Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 120 - Effetti della chiusura.

Valentino Lenoci

Effetti della chiusura.

 

Con la chiusura cessano gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito e le conseguenti incapacita' personali e decadono gli organi preposti al fallimento1.

Le azioni esperite dal curatore per l'esercizio di diritti derivanti dal fallimento non possono essere proseguite2.

I creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi, salvo quanto previsto dagli articoli 142 e seguenti3.

Il decreto o la sentenza con la quale il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta per gli effetti di cui all'articolo 634 del codice di procedura civile 4(4).

Nell'ipotesi di chiusura in pendenza di giudizi ai sensi dell'articolo 118, secondo comma, terzo periodo e seguenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini di quanto ivi previsto. In nessun caso i creditori possono agire su quanto e' oggetto dei giudizi medesimi5.

[5] Comma aggiunto dall'articolo 7, comma 1, lettera b), del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132 ; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 7, del medesimo decreto.

Inquadramento

La chiusura del fallimento determina effetti per il debitore fallito e per gli organi della procedura ed anche sui giudizi pendenti.

In generale, con l'arresto della procedura, cessano gli effetti del fallimento sul patrimonio del debitore; cessano le incapacità del fallito e gli altri effetti personali; cessano gli organi della procedura; si interrompono o divengono improcedibili le azioni avviate dal curatore; i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti, per capitale e interessi.

Come stabilito dall'art. 119, comma 4, l.fall., gli effetti di cui all'art. 120 l.fall. si producono dal momento in cui il decreto di chiusura diventa definitivo, ovvero quando è spirato il termine di impugnazione, oppure quando l'impugnazione promossa è stata definitivamente rigettata (Cass. n. 9767/2012, Cass. n. 17109/2002; App. Roma, 10 settembre 2001). Ed ancora, secondo quanto disposto dall'art. 120 l.fall., dalla cessazione della procedura discendono il venir meno degli effetti prodotti dalla dichiarazione di fallimento sul patrimonio del fallito, e delle incapacità personali scontate da quest'ultimo, nonché la decadenza degli organi fallimentari.

Il riferimento alle limitazioni della capacità personale sofferte dal fallito, che interessa in primis le ipotesi previste dagli artt. 49 e 50 l.fall., è stato introdotto nella disposizione in discorso dal d.lgs. n.169/2007, atteso che la versione della norma conseguente al decreto legislativo aveva riguardo essenzialmente agli effetti patrimoniali del fallimento. In tale quadro di riferimenti, a seguito della chiusura del fallimento, il debitore riacquista, in primo luogo, i poteri di amministrazione e disposizione del proprio patrimonio, che, come è noto, in virtù della sentenza dichiarativa del fallimento vengono attribuiti al curatore (art. 42 l.fall.). In proposito, sulla base di quanto si è già rilevato in ordine alla irretroattività del provvedimento di chiusura del fallimento, resta inteso che il debitore ritornato in bonis riacquista i poteri di amministrazione e di disposizione del proprio patrimonio nella consistenza e nella composizione che quest'ultimo assume della cessazione della procedura (Capo, 536).

Gli effetti della chiusura

Con la chiusura cessano gli effetti del fallimento per il fallito e decadono gli organi preposti al fallimento. Per il compimento di tutte le formalità relative alla chiusura è necessario attendere la scadenza del termine per proporre reclamo nei confronti del decreto di chiusura, oppure il rigetto del reclamo. In dottrina è stato evidenziato che nelle more tra il deposito del decreto di chiusura in cancelleria e la definitività dello stesso, il fallimento deve considerarsi quiescente, con la permanenza degli organi della procedura, l'indisponibilità dei beni da parte del fallito ed il perdurare dell'incapacità processuale attiva e passiva (D'Orazio, 730); per quanto riguarda il debitore, invece, tutti i beni che non sono stati assegnati ai creditori gli devono essere restituiti, come pure i documenti e le scritture contabili che sono stati appresi dal curatore (Forgillo, 1327).

Quanto all'efficacia temporale la chiusura ha, dunque, efficacia ex nunc, a differenza della revoca, la quale ha efficacia tendenzialmente retroattiva, ossia fa venir meno gli effetti del fallimento sin dal momento in cui è stata pronunciata la sentenza dichiarativa: il fallimento revocato è come se non fosse mai stato aperto, salvi, tuttavia, gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi della procedura (Cass. n. 5642/1978).

Qualora la revoca del fallimento intervenga prima della chiusura, venendo meno il provvedimento di apertura, la procedura cessa con efficacia ex tunc, e, allora, non ha più senso un successivo provvedimento di chiusura. Quanto agli effetti per gli organi della procedura la chiusura del fallimento determina la decadenza degli organi preposti al fallimento. Tuttavia la legge fallimentare contempla numerose ipotesi nelle quali gli stessi sono chiamati ad adempiere ad alcuni incombenti anche dopo tale momento (c.d. ultrattività), quali ad esempio: riparti di somme accantonate e/o sopravvenute (es. rimborso credito iva); riparti in caso di esito vittorioso di giudizi pendenti; richiesta di esdebitazione presentata dal debitore con ricorso depositato dopo la chiusura del fallimento (art. 143 l.fall.).

Persiste inoltre — pur dopo la chiusura — la legittimazione del curatore, come parte necessaria nel procedimento di reclamo avverso la sentenza di fallimento; invero, secondo la giurisprudenza, dopo la chiusura del fallimento, il giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall. prosegue e di conseguenza perdura la legittimazione passiva del curatore in tale giudizio (Cass. n. 2399/2016). Ne consegue, quindi, che nonostante l'intervenuta chiusura, il curatore è legittimato all'impugnazione della sentenza di revoca del fallimento (Cass. n. 4632/2009).

Al di fuori delle suddette ipotesi, gli atti compiuti e i provvedimenti emanati dagli organi cessati devono ritenersi come se non ci fossero.

La cessazione degli effetti patrimoniali

Con la chiusura cessano gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito e, quindi, viene meno il c.d. «spossessamento«, e scatta l'obbligo giuridico per il curatore di restituire al fallito i beni residuati alla liquidazione; in mancanza, sebbene le norme non ne facciano menzione, il curatore sarà responsabile del ritardo (Forgillo, 1327). Sarà onere del curatore, riguardo ad eventuali beni mobili residui, procedere alla redazione di un inventario sottoscritto dal curatore e dal fallito.

Con riferimento ai beni immobili, con il decreto di chiusura deve essere ordinata la cancellazione della trascrizione della sentenza di fallimento dai registri immobiliari; quando ciò non sia avvenuto, la cancellazione può essere ordinata dal Tribunale con decreto successivo alla chiusura (Trib. Roma 17 dicembre 2008, in Fall. 2009, 1444).

Da quanto innanzi discende che i beni eventualmente residuati al fallimento debbono essere rimessi nel possesso dell'ex-fallito, sicché non sono ammissibili vincoli ulteriori, al di fuori degli accantonamenti che in forza di un'espressa norma di legge sopravvivono alla chiusura (Lo Cascio, 768). Ed ancora, gli atti compiuti dall'ex-fallito in pendenza della procedura riprendono a dispiegare pienamente i loro effetti, per cui egli non può opporre al terzo contraente l'inefficacia dell'atto [la quale opera solo nell'ambito della procedura e solo «rispetto ai creditori» concorrenti (art. 44, comma 1, l.fall.)]; l'ex-fallito, inoltre, può far valere l'effetto estintivo dell'obbligazione conseguente al pagamento da lui eseguito dopo la dichiarazione di fallimento, solo se il creditore non abbia dovuto restituire al curatore la somma da lui ricevuta (data l'inefficacia «rispetto ai creditori» ex art. 44, comma 1, l.fall.).

Altro principio consolidato è che tutti gli atti compiuti dal curatore sono validi ed efficaci nei confronti del fallito, il quale, di conseguenza, dovrà far fronte alle obbligazioni da questo contratte, pagare i debiti della massa che non sia stato possibile estinguere prima della chiusura, e far valere i diritti che il curatore avrebbe potuto esercitare (Tedeschi, Della chiusura del fallimento, in Fallimento, in Comm. S. B., Bologna, 1977, 63; Cavalaglio, 625).

Parimenti la giurisprudenza è concorde nel ritenere che il debitore risponderà di tutti gli atti da lui stesso compiuti durante la procedura (purché non inefficaci ex art. 44 l.fall.) (Cass. n. 6931/1983). Deve essere da ultimo ricordato che, nel caso in cui non sia stato già disposto nel provvedimento di chiusura, il debitore rientrato pienamente in bonis può, entro l'anno successivo, richiedere al tribunale, ai sensi dell'art. 142 l.fall., di dichiarare inesigibili i crediti non soddisfatti integralmente (Forgillo, 1332). Il decreto produce effetti anche nei confronti dei creditori anteriori non insinuati ma solo relativamente all'eccedenza rispetto a quanto avrebbero percepito nel concorso.

Sull'aspetto delle restituzioni, i beni recuperati dal curatore ed eventualmente rimasti invenduti debbono essere restituiti ai proprietari; se venduti, a costoro debbono essere restituite le somme realizzate dalla vendita e non erogate ai creditori. Quindi, alle restituzioni conseguenti alla chiusura non può provvedere altri che il curatore — avendo egli, durante la procedura, l'amministrazione del patrimonio fallimentare ex art. 31, comma 1, l.fall., e trattandosi di adempimenti consequenziali alla cessazione della procedura, necessari per dare concreta attuazione agli effetti della cessazione medesima (Trib. Roma decreto 11 aprile 2001). Inoltre, chiuso il fallimento, permangono nel patrimonio del fallito gli effetti prodottisi sui rapporti giuridici preesistenti; in particolare, in caso di fallimento del venditore, se il curatore esercita la facoltà di sciogliere il contratto, la risoluzione del rapporto è oggettiva e definitiva, nel senso che opera non soltanto in sede fallimentare e nei confronti del curatore, ma nei confronti dello stesso fallito, tornato in bonis, dopo la chiusura del fallimento, e senza che ne discenda — neppure a carico di quest'ultimo — alcun obbligo di risarcimento del danno (Cass. n. 2086/1969); in caso di fallimento del conduttore, invece, subentrato il curatore nella locazione, il debito di pagare i canoni fa capo alla massa dei creditori, quale corrispettivo della res locata, con la conseguenza che il mancato pagamento dei canoni da parte del curatore produce la risoluzione del contratto per morosità, che si riverbera direttamente sul fallito tornato in bonis dopo la chiusura del fallimento (Cass. n. 11397/1990).

Gli effetti sulle azioni proposte dal curatore

La riforma della legge fallimentare del 2006 ha posto fine ad un'annosa querelle, prevedendo in modo inequivoco che le azioni proposte dal curatore per l'esercizio dei diritti derivanti dal fallimento non possono essere proseguite (art. 120, comma 2, l.fall.).

La conclusione è in linea con gli arresti giurisprudenziali di legittimità (Cass. n. 19394/2004) e coerente con il sistema, nel quale, al verificarsi di una delle ipotesi tipizzate di chiusura si palesa la sostanziale inutilità della prosecuzione delle azioni intraprese perché non vi è più quella finalità di soddisfazione del ceto creditorio che le giustificava; sicché non ve ragione d'insistere in tali azioni (Forgillo, 1334).

In quest'ottica sono certamente improseguibili tutte quelle azioni esperite dal curatore per l'esercizio dei diritti derivanti dal fallimento e, quindi, tipicamente, quelle di revocatoria fallimentare o quelle di inefficacia ex artt. 44-45 l.fall. (Fabiani, 2003, I, 2027).

Per meglio dire, i giudizi ai quali il legislatore fa riferimento — e che divengono improcedibili — sono le azioni di cui tratta anche l'art. 24 l.fall. ai fini della competenza: le azioni revocatorie, le dichiarazioni di inefficacia ed inopponibilità alla massa ed in genere tutte quelle volte a far valere diritti sorti in conseguenza della dichiarazione di fallimento, e che sono esercitate, nell'interesse della massa, dal curatore in quanto soggetto terzo (Cass. n. 8255/1993).

Tali giudizi (di massa) nascono da «azioni», per le quali il curatore agisce non utendo iuribus del fallito, ma esercitando una propria legitimatio ad causam, a lui attribuita dalla legge nell'interesse della massa dei creditori, per far valere diritti che non si trovavano (al momento dell'apertura della procedura) nel patrimonio del fallito (e rispetto ai quali, quindi, costui non ha mai avuto, né può mai acquisire, alcuna legittimazione ad agire): sono, in particolare, le azioni revocatorie e di inefficacia e, in generale, le «azioni di pertinenza della massa» (come le definisce l'art. 124, quarto comma l.fall.). I giudizi in discorso, venendo meno con la chiusura l'organo agente, subiscono l'interruzione, ma, non essendo l'ex-fallito legittimato ad agire, non possono proseguire con il subentro di lui al posto del curatore, come espressamente dispone il citato secondo comma, col dire che le azioni di cui sopra «non possono essere proseguite»: dichiarata l'interruzione, perciò, non può farsi luogo alla riassunzione del processo da parte o in confronto dell'ex-fallito ex art. 303 c.p.c., se non al limitato fine di pervenire ad una sentenza che dichiari la improseguibilità e regoli le spese processuali (Norelli, La condizione giuridica del fallito nella giurisprudenza costituzionale, in Quaderni del Servizio studi della Corte costituzionale, n. 197, Roma, 2007, 41).

Analoga statuizione di improcedibilità deve essere effettuata per i giudizi proposti contro il curatore, e che presuppongono necessariamente come parte il fallimento (in particolare, i giudizi di insinuazione tardiva, di opposizione allo stato passivo e di impugnazione di crediti ammessi)

Le altre azioni, non derivanti dal fallimento, possono invece essere proseguite dal fallito tornato in bonis: si tratta ad esempio delle azioni di risarcimento danni e di recupero del credito (Cass. n. 3903/2004).

Per queste azioni, la chiusura del fallimento ha sul processo effetti speculari a quelli previsti dall'art. 43, comma 3, l.fall.: una volta passato in giudicato il decreto di chiusura, per regola generale ex art. 300 c.p.c., si verifica l'interruzione del processo (Fabiani, 2009, 499). Altre azioni potranno, invece, essere riassunte e proseguite non dal fallito, ma dai creditori interessati: si tratta ad esempio delle azioni di risarcimento danni promosse nei confronti degli organi sociali.

La causa interruttiva opera anche in appello, le vicende interruttive che riguardano il fallimento non producono effetto, invece, dopo la notificazione del ricorso per cassazione, poiché l'art. 372 c.p.c. preclude la produzione di ulteriori documenti nel giudizio, come il decreto di chiusura del fallimento (Limitone, 1696).

Gli effetti dell'improcedibilità o dell'interruzione dei giudizi promossi dal Curatore non si verificano, tuttavia, se il fallimento viene chiuso in applicazione di quanto previsto dall'art. 118, comma 2, terzo periodo e seguenti, l.fall., in quanto, in tali casi, come si è visto, permane la legittimazione attiva del curatore, che, ai soli fini di quel o quei giudizi, rimane in carica unitamente al g.d.

In tali casi, tuttavia, proprio per evitare incertezze circa la permanenza della legittimazione processuale del curatore, è necessario che il tribunale, con il decreto di chiusura, chiarisca che la conclusione della procedura avviene in base alla previsione dell'art. 118, comma 2, l.fall., e quindi nella pendenza di giudizi «attivi» che devono essere proseguiti.

In tali casi, peraltro, il curatore mantiene la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi; inoltre, in deroga rispetto a quanto previsto dall'art. 35 l.fall. (secondo cui «le riduzioni di crediti, le transazioni, i compromessi, le rinunzie alle liti [...] e gli atti di straordinaria amministrazione sono effettuate dal curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori»), anche le rinunzie alle liti e le transazioni debbono essere autorizzate dal giudice delegato (il che è ovvio, essendo decaduto il comitato dei creditori a seguito della chiusura del fallimento).

Premesso quanto innanzi esposto, si evidenzia che le somme eventualmente già incassate dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore ai sensi di quanto disposto dal comma 2 dell'art. 117 l.fall. Se invece il curatore ottenga, dopo la chiusura del fallimento, delle somme per effetto di provvedimenti definitivi, tali somme, unitamente ai residui degli accantonamenti, sono fatte oggetto di riparto supplementare secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di cui all'art. 119 l.fall.

Azioni di pertinenza della massa

Quanto alle obbligazioni nascenti da atti od operazioni compiuti dal curatore, restano a carico al fallito i c.d. «debiti di massa» (o «crediti prededucibili»: art. 111, comma 2, l.fall.), ivi compresi quelli sorti nel corso dell'esercizio provvisorio dell'impresa del fallito (art. 104, comma 8, l.fall.), e le spese di procedura, che non sia stato possibile pagare prima della chiusura: trattasi pur sempre di obbligazioni sorte nel suo patrimonio, le quali, perciò, debbono essere da lui adempiute.

In particolare, quanto alle spese, sull'assunto che, in sostanza, la procedura fallimentare si risolve in un procedimento esecutivo, si è affermato che il principio dell'art. 95 c.p.c. — in base al quale le spese vanno poste a carico di chi ha subito l'esecuzione — deve trovare applicazione anche nel fallimento, quando questo abbia avuto il suo corso normale (e non sia stato revocato) (Corte cost. n. 46/1975).

In ogni caso, l'ex fallito dovrà adempiere alle obbligazioni contratte dal curatore e rimaste inadempiute, ed i creditori della massa concorreranno con i creditori concorsuali, nel rispetto delle rispettive cause di prelazione. Tuttavia, se vi sono stati errori nella distribuzione dell'attivo a danno dei creditori della massa, questi dovranno comunque essere soddisfatti dal debitore del —fallito, che potrà però agire in rivalsa nei confronti del curatore dopo la chiusura (Limitone, 1690).

La comunione legale tra i coniugi

In ambito giurisprudenziale si è deciso che la chiusura del fallimento per compiuta ripartizione dell'attivo ovvero per insufficienza o mancanza di attivo ex art. 118, comma 1, nn. 3) e 4), l.fall., non comporta il ripristino automatico della comunione legale tra l'ex-fallito e il coniuge, potendo il fallimento essere riaperto nei cinque anni ex art. 121 l.fall. (Trib. Napoli 5 dicembre 2008). In tale vicenda, il Tribunale distingue a seconda che il fallimento venga meno per revoca piuttosto che per chiusura per riparto. Solo nel primo caso, alla revoca del fallimento dovrebbe conseguire il ripristino della comunione (senza peraltro specificare da quale data, vista l'estraneità della questione rispetto all'oggetto del procedimento): l'insussistenza dei presupposti per la declaratoria dello stato di insolvenza non può che comportare la reviviscenza del pregresso regime patrimoniale della famiglia. Nel caso in cui il fallimento si chiuda per riparto (come nella specie) piuttosto che per insufficienza dell'attivo, il problema si presenta più complesso. Come è noto, l'art. 121 l.fall. prevede che, «su istanza del debitore o di qualunque creditore», il fallimento può essere riaperto, tra l'altro «quando risulta che nel patrimonio del fallito esistano attività in misura tale da rendere utile il provvedimento». I creditori insoddisfatti, poi, ai sensi dell'art. 120 l.fall., «riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore». La sentenza reputa pertanto che la comunione legale non abbia a ripristinarsi a seguito della chiusura del fallimento (e, sulla base di tale conclusione, esclude la caduta in comunione con il marito fallito dell'acquisto che la moglie aveva effettuato esclusivamente in proprio dopo quella chiusura).

Sul punto, tuttavia, in dottrina (Figone, Chiusura del fallimento del coniuge in regime di comunione legale e ripristino del regime patrimoniale, Nota a Trib. Napoli, sez. V, 5 dicembre 2008, in Fall. 2009, n. 12, 1457-1463) è stato sostenuto che vi sarebbe il ripristino automatico del regime di comunione legale con effetto ex nunc a partire dalla chiusura del fallimento.

Gli effetti per i creditori

Il terzo e il quarto comma dell'art. 120 l.fall. stabiliscono che i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi, salvo quanto previsto dagli articoli 142 e seguenti; inoltre, il decreto o la sentenza con la quale il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta per gli effetti di cui all'art. 634 c.p.c.

In base al terzo comma della norma in commento, dunque, una volta chiuso il fallimento, «i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi»: a seguito della chiusura, dunque, il fallito resta debitore verso i creditori non soddisfatti, sia che questi abbiano ottenuto l'ammissione al passivo, sia che siano rimasti estranei al fallimento, non insinuando i loro crediti. In questa prospettiva è stato evidenziato che i creditori, decretata la chiusura, hanno diritto al pagamento degli interessi maturati dalla data della sentenza dichiarativa al saldo (Grossi, 1625), nei confronti del debitore tornato in bonis (Cass. S.u., n. 11718/1993).

Tra gli ulteriori effetti, giova ricordare che cessando con la chiusura il divieto di cui all'art. 51 l.fall., i creditori possono liberamente sottoporre ad esecuzione forzata singolare (sempreché siano muniti di titolo esecutivo) o a misure cautelari, nelle forme del codice di rito, i beni del debitore già compresi nel fallimento e rimasti nel suo patrimonio (beni mobili o immobili non venduti, crediti non riscossi o non ceduti) ovvero in esso sopravvenienti.

Inoltre, chiuso il fallimento, il provvedimento di ammissione al passivo, se non può valere come accertamento del credito fuori della procedura (art. 96, comma 5, l.fall.), può, tuttavia, essere utilizzato come prova scritta al fine di ottenere un decreto ingiuntivo: così, il creditore, che non sia già munito di un provvedimento giudiziale di accertamento del suo credito, che costituisca titolo esecutivo, può procurarselo più facilmente, attivando un procedimento monitorio ex artt. 633 ss. c.p.c. davanti al giudice competente a norma dell'art. 637 c.p.c. Naturalmente, il debitore può contestare il credito senza alcuna limitazione, potendo proporre opposizione (art. 645 c.p.c.) per far valere qualunque eccezione.

La definitività endoconcorsuale dello stato passivo preclude, dopo la chiusura del fallimento, l'impugnativa per nullità, inefficacia, revocazione di un credito o di una prelazione, proposta dal curatore (Cass. n. 11642/1997); sotto altro profilo, l'ammissione di un credito nello stato passivo non ha effetto nel giudizio promoddo dal creditore nei confronti del coobbligato-fideiussore del fallito (Cass. n. 3550/2003).

Tra gli altri effetti, riprende corso la prescrizione, interrotta dalla domanda di ammissione al passivo per tutta la durata della procedura ex art. 94 l.fall. (senz'altro se la domanda è ammessa al passivo. Diversamente si dubita nel caso di esclusione della stessa) (Lo Cascio, 1176).

Più precisamente, s'inizia un nuovo periodo di prescrizione che non si somma al precedente: art. 2945, comma 2, c.c. (Cass. n. 14962/2004; Cass. n. 4217/2003, Cass. n. 16380/2002).

Il fallito società

La chiusura della procedura di fallimento della società comporta la chiusura della procedura estesa ai soci illimitatamente responsabili ai sensi dell'art. 147 l.fall. soltanto nelle ipotesi di cui all'art. 118, comma 1, nn. 1) e 2), salvo che il socio non sia anche separatamente fallito come imprenditore individuale, nel qual caso la procedura prosegue per la liquidazione del patrimonio del socio (Forgillo, 1337). In siffatti ipotesi, se la società sopravvive alla procedura e i creditori riacquistano il libero esercizio delle loro azioni, sembra che non possa negarsi che i creditori non interamente soddisfatti siano legittimati, al pari dei nuovi creditori, a chiedere nuovamente il fallimento, ove la ex-fallita permanga o ricada in stato di insolvenza, e che il tribunale debba emettere una nuova sentenza dichiarativa, sempreché non sia decorso un anno dalla cancellazione della società dal registro delle imprese. Se, invece, il fallimento della società si è chiuso per uno dei casi di cui ai numeri 3) e 4) dell'art. 118 L.f. la società deve essere cancellata dal registro delle imprese su richiesta del curatore (art. 118, comma 2, l.fall.) e, con ciò, essa viene a estinguersi, con la conseguenza che, decorso un anno dalla cancellazione (art. 10), non è più possibile che sia dichiarata nuovamente fallita (né che si faccia luogo alla riapertura del fallimento ex art. 121 l.fall.). Il nuovo fallimento, ove esso sia possibile, produce sempre i suoi effetti ex novo dalla data della sentenza che lo dichiara, senza alcuna possibilità di «riaggancio» o «recupero» degli effetti del precedente fallimento.

Gli effetti personali del fallimento

Con la chiusura del fallimento vengono meno anche le incapacità e gli effetti personali per il fallito conseguenti alla procedura.

I principali effetti della chiusura del fallimento per il fallito consistono, quindi, nella cessazione degli obblighi di cui agli artt. 48 e 49 l.fall., ovvero gli obblighi di consegna della corrispondenza e di comunicazione delle variazioni di residenza o domicilio.

Se l'azienda rimane o ritorna operativa, il fallito tornato in bonis non perde la qualità di imprenditore commerciale (ed è, conseguentemente, di nuovo assoggettabile al fallimento in relazione però solo ai nuovi debiti contratti: Cass. n. 1239/1981); cessano gli effetti del fallimento previsti dagli artt. 350 c.c. (incapacità all'ufficio tutelare), 393 c.c. (incapacità o rimozione del curatore), 2382 c.c. e 2399 c.c. (cause di ineleggibilità e decadenza degli amministratori e dei sindaci di società per azioni), 2417 c.c. (rappresentante comune degli obbligazionisti). Sull'argomento in esame, giova ricordare che con la pronuncia della Corte costituzionale (sentenza Corte cost. n. 39/2008) la chiusura del fallimento determina l'automatica cessazione delle incapacità per tutti i falliti, quale che sia l'epoca dell'apertura della procedura.

L'istituto della riabilitazione civile è stato espunto dall'ordinamento e non è più applicabile ad alcuno; difatti, la regola della cessazione automatica delle incapacità alla data della chiusura della procedura fallimentare è stata estesa anche per il passato a quelle situazioni (eventualmente non esaurite), alle quali si sarebbe dovuto ancora fare applicazione degli artt. 50 e 142 l.fall. (nel testo ante riforma), se queste norme non fossero state dichiarate incostituzionali (Cass. n. 4630/2009).

Quanto agli effetti penali, la Corte di Cassazione penale (Cass. pen. n. 308/2010) ha precisato che, in tema di provvedimenti iscrivibili nel casellario giudiziale, l'abrogazione dell'articolo 3, lett. q), del d.P.r. n. 313/2002 (secondo cui sono iscrivibili nel casellario giudiziale, tra gli altri, i provvedimenti giudiziari che dichiarano fallito l'imprenditore) e la coeva abrogazione dell'articolo 5, lettera i), dello stesso d.P.r. (secondo cui sono eliminate le iscrizioni nel casellario giudiziale relative, tra gli altri, ai provvedimenti giudiziari con i quali l'imprenditore è dichiarato fallito), pur formalmente operative a decorrere dal 1° gennaio 2008 [come espressamente disposto dall'articolo 21, comma 1, lettere a) e b) del d.lgs. n. 169/2007], è invece da ritenere, secondo un'interpretazione ragionevole e costituzionalmente orientata, che abbiano vigore anche per i fallimenti chiusi in data anteriore a tale ultima data e siano riferibili a tutti gli effetti concernenti i servizi certificativi disciplinati dal titolo Vii del d.P.r. n. 313/ 2002 (da queste premesse, nel caso di specie, la Corte, nell'accogliere il ricorso, ha disposto essa stessa l'eliminazione dal casellario giudiziale dell'iscrizione della sentenza dichiarativa di fallimento nei confronti del ricorrente, che pure risultava essere stata emessa in data anteriore al 1° gennaio 2008).

Bibliografia

V. sub art. 118.

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