Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 137 - Risoluzione del concordato 1 .

Domenica Capezzera

Risoluzione del concordato1.

 

Se le garanzie promesse non vengono costituite o se il proponente non adempie regolarmente gli obblighi derivanti dal concordato, ciascun creditore puo' chiederne la risoluzione.

Si applicano le disposizioni dell'articolo 15 in quanto compatibili.

Al procedimento e' chiamato a partecipare anche l'eventuale garante.

La sentenza che risolve il concordato riapre la procedura di fallimento ed e' provvisoriamente esecutiva.

La sentenza e' reclamabile ai sensi dell'articolo 18.

Il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto nel concordato.

Le disposizioni di questo articolo non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti dal proponente o da uno o piu' creditori con liberazione immediata del debitore.

Non possono proporre istanza di risoluzione i creditori del fallito verso cui il terzo, ai sensi dell'articolo 124, non abbia assunto responsabilita' per effetto del concordato.

Inquadramento

La natura giuridica dell'istituto della risoluzione del concordato è assai discussa, in rapporto alle diverse tesi circa la natura del concordato fallimentare (sulle quali si rinvia all'art. 124). Nella vigenza del precedente sistema, secondo parte della dottrina, la risoluzione era un rimedio concesso dalla legge contro il concordato regolarmente omologato e non eseguito ovvero un mezzo di gravame speciale contro la sentenza di omologazione o, ancora, un procedimento costitutivo-estintivo, diretto a far venire meno gli effetti propri del provvedimento di omologazione, rientrando tra le pronunce volte a rimuovere gli effetti di un provvedimento esecutivo e cautelare, per eventi successivi all'emanazione dello stesso, come quelle previste nel terzo e nel quarto libro del c.p.c. (anche nella vigenza del nuovo sistema, cfr. Fabiani 1026; per una sintesi di tali tesi si rinvia a G. Minutoli 1839 ss., con ampi riferimenti dottrinali). Nell'ambito della teoria contrattualistica del concordato, altra dottrina ha ricondotto la risoluzione alla condizione risolutiva tacita dell'art. 1453 c.c.: tale ultima tesi è stata ritenuta oggi maggiormente aderente alla riforma, che ha esaltato i profili privatistici e contrattualistici del novellato concordato fallimentare (Nardecchia 285, 41 e, più di recente, Bertacchini 1832).

La riforma della crisi d'impresa e dell'insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14)

Per il commento v. sub art. 124.

Legittimazione

Creditori insinuati — La disciplina della risoluzione del concordato (sulla cui natura giuridica v. G. Minutoli 1839), modificata sotto svariati profili con la riforma organica delle procedure concorsuali (d.lgs. n. 5/2006), è stata ulteriormente novellata con il decreto correttivo n. 169/2007 (sulla disciplina transitoria, v. R. Bellé 2536 ss., nonché Corte App. Catania 31.7.2013, sia pure in tema di conc. prev. omologato prima della riforma e risolubile secondo la disciplina previgente, potendo la risoluzione essere pronunciata anche d'ufficio). Nel sistema delineato dalla riforma del 2006, la legittimazione alla domanda di risoluzione del concordato spettava sia ai creditori che al curatore (che poteva presentare istanza di risoluzione anche senza patrocinii di un difensore, a differenza di quanto accade nella liquidazione coatta amministrativa per il commissario liquidatore: Cass. n. 19723/2015) e (novità questa, appunto, del d.lgs. n. 5/2006) anche al comitato dei creditori, in linea con il generale ampliamento dei poteri, anche di controllo, dell'organo collegiale (Minutoli 1839). Il tribunale, peraltro, poteva provvedere anche d'ufficio, nel contesto di un potere-dovere dell'organo giudiziario, attivato da fonti di informazione non tipizzate. Il decreto correttivo n. 169/2007 ha innanzitutto limitato ai soli creditori la legittimazione a richiedere la risoluzione del concordato, nel contesto di una mera facoltà («ciascun creditore può chiedere...»), evidenziandosi, in tal modo, che la loro iniziativa è ricollegata ad uno specifico interesse alla risoluzione, la quale, pertanto, assume una sempre più evidente connotazione privatistica (così Minutoli 1839 e 1841; v. da ultimo Macrì 526): «la modifica — si legge nella Relazione — è coerente con l'impostazione di fondo della disciplina del concordato accolta dalla riforma e con la scelta di abolire, in linea di principio, l'iniziativa officiosa del tribunale». Non si può, tuttavia, fare a meno di considerare che l'affidamento agli organi del cessato fallimento della sola sorveglianza dell'esecuzione del concordato — che viene così ad assumere una funzione essenzialmente informativa e richiede la previsione di adeguate modalità (supra, sub art. 136, I) — è probabile finisca con il rendere più agevole lo sforamento del limite cronologico fissato per l'utilizzazione di questo strumento di tutela (Bertacchini 1834; sui rischi di pregiudizio dei creditori meno attrezzati v. Minutoli 1841; conforme Macrì (10) 527). Sicché la scelta normativa lascia perplessi in ordine alla effettiva tutela paritaria di tutti i creditori, con concreti rischi di pregiudizio dei creditori meno attrezzati rispetto ad oneri informativi che sono più congeniali agli organi del cessato fallimento e, comunque, non sempre pronti a reagire giudizialmente nei termini previsti dalla legge, laddove il curatore ha certamente ed istituzionalmente una visione più ampia e poteri di controllo assai più incidenti (Minutoli 1839).

Di recente, Cass. n. 22284/2016 ha specificato che la legittimazione ad agire in giudizio, per far valere la garanzia prestata da un terzo per l'esecuzione di un concordato fallimentare poi risolto, non spetta al curatore del fallimento, bensì ai singoli creditori ammessi al passivo prima del concordato.

Ristretta ai soli creditori la legittimazione a richiedere la risoluzione del concordato assume particolare rilevanza stabilire se la risoluzione possa essere richiesta, oltre che dai creditori ammessi, anche dai creditori non ammessi, che abbiano proposto opposizione a stato passivo. Ove si consideri che — secondo l'interpretazione che appare preferibile (supra, sub art. 136, II, § 4) — a tutela degli opponenti è apprestato lo strumento del deposito delle somme spettanti, non par dubbio che la legittimazione debba essere riconosciuta a tutti i creditori insinuati (v. Bertacchini 1835), purché la statuizione di non ammissione non sia divenuta definitiva.

Creditori non insinuati — Ai creditori non insinuati non si estendono le garanzie date da terzi (art. 135, primo comma), ma ad essi spetta nei confronti del proponente — salvo il caso di limitazione della responsabilità dell'assuntore sul quale v. infra, III — il diritto al soddisfacimento. Fermo restando il diritto ad agire per l'adempimento degli obblighi concordatari, si è tuttavia dubitato della legittimazione a chiedere la risoluzione del concordato e, quindi, la riapertura del fallimento a favore di chi al fallimento non aveva chiesto di partecipare (per una rassegna delle argomentazioni a sostegno delle tesi contrapposte v. A. Bonsignori § 6). Movendo dalla premessa che l'accordo concordatario vincola anche i creditori non insinuati e non possono perciò essere considerati estranei all'accordo solo perché non chiamati a votare e dall'ulteriore premessa che, in presenza di un credito, esecuzione coattiva e risoluzione costituiscono strumenti di tutela alternativi, la legittimazione del creditore non insinuato dovrebbe essere riconosciuta (Jorio 743), ferma restando ovviamente la necessità di fornire la prova del credito, che però non sembra debba necessariamente risultare da un titolo esecutivo (così invece Bran § 16). Un'argomentazione a contrario può trarsi dalla disposizione dell'ultimo comma, che esclude la legittimazione a richiedere la risoluzione dei creditori non insinuati nel concordato con assunzione e limitazione della responsabilità e quindi negli altri casi implicitamente l'ammette (S. Sanzo § 3; sul punto, v. anche Maffei Alberti 904).

Occorre, piuttosto, considerare che con la riforma è stata limitata cronologicamente la proponibilità di dichiarazioni tardive di credito (art. 101, comma 1 e 6). I creditori non insinuati che avessero perduto il diritto di partecipare al concorso fallimentare per decorso del termine di presentazione di dichiarazioni tardive di credito non sembra possano recuperare il diritto di partecipare al concorso attraverso la risoluzione del concordato con la conseguente riapertura del fallimento. È certamente vero che è rimasta immutata la norma dell'art. 122 che prevede il concorso nel fallimento riaperto dei creditori vecchi e nuovi: ma per nuovi creditori dovrebbero per coerenza del sistema intendersi coloro che hanno acquistato ragioni di credito dopo l'apertura del fallimento successivamente riaperto (sul punto v., comunque, supra, sub art. 122). Se è vera questa premessa il creditore non insinuato, ove fosse decorso il termine per presentare insinuazioni tardive e non potesse provare la non imputabilità del ritardo, non potrebbe chiedere la risoluzione del concordato per carenza di interesse.

In nessun caso, poi, la mancata insinuazione non osta alla legittimazione a richiedere la risoluzione del concordato dei creditori della massa, atteso che l'adozione delle forme della verifica dello stato passivo è richiesta solo per risolvere eventuali contestazioni (art. 111-bis, comma 1).

Presupposti

L'importanza dell'inadempimento — Secondo quanto dispone il primo comma dell'articolo commentato, il concordato è risolubile «se le garanzie promesse non vengono costituite o se il proponente non adempie regolarmente gli obblighi derivanti dal concordato». La dizione è perfettamente corrispondente a quella ante riforma, con la sola differenza del riferimento al «proponente« anziché al »fallito», atteso l'ampliamento della legittimazione a proporre il concordato.

Il fondamento della risolubilità è quindi l'inadempimento e nel sistema ante riforma si era posto il problema della rilevanza o meno dell'importanza dell'inadempimento, cui è subordinata la risolubilità secondo la disciplina generale della risoluzione dei contratti (art. 1455 c.c.).

In giurisprudenza si era affermato che il tribunale deve limitarsi ad accertare se il concordato è stato o meno eseguito «nei termini e con le modalità stabilite...senza alcun margine di discrezionalità in ordine alla valutazione della gravità dell'inadempimento» (Cass. 10 gennaio 1996) e l'orientamento giurisprudenziale era per lo più condiviso dalla dottrina, che sottolineava la peculiarità della risoluzione del concordato rispetto a quella del contratto a prestazioni corrispettive disciplinata dal codice civile (Bonsignori sub art. 137, § 4). Poiché adempimento regolare è l'adempimento alla scadenza ed anche il ritardo costituisce inadempimento, si era per la verità osservato che il ritardo non poteva essere considerato rilevante ove non fosse tale da incidere sull'interesse dei creditori all'adempimento degli obblighi concordatari (Trib. Catania 13 febbraio 1981): anche se in caso di ritardo non è che ci si precipitasse a chiedere la risoluzione.

Dopo la riforma, da taluno si è sostenuta la persistente validità dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità (Ruosi § 1) e addirittura che la irregolarità pare qualcosa di meno grave dell'inesattezza, sicché potrebbe esservi spazio per una risoluzione anche al di sotto delle soglie del vero e proprio inadempimento (Sanzo § 2 e, più di recente, Maffei Alberti 902), mentre da altri, movendo dalla considerazione dell'esaltazione dei profili privatistici e contrattualistici del nuovo concordato, si è ritenuto maggiormente corretta la riconduzione della risoluzione del concordato allo schema generale della risoluzione dei contratti anche tenuto conto della varietà e complessità delle soluzioni concordatarie possibili e della relatività della nozione di inadempimento (G. Minutoli § 5; nello stesso senso, Bertacchini 1834; Nardecchia 284).

Con il decreto correttivo quest'ultima soluzione è stata espressamente recepita per il concordato preventivo, statuendosi che «il concordato non si può risolvere se l'inadempimento ha scarsa importanza» (art. 186, secondo comma) ed osservandosi, nella Relazione, la coerenza della disposizione «con l'accentuata natura privatistica del concordato preventivo» (sul tema dell'importanza dell'inadempimento nel concordato preventivo, v. Nardecchia 256-258 e Macrì 532). Una corrispondente disposizione manca però per il concordato fallimentare e non è dato comprendere se si tratti di una precisa scelta legislativa. Peraltro, sia pure con riguardo all'analogo strumento del conc. prev., la giurisprudenza ha fatto derivare la legittimazione a proporre istanza di risoluzione dall'insufficienza del valore delle attività patrimoniali, ricavabili con il piano industriale basato sulla prosecuzione dell'attività aziendale, rispetto alle esigenze di soddisfazione in modo non irrisorio i creditori chirografari, accertata in sede di esecuzione e, quindi, dopo l'omologazione (Trib. Monza 21 gennaio 2013).

In ogni caso l'importanza dell'inadempimento può essere valutata soltanto sotto un profilo oggettivo e non può essere esclusa solo perché riguarda soltanto alcuni creditori. Nel concordato con suddivisione dei creditori in classi la risoluzione può essere quindi pronunciata anche quando vi sia inadempimento nei confronti di una sola classe.

Il mancato conseguimento del soddisfacimento programmato — La proposta di concordato può prevedere il soddisfacimento dei creditori attraverso qualsiasi forma, quindi anche con gli utili dell'impresa risanata o con il ricavato della liquidazione dei beni. In questi casi la misura del soddisfacimento dei crediti è legata ai risultati dell'esercizio dell'impresa o della liquidazione dei beni ed occorre stabilire su chi gravi l'alea.

Prima della riforma, con riferimento al concordato preventivo, era prevista la cessione dei beni ai creditori quale forma alternativa a quella del concordato con garanzia e l'alea era posta a carico dei creditori chirografari, statuendosi che il concordato non poteva essere risolto se questi creditori conseguivano una percentuale inferiore al 40% (percento) (art. 186, secondo comma). Non essendo più previsto, nel nuovo sistema, il soddisfacimento dei creditori chirografari nel concordato preventivo con cessione dei beni nella misura minima del 40% (percento), la norma dell'art. 186, secondo comma, rimasta immutata con la riforma del 2005, poteva essere letta nel senso che il concordato non si poteva risolvere se nella liquidazione si fosse ricavata una percentuale inferiore a quella ipotizzata nella proposta di concordato (Guglielmucci 115; Fauceglia 1104).

Con il decreto correttivo, peraltro, è stata eliminata una previsione espressa relativa alla risoluzione del concordato preventivo con cessione dei beni ed è stata introdotta — come si è già ricordato — una previsione generale di non risolubilità se l'inadempimento ha scarsa importanza. Si è perciò sostenuto che il problema va posto in termini di fattibilità del piano (Ambrosini 152).

Nel concordato fallimentare una cessione dei beni a fini liquidativi è certamente possibile a favore della collettività dei creditori o, più probabilmente, a favore di una classe di creditori ed il problema della risolubilità o meno del concordato per mancato conseguimento degli obiettivi programmati si pone anche in tal caso. Il problema va risolto verificando l'esatto contenuto della proposta di concordato, che può avere ad oggetto la cessio bonorum con la previsione del conseguimento di un determinato risultato o l'impegno a far conseguire un determinato risultato attraverso la liquidazione dei beni. Sembra, infatti, evidente che se i creditori accettano a maggioranza una proposta fondata su di una stima dei beni sulla carta ed una liquidazione ad essi affidata, non possono dolersi se il risultato è poi inferiore alle aspettative.

Se il soddisfacimento viene programmato attraverso gli utili dell'impresa che il proponente il concordato si impegna ad esercitare indicando la misura del soddisfacimento conseguibile, dipendendo il risultato dall'attività del proponente si deve ritenere che oggetto dell'obbligazione concordataria sia l'attribuzione del soddisfacimento nella misura indicata.

Limiti di risolubilità del concordato con assunzione

Concordato con assunzione e liberazione immediata del fallito — Poiché nel sistema previgente proponente del concordato era necessariamente il fallito, l'esclusione della risolubilità in caso di assunzione da parte di un terzo con liberazione immediata del fallito discendeva dalla non configurabilità di un inadempimento della parte dell'accordo concordatario: cioè del fallito che, essendo stato immediatamente liberato, non poteva essere considerato inadempiente.

Con la riforma, però, la proposta di concordato può provenire anche da un terzo ed il principio in forza del quale la risoluzione può essere richiesta per l'inadempimento della parte dell'accordo sembra confermato dalla disposizione del primo comma dell'articolo commentato che dichiara risolubile il concordato non più, come prima della riforma, «se il fallito non adempie regolarmente», ma «se il proponente non adempie regolarmente». Tuttavia la risoluzione del concordato con liberazione immediata del fallito è esclusa anche quando proponente del concordato è l'assuntore. L'apparente incoerenza della previsione della non risolubilità dell'accordo concordatario per inadempimento della parte dell'accordo medesimo si spiega, tuttavia, ove si consideri che il concordato, anche se proposto dall'assuntore, è (anche) un accordo a favore di terzo, cioè del fallito, che rimane liberato e, quindi, non potrebbe vedersi esposto alla riapertura del fallito «in un contesto in cui egli non ha conservato obbligazioni residue» (Sanzo sub art. 137, § 3).

Le vicende relative all'esecuzione delle obbligazioni concordatarie riguardano dunque esclusivamente l'assuntore (Minutoli sub art. 137, 1841); e per l'adempimento delle obbligazioni concordatarie — così come per l'adempimento di ogni sua altra obbligazione — può essere perseguito con l'azione esecutiva individuale, nonché, ove sia imprenditore commerciale insolvente, anche con l'azione esecutiva concorsuale. In caso di insolvenza dell'assuntore l'irresolubilità del concordato comporta il concorso sui beni ceduti, oltre che sugli altri beni dell'assuntore, degli altri creditori dell'assuntore con i creditori del concordato, con possibile pregiudizio di questi ultimi. A questo inconveniente non si può tuttavia ovviare configurando una risolubilità del concordato nei confronti del solo assuntore, che è stata giustamente considerata priva di qualsiasi supporto normativo (Bran § 16), ma soltanto all'atto del vaglio della proposta, prestando particolare attenzione alla solvibilità dell'assuntore o alle garanzie di adempimento degli obblighi concordatari da lui prestate.

Concordato con limitazione della responsabilità dell'assuntore — Recependo un'opinione espressa prima della riforma, l'ultimo comma dell'art. 124 ha previsto che in caso di limitazione della responsabilità dell'assuntore ai soli creditori insinuati, verso gli altri creditori continua a rispondere il fallito.

La clausola di liberazione immediata del fallito in tal caso opera soltanto per i debiti che l'assuntore si accolla e la persistente (sia pure limitata) responsabilità del fallito farebbe venir meno l'ostacolo alla risolubilità del concordato prevista dal settimo comma dell'articolo commentato: anzi, stante l'intervenuta cessione dei beni all'assuntore e la conseguente impossidenza del fallito, movendo dalla premessa della legittimazione del creditore non insinuato a richiedere la risoluzione, l'avrebbe resa pressoché inevitabile. Conseguentemente l'assuntore, pur non avendo l'obbligo di adempiere in forza della clausola di limitazione della responsabilità, ne avrebbe avuto l'onere per evitare, con la risoluzione del concordato, la perdita dei beni cedutigli. Come era stato osservato prima della riforma (Guglielmucci 311 ss.) «solo per la estrema contenutezza del termine di risolubilità del concordato la clausola di limitazione della responsabilità assicura la stabilità dell'acquisto dei beni ceduti». Poiché con la riforma il termine dell'anno è previsto dall'articolo in esame non più per la pronuncia di risoluzione, ma per la presentazione della domanda di risoluzione, il rischio dell'assuntore si sarebbe dilatato nel tempo. Perciò con l'ultimo comma dell'articolo commentato il problema è stato radicalmente risolto, statuendo che non possono proporre istanza di risoluzione i creditori del fallito verso cui il terzo non abbia assunto responsabilità. La persistenza della responsabilità del fallito per i debiti verso i creditori verso i quali non risponde l'assuntore si riduce quindi ad una mera enunciazione di principio, priva di contenuto concreto, salvo si voglia ipotizzare che al ritorno in bonis per effetto del concordato si accompagni l'acquisizione di cespiti suscettibili di realizzo.

Procedimento

L'applicazione delle disposizioni sul procedimento per la dichiarazione di fallimento - Il procedimento per risoluzione del concordato, assoggettato sin dall'origine al rito camerale non essendovi la necessità di accertamenti particolarmente complessi, successivamente modellato con la riforma organica delle procedure concorsuali sul procedimento di reclamo contro i decreti del tribunale e del giudice delegato, con il decreto correttivo è stato rimodellato richiamando le disposizioni sul procedimento per dichiarazione di fallimento. L'iter che conduce alla riapertura del fallimento per effetto della risoluzione del concordato risulta così lo stesso che ha condotto alla dichiarazione di fallimento.

Le disposizioni dell'art. 15 sul procedimento per la dichiarazione di fallimento si applicano, secondo quanto statuisce il secondo comma dell'articolo commentato «in quanto compatibili».

La forma dell'atto introduttivo è quella — comune a tutti i procedimenti camerali — del reclamo, che nella specie va indirizzato al tribunale ed il procedimento si svolge avanti al tribunale in composizione collegiale. Sono poi applicabili le norme che prevedono: 1) la convocazione (delle parti (v. infra) con decreto in calce al ricorso sottoscritto dal presidente o dal giudice delegato all'audizione delle parti ed all'istruttoria; 2) la notifica del ricorso e del decreto di fissazione di udienza a cura del ricorrente; 3) l'indicazione nel decreto di convocazione dell'oggetto dell'accertamento cui è volto il procedimento; 4) la fissazione di termini per memorie e deposito documenti, nonché ragioni e modalità dell'eventuale abbreviazione dei termini; 5) l'espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d'ufficio.

Non vi sono, poi, ragioni di incompatibilità atte ad escludere l'applicazione della disposizione che prevede l'emissione, ad istanza di parte, di provvedimenti conservativi a tutela del patrimonio: provvedimenti che possono essere anzi opportuni posto che nella fase di esecuzione del concordato il patrimonio — acquisibile al fallimento in caso di riapertura conseguente alla risoluzione — è nella disponibilità del fallito o dell'assuntore.

Il termine — L'esigenza di assicurare stabilità ai rapporti coinvolti nel procedimento concorsuale aveva indotto a fissare un breve termine di un anno non per la proposizione della domanda, bensì per la pronuncia di risoluzione: termine la cui osservanza non incontrava ostacoli nell'iter processuale del tutto deformalizzato. La regolazione dell'istruttoria, scandita dall'esigenza di termini per le parti del procedimento e condizionata dalla eventuale esigenza di adempimenti istruttori, ha indotto a conservare bensì il termine breve di un anno, ma per la presentazione del ricorso.

Il termine — che è di decadenza e non di prescrizione (Sanzo sub art. 137, § 3) ed è perentorio — prima della riforma era fatto decorrere dalla scadenza dell'ultimo pagamento previsto dal concordato. Poiché nel nuovo concordato il soddisfacimento dei crediti può essere preveduto in forme diverse dal pagamento, il termine è ora fatto decorrere dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto nel concordato.

Il ricorso presentato dopo il decorso del termine va dichiarato inammissibile anche d'ufficio.

Le parti — Il ricorrente, come si è ricordato, è necessariamente un creditore, la cui legittimazione, se non insinuato, è subordinata alla prova del credito e della sua anteriorità al fallimento. Il creditore insinuato, ancorché non ammesso, è legittimato senza necessità che fornisca la prova della fondatezza della sua opposizione a stato passivo, atteso che le somme eventualmente spettantegli vanno non corrisposte, bensì depositate nei modi stabiliti dal giudice delegato, ma il mancato versamento o la prestazione di fideiussione sostitutiva costituisce inadempimento ad obblighi concordatari.

Le controparti cui vanno notificati il ricorso ed il decreto di fissazione di udienza, sono il proponente, nonché il fallito anche ove non sia egli il proponente (Minutoli sub art. 137, 1843) atteso che la risoluzione del concordato determina la riapertura del fallimento.

Nel sistema ante riforma era prevista la convocazione anche dei fideiussori — il cui intervento con un pagamento sia pure tardivo poteva evitare la pronuncia di risoluzione — e, nel caso di concordato con assunzione, era ritenuta necessaria la convocazione anche dei fideiussori dell'assuntore (Cass. n. 13900/2003). Il terzo comma dell'articolo commentato statuisce ora che al procedimento è chiamato a partecipare anche l'eventuale garante: e l'espressione va riferita non soltanto a chi abbia prestato garanzie personali, ma anche a chi abbia prestato garanzie reali, che pur non essendo obbligato ad adempiere, ma soltanto assoggettabile ad azione esecutiva, ha comunque la facoltà di provvedere all'adempimento da altri dovuto per evitare l'escussione.

La decisione — Se il ricorso viene accolto il tribunale pronuncia sentenza che — secondo quanto statuisce il quarto comma dell'articolo commentato — «riapre il fallimento».

Trattandosi di sentenza costitutiva, ne sarebbe dubbia la provvisoria esecutorietà ex art. 282 c.p.c. che, tuttavia, è espressamente sancita dall'articolo commentato anche perché riapre la procedura di fall., con tutte le necessarie conseguenze (si veda anche la omologa norma dell'art. 138, secondo comma: Minutoli 1844 s.). Per coerenza del sistema deve ritenersi che la sentenza che, risolvendo il concordato, riapre il fallimento produca bensì effetti, come la sentenza di fallimento, dalla data del deposito in cancelleria (Maffei Alberti 906), ma gli effetti nei riguardi dei terzi si producano dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese.

La sentenza di risoluzione è impugnabile con reclamo alla corte d'appello, come la sentenza di fallimento, ai sensi dell'art. 18. La norma dell'art. 18 si deve intendere integralmente richiamata, ivi compresa la parte in cui è previsto il successivo ricorso per cassazione. La disciplina dell'impugnazione della sentenza di fallimento è completata dalla previsione, contenuta nel successivo art. 19, della possibilità di richiedere la sospensione della liquidazione fallimentare, la cui applicabilità si deve considerare estesa anche al caso di impugnazione della sentenza di risoluzione (contra v., tuttavia, Sanzo sub art. 137, § 4).

Non è, viceversa, disciplinato il caso di rigetto del ricorso per risoluzione. Prima della riforma — allorché parimenti non era espressamente disciplinato il caso di rigetto dell'istanza di risoluzione — si disputava se fosse applicabile la norma dell'art. 22 sull'impugnazione del decreto di rigetto dell'istanza di fallimento o quella dell'art. 739, secondo comma c.p.c., sul reclamo contro i decreti resi in camera di consiglio (v. Bran § 16). L'alternativa viene ora riproposta (Minutoli sub art. 137, 1844). Le peculiarità del procedimento preveduto dall'articolo commentato rispetto ai procedimenti camerali preveduti dal codice di rito, induce a ritenere preferibile l'estensione della norma dell'art. 22 al decreto di rigetto dell'istanza di risoluzione e riapertura del fallimento, in parallelo con l'applicazione dell'art. 18 in caso di accoglimento dell'istanza.

In caso di accoglimento del reclamo da parte della corte, si è dubitato dell'applicabilità della disposizione in forza della quale gli atti vanno rimessi al tribunale per la pronuncia costitutiva di riapertura del fallimento, così come in caso di accoglimento del reclamo contro il decreto di rigetto dell'istanza di fallimento gli atti vanno rimessi al tribunale perché dichiari il fallimento. Si è osservato, in proposito, che la riapertura del fallimento fa rivivere gli organi del fallimento cessato con il concordato e non vi è necessità di emettere le statuizioni connesse alla dichiarazione di fallimento (Minutoli sub art. 137, 1845).

Ferma restando l'unitarietà della procedura — rilevante ad altri fini, quale quello del compenso al curatore (Cass. 22380/2006) — occorre tuttavia considerare che anche in caso di riapertura del fallimento sono necessarie statuizioni di carattere ordinatorio (art. 121, secondo comma).

Bibliografia

Ambrosini, La proposta di concordato fallimentare in Il concordato fallimentare, Bologna 2008; Bellè, in La legge fallimentare, Padova 2011; Bertacchini, Manuale di diritto fallimentare, Milano 2007; Bonsignori, Del concordato, in Comm.S.B., Bologna; Bran, il concordato fallimentare, il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino 2002; Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare, Bologna 2010; Fauceglia, Fallimento e altre procedure concorsuali; Guglielmucci, in Codice commentato del fallimento a cura di Lo Cascio, Milano 2013; Jorio, Manuale di diritto fallimentare, Padova 2001; Maffei, Commentario breve al diritto delle società, Padova 2007; Minutoli, La legge fallimentare, commentario teorico pratico, Padova 2011; Nardecchia, Gli effetti del concordato preventivo sui creditori, Milano 2011; Ruosi, in La riforma della legge fallimentare, Torino 2006.; Sanzo, la fase successiva all'omologazione, in Comm. Jorio-Fabiani, 2007.

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