l.fall. (Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare (e alle leggi sulle procedure concorsuali), Padova, 2013, 815). Il pagamento deve riguardare anche i debiti e le spese in prededuzione, e quindi tutti i debiti della massa, a cominciare dal compenso al curatore. Per i crediti condizionali e per quelli ammessi con riserva ex art. 113, n. 1), l.fall., è stato ipotizzato che il fallito possa depositare le somme occorrenti per la chiusura del fallimento (Riso, 258). c) La ripartizione finale dell'attivo. Questa ipotesi di chiusura coincide con la conclusione naturale della procedura fallimentare e ricorre quando è stato distribuito fra i creditori tutto quanto vi era da distribuire, per cui non vi sono più attività attuali nel patrimonio del fallito. In estrema sintesi, la ripartizione dell'attivo cui fa cenno la norma è la risultante di due elementi: l'acquisizione e liquidazione di tutto quanto è stato appreso o recuperato (attraverso azioni revocatorie, azioni recuperatorie, transazioni, decreto di acquisizione, ecc.), e la constatazione dell'impossibilità di ulteriori acquisizioni, pur se vi siano altri crediti da soddisfare (Forgillo, 1317). D'altro canto, l'esecuzione del riparto finale presuppone che, da parte degli organi della procedura, si sia valutata la sostanziale insuscettibilità dell'attivo disponibile di essere accresciuto attraverso eventuali iniziative o azioni in corso o da intraprendersi ad hoc: in tale ottica, con l'esecuzione del riparto finale della procedura, vi è l'esaurimento della funzione della stessa in quanto non offre più alcuna concreta prospettiva di ulteriore soddisfazione per le pretese dei creditori partecipanti al concorso (D'Orazio, 525). La pendenza dei giudizi non ancora definiti che vertano sull'ammissione al passivo di crediti, non sembra poter ostacolare, nell'ipotesi in questione, la chiusura del fallimento. Difatti, proprio in sede di riparto, il curatore deve provvedere a depositare le somme corrispondenti a determinate tipologie di crediti ammessi con riserva, e segnatamente ai crediti condizionati e ai crediti riconosciuti con provvedimento non ancora passato in giudicato (v. sub art. 117 l.fall.) Si ritiene che, qualora non sia stato impugnato il decreto del g.d. che ha approvato il riparto finale (in cui non siano stati previsti gli accantonamenti eventualmente richiesti) sia inammissibile l'impugnazione del decreto di chiusura da parte dei creditori che chiedevano gli accantonamenti, motivata dalla mancata previsione di questi ultimi, poiché l'eventuale revoca del decreto di chiusura non potrebbe comunque rimettere in discussione il riparto finale ormai approvato (App. Bologna 6 giugno 1992, in Fall. 1992, 1081). d) La mancanza di attivo. Si verifica tale ipotesi quando la procedura si mostra di nessuna utilità per i creditori, e cioè quando si accerta, nel corso della procedura, che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali né i crediti prededucibili e le spese. In simile evenienza, infatti, lo scopo del fallimento non è conseguibile, sicché la procedura, ancora una volta, non ha ragione di proseguire. La ratio della norma si coglie, quindi, nella constatata inutilità di mantenere aperto un processo esecutivo collettivo che non potrà mai raggiungere il suo scopo, in quanto non consente di pagare, nemmeno in parte, i crediti concorsuali né quelli prededucibili. Ciò posto, la riferita ipotesi va inquadrata nella logica di evitare il protrarsi di procedure il cui svolgimento, senza poter ormai apportare alcun vantaggio ai creditori, si presta a produrre effetti antieconomici (Capo, 527). Dall'analisi esposta, è poi da valutarsi se, ai fini della chiusura del fallimento, l'insussistenza di attivo costituisca una condizione economica da rilevarsi in termini di stretta attualità, ovvero tenendo presente anche di future ed eventuali prospettive di reintegrazione o accrescimento del patrimonio del debitore (connesse alla sopravvenienza di beni o elementi dell'attivo). In ogni caso, sulla base di un'interpretazione della norma fedele al lato letterale, pare evidente che la stessa impedisca di addivenire alla chiusura della procedura allorquando possa ritenersi accertata la sussistenza o comunque, in prospettiva, la possibilità di reperire risorse idonee soddisfare, sia pure in minima parte, i crediti ammessi al passivo o i crediti prededucibili. A prescindere da ciò, in sostanza, in qualunque momento ci si renda conto che la prosecuzione delle operazioni fallimentari non può portare ad alcun utile risultato, deve farsi luogo alla chiusura. Occorre, comunque, che sia stata depositata dal curatore la relazione prescritta dall'art. 33, comma 1, l.fall., la quale deve essere preceduta dall'apposizione dei sigilli e dalla redazione dell'inventario. Il riferimento alla relazione di cui all'art. 33 l.fall. lascia, poi, intendere che, una volta questa depositata (e, quindi, compiuti, altresì, gli adempimenti che debbono precederla: sigilli, inventario, elenchi dei creditori e dei titolari di diritti reali e personali, bilancio dell'ultimo esercizio), non occorre procedere ad altre operazioni fallimentari prima di chiudere il fallimento per «mancanza di attivo»; in particolare, pare non necessario procedere all'accertamento del passivo, che si rivelerebbe del tutto inutile, non potendosi soddisfare alcuno dei crediti insinuati (Trib. Roma decreto 21 maggio 2009; Caiafa, 474). In ogni caso, la causa di chiusura in esame presuppone l'insufficienza dell'attivo per soddisfare anche solo in parte non solo i creditori concorsuali, ma anche i crediti prededucibili e le spese di procedura, come dimostra l'uso della congiunzione negativa «né», posta tra i tre termini della frase. Se quindi vi sia attivo sufficiente per pagare anche solo in parte i crediti prededucibili, la procedura dovrebbe essere continuata a questo scopo, poiché la concorsualità va assicurata anche con riferimento alla sola prededuzione (Limitone, 1670; Riso, 258) e) Le altre ipotesi di chiusura correlate al n.4. Una prima ipotesi, non esattamente analoga a quella in commento, è quella contenuta nell'art. 102 l.fall., che ammette la possibilità di escludere la verifica dello stato passivo nei casi in cui risulti, dedotte le spese di procedura ed i crediti della massa, non esservi possibilità di distribuire attivo a nessuno dei creditori istanti per l'ammissione. In siffatte ipotesi, la procedura procede per il solo accertamento ed il soddisfacimento dei crediti prededucibili (a differenza del n. 4 sopra esaminato). Quindi tale disposizione, di segno deflattivo, evita l'espletamento di atti formali sostanzialmente inutili, quando il curatore abbia già il polso completo della situazione e quindi abbia accertato, dall'esame delle scritture contabili, della consistenza del patrimonio e delle possibilità di recupero di liquidità, che non vi è concreta prospettiva di soddisfazione dei creditori istanti (Forgillo, 1318). Si è rilevato, però, in caso di assoluta mancanza di attivo, che, qualora il curatore, anziché chiedere la chiusura del fallimento, ai sensi dell'art. 118, n. 4, l.fall., si limiti a domandare, ex art. 102 l.fall., di disporre di non farsi luogo al procedimento di accertamento del passivo, perché può prevedersi che l'attivo fallimentare non sarà sufficiente a soddisfare alcuno dei creditori che abbiano chiesto l'ammissione al passivo, salva la soddisfazione dei crediti prededucibili e delle spese di procedura, il tribunale deve comunque accogliere tale richiesta (Trib. Brescia 13 dicembre 2007). Altra ipotesi è quella contenuta nell'art. 119, comma 2, l.fall., nella parte in cui prevede che, se l'insufficienza di attivo emerga prima dell'approvazione del programma di liquidazione, il tribunale potrà chiudere il fallimento previo interpello del c.d.c. e del fallito. In tale ipotesi, l'acquisizione del parere del c.d.c. e l'audizione del fallito, valgono quale parere sulla proposta di chiusura; cosicché è improbabile che l'eventuale consenso prestato possa essere revocato in sede di reclamo contro il decreto di chiusura. Cancellazione dal registro delle imprese su richiesta del curatoreIl secondo comma dell'articolo in commento è stato aggiunto ex novo dal d.lgs. n. 5/2006 e, poi, modificato dal d.lgs. n. 169/2007 e, da ultimo, dal d.l. n. 83/2015, conv. in l. n. 132/2015. Esso riguarda, ai primi due periodi, il fallimento delle sole società, per le quali detta due disposizioni, che disciplinano taluni effetti della chiusura. La prima disposizione prescrive che, «nei casi di chiusura di cui ai nn. 3) e 4)», il curatore chiede la cancellazione della società fallita dal registro delle imprese. La cancellazione qui prevista presuppone e si giustifica per il fatto che alla chiusura del fallimento non residuano beni nel patrimonio della società fallita, per cui, una volta esaurita la procedura fallimentare, non vi è più alcun interesse meritevole di tutela a mantenere nel mondo giuridico un'entità soggettiva, ormai ridotta a «scatola vuota», sicché il legislatore ne ha, quindi, disposto la definitiva eliminazione (Norelli, 691). Ed ancora, con l'estinzione della società fallita, vengono a estinguersi, altresì, tutti i residui rapporti obbligatori che ad essa fanno capo (artt. 2312, comma 2, e 2495, comma 2, c.c.); tuttavia, non viene, però, meno la responsabilità dei soci illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali (artt. 2291, comma 1; 2313, comma 1; 2452 c.c.): essi, a seguito della cancellazione della società, non sono liberati nei confronti dei creditori sociali (artt. 2312, comma 2, 2324 c.c.). Quanto ad eventuali «sopravvenienze attive» (beni eventualmente sfuggiti all'acquisizione al fallimento o sopravvenienti), estinta la società si formerà una comunione pro indiviso fra i soci esistenti al momento della cancellazione (Cass. S.u., n. 6070/2013), sicché i creditori sociali non soddisfatti potranno far valere i loro diritti nei confronti dei medesimi soci solo sulla quota spettante a costoro ovvero nei limiti del valore della quota (art. 2495, comma 2, c.c.). Chiusura del fallimento di società con soci a responsabilità illimitataLa seconda disposizione dettata nel nuovo secondo comma dell'articolo in commento riguarda il fallimento delle società con soci illimitatamente responsabili, ai quali, a norma dell'art. 147 l.fall., viene esteso il fallimento: la chiusura del fallimento sociale, nei soli casi di cui ai nn. 1 e 2, determina anche la chiusura dei fallimenti dei singoli soci. Prima della riforma del 2006 si riteneva normalmente che la chiusura del fallimento sociale con soci illimitatamente responsabili comportasse anche la chiusura del fallimento dei soci, pur in presenza di creditori personali di questi ultimi, in quanto il socio non falliva ex se, ma per ripercussione del fallimento della società, e quindi non vi sarebbe ragione di mantenere aperto il loro fallimento, non essendo essi degli imprenditori. Con la riforma, invece, è stato opportunamente chiarito che la chiusura del fallimento sociale determina anche la chiusura del fallimento dei singoli soci, soltanto se non vi è (o non vi è più) un passivo della società da soddisfare in sede concorsuale — perché o non sono state presentate domande di ammissione da parte di creditori sociali (n. 1) o i crediti ammessi nel fallimento sociale sono stati pagati o estinti (n. 2) – venendo meno, in tali casi, il presupposto del fallimento dei singoli soci, ossia la responsabilità illimitata dei soci medesimi per le obbligazioni sociali. Pertanto, una volta verificatosi uno dei predetti casi di chiusura del fallimento sociale, si deve senz'altro procedere alla chiusura anche dei fallimenti dei singoli soci, ancorché vi siano creditori particolari di tali soci ammessi al passivo dei rispettivi fallimenti (a norma dell'art. 148, comma 4, l.fall.) e i cui crediti non siano stati pagati né risultino in altro modo estinti. La disposizione in esame sembra, dunque, da intendere non già nel senso che, dichiarata la chiusura del fallimento della società per i casi di cui ai numeri 1 e 2, cessano automaticamente anche i fallimenti dei singoli soci, senza che occorra una pronuncia di chiusura di tali fallimenti per «estensione»; bensì nel senso che i casi di chiusura del fallimento della società di cui ai nn. 1 e 2 si ripercuotono sui fallimenti dei singoli soci, fungendo da ulteriori casi di chiusura di questi fallimenti, i quali, in altri termini, devono essere chiusi, quando le circostanze di cui ai nn. 1 e 2 si verificano con riferimento non solo al passivo dei singoli soci, ma anche al passivo della società, a prescindere dal passivo dei medesimi singoli soci. Quindi, la chiusura dei fallimenti dei singoli soci in conseguenza della chiusura del fallimento sociale, essendo riconducibile ai casi di cui ai nn. 1 e 2, comporta che: a) non è possibile la riapertura di quei fallimenti, potendo a questa farsi luogo solo nei casi di cui ai nn. 3 e 4 (art. 121 l.fall.); b) i medesimi soci non possono ottenere l'esdebitazione, la quale riguarda i residui debiti concorsuali (art. 142, comma 1, l.fall.) non soddisfatti integralmente (art. 143, comma 1, l.fall.) e non è concedibile qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali (art. 142, comma 2, l.fall.), sicché presuppone necessariamente che il fallimento si chiuda per compiuta ripartizione dell'attivo (art. 118, n. 3, l.fall.) (Norelli, 709). Constatato, dunque, il verificarsi di uno dei menzionati casi di chiusura del fallimento sociale, le operazioni fallimentari riguardanti i patrimoni dei singoli soci non possono proseguire, ma la chiusura dei fallimenti dei medesimi singoli soci deve essere formalmente dichiarata, così come la chiusura del fallimento della società. A ciò può provvedersi, a norma dell'art. 119 l.fall., contestualmente con un unico decreto ovvero separatamente con distinti decreti. In ogni caso, il curatore deve preventivamente rendere il conto della gestione per ciascuno dei fallimenti (atteso che, a norma dell'art. 116, comma 1, l.fall., egli è tenuto a rendere il conto «in ogni caso in cui cessa dalle funzioni»), e il tribunale deve, altresì, provvedere alla liquidazione del compenso e delle spese dovuti al curatore (art. 39, comma 1) tenendo conto dell'attivo e del passivo di ciascun fallimento. Da ciò deriva, pertanto, che la chiusura del fallimento nelle ipotesi di cui ai nn. 3) (compiuto riparto finale) e 4) (mancanza o insufficienza di attivo) dell'art. 118 l.fall. non determina la chiusura del fallimento individuale del socio illimitatamente responsabile, che dovrebbe pertanto rimanere aperto in attesa del verificarsi di un nuovo evento che ne determini la chiusura. In tali casi, invero, poiché rimangono debiti sociali insoddisfatti, si giustifica la permanenza del fallimento del socio, allo scopo di realizzare la propria responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, nei casi di attivo insufficiente (Limitone, 1673; Fabiani 2007, 49). La chiusura del fallimento sociale ai sensi dei nn. 1) e 2) dell'art. 118 l.fall., comunque, non consente anche la chiusura del fallimento del singolo socio, quando nei suoi confronti è «stata aperta una procedura di fallimento come imprenditore individuale». La norma appare non agevolmente decifrabile, in quanto sembrerebbe riconoscere la possibilità di una pluralità di dichiarazioni di fallimento nei confronti della stessa persona fisica, in contrasto con il principio di universalità della procedura fallimentare, che investe l'intero patrimonio del fallito (per cui è sufficiente una sola dichiarazione di fallimento per determinare lo spossessamento integrale, e quindi la superfluità di un'altra procedura). In ogni caso, nell'ipotesi in cui un soggetto sia stato dichiarato fallito, oltre che come socio illimitatamente responsabile, anche come imprenditore individuale, la chiusura del primo fallimento non determina anche la chiusura del secondo, dovendosi riconoscere autonomia ad ogni singola procedura. La chiusura con liti pendentiL'art. 7, comma 1, lett. a), del d.l. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2015, n. 132, ha introdotto una rilevante novità relativamente alla fase di chiusura del fallimento, prevedendo la possibilità di procedere alla chiusura della procedura pur in presenza di liti «attive» pendenti delle quali sia parte la curatela fallimentare. In sostanza, è stato previsto che, in presenza di azioni recuperatorie/restitutorie intraprese dal curatore, sia possibile procedere comunque al riparto finale ed alla chiusura del fallimento, con riserva di riparti supplementari in caso di esito positivo di tali azioni, e quindi con una limitata ultrattività degli organi della procedura ai soli fini della prosecuzione dei giudizi e dell'effettuazione dei riparti supplementari. La novella ha chiaramente la finalità di ricondurre le procedure fallimentari entro una durata «ragionevole», visto che molto spesso i fallimenti restavano aperti unicamente per consentire la conclusione dei giudizi recuperatori intrapresi dal curatore, e trova un precedente nell'art. 92 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (Testo Unico in materia Bancaria), con riferimento alle liquidazioni coatte amministrative delle banche. L'applicazione della chiusura anticipata delle procedure fallimentare è limitata, comunque, alla sola ipotesi di cui al n. 3) del comma 1 dell'art. 118 l.fall., e quindi all'avvenuta ripartizione dell'attivo (fino a quel momento) realizzato. Il curatore, quindi, dovrà procedere in ogni caso ad un riparto finale dell'attivo esistente, con i relativi accantonamenti previsti dall'art. 117 l.fall., salvo effettuare ulteriori riparti supplementari in caso di recupero di liquidità a seguito dell'esito positivo dei giudizi pendenti. La norma in esame, peraltro, pone una serie di problemi interpretativi, riguardanti soprattutto l'individuazione dei giudizi in presenza dei quali può procedersi alla chiusura del fallimento, la legittimazione del curatore nella fase esecutiva, le modalità di determinazione degli accantonamenti per gli oneri relativi ai giudizi in questione, la normativa fiscale. In particolare, per quel che riguarda la determinazione dei giudizi in presenza dei quali può procedersi a chiusura del fallimento, va chiarito che la norma riguarda soltanto le liti attive, come si evince dalla relazione ministeriale allo schema di disegno di legge di conversione, dove di fa riferimento alla «pendenza di controversie relative ai diritto oggetti del patrimonio dell'impresa fallita». La norma, quindi, non attiene alle liti passive, che peraltro riguardano generalmente le opposizioni allo stato passivo, che, secondo un orientamento consolidato, non costituiscono un ostacolo alla chiusura del fallimento. Va osservato, inoltre, che l'applicazione della norma presuppone, come già detto, l'avvenuta ripartizione dell'attivo, il che vuol dire che potrà procedersi alla chiusura soltanto nell'ipotesi in cui sia stata conclusa la liquidazione dell'attivo, dovendosi ritenere che, dopo la chiusura, non vi siano più margini di attività liquidatoria, ma soltanto spazio per la ripartizione delle sopravvenienze attive a seguito dell'esito vittorioso dei giudizi in essere (non a caso, di parla di riparti supplementari per le «somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti definitivi»). Da ciò consegue che non potrà applicarsi la chiusura ex art. 118, comma 2, l.fall., nel caso di pendenza di azioni revocatorie, di inefficacia o di simulazione di cessioni di beni, in quanto, in tali casi, il curatore dovrà procedere successivamente ad un'ulteriore attività liquidatoria, mentre potrà procedersi a tale chiusura nei caso di azioni revocatorie di pagamenti, ovvero di azioni di recupero di crediti del fallito o risarcitorie (ad es., azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori), in quanto tali azioni tendono unicamente a conseguire il pagamento di una somma di denaro, che sarà quindi oggetto direttamente di riparti supplementari. La legittimazione del curatore, quindi, permane sia per la fase di cognizione, sia per la fase di esecuzione (in caso di mancato adempimento spontaneo della parte soccombente nel giudizio promosso dal curatore), in quanto, naturalmente, non avrebbe senso consentire la prosecuzione del giudizio, senza poi attribuirgli la legittimazione anche per il recupero coattivo del credito (Clemente, 5). Si ritiene, pertanto, che possa procedersi alla chiusura anche in pendenza di giudizi esecutivi promossi o proseguiti dal curatore, salvo che trattasi di azioni esecutive che il curatore abbia esercitato in sostituzione ai creditori ex art. 107, comma 6, l.fall., perché trattasi di azioni esecutive che attengono alla fase di liquidazione dell'attivo acquisito alla procedura fallimentare. Non è chiaro, peraltro, se possa procedersi alla chiusura anticipata anche nelle ipotesi di mancanza o insufficienza di attivo (art. 118, comma 1, n. 4, l.fall.), e quindi quando l'unico attivo prevedibile consista nelle somme da recuperarsi nei giudizi pendenti. Il tenore letterale della norma sembrerebbe non consentirlo, facendosi riferimento unicamente all'ipotesi di cui sia comunque avvenuto un riparto di attivo, anche se non sono mancate interpretazioni meno restrittive, tenuto conto delle finalità acceleratorie della norma. Del resto, l'ultima parte del secondo comma dell'art. 118 l.fall. consente al debitore di chiedere l'esdebitazione allorché, per effetto della conclusione dei giudizi pendenti, venga meno l'impedimento all'esdebitazione di cui all'art. 142, comma 2, l.fall. (ossia quando non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali, cioè che non sia stato disposto alcun riparto a favore dei creditori ante fallimento), il che vuol dire che la chiusura del fallimento totalmente incapiente non è comunque incompatibile con la prosecuzione dei giudizi pendenti. Il decreto di chiusura anticipata deve contenere l'indicazione delle modalità per l'effettuazione dei riparti supplementari, il che vuol dire che il curatore dovrà quanto meno delineare il possibile riparto supplementare che si renderebbe attuabile in caso di esito positivo dei giudizi in corso. Nell'istanza di chiusura, peraltro, il curatore dovrà indicare le somme il cui accantonamento appare necessario per sostenere gli oneri connessi alla prosecuzione dei giudizi (compensi ai difensori della curatela, spese per il recupero coattivo dei crediti, spese legali in favore della controparte in caso di soccombenza, spese per eventuali impugnazioni, ecc.). Molto problematiche appaiono, infine, le tematiche fiscali connesse alla chiusura anticipata della procedura. In particolare, i problemi che si pongono riguardano: a) la dichiarazione finale ai fini della imposte dirette; b) l'Iva ed il momento della variazione ex art. 26 d.P.r. n. 633/1972; c) il curatore come sostituto d'imposta. Secondo una prima opzione interpretativa, non vi sarebbero cambiamenti rispetto al passato, con la conseguenza che il curatore dovrebbe provvedere, a seguito della chiusura del fallimento, a procedere alla cancellazione della società dal registro delle imprese ex art. 118, comma 2, primo periodo, l.fall., e quindi alla presentazione della dichiarazione di cessata attività e di chiusura della partita Iva (art. 35 d.P.R. n. 633/1972), nonché, ai fini delle imposte dirette, alla presentazione della dichiarazione relativa al risultato finale delle operazioni compiute nel periodo fallimentare entro l'ultimo giorno del nono mese successivo a quello di chiusura del fallimento (art. 5, comma 4, d.P.R. n. 322/1998), ed infine alla presentazione, nei termini di scadenza ordinari, della c.d. dichiarazione Iva relativa al segmento temporale compreso tra il 1° gennaio e la data di chiusura del fallimento. Gli inconvenienti ed i problemi operativi sollevati da questa scelta interpretativa sono tuttavia evidenti e di non agevole soluzione, soprattutto nel caso di fallimento di società. Ed infatti, una volta stabilito, in coerenza con il principio enunciato dalla dinanzi citata sentenza n. 6071 del 2013 delle Sezioni Unite della Cassazione, che la titolarità tanto delle somme accantonate ai sensi del nuovo quinto periodo dell'art. 118, comma 2, quanto quelle rivenienti dalle sopravvenienze attive generate dall'esito vittorioso dei giudizi in corso, siano da riferire ai soci, per coerenza logica si dovrebbe parimenti ritenere, in primo luogo, che le somme stesse vadano versate su un conto corrente bancario o postale nella disponibilità del curatore fallimentare ma cointestato a coloro che della società costituivano il substrato personale; e, in secondo luogo, che le ritenute fiscali sugli interessi attivi maturati sulle giacenze di tale conto corrente bancario debbano essere operate (a titolo d'imposta o a titolo d'acconto, a seconda della differente natura del soggetto sostituito), dalla banca sostituto d'imposta, a nome e con il codice fiscale degli ex soci, i quali, anche se operanti in regime d'impresa, non potrebbero tuttavia disporre di tale credito (gli interessi attivi riscossi da soggetti che non rivestono lo status di imprenditore sono tassati a titolo d'imposta) essendo anch'esso soggetto al vincolo di destinazione esecutiva di cui all'art. 51 l.fall. (Stasi). E si dovrebbe altresì ritenere, per un verso, che, con la chiusura del fallimento, il curatore perda lo status di sostituto d'imposta e, quindi, non sia più tenuto ad operare le ritenute fiscali sulle somme successivamente ripartite, né a compilare il mod. 770 per gli importi corrisposti; per altro verso, che l'IVA esposta sulle fatture emesse dai creditori beneficiari di queste ripartizioni non possa essere più dedotta, al pari di quella relativa al compenso finale del curatore e di tutti di altri compensi corrisposti dalla curatela ai professionisti per le attività prestate successivamente alla chiusura del fallimento. Infine, si dovrebbe reputare che le sopravvenienze attive eventualmente derivanti dalla vittoriosa conclusione dei giudizi pendenti al momento della chiusura del fallimento, non essendo imputabili alla società estinta (perché sorte successivamente alla chiusura del fallimento), non possano entrare nel computo del residuo attivo ex art. 182, comma 2, d.P.r. n. 917/1986, ma possano semmai rilevare come componenti reddituali in capo agli ex soci (allo stesso modo della quota parte dei debiti sociali non estinti), pur non avendone essi la disponibilità. Tali inconvenienti sono destinati a cadere qualora si ritenga che l'obbligo di cancellazione della società fallita scatti soltanto allorché sia stata compiuta la liquidazione dell'attivo e non vi siano più somme da ripartire tra i creditori, neppure in prospettiva, e non già nell'ipotesi assimilata in cui le attività del curatore e del giudice delegato proseguano anche dopo la chiusura del fallimento per l'acquisizione di ulteriore attivo da ripartire tra i creditori. Tale interpretazione, oltre ad essere rispettosa del principio secondo il quale la cancellazione della società ex art. 2495 c.c. non può essere disposta quando nel bilancio finale di liquidazione (a cui è assimilabile, in sede fallimentare, il rendiconto del curatore ex art. 116 l.fall.) figurino iscritti residui patrimoniali attivi non liquidati e non destinati ad essere assegnati ai soci o rinunciati da parte del liquidatore, appare altresì consentita dalla lettera e dalla collocazione della disposizione, inserita dopo quella che pone a carico del curatore l'obbligo di chiedere la cancellazione della società fallita dal registro delle imprese nei casi di chiusura di cui ai numeri 3) e 4) del primo comma dell'art. 118. Ed è inoltre coerente con la sua ratio, da individuarsi nel proposito di velocizzare la chiusura della procedura fallimentare al fine di sfuggire ai rigori della c.d. legge Pinto, senza alcuna pretesa di influire sulla durata della vita della società, la quale può benissimo proseguire sino alla effettiva definizione di tutte le pendenze. In base a questa impostazione, dunque, sul piano fiscale il curatore continuerà ad operare con la partita Iva ed il codice fiscale della società già fallita, ed i termini per l'espletamento degli adempimenti dichiarativi e comunicativi previsti dalla legge ai fini delle imposte dirette e dell'Iva decorreranno non già dall'emissione del decreto di chiusura, bensì dalla data del riparto finale post-fallimento previsto dal sesto periodo dell'art. 118, comma 2, l.fall., data, quest'ultima, che rappresenterà anche il momento finale del maxi periodo fallimentare; il curatore, inoltre, conserverà lo status di sostituto d'imposta sino al momento dell'effettuazione dell'ultimo riparto supplementare (Stasi, 3-4). Le conseguenze della chiusuraLa chiusura del fallimento segna il ritorno in bonis del fallito (art. 120 l.fall.), salvo nel caso in cui si tratti di una società e si pervenga alla chiusura del fallimento per ripartizione finale o per insufficienza di attivo [art. 118, comma 1, nn. 3) e 4) l.fall.] In tali due casi, infatti, l'art. 118 impone al curatore di chiederne la cancellazione dal registro delle imprese. Conseguenza diretta, per le società di capitali, è l'estinzione irreversibile, pur in presenza di creditori insoddisfatti (art. 2495, comma 2, c.c.). In caso, invece, di chiusura del fallimento della società per mancanza di domande o estinzione di tutti i debiti (ipotesi nn. 1 e 2), lo stesso art. 118 dispone che si chiuda correlativamente anche la procedura fallimentare che, ai sensi dell'art. 147, era stata estesa ai soci illimitatamente responsabili (non quindi nell'ipotesi diversa in cui gli stessi siano dichiarati falliti in via autonoma, in qualità di imprenditori individuali). La chiusura della procedura avviene, su iniziativa del curatore, del debitore, ovvero d'ufficio (art. 119 l.fall.). A tal proposito, in giurisprudenza è stato osservato che al verificarsi di una delle ipotesi previste dall'art. 118, gli organi della procedura non hanno alcun potere discrezionale, e sono tenuti a dichiarare la cessazione del fallimento; di conseguenza, il giudizio sul reclamo avverso la chiusura verte esclusivamente sulla verifica della sussistenza di una delle ipotesi previste dall'art. 118 l.fall. (Cass. n. 395/2010). In relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento. Qualora alla conclusione dei giudizi pendenti consegua, per effetto di riparti, il venir meno dell'impedimento all'esdebitazione di cui al comma 2 dell'art. 142 l.fall. (mancato soddisfacimento, neppure in parte, dei creditori concorsuali), il debitore può chiedere l'esdebitazione nell'anno successivo al riparto che lo ha determinato. 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