Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 119 - Decreto di chiusura.

Valentino Lenoci

Decreto di chiusura. 

 

La chiusura del fallimento è dichiarata con decreto motivato del tribunale su istanza del curatore o del debitore ovvero di ufficio, pubblicato nelle forme prescritte nell'art. 17. Unitamente all'istanza di cui al primo periodo il curatore deposita un rapporto riepilogativo finale redatto in conformità a quanto previsto dall'articolo 33, quinto comma 1.

Quando la chiusura del fallimento è dichiarata ai sensi dell' articolo 118, primo comma, n. 4) , prima dell'approvazione del programma di liquidazione, il tribunale decide sentiti il comitato dei creditori ed il fallito  2.

Contro il decreto che dichiara la chiusura o ne respinge la richiesta è ammesso reclamo a norma dell' articolo 26. Contro il decreto della corte d'appello il ricorso per cassazione e' proposto nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dalla notificazione o comunicazione del provvedimento per il curatore, per il fallito, per il comitato dei creditori e per chi ha proposto il reclamo o e' intervenuto nel procedimento; dal compimento della pubblicita' di cui all' articolo 17 per ogni altro interessato 3.

Il decreto di chiusura acquista efficacia quando e' decorso il termine per il reclamo, senza che questo sia stato proposto, ovvero quando il reclamo e' definitivamente rigettato 4.

Con i decreti emessi ai sensi del primo e del terzo comma del presente articolo, sono impartite le disposizioni esecutive volte ad attuare gli effetti della decisione. Allo stesso modo si provvede a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di revoca del fallimento o della definitività del decreto di omologazione del concordato fallimentare 567

[1] Comma modificato dall'articolo 14, comma 1,  lettera b), del D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023, come stabilito dall'articolo 35, comma 1, del D.Lgs. 149/2022 medesimo, come modificato dall'articolo 1, comma 380, lettera a), della Legge 29 dicembre 2022, n. 197.

[2] Comma sostituito dall' articolo 109 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 .

[3] Comma inserito dall' articolo 109 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e, successivamente, modificato dall' articolo 9, comma 2, lettera a), del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169 , con la decorrenza indicata nell' articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007 .

[6] La Corte costituzionale, con sentenza 28 novembre 2002, n. 493 , ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo, nel testo anteriore alle modifiche, nella parte in cui escludeva la reclamabilità dinanzi alla Corte d'appello del decreto di rigetto dell'istanza di chiusura del fallimento.

[7] La Corte Costituzionale, con sentenza 23 luglio 2010, n. 279 (in Gazz. Uff., 28 luglio, n. 30), ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del secondo comma del presente articolo, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, nella parte in cui fa decorrere, nei confronti dei soggetti interessati e gia' individuati sulla base degli atti processuali, il termine per il reclamo avverso il decreto motivato del tribunale di chiusura del fallimento, dalla data di pubblicazione dello stesso nelle forme prescritte dall'art. 17 della stessa legge fallimentare, anziche' dalla comunicazione dell'avvenuto deposito effettuata a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero a mezzo di altre modalita' di comunicazione previste dalla legge.

Inquadramento

La chiusura del fallimento non si verifica ipso iure al verificarsi di una delle ipotesi previste dalla legge, ma deve essere dichiarata dal Tribunale con decreto motivato, su istanza del creditore, del debitore o anche d'ufficio. Per esso sono prescritte le stesse forme di pubblicità previste per la sentenza dichiarativa (art. 119 l.fall.). Questa previsione non ha subito modifiche dalla novella del 2006 né dal correttivo del 2007; difatti, ciò, dimostra il perdurante interesse pubblicistico sottostante le procedure concorsuali (Forgillo, 1320).

Quindi essendo il curatore l'amministratore del patrimonio del fallito, è certamente coerente mantenere in suo capo il potere/dovere di chiedere al tribunale la chiusura della procedura in conseguenza di una delle fattispecie tipizzate. È opinione ampliamente consolidata che anche i creditori possano avere interesse ad un una rapida chiusura, ma, non avendo un riconoscimento esplicito nel novero dei legittimati, possono solo limitarsi a sollecitare i poteri d'ufficio del tribunale mediante istanza rivolta al curatore, al g.d. o al tribunale. Sul punto è importante sottolineare che, se la chiusura avviene prima dell'approvazione del programma di liquidazione, il tribunale deve previamente sentire il comitato dei creditori ed il fallito. Inoltre, come già precisato dal decreto correttivo (d.lgs. n. 169/2007), il decreto di chiusura acquista efficacia quando è decorso il termine per il reclamo senza che questo sia stato proposto, oppure quando il reclamo è stato rigettato in modo definitivo.

In ogni caso, il fallimento non può essere chiuso se l'istanza relativa viene presentata in mancanza del rendiconto del curatore (Cass. n. 12398/1992), o senza che sia stato liquidato il compenso del curatore, o prima che venga effettuato il riparto finale dell'attivo. Il fallimento, inoltre, non può cessare per inattività delle parti interessate (ad es., il curatore), salva la rinuncia alle insinuazioni al passivo ed il conseguente verificarsi della causa di chiusura previste dall'art. 118, comma 1, nn. 1) e 2), l.fall. Il procedimento fallimentare, infatti, sotto questo profilo non è assimilabile ad un processo ordinario di cognizione (Limitone, 1677).

L' art. 390 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, dispone: sono definiti ancora con le norme del r.d. n. 267/1942 i ricorsi per l'apertura del concordato preventivo depositati prima dell'entrata in vigore del d.lgs. (15 luglio 2022); sono definite secondo le norme del r.d. n. 267/1942 le procedure di concordato preventivo pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. nonchè le procedure aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande di concordato preventivo.

Il procedimento

A norma dell'art. 119, comma 1, l.fall., il decreto di chiusura del fallimento può essere adottato dal tribunale su istanza del curatore o del fallito, ovvero d'ufficio, il che accade per lo più su impulso del giudice delegato, cui compete, come è noto, il controllo sul regolare svolgimento della procedura.

L'accertamento dei fatti e delle circostanze indicate nell'art. 118, comma 1, l.fall. costituisce il fulcro della motivazione su cui deve basarsi il decreto di chiusura del fallimento, restando inteso che, in presenza di riferiti presupposti, l'adozione dello stesso provvedimento da parte del tribunale costituisce un atto necessario. In sostanza, riscontrato il ricorrere delle ipotesi normativamente declinate, non vi è spazio per eventuali valutazioni giudiziali circa l'opportunità di tenere in vita il fallimento, la cui chiusura risulta ineludibile (Capo, 530). Tuttavia, quando si profila la chiusura del fallimento per mancanza di attivo [art. 118 comma 1, n. 4) l.fall.], se non è ancora stato approvato il programma di liquidazione, il tribunale deve pronunciarsi avendo acquisito il parere del comitato dei creditori e del fallito. Invero, nel caso di specie, il coinvolgimento del comitato dei creditori nel procedimento di chiusura del fallimento sembra coerente con il ruolo attribuito a tale organo in sede di pianificazione strategica della gestione fallimentare (attraverso l'esame del programma di liquidazione predisposto dal curatore). Quanto alla previsione inerente all'acquisizione del parere del fallito, poi, sembra doversi spiegare nella logica di un corretto accertamento del presupposto della mancanza di attivo, ai cui fini possono senz'altro assumere rilievo le indicazioni del debitore in ordine all'effettiva consistenza del suo patrimonio e delle sue valutazioni in merito al possibile sopravvenire di attività idonee ad integrarne la composizione. D'altra parte, giova ricordare che l'osservanza, da parte del fallito, di comportamenti improntati alla collaborazione con gli organi della procedura, costituisce uno dei presupposti per l'accesso al beneficio dell'esdebitazione.

Il decreto di chiusura del fallimento contiene disposizioni esecutive funzionali alla attuazione degli effetti della decisione (art. 119, comma 5, l.fall.). Il contenuto di tali disposizioni sarà definito e calibrato in considerazione del presupposto che ha specificatamente determinato la chiusura: si tratta di disposizioni finalizzate a conseguire l'obbiettivo di ripristinare il quando giuridico preesistente all'apertura della procedura. Dispone il primo comma, infine, che il decreto di chiusura del fallimento è soggetto alle forme di pubblicità previste dall'art. 17 l.fall. con riferimento alla sentenza con cui si apre la procedura: esso dovrà, quindi essere notificato al fallito ed al pubblico ministero, ai sensi dell'art. 137 c.p.c., comunicato per estratto al curatore, ai sensi dell'art. 136 c.p.c. ed iscritto nel registro delle imprese. L'art. 14 del D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, ha aggiunto al primo comma dell'art. 119 la disposizione secondo cui unitamente all'stanza di chiusura il curatore deve depositare un rapporto riepilogativo finale redatto nelle forme dei rapporti riepilogativi periodici.

La legittimazione

Quanto alla legittimazione attiva, il procedimento di chiusura prende avvio «su istanza del curatore o del debitore ovvero di ufficio» (art. 119, comma 1, l.fall.). È prevista, dunque, accanto a un'iniziativa di parte, un'iniziativa officiosa, ossia dello stesso tribunale che deve provvedere. Tale legittimazione implica che una istanza proveniente da un diverso soggetto non può avere altro valore che quello di una mera sollecitazione rivolta al tribunale perché eserciti il suo potere officioso ed apra, quindi, il procedimento.

Nel caso di istanza proposta dal curatore, questi deve depositare un rapporto riepilogativo finale redatto in conformità a quanto previsto dall'art. 33 l.fall. Diversamente, ove la chiusura sia chiesta da un soggetto legittimato, si deve dar corso al procedimento e deve pervenirsi alla emanazione di un provvedimento (motivato) di accoglimento o di reiezione della istanza, avverso il quale è esperibile un'impugnazione.

In merito alla legittimazione passiva, risulta evidente che il provvedimento non è destinato a produrre effetti nei confronti della sola parte istante, ovvero, in caso di pronuncia ex officio, nei confronti di uno solo dei soggetti legittimati all'istanza. In relazione agli effetti diretti del provvedimento di chiusura vi possono, dunque, essere interessi confliggenti in ordine alla cessazione ovvero alla prosecuzione della procedura fallimentare, tant'è che la norma in commento ammette il reclamo ex art. 26 l.fall. «contro il decreto che dichiara la chiusura o ne respinge la richiesta» (terzo comma), disposizione modificata dal d.lgs. n. 5/ 2006 in aderenza al disposto della sentenza della Corte cost. n. 493/2002 (la quale aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 119, vecchio testo, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24 Cost., nella parte in cui escludeva la reclamabilità dinanzi alla corte d'appello del decreto di rigetto dell'istanza di chiusura del fallimento, rilevando la contrapposizione degli interessi di chi insta per la chiusura del fallimento e di chi ad essa si oppone).

Il reclamo alla Corte di Appello

Il legislatore, con tale strumento, si è adeguato alla pronuncia della Corte costituzionale (del 21 novembre 2002 n. 493) che aveva dichiarato l'illegittimità dell'art. 119 l.fall. laddove non prevedeva la possibilità di proporre reclamo avverso il decreto di rigetto dell'istanza di chiusura.

Legittimati attivi a presentare reclamo avverso il decreto del Tribunale che rigetta la richiesta di chiusura del fallimento sono il fallito, il curatore, il comitato dei creditori, i creditori comunque interessati, i terzi fideiussori che vogliono esercitare il regresso verso il fallito tornato in bonis non esdebitato (D'Orazio, 724).

Altra parte della dottrina, tuttavia, però limita il potere di impugnativa, in questo caso, solo al curatore ed al debitore, in quanto se fosse ammissibile il reclamo da parte di altro soggetto, si legittimerebbe alla richiesta di chiusura in sede di reclamo un soggetto che non ha tale legittimazione in primo grado (Norelli, La chiusura del fallimento, in Le riforme della legge fallimentare, a cura di Didone, Torino, 2009, 1316). Tuttavia, tenendo conto del fatto che i creditori sono comunque beneficiari della procedura, e destinatari degli effetti della eventuale chiusura, non può negarsi che gli stessi abbiano un interesse concreto al mantenimento della stessa procedura, allorquando non siano stati integralmente soddisfatti. Deve tuttavia trattarsi di creditori che abbiano presentato istanza di ammissione al passivo (sia pure, eventualmente, sub judice ex art. 98 l.fall. (contra, tuttavia, Irace, 738, che ammette al reclamo anche i creditori che non abbiano presentato tempestiva domandadi ammissione al passivo; per l'ammissibilità del reclamo da parte dei creditori che non hanno ricevuto l'avviso ex art. 92 l.fall., v. Caiafa, 475).

Per presentare reclamo occorre la difesa tecnica, in quanto vi è una posizione di contrasto tra le parti ed il provvedimento finale è impugnabile per cassazione. Precedentemente, la Cassazione (Cass. n. 2809/1999) aveva stabilito che il fallito rientrava nel novero dei soggetti che, ai sensi dell'art. 119 l.fall., erano legittimati al reclamo avverso il decreto di chiusura del proprio fallimento, purché con l'assistenza di un difensore; inoltre, legittimati a presentare reclamo avverso il decreto di chiusura, erano anche i creditori che potevano ricevere pregiudizio da tale chiusura. Su tale aspetto, tuttavia, con altra pronuncia della Cassazione (Cass. n. 395/2010) è stato evidenziato che la cognizione rimessa al giudice del reclamo è limitata alla verifica della sussistenza di uno dei casi di chiusura previsti dall'art. 118 l.fall., sicché è stato ritenuto inammissibile il reclamo presentato da un creditore che aveva dedotto l'insussistenza di una delle ipotesi di chiusura del fallimento e che si era limitato ad allegare un illegittimo e grave pregiudizio dei suoi interessi.

In merito ai motivi del reclamo, è stato evidenziato che questi possono essere attinenti sia alla sussistenza o insussistenza di una determinata fattispecie (ex art. 118 l.fall.), per il quale è stata negata o dichiarata la chiusura, sia alla sussistenza di una fattispecie di chiusura diverso da quello per il quale è stata disposta la cessazione della procedura. In relazione ai diversi effetti che si ricollegano ai vari casi di chiusura, può, infatti, ravvisarsi l'interesse a impugnare anche solo per ottenere una riforma del provvedimento nella parte enunciativa della causa della chiusura (ovvero per ottenere una integrazione del provvedimento). Quanto alle questioni diverse, queste non sono ammesse: il reclamo contro il decreto di chiusura del fallimento può avere ad oggetto la sola contestazione della sussistenza di una delle ipotesi di cui all'art. 118 l.fall. e non può estendersi ad altre questioni (Cass. n. 395/2010; App. Salerno 22 maggio 2009).

Il reclamo va proposto con ricorso nel termine perentorio di dieci giorni (art. 26, comma 3, l.fall.), decorrente dalla comunicazione del provvedimento per il curatore, per il fallito e per il comitato dei creditori; per gli altri interessati, il termine non può che decorrere dalla pubblicazione del provvedimento di chiusura eseguita nelle forme prescritte nell'art. 17 l.fall., ossia mediante iscrizione nel registro delle imprese. Trova applicazione anche il termine lungo di tre mesi di cui all'art. 26, comma 4, l.fall., a norma del quale «il reclamo non può più proporsi decorso il termine perentorio di novanta giorni dal deposito del provvedimento in cancelleria», e ciò indipendentemente dalla previsione di cui al terzo comma dello stesso art. 26 l.fall., ossia dal fatto che il temine «breve» di dieci giorni sia iniziato a decorrere. Con riguardo alla normativa vigente prima delle modifiche di cui al d.lgs. n. 5/2006Cass. II, n. 15547/2022 ha affermato l'inidoneità dell'annotazione nel registro delle imprese del decreto di chiusura del fallimento a far decorrere il termine per il reclamo avverso il decreto, nei confronti dei creditori ammessi al passivo fallimentare. E ha precisato che al fine di individuare il termine lungo, di sei mesi o di un anno, deve aversi riguardo alla formulazione dell'art. 327 c.p.c. vigente alla data della sentenza di apertura del fallimento.

I termini di cui innanzi non sono soggetti alla sospensione feriale, ai sensi dell'art. 36-bis l.fall.

Legittimato passivamente al reclamo (vale a dire, soggetto nei cui confronti va proposta l'impugnazione) deve ritenersi ciascuno dei due medesimi soggetti legittimati a chiedere la chiusura: il reclamo del curatore è proposto nei confronti del debitore; il reclamo del debitore è proposto nei confronti del curatore.

Il reclamo si propone alla competente Corte d'Appello, la quale provvede in camera di consiglio (art. 26, comma 1, l.fall.). Il procedimento di secondo grado, perciò, segue il rito camerale, ma secondo il modulo delineato dalle disposizioni dell'art. 26 l.fallLa cognizione rimessa al giudice in sede di reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento, ai sensi dell'art. 119, comma 2, l.fall., è limitata alla verifica della sussistenza di uno dei casi di chiusura di cui ai numeri da 1) a 4) dell'art. 118 l.fall., potendo il fallito o chiunque altro ne abbia interesse far valere nelle sedi proprie, esterne alla procedura, tutte le doglianze riferite alla conduzione del fallimento da parte dei suoi organi (Cass. I, ord. n. 12666/2022: nella specie, la S.C. ha cassato il decreto della Corte d'Appello che aveva revocato la chiusura del fallimento per avvenuta ripartizione dell'attivo in ragione della pendenza di un giudizio di opposizione avverso il decreto di trasferimento di un immobile appreso alla massa).

La corte decide sul reclamo con decreto motivato, con il quale conferma, modifica o revoca il provvedimento reclamato; tale decreto, poi deve essere comunicato, a cura della cancelleria, alle parti del procedimento di secondo grado. Deve, poi, essere pubblicato nelle forme di cui all'art. 17 l.fall., ed iscritto nel registro delle imprese.

Il ricorso per cassazione

Sono legittimati al ricorso per cassazione, stando al tenore letterale della disposizione: il curatore, il fallito, il comitato dei creditori, colui che ha proposto il reclamo, colui che è intervenuto nel procedimento ed «ogni altro interessato».

Ai sensi dell'art. 119, comma 3, l.fall. (dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 169/2007), entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione (se il ricorrente è il curatore, il fallito, il comitato dei creditori o il reclamante), ovvero dall'annotazione dello stesso presso il registro delle imprese (se a ricorrere è qualsiasi altro soggetto interessato), il decreto adottato dalla Corte di Appello all'esito del reclamo può a sua volta essere impugnato innanzi alla Corte di Cassazione, trattandosi di provvedimento che incide su diritti soggettivi delle parti interessate, o comunque perché decide definitivamente su situazioni riconducibili a posizioni di diritto sostanziale (Limitone 2014, 1682).

Il curatore e il fallito sono parti necessarie del procedimento di secondo grado e, quindi, secondo i principi generali, tanto l'uno quanto l'altro non possono non essere legittimati a impugnare il provvedimento della Corte d'Appello che ha rigettato il reclamo proposto da uno di loro, o che ha accolto il reclamo proposto nei confronti dell'altro.

Il comitato dei creditori risulta legittimato a ricorrere per cassazione, ancorché non abbia partecipato al procedimento di secondo grado. Colui che ha proposto il reclamo (sempre che — s'intende — sia un soggetto diverso dal curatore, dal fallito e dal comitato dei creditori, essendo costoro già compresi fra i soggetti legittimati), può essere solo un «altro interessato» (ex art. 26, comma 3, l.fall.), che abbia proposto reclamo avverso il decreto del tribunale dichiarativo della chiusura del fallimento e se lo sia visto respingere.

In conclusione, sembra che soggetti diversi dal curatore e dal fallito possono ricorrere per cassazione solo a tutela dell'interesse contrario alla chiusura della procedura, ossia dell'interesse alla prosecuzione di essa.

Quanto alla legittimazione passiva, in giurisprudenza è stato osservato che il ricorso per cassazione avverso il decreto di rigetto del reclamo, con cui sia stato impugnato il decreto di chiusura del fallimento, deve essere notificato al curatore, quale soggetto passivamente legittimato all'impugnativa; sicché, nel caso in cui il curatore sia medio tempore deceduto, è inammissibile il ricorso notificato allo stesso curatore presso la cancelleria del tribunale, per essere siffatta notificazione giuridicamente inesistente, in quanto eseguita nei confronti di una persona e presso una sede del tutto privi di collegamento con il soggetto intimato (Cass. n. 5562/2009).

L'efficacia del decreto di chiusura

Il quarto comma dell'articolo in commento (introdotto dal d.lgs. n. 169 del 2007) precisa che quando è decorso il termine per il reclamo, senza che questo sia stato proposto, ovvero quando il reclamo è definitivamente rigettato, il decreto di chiusura diviene efficace. Ne consegue che, fino a quando il decreto di chiusura non passa in giudicato, il fallimento non è ancora chiuso.

Invero, fino a quando non sono scaduti i termini per l'impugnazione, il decreto di chiusura non determina immediatamente la cessazione della procedura. Diversamente, in caso di revoca o di annullamento del decreto di chiusura, il fallimento prosegue: la procedura deve considerarsi mai cessata. Infatti, in dottrina (Norelli, 693) è stato sostenuto che non è concepibile che il fallimento cessi col decreto di chiusura e poi si ripristini con la revoca o la cassazione del decreto, perché ciò creerebbe un «vuoto», che la normativa non ammette, tant'è che è stato espressamente previsto che l'efficacia del provvedimento di chiusura è collegata alla sua definitività. Premesso ciò, si evidenzia comunque che al decreto di chiusura (non ancora definitivo) sembra ricollegarsi un effetto prodromico alla cessazione della procedura: l'inibizione per gli organi del fallimento dal compiere ulteriori atti, salvo quelli che servano a conservare le situazioni in atto e a salvaguardare gli interessi delle parti che dal provvedimento definitivo riceveranno tutela.

Le disposizioni esecutive in caso di chiusura del fallimento

Il quinto comma dell'articolo in commento stabilisce che con i decreti emessi ai sensi del primo e del terzo comma — ossia il decreto emesso dal tribunale e quello emesso dalla corte d'appello su reclamo — sono impartite le disposizioni esecutive volte ad attuare gli effetti della decisione.

A provvedere è il giudice che ha emesso il decreto di chiusura, e dunque il tribunale, se la chiusura è stata da esso dichiarata (ancorché il provvedimento sia stato poi confermato dalla corte d'appello), ovvero la corte d'appello, se essa ha dichiarato la chiusura in accoglimento del reclamo contro il decreto del tribunale che l'aveva negata. Tali disposizioni, essendo di natura «ordinatoria» (non «decisoria»), possono essere modificate dallo stesso giudice che le ha adottate, non solo su istanza degli interessati, ma anche d'ufficio. Difatti le disposizioni esecutive de quibus non sono meglio precisate dalla norma e sono, quindi, lasciate alle prudente valutazione del giudice, che deciderà di volta in volta sulla base delle circostanze del caso concreto. In pratica con tali provvedimenti il giudice deve disporre affinché gli effetti della decisione vengano concretamente attuati, e ciò prima ancora che gli effetti medesimi comincino a prodursi, posto che il provvedimento non è immediatamente esecutivo. Tra le disposizioni del giudice, si può pensare all'ordine di cancellazione della trascrizione della sentenza di fallimento qualora residuino, invenduti, beni (immobili o altri soggetti a pubblica registrazione) già acquisiti al fallimento (Trib. Roma, decr. 17 novembre 2008), ovvero all'ordine di restituzione di somme di denaro, nel caso di eventuale residuo di attivo, ovvero alle modalità degli eventuali riparti supplementari ex art. 117, comma 2, l.fall. (a seguito di accantonamenti per crediti condizionali o sub judice), o, ancora, degli eventuali riparti supplementari nel caso di esito positivo di giudizi pendenti, nell'ipotesi di chiusura anticipata ex art 118, comma 2, l.fall.

Altre disposizioni sono previste per la situazione che si determina a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di revoca del fallimento o della definitività del decreto di omologazione del concordato fallimentare.

Trattasi di situazioni che determinano la chiusura ex lege del fallimento, e pertanto, in tali casi, il decreto del Tribunale non sarà che una mera presa d'atto della cessazione avvenuta aliunde, limitandosi a dettare soltanto disposizioni meramente esecutive per attuare gli effetti della cessazione della cessazione.

Dal tenore della norma si evince l'immediata esecutività del decreto di chiusura, ma non della revoca del fallimento e del decreto di omologazione del concordato fallimentare, i cui effetti sono invece differiti al passaggio in giudicato (Riso, 262).

Bibliografia

v. sub art. 118.

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