Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 148 - Fallimento della società e dei soci 1 .Fallimento della società e dei soci1.
Nei casi previsti dall'articolo 147, il tribunale nomina, sia per il fallimento della società, sia per quello dei soci un solo giudice delegato e un solo curatore, pur rimanendo distinte le diverse procedure. Possono essere nominati più comitati dei creditori. Il patrimonio della società e quello dei singoli soci sono tenuti distinti. Il credito dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intende dichiarato per l'intero e con il medesimo eventuale privilegio generale anche nel fallimento dei singoli soci. Il creditore sociale ha diritto di partecipare a tutte le ripartizioni fino all'integrale pagamento, salvo il regresso fra i fallimenti dei soci per la parte pagata in più della quota rispettiva. I creditori particolari partecipano soltanto al fallimento dei soci loro debitori. Ciascun creditore può contestare i crediti dei creditori con i quali si trova in concorso. [1] Articolo sostituito dall'articolo 132 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. InquadramentoLa norma regola i rapporti processuali e sostanziali tra il fallimento della società e i fallimenti dei soci illimitatamente responsabili dichiarati in forza dell'art. 147 l.fall. La riforma attuata con il d.lgs. n. 5/2006 ha apportato al testo dell'articolo solo alcune marginali modifiche. Anzitutto l'ambito applicativo della norma è stato riferito ai «casi previsti dall'articolo 147» (invece che al «caso previsto dall'articolo precedente», come nella previgente formulazione), con ciò rimarcandosi che la regolamentazione in essa contenuta vale non soltanto nel caso di fallimento dei soci illimitatamente responsabili dichiarato in via automatica e contestuale con il fallimento della società ai sensi del comma 1 dell'art. 147 l.fall., ma anche nelle ipotesi in cui il fallimento di tali soci venga dichiarato in un momento successivo per estensione o per trasformazione del fallimento dell'imprenditore individuale in fallimento sociale ai sensi dei commi 4 e 5 del medesimo art. 147 l.fall. La modifica più significativa, tuttavia, è consistita nell'inserimento nel comma 1 dell'inciso «pur rimanendo distinte le diverse procedure», col quale il legislatore ha inteso recepire apertamente l'orientamento, già prevalente in dottrina e giurisprudenza, secondo cui il fallimento della società e quelli dei singoli soci, per i quali vengono nominati un unico giudice delegato e un unico curatore, restano procedure distinte e autonome. Per le altre novità apportate dal d.lgs. n. 5/2006, v. infra. Si è dunque sancito il superamento della teoria minoritaria in base alla quale il fallimento della società e i fallimenti dei soci illimitatamente responsabili avrebbero dovuto essere considerati in termini di unità, alla stregua di un simultaneus processus (Pajardi, Paluchowski, 792; Bigiavi, 63, 516; similmente Porru, 745) o di un «processo cumulativo» (Guglielmucci, 308), in favore della posizione che ha sempre sottolineato l'autonomia di tali procedure (Bonsignori, 88, 165; Satta, 465; Ragusa Maggiore, 94, 566; Provinciali, 2155; Jorio, 766; Castellano, 675; Irrera, 2191; Ferrara, Borgioli, 723; Sandulli, D'Attorre, 200; Del Bene, Bonfante, 338 ss.; Alvino, 945), fondata sulle esigenze sostanziali di tutela delle due diverse categorie di creditori (sociali e particolari) e sulla necessità di tenere distinti, come precisa il comma 2, i diversi patrimoni, poiché il patrimonio sociale è destinato esclusivamente al soddisfacimento dei creditori sociali, mentre sul patrimonio di ciascun socio hanno diritto di soddisfarsi sia i creditori sociali sia i creditori particolari del socio (Guglielmucci, 308; Fabiani, 541-542; Caridi, 10, 1945; Pellegrino, 866; Apice, Mancinelli, 299; Bonsignori, 299). La diversità delle procedure comporta, tra l'altro, che il venir meno del fallimento del socio in conseguenza dell'accoglimento del relativo reclamo non impedisce la sopravvivenza del fallimento della società e degli eventuali altri soci illimitatamente responsabili (Proto, 25; Nigro, 200; Bonsignori, 88, 202; Del Bene, Bonfante, 330). È stato peraltro osservato (Caridi, 06, 912) che nello stesso art. 148 l.fall. vi sono previsioni che tendono a mitigare l'autonomia dei fallimenti, non solo attraverso l'unicità dei principali organi, ma anche mediante la formazione coordinata dei rispettivi stati passivi e le interconnessioni tra gli stessi costituite in forza della disciplina di cui ai commi 3 e 5. Del resto un rapporto di connessione e di genetica dipendenza tra i fallimenti (Caridi, 10, 1950; Fabiani, 541; v. altresì Del Bene, Bonfante, 330, che parlano di una «elastica interdipendenza oggettiva») emerge anche nella disciplina della loro chiusura, e in specie nell'art. 118 comma 2 l.fall., in base al quale la chiusura del fallimento della società determina anche la chiusura dei fallimenti dei soci dichiarati ai sensi dell'art. 147 l.fall., salvo che nei confronti del socio non sia stata aperta una procedura di fallimento come imprenditore individuale, e nell'art. 153 l.fall., in forza del quale il concordato fallimentare della società fa cessare anche il fallimento dei soci a responsabilità illimitata, a meno che non sia stata pattuita l'inefficacia del concordato nei confronti di questi ultimi (Guglielmucci, 310). In definitiva, se la diversità delle procedure è funzionale alla tutela degli interessi divergenti dei creditori sociali e personali, il coordinamento tra le stesse consente di realizzare, anche in un'ottica di economia processuale, la gestione unitaria degli interessi che le due masse di creditori hanno in comune (Pajardi, Paluchowski, 792; Bonsignori, 88, 178; Jorio, 767; Pirazzoli, 1027). Quanto all'ambito di operatività della norma, già prima della riforma del 2006 era stato chiarito che essa si applica anche nell'ipotesi in cui, dichiarato inizialmente il fallimento di un'impresa apparentemente individuale, venga successivamente accertata la natura sociale di essa e dunque dichiarato il fallimento della società occulta e dei suoi soci illimitatamente responsabili (Cass. I, n. 2860/1962). Per quel che concerne i rapporti tra le procedure la giurisprudenza, dopo aver affermato che il fallimento della società con soci illimitatamente responsabili dà luogo a un «processo cumulativo», ossia ad una forma particolare di riunione di processi nella quale i vari fallimenti, pur essendo riuniti per identità di alcuni organi, restano tuttavia distinti l'uno dall'altro (Cass. I, n. 1229/1954), e che il fallimento della società e i fallimenti dei soci sono riuniti in un'unica procedura in virtù del collegamento dovuto alla connessione soggettiva ed oggettiva fra loro intercorrente (Cass. I, n. 1144/1971; Trib. Napoli, 27 febbraio 2002, in Fall. 2002, 1377), pur restando distinti con riguardo ai patrimoni rispettivamente coinvolti e alla verifica delle relative passività (Cass. I, n. 2766/1989), ha sempre più valorizzato l'autonomia delle procedure fallimentari, pur affievolita dall’unicità dei principali organi (Cass. I, n. 11084/2004) e dalla previsione di cui al terzo comma secondo cui il credito vantato dai creditori sociali si intende dichiarato per l'intero e con il medesimo privilegio generale anche nelle procedure concernenti i singoli soci (Cass. I, n. 18829/2018). Si è così precisato che, pur essendo previsto per i due fallimenti un simultaneus processus, con un unico giudice ed un unico curatore, i due fallimenti, che coesistono, restano però autonomi nella medesima procedura (Cass. S.U., n. 8257/2002; Cass. I, n. 13421/2008; Trib. Verbania, 23 giugno 1989). Si è poi evidenziato che i fallimenti della società e dei soci illimitatamente responsabili, nonostante l'unicità della sentenza dichiarativa e di alcuni organi, costituiscono entità giuridiche differenti (Cass. I, n. 11084/2004) e centri diversi di imputazione giuridica di tale sentenza, essendo distinti gli stati passivi e le masse riferibili alla società e ai soci (Cass. I, n. 26177/2007; Cass. I, n. 4284/2005; Cass. I, n. 14799/2000; Cass. I, n. 2996/1994), e che la distinzione tra i due fallimenti è finalizzata a limitare il concorso dei creditori particolari del socio al solo fallimento del proprio debitore (Cass. I, n. 1778/2013; Cass. II, n. 5433/2007; Cass. I, n. 10725/1996). In ogni caso, la disciplina dettata dall'art. 148 l.fall. non determina alcuna deroga ai principi e alle regole in materia di competenza, per cui la riunione del fallimento della società e del fallimento del socio illimitatamente responsabile dinanzi ad un unico giudice delegato e ad un unico curatore presso il medesimo Tribunale non avviene quando il socio, essendo anche titolare di un'impresa individuale o socio illimitatamente responsabile di altra società aventi sede in un diverso circondario, sia stato già dichiarato fallito da un altro Tribunale (Cass. I, n. 3461/2002; Cass. I, n. 15105/2001; Cass. I, n. 4461/2001; Cass. I, n. 8795/1997; Cass. I, n. 5564/1995; Cass. I, n. 10942/1991; Cass. I, n. 6316/1986; Cass. II, n. 102/1984; Cass. I, n. 1144/1971; contra Cass. I, n. 966/1995; Cass. I, n. 4599/1988; Cass. I, n. 9578/1987, Cass. I, n. 3476/1987; Cass. I, n. 1616/1985; Cass. I, n. 4177/1984), restando in tal caso concentrate nella procedura di fallimento della persona fisica, già pendente presso il Tribunale che ne ha per primo pronunciato la dichiarazione di fallimento, tutte le situazioni creditorie personali e societarie fatte valere nei confronti dello stesso soggetto (Cass. I, n. 3455/1999; Cass. I, n. 7884/1995): ciò in quanto sull'esigenza di coordinamento tra i procedimenti connessi relativi al fallimento della società e a quello del socio, che costituisce la ratio dell'art. 148 l.fall., prevalgono le necessità dell'unicità della procedura concorsuale nei confronti del medesimo soggetto e l'esigenza funzionale sottesa al criterio di competenza inderogabile stabilito dall'art. 9 l.fall. (Cass. I, n. 3105/1998), e un'ipotetica attrazione della procedura «minore» da parte del fallimento di maggior ampiezza potrebbe pregiudicare interessi sostanziali collegati (per esempio, in tema di revocatorie fallimentari) alla data di dichiarazione di fallimento (Cass. I, n. 7884/1995). Solo nel caso in cui le due sentenze di fallimento del socio siano state depositate nella stessa data può operare il criterio dell'attrazione da parte del fallimento di maggiore ampiezza (Cass. I, n. 7208/1997).
Gli organi del fallimento della società e dei fallimenti dei sociIl fallimento della società e i fallimenti dei soci devono avere un unico giudice delegato e un unico curatore, mentre è consentita la nomina di diversi comitati dei creditori. La regola della nomina di un solo giudice delegato e di un solo curatore (che non può essere in alcun caso derogata: Mazzocca, 517) persegue lo scopo di garantire, attraverso lo svolgimento coordinato delle procedure fallimentari, una più celere ed efficace soddisfazione dei creditori sociali (Jorio, 766; De Cicco, 268; Caridi, 10, 1953; Apice, Mancinelli, 300; Irrera, 2191; Zanichelli, 398; Pirazzoli, 1027; Tedeschi, 528). D'altra parte, l'unicità dei suddetti organi è funzionale anche all'interesse dei soci falliti e dei rispettivi creditori particolari ad una proficua liquidazione del patrimonio sociale, per evitare o quantomeno ridurre il più possibile il concorso dei creditori sociali sui patrimoni personali dei soci (Caridi, 10, 1953). È diffusa l'opinione secondo cui in caso di conflitto di interessi tra le masse dei creditori deve essere nominato un curatore speciale (Mazzocca, 517; Ferrara, Borgioli, 723; Patti, 357; Bonfatti, Censoni, 499; Fabiani, 542; Pellegrino, 867; Pirazzoli, 1028; Irrera, 2191; Caridi, 10, 1953; Jorio, 767; Tedeschi, 528; Del Bene, Bonfante, 331-332), non potendo procedersi invece alla nomina di un altro e diverso curatore fallimentare (come sostiene Satta, 466, nt. 47) o di un coadiutore ai sensi dell'art. 32, comma 2, l.fall. (come suggerisce Pajardi, 828), ma vi è anche chi obietta che tale opinione non trova riscontro in alcuna previsione normativa, e che del resto è la stessa legge a demandare all'ufficio fallimentare la valutazione di tutti gli interessi in gioco (Apice, Mancinelli, 301, nt. 23). Secondo la prevalente dottrina, il compenso del curatore va calcolato in relazione alle rispettive masse, attiva e passiva, computando tuttavia i debiti della società solo nel passivo di quest'ultima, al fine di evitare duplicazioni (Candia, 341; Tomasso, 1766-1777). La previsione della possibilità che vengano nominati più comitati dei creditori consegue alla necessità di ovviare alla diversità degli interessi, talora anche in conflitto, facenti capo alle diverse masse dei creditori (Bonsignori, 88, 165; Patti, 357; Bonfatti, Censoni, 498; Blatti, 1936; Del Bene, Bonfante, 330 e 336; De Semo, 513; Satta, 466), che rende sempre preferibile la presenza di diversi comitati (Pellegrino, 867; Tomasso, 1767). Il legislatore della riforma ha opportunamente sostituito l'inciso «ma può nominare più comitati dei creditori» (considerato in dottrina come una sostanziale «svista» legislativa, in quanto il soggetto era «Il Tribunale», in contrasto con la disposizione dell'art. 40 l.fall. che già all'epoca attribuiva il potere di nomina del comitato al giudice delegato: Bigiavi, 54, 428; Provinciali, 2152; Bonsignori, 97, 293; Caridi, 06, 911; Blatti, 1936; Grossi, 1316; Apice, Mancinelli, 299, nt. 15; Del Bene, Bonfante, 336-337) con la previsione secondo cui «possono essere nominati più comitati dei creditori», espressione impersonale che tiene conto della particolare fattispecie prevista dal nuovo art. 37-bis l.fall., nella quale il comitato dei creditori è nominato dal Tribunale in conformità alle nuove designazioni effettuate dai creditori nel momento conclusivo dell'adunanza per l'esame dello stato passivo (Caridi, 10, 1947; Irrera, 2192; Blatti, 1936). Non è dunque consentito che le funzioni di giudice delegato o di curatore siano esercitate da più persone nei diversi fallimenti riuniti (Cass. I, n. 2070/1966). Invero l'unico curatore fallimentare cumula in sé le diverse funzioni di curatore del fallimento della società e di curatore del fallimento dei soci (Cass. II, n. 5433/2007), ed è quindi legittimato a stare in giudizio quale organo del fallimento sociale o di ciascuno dei soci a seconda della riferibilità della controversia all'uno o agli altri (Cass. I, n. 26177/2007; Cass. I, n. 4284/2005; Cass. I, n. 14799/2000). Ad esempio, nella controversia avente ad oggetto un debito del socio il curatore è legittimato a stare in giudizio in qualità di organo del fallimento del socio e non anche del fallimento della società (Cass. I, n. 22629/2006; Cass. I, n. 7105/2001; Cass. I, n. 2996/1994; Cass. I, n. 2766/1989), e nel giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall. che riguardi il socio e le ragioni del suo fallimento personale il curatore deve agire o essere chiamato in giudizio in qualità di organo del fallimento del socio (Cass. I, n. 11084/04; contra Trib. Milano, 22 luglio 2003, in Fall. 2004, 109, e Trib. Milano, 29 settembre 2005, in Fall. 206, 851). Più in generale, il curatore del fallimento sociale non ha legittimazione processuale nelle controversie coinvolgenti la massa attiva del fallimento del socio quando esse ineriscano a diritti che già spettavano al fallito (Cass. I, n. 22279/2017; Cass. I, n. 7105/2001; Trib. Como, 11 febbraio 2011). Egli può invece proporre l'azione revocatoria contro atti di disposizione compiuti dal socio (anche, eventualmente, nell'esercizio della propria impresa individuale: Cass. I, n. 16213/2007), poiché tale azione mira all'accrescimento del patrimonio «aggredibile» di quest'ultimo che è destinato anche alla soddisfazione dei creditori sociali (Cass. I, n. 18829/2018; Cass. I, n. 22279/2017;Cass. I, n. 16621/2016; Cass. VI, n. 1103/2016; Cass. I, n. 1778/2013; Cass. I, n. 17675/2010; Cass. I, n. 15677/2007; Cass. II, n. 5433/2007; Cass. I, n. 22629/2006; Cass. I, n. 7105/2001; Cass. I, n. 969/1998; Cass. I, n. 10725/1996; App. Palermo, 27 ottobre 1992, in Fall. 1993, 529; Trib. Milano, 18 gennaio 1988, in Fall. 1988, 515; Trib. Torino, 9 aprile 1986, in Fall. 1986, 1384; contra Cass. I, 4284/2005; Cass. I, 2766/1989; Trib. Milano, 13 novembre 1997, in Giur. comm. 1999, II, 389; Trib. Trieste, 6 novembre 1996, in Fall. 1997, 323; App. Roma, 29 gennaio 1996, in Fall. 1996, 1122; Trib. Roma, 15 dicembre 1992, in Giur. it. 1994, I, 2, 375; Trib. Lanciano, 22 marzo 1983, in Giur. it. 1983, I, 2, 513). In tal caso non vi è necessità di integrare il contraddittorio nei confronti del fallimento del socio (Cass. II, n. 5433/2007), e la sentenza che definisce il relativo giudizio fa stato nei confronti dei creditori di tutte le masse nonostante il curatore non abbia speso congiuntamente il nome del fallimento sociale e di quelli dei soci, precludendo dunque al curatore medesimo la possibilità di riproporre in qualità di organo del fallimento del socio la medesima azione revocatoria precedentemente esperita quale curatore del fallimento sociale (Cass. I, n. 18829/2018; Cass. VI, n. 1103/2016). Nel procedimento instaurato con ricorso tributario avverso un avviso di rettifica relativo ai redditi della società, l'integrità del contraddittorio è garantita dall'unicità del curatore, il quale è legittimato a stare in giudizio quale organo del fallimento della società e di ciascuno dei soci e deve attuare il contraddittorio con esplicito riferimento a ciascun fallimento (Cass. V, n. 25616/2010). L'opposizione allo stato passivo promossa dal creditore sociale non è soggetta al principio della notifica di tante copie dell'atto di impugnazione quante sono le parti cui l'atto è destinato, dovendosi considerare il curatore come unico destinatario anche se egli rappresenta più procedure (Trib. Patti, 13 settembre 2010; Trib. Roma, 6 marzo 1989, in Dir. fall. 1991, II, 162). Il curatore speciale nominato per la tutela degli interessi del fallimento del socio che siano in contrasto con quelli del fallimento della società non può difendere gli interessi personali del socio fallito (Cass. I, 2446/1980). Non è ricorribile in Cassazione, essendo privo di carattere decisorio, il provvedimento del Tribunale che in presenza di un conflitto di interessi tra il fallimento sociale e quello del singolo socio nomini per quest'ultimo, anziché un curatore speciale, un diverso curatore fallimentare in sostituzione di quello nominato con la sentenza dichiarativa di fallimento (Cass. I, n. 783/1972). La nomina del curatore speciale per il fallimento del socio non richiede il rispetto delle formalità previste dagli artt. 78 e 80 c.p.c. (Cass. I, n. 1702/1964; Trib. Milano, 29 marzo 1965, in Foro it. 1965, I, 1798). Quanto alla determinazione del compenso del curatore, una parte della giurisprudenza afferma che la relativa liquidazione deve effettuarsi in base all'attivo complessivamente realizzato e al passivo complessivamente accertato nei fallimenti riuniti (Trib. Trapani, 2 aprile 2003, in Rep. Giur. it. 03), mentre secondo altre pronunce esso va calcolato in relazione a ciascuna massa attiva e passiva (Cass. I, n. 1229/1954; Trib. Roma, 9 aprile 1998, in Dir. fall. 98, II, 995), computando i debiti della società una sola volta (Trib. Roma, 30 giugno 1998, in Fall. 1998, 1228; contra Trib. Roma, 22 maggio 2009, in Fall. 2009, 1480, e Trib. Roma, 19 novembre 2008, in Fall. 2009, 487). La distinzione dei patrimoniIl comma 2 dell'articolo stabilisce che il patrimonio della società e i patrimoni dei singoli soci vengono mantenuti distinti. Ciò è dovuto alla diversità delle masse passive e, dunque, delle categorie di creditori che concorrono su ciascun patrimonio, che impone di tenere distinte anche le masse attive e di procedere alla formazione dei singoli stati passivi in modo separato, sia pure contestualmente e con il necessario coordinamento tra gli stati passivi di ciascun socio e quello della società. Il fallimento, dunque, non intacca l'autonomia del patrimonio sociale rispetto a quello di ciascun socio (Jorio, 768; Apice, Mancinelli, 299; Jachia, 660; Tomasso, 1759): mentre la massa passiva del fallimento sociale è costituita esclusivamente dai debiti della società, quella del fallimento di ciascun socio è formata dai debiti sociali (non pro quota, ma per l'intero: Bozza, Schiavon, 93) e da quelli personali del socio (Caridi, 2006, 1948; Pirazzoli, 1027). Ciò comporta che sul patrimonio sociale possono soddisfarsi unicamente i creditori sociali, laddove sul patrimonio di ogni socio trovano invece soddisfazione sia i creditori della società sia i creditori particolari del socio stesso (Guglielmucci, 309; Apice, Mancinelli, 299; Pellegrino, 866; Pirazzoli, 1027). Anche la giurisprudenza di legittimità ha più volte sottolineato che l'art. 148 l.fall. impone di tenere separati il patrimonio della società e i patrimoni dei soci, con distinzione degli stati passivi e delle masse riferibili al primo e ai secondi (Cass. S.U., n. 8257/2002; Cass. I, n. 26177/2007; Cass. II, n. 23302/2005; Cass. I, n. 4284/2005; Cass. I, n. 11084/2004). L'identificazione delle masse attive non presenta particolari problemi nelle società regolarmente costituite: l'attivo del fallimento sociale è costituito dai beni e diritti conferiti dai soci o acquistati dalla società, mentre l'attivo del fallimento di ciascun socio è composto dai beni e diritti che il socio non ha conferito in società o che ha conferito nella stessa solo in godimento (Guglielmucci, 308; Pirazzoli, 1027). Invece nelle società di fatto (specie se occulte) l'esatta individuazione delle masse attive è tutt'altro che semplice, poiché i conferimenti vanno desunti dal comportamento concludente dei soci, dovendo verificarsi l'effettiva destinazione di beni di ciascun socio all'esercizio dell'attività di impresa della società: per i beni mobili tale destinazione consente di presumere l'appartenenza alla società, in base alla regola sull'acquisto della proprietà mediante il possesso (Pellegrino, 869; Pirazzoli, 1028), salva la possibilità di provare che vi sia stato un mero conferimento in godimento, mentre i beni immobili devono considerarsi comunque compresi nel patrimonio del socio e conferiti semplicemente in godimento, poiché il conferimento in proprietà deve necessariamente avvenire in forma scritta a pena di nullità ai sensi dell'art. 2251 c.c. (Guglielmucci, 308). Analoghe problematiche si presentano nella ricostruzione delle masse passive: se nelle società regolarmente costituite l'imputazione dei debiti va effettuata in base alla spendita del nome, nelle società di fatto, e in specie in quelle occulte (il cui nome non viene mai speso), possono riferirsi alla società i debiti contratti per l'esercizio dell'impresa e ai soci i debiti ad esso estranei (Guglielmucci, 309-310). Il rapporto tra gli stati passivi La possibilità per i creditori sociali di insinuarsi anche al passivo dei fallimenti dei singoli soci e la conseguente necessità di coordinamento dei diversi stati passivi (Guglielmucci, 309) comporta che per l'esame di questi ultimi debba essere fissata un'unica udienza (Zanichelli, 398; Pirazzoli, 1028), fermo restando che il curatore deve compiere separatamente, in relazione a ciascuno stato passivo, tutte le formalità previste dalla legge fallimentare (Pellegrino, 882; Pirazzoli, 1029). Il principio della c.d. insinuazione automatica, in base al quale il credito dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intende automaticamente dichiarato per l'intero anche nel fallimento dei singoli soci (Patti, 358; Nigro, Vattermoli, 321; Caridi, 10, 1953; Zanichelli, 398), persegue uno scopo di semplificazione procedurale (Nigro, 412 ss.; Caridi, 10, 1953) e si ispira alla disciplina della solidarietà ex art. 61 l.fall. (D'Attilio, 509; Aprile, 413; Patti, 360; Fabiani, 542; Blatti, 1938), non sottendendo, invece, l’adesione alla tesi che configura la responsabilità del socio per il debito sociale come responsabilità per debito proprio, e non legittimando quindi la compensazione di crediti vantati nei confronti della società con debiti verso il socio, poiché il meccanismo compensativo deve pur sempre operare tra i medesimi soggetti reciprocamente titolari dei rapporti di credito e di debito (Fierro,1007). È discussa l'operatività del principio dell’insinuazione automatica anche con riferimento ai crediti prededucibili sorti nei confronti della società prima della dichiarazione di fallimento o nel corso dell'esercizio provvisorio disposto dal Tribunale o autorizzato dal giudice delegato (in senso favorevole Rivolta, 294; Patti, 360; Pellegrino, 883; Pirazzoli, 1029; contra Nigro, Vattermoli, 321; Cavalli, 241; De Cicco, 269; Bonsignori, 97, 305; Del Bene, Bonfante, 352-353; sul tema v. anche Tomasso, 1764). È invece pacifico che i crediti dichiarati nei fallimenti dei singoli soci non si intendono dichiarati anche nel fallimento della società e degli eventuali altri soci (Jorio, 771; Irrera, 2193 Pirazzoli, 1029). Si è giustamente rimarcato che l'automatismo è riferito soltanto alla domanda e non anche al provvedimento del giudice delegato (Aprile, 413; Guglielmucci, 309; Pirazzoli, 1029). In particolare, se l'esclusione del credito dal passivo del fallimento sociale determina anche l'esclusione dal passivo del fallimento del socio, non sussiste uno speculare automatismo per quanto attiene all'ammissione, atteso che il giudice delegato ben può escludere dallo stato passivo del fallimento del socio un credito ammesso al passivo del fallimento sociale: si pensi al fallimento del socio receduto, escluso o defunto prima della dichiarazione di fallimento della società, il quale, in forza dell'art. 2290 c.c. risponde soltanto delle obbligazioni sociali sorte prima del momento in cui la cessazione del rapporto sociale sia stata portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei (Aprile, 413; Guglielmucci, 309; Cavalli, 239; Tomasso, 1763), o al caso in cui l'obbligazione sia sorta dopo la trasformazione della società di persone in società di capitali, iscritta meno di un anno prima della dichiarazione di fallimento della società con conseguente fallimento anche del socio che era illimitatamente responsabile prima della trasformazione (Aprile, 413; Pellegrino, 882; Blatti, 1939). Parallelamente l'esclusione del credito dal passivo del socio, se fondata su motivi che riguardano l'esistenza del credito nei confronti della società, determina l'automatica esclusione dal passivo anche di quest'ultima (Bonsignori, 88, 227-228; Nigro, 413), e se ciò non accade vi è un conflitto tra giudicati (Pajardi, Paluchowski, 794). È controverso se, nel caso in cui all'iniziale dichiarazione dell'imprenditore apparentemente individuale segua la trasformazione in fallimento della società occulta ai sensi del comma 5 dell'art. 147 l.fall., i crediti eventualmente già ammessi nel fallimento ritenuto individuale debbano considerarsi automaticamente dichiarati e ammessi nel fallimento della società, sempre che non attengano al passivo personale del socio originariamente dichiarato fallito (Bonsignori, 88, 227-228; Provinciali, 2135), o invece il creditore sia tenuto a presentare una nuova istanza di ammissione al passivo nel fallimento della società successivamente dichiarato (Nigro, 419; Satta, 466, n. 49; Mazzocca, 517; Del Bene, Bonfante, 353-355), essendo in tal caso diverso, tra l'altro, il dies ad quem di decorrenza e dunque l'importo degli interessi (Apice, Mancinelli, 299, nt. 16). L'ultimo comma della norma, secondo il quale ciascun creditore può contestare i crediti dei creditori con i quali si trova in concorso, è stato interpretato nel senso che i creditori sociali (se ammessi anche al passivo dei singoli soci) possono impugnare non solo i crediti degli altri creditori sociali ammessi nel passivo del fallimento della società ed eventualmente in quelli dei soci, ma anche i crediti dei creditori particolari ammessi nel solo passivo del fallimento di un singolo socio, mentre i creditori particolari possono impugnare esclusivamente i crediti dei creditori (sociali e particolari) ammessi nel passivo del fallimento del socio, dovendo escludersi la loro legittimazione ad impugnare crediti ammessi al passivo del fallimento della società (Bonsignori, 88, 180), non avendo essi interesse ad una tale impugnazione (Ragusa Maggiore, 94, 575). La regola dettata dal comma 3 dell'articolo va coordinata con quella, esplicitamente recepita dal legislatore della riforma del 2006 nell'art. 93, comma 3, n. 1, l.fall., ma già implicita nel previgente sistema, secondo cui la domanda di insinuazione al passivo richiede l'esatta individuazione della procedura alla quale si intende partecipare, ragion per cui, se il credito dichiarato nel fallimento della società si intende dichiarato anche nei fallimenti dei singoli soci, la domanda di ammissione al passivo del fallimento del socio non spiega invece alcun effetto con riferimento agli stati passivi della società e degli altri soci (Trib. Roma, 20 giugno 1990, in Fall. 1991, 208); né l'ammissione al passivo della società o degli altri soci può essere richiesta per la prima volta con l'opposizione allo stato passivo (Cass. I, n. 7278/2013). Con la regola in esame il legislatore ha inteso stabilire il principio in base al quale il fallimento della società e dei soci illimitatamente responsabili determina per questi ultimi la perdita del beneficio della preventiva escussione ad essi attribuito dagli artt. 2268, 2304 e 2318 c.c. (Cass. I, n. 23669/2006; Cass. I, n. 6852/1992; Cass. I, n. 4606/1983; Cass. I, n. 2070/1966; Trib. Torino, 18 aprile 1986, in Fall. 1987, 412; Trib. Bologna, 4 ottobre 1983, in Giur. comm. 1984, 423; Trib. Napoli, 23 giugno 1983, in Dir. e giur., 1984, 689; contra App. Bologna, 25 giugno 1971, in Giur. it. 72, II, 284), per cui il creditore sociale può insinuarsi al passivo dei fallmenti dei soci senza dover attendere la propria totale o parziale insoddisfazione all'esito della ripartizione dell'attivo nel fallimento della società. La distinzione dei patrimoni e degli stati passivi comporta altresì che il creditore particolare del socio non possa eccepire la compensazione di tale credito con il debito che egli abbia nei confronti della società (Cass. S.U., n. 22659/2006; Trib. Roma, 20 giugno 1990, in Fall. 1991, 208). Ciò naturalmente vale anche nell’ipotesi inversa, non potendo quindi il creditore della società compensare il proprio credito verso la società con il debito verso il socio fallito, anche laddove quest’ultimo si sia costituito fideiussore della società, difettando in ogni caso il requisito della reciprocità (Cass. I, n. 6650/2018). Nella formazione degli stati passivi deve tenersi conto del fatto che l'obbligazione della società è una sola, pur avendone la titolarità passiva anche il socio illimitatamente responsabile, e resta unica anche quando il socio presti successivamente una garanzia reale o personale, poiché in tal caso la garanzia deve considerarsi prestata dal socio per un debito proprio già esistente (Cass. I, n. 10461/1994; App. Firenze, 18 luglio 1996, in Fall. 1997, 111; Trib. Monza, 3 dicembre 1992, in Dir. fall. 1993, II, 429). Ne consegue che in caso di fallimento della società di persone e del socio illimitatamente responsabile che abbia prestato fideiussione per un debito sociale, il creditore può chiedere l'ammissione al passivo dei fallimenti della società e del socio ma non può pretendere di insinuare due volte il credito nel passivo del fallimento del socio (Cass. I, n. 3730/93; Cass. S.U., n. 3749/1989; Trib. Ascoli Piceno, 19 novembre 1991, in Fall. 1992, 713; Trib. Verona, 29 giugno 1991, in Nuova giur. civ. comm. 1993, I, 724; Trib. Torino, 9 maggio 1990, in Fall. 1991, 284; Trib. Torino, 18 aprile 1986, in Fall. 1987, 412), né può, una volta ottenuta l'ammissione al passivo dei fallimenti in via chirografaria in forza del titolo genetico dell'obbligazione, presentare una successiva domanda di insinuazione al passivo del fallimento del socio in via privilegiata o ipotecaria, eventualmente in forza della fideiussione prestata dallo stesso socio (Cass. I, n. 19646/2015; Cass. I, n. 18280/2015; Cass. I, n. 24049/2006; Cass. V, n. 7661/2006; Cass. I, n. 13590/2001). Analogamente, una volta che un determinato credito sociale sia stato insinuato ed ammesso parzialmente negli stati passivi della società e dei soci, senza che sia stata proposta opposizione per far valere la parte non riconosciuta, al creditore è preclusa la possibilità di richiedere l'ammissione al passivo del fallimento del socio per la parte del credito prima esclusa (Trib. Padova, 2 maggio 2000, in Fall. 2000, 1302), e quando un credito sociale sia stato escluso definitivamente dallo stato passivo della società non è più possibile farlo valere nel fallimento nei fallimenti dei soci, neppure se questi ultimi siano stati dichiarati falliti successivamente in estensione (Trib. Monza, 3 novembre 1990, in Fall. 1991, 1067). Ne consegue altresì che, in presenza di un'ipoteca prestata dal socio illimitatamente responsabile a garanzia di un credito vantato nei confronti della società, il creditore ha diritto di insinuarsi in via ipotecaria nel passivo del fallimento del socio, essendo egli creditore ipotecario del socio e non mero titolare di ipoteca rilasciata da quest'ultimo quale terzo garante di un debito altrui (Cass. I, n. 18312/2007; Cass. I, n. 23669/2006). La regola della c.d. insinuazione automatica opera anche nei confronti del socio receduto, escluso o defunto per le obbligazioni della società sorte prima dell'iscrizione nel registro delle imprese della cessazione del rapporto sociale (Trib. Napoli, 16 giugno 1999, in Dir. fall. 2000, II, 419; Trib. Napoli, 15 maggio 1996, in Fall. 1996, 1035). La prevalente giurisprudenza di merito afferma che il principio di automaticità non può essere invece invocato in caso di trasformazione del fallimento dell'imprenditore individuale in fallimento di società occulta ai sensi del comma 5 dell'art. 147 l.fall., sicché in tale ipotesi il creditore già ammesso al passivo del socio ha l'onere di presentare una nuova domanda di ammissione al passivo del fallimento della società (Trib. Ferrara, 23 gennaio 2002, in Gius., 2002, 1639; Trib. Roma, 25 novembre 1986, in Fall. 1987, 453; Trib. Lanciano, 22 marzo 1983, in Giur. it. 1983, I, 2, 513; Trib. Napoli, 3 aprile 1967, in Dir. fall. 1967, II, 570; App. Milano, 27 febbraio 1962, in Dir. fall. 1962, II, 862; contra Trib. Venezia, 11 maggio 2000, in Fall., 2001, 235; App. Palermo, 22 aprile 1992, in Fall., 1993, 81). Quanto alle contestazioni di cui all'ultimo comma della norma, è stata esclusa la legittimazione dei creditori particolari ad impugnare lo stato passivo della società (Trib. Roma, 30 marzo 1984, in Fall. 1985, 65; contra Trib. Milano, 16 ottobre 1958, in Giur. it. 1958, I, 2, 115). Credito privilegiato nei confronti della società e collocazione nel passivo individuale del socio Prima della riforma del 2006 vi era un ampio dibattito in merito alla collocazione, nel fallimento dei singoli soci, del credito privilegiato vantato nei confronti della società. In dottrina prevaleva la convinzione che tale credito degradasse sempre e comunque al rango chirografario nei fallimenti dei soci (Bozza, Schiavon, 734; Pizzigati, 75; D'Attilio, 513), in ragione del carattere tassativo dell'elencazione legislativa delle cause di prelazione (Ragusa Maggiore, 74, 948), anche se alcuni autori sostenevano, invece, che la degradazione dovesse riguardare solo i crediti assistiti da privilegio speciale (Bonsignori, 97, 304; Ghia, 1215; Bozza, 331; Russo, 1165), per i quali la collocazione in via chirografaria era ritenuta inevitabile in ragione della stretta compenetrazione della prelazione con il proprio oggetto, non presente nel patrimonio dei soci (Cascioli, 263; Lamanna 04, 167). Anche la maggior parte della giurisprudenza di merito aveva affermato che i crediti privilegiati vantati nei confronti della società dovevano ammettersi al passivo dei singoli soci in chirografo, a prescindere dal fatto che si trattasse di privilegio generale o speciale (Trib. Bologna, 9 novembre 1993, in Dir. fall. 1994, II, 828; App. Bologna, 30 settembre 1993, in Fall. 1994, 217; Trib. Savona, 29 luglio 1993, in Fall. 1994, 102; App. Bologna, 10 dicembre 1992, in Giur. comm. 1994, II, 107; Trib. Milano, 24 settembre 1990, in Fall. 1991, 832; Trib. Torino, 17 aprile 1990, in Fall. 1990, 1247; App. Torino, 20 dicembre 1982, in Fall. 1983, 979), poiché un'ammissione in privilegio sarebbe stata incompatibile con l'autonomia del patrimonio sociale e con la natura sussidiaria della responsabilità dei soci, oltre che in contrasto con il principio di tassatività delle ipotesi di prelazione previste dalla legge (Trib. Torino, 17 gennaio 1989, in Fall. 1989, 1213), mentre minoritarie erano le pronunce secondo cui tali crediti dovevano essere ammessi in privilegio anche negli stati passivi dei soci se assistiti da un privilegio generale, operando la degradazione solo per i crediti assistiti da un privilegio speciale (Trib. Roma, 24 maggio 2000, in Fall. 2000, 1418; Trib. Ferrara, 16 dicembre 1995, in Inf. prev. 1996, 1273; Trib. Ferrara, 26 maggio 1992, in Rep. Foro it. 1992, voce Privilegio, n. 6; Trib. Milano, 26 maggio 1986, in Fall. 1986, 1273). A tale ultimo orientamento ha aderito la Corte di Cassazione, evidenziando che il rapporto obbligatorio è unico, costituendo l'obbligazione della società anche un'obbligazione diretta del socio illimitatamente responsabile (Cass. I, n. 14646/2004; Cass. n. 8817/1995; Cass. I, n. 10734/1994; Cass. I, n. 11512/1993), e che la degradazione al rango chirografario dei crediti assistiti da pegno, ipoteca o privilegio speciale è tuttavia inevitabile in ragione del fatto che in tali casi la prelazione grava su beni appartenenti al patrimonio di uno soltanto dei soggetti obbligati e non può quindi, in mancanza di collegamento tra prelazione stessa e patrimonio, intendersi dichiarata ed essere fatta valere anche nel fallimento di un soggetto diverso da quello titolare del bene gravato (Cass. I, n. 4363/03). Il legislatore della riforma ha poi apertamente recepito l'orientamento della giurisprudenza di legittimità (ribadito da Cass. I, n. 18312/2007), sulla scorta della concezione della responsabilità personale e diretta del socio illimitatamente responsabile, il quale non può essere considerato terzo rispetto all’obbligazione sociale (Trib. Palermo, 18 novembre 2016). Si è peraltro precisato che, poiché gli stati passivi restano separati, il credito privilegiato nei confronti della società può considerarsi ammesso in via privilegiata anche nello stato passivo del fallimento del socio illimitatamente responsabile solo se nella formazione di detto stato passivo sia stato adottato un espresso provvedimento in tal senso, essendo altrimenti preclusa ogni contestazione sul punto una volta divenuto definitivo il relativo decreto di esecutività emesso dal giudice delegato (Cass. I, n. 5776/1996). Vi è chi ritiene che, in realtà, la disposizione introdotta dalla riforma non sottenda necessariamente la qualificazione della responsabilità del socio come una responsabilità diretta (per debito proprio), ben potendo la ragione dell’estensione del privilegio generale ravvisarsi nel fatto che il privilegio rappresenta una qualità del credito, privo di riferimento ad un diritto o ad un bene specifico del patrimonio (Speranzin, 316). La liquidazione e la ripartizione dell'attivo La distinzione delle procedure comporta anche l'autonomia delle attività poste in essere per la liquidazione dell'attivo, che in ciascuno dei fallimenti ha ad oggetto i beni rientranti nella propria massa attiva (Bonsignori, 97, 298; De Cicco, 266; Caridi, 10, 1952; Blatti, 1937; Pirazzoli, 1027; Irrera, 2190). Vi è tuttavia chi ritiene che non sia preclusa una liquidazione «concertata» dell'attivo (Patti, 360), attraverso una predisposizione e gestione coordinata del programma di liquidazione e delle attività in esso contemplate, anche grazie alla disciplina flessibile vigente in merito alle modalità di vendita dei beni che, specie quando sussista omogeneità fra i cespiti (Fabiani, 543; Tomasso, 1765), non impedisce eventuali vendite unitarie, previa attribuzione a ciascuno dei beni di uno specifico valore cui far corrispondere l'imputazione del relativo ricavato (Caridi, 10, 1952; Vassalli, 1952). Del resto, la distinzione dei patrimoni è imposta nella prospettiva della distribuzione e non della pianificazione e attuazione del realizzo (Tomasso, 1765). Il socio illimitatamente responsabile dichiarato fallito non ha alcun diritto di ottenere che gli organi fallimentari procedano alla vendita dei beni che appartengono al suo patrimonio personale solo dopo aver esaurito la liquidazione dei beni sociali (Cass. I, n. 2070/1966). Quanto alle problematiche che si pongono nella fase della ripartizione dell'attivo, la disciplina è assai scarna (Lamanna 2005, 1073). Il creditore sociale ammesso anche al passivo del fallimento del socio ha diritto a soddisfarsi per l'intero sul ricavato della liquidazione dell'attivo di tale fallimento a prescindere dall'entità della quota di partecipazione societaria detenuta dal socio, fatto salvo l'eventuale regresso tra i fallimenti dei soci per la parte pagata in eccedenza rispetto alla corrispondente quota (Lamanna 2004, 171; Tomasso, 1759; Bonfatti, Censoni, 499-500; Fabiani, 542; Amatucci, 143; Grossi, 1316; Del Bene, Bonfante, 345-346 e 357-358), con le conseguenti operazioni di conguaglio che, secondo alcuni autori, dovrebbero avvenire al momento del riparto finale (De Cicco, 268; Bonsignori, 97, 301) o della chiusura del fallimento sociale (Aprile, 414; Nigro, Vattermoli, 322) e per il tramite di un curatore speciale all'uopo nominato (Bonsignori, 97, 307; Del Bene, Bonfante, 356). Si è precisato che può aversi regresso solo nel caso in cui il creditore sia stato integralmente soddisfatto, in ossequio al principio sancito dall'art. 61 l.fall. (Tomasso, 1759; Del Bene, Bonfante, 346 e 356; Satta, 467). Si è anche affermato che, nel caso in cui l'attivo sociale consenta il pagamento di tutti i creditori sociali con il sopravanzo di un residuo, quest'ultimo dovrebbe essere distribuito ai creditori personali ammessi al passivo dei fallimenti dei soci, in proporzione alla quota di partecipazione agli utili di ciascun socio nella società (Lamanna, 1073). Va segnalato un isolato arresto giurisprudenziale secondo cui il regresso tra i fallimenti dei soci potrebbe esercitarsi anche prima che sia avvenuto l'integrale soddisfacimento dei creditori sociali (App. Bologna, 25 giugno 1971, in Giur. it. 1972, I, 2, 282). Il nuovo "Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza"La disposizione in commento, si è “riversata” nell'art. 257 d.lgs. n. 14/2019 -Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza (in vigore dal 15 agosto 2020), rimane del tutto immutata per quanto attiene alla disciplina dei rapporti tra la procedura di liquidazione che investe la società e quelle aperte nei confronti dei suoi soci illimitatamente responsabili. Al di là delle modifiche meramente terminologiche dettate dalla sostituzione del termine “fallimento” con l'espressione “liquidazione giudiziale”, la formulazione letterale della norma resta identica salvo che per quanto concerne: a) l'inserimento nel comma 1 di un ultimo periodo, in base al quale “il curatore ha diritto ad un solo compenso”; b) l'introduzione del sesto comma. La previsione secondo cui il curatore ha diritto ad un solo compenso appare volta ad evitare che si riproponga anche nel nuovo panorama normativo il contrasto sorto in giurisprudenza e in dottrina in merito ai criteri per la determinazione del compenso dell'unico curatore nominato per il fallimento della società e dei soci (contrasto sul quale v. supra). La precisazione sull'unicità del compenso del curatore consentirà infatti di affermare con certezza (o, quantomeno, con minor incertezza) che le diverse masse attive riferibili al patrimonio della società e a quelli dei singoli soci devono essere unitariamente considerate quale “attivo realizzato” sul quale applicare le percentuali di cui all'art. 1, co. 1, d.m. 30/2012. In altri termini, stante l'unitarietà del compenso del curatore, la liquidazione di tale compenso dovrà effettuarsi applicando una sola volta le predette percentuali sull'attivo complessivamente realizzato nelle liquidazioni giudiziali della società e dei soci. Il sesto comma, in attuazione della direttiva contenuta nell'art. 7, comma 5, lett. c, della legge delega (l. n. 155/2017) di prevedere “la legittimazione del curatore a promuovere o a proseguire: […] per le società di persone, l'azione sociale di responsabilità nei confronti del socio amministratore cui non sia stata personalmente estesa la procedura di liquidazione giudiziale”, stabilisce che “il curatore della liquidazione giudiziale della società può esercitare l'azione sociale di responsabilità nei confronti del socio amministratore anche se nei suoi confronti non è stata aperta la procedura di liquidazione giudiziale”. Si tratta di una disposizione che va a colmare un vuoto normativo ravvisabile nell'attuale legge fallimentare, in cui la collocazione nell'art. 146 l.f. (rubricato “Amministratori, direttori generali, componenti degli organi di controllo, liquidatori e soci di società a responsabilità limitata”) della disposizione che attribuisce al curatore la legittimazione a promuovere le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori della società fallita può indurre a ritenere che tale legittimazione non sussista in capo al curatore del fallimento di una società di persone, pur essendo ben possibile che un suo socio amministratore non venga dichiarato fallito (perché, ad esempio, la sua responsabilità illimitata è cessata da più di un anno quando viene aperto il fallimento della società). Non sono mancate, invero, pronunce nelle quali si è sostenuta l'applicabilità dell'art. 146, co. 2, lett. a), l.f. anche in relazione agli amministratori di società di persone (e ai terzi che con essi abbiano concorso nell'atto illecito dannoso per la società: v. Trib. Prato, 15 febbraio 2017, nella quale si sottolinea che la disposizione “non reca in sé alcuna esclusione in relazione alle società di persone, stante la sua ampia e generica formulazione che non offre le basi per un'interpretazione restrittiva”), nei confronti dei quali è configurabile, in applicazione analogica degli artt. 2393 e 2395 c.c., una responsabilità nei confronti della società e dei singoli soci (v. Cass. n. 1261/2016). Con la nuova disposizione non potrà esservi più alcun dubbio sulla legittimazione del curatore ad esercitare l'azione sociale di responsabilità nei confronti del socio amministratore non sottoposto personalmente a liquidazione giudiziale. La norma va peraltro letta in combinato disposto con l'art. 255 del Codice della Crisi d'impresa e dell'Insolvenza, rubricato “Azioni di responsabilità”, nel quale si stabilisce, senza alcuna distinzione in base al tipo di società fallita, che il curatore – previa autorizzazione ai sensi dell'art. 128, comma 2, del medesimo Codice – “può promuovere o proseguire, anche separatamente: a) l'azione sociale di responsabilità; b) l'azione dei creditori sociali prevista dall'articolo 2394 e dall'articolo 2476, sesto comma, del codice civile; c) l'azione prevista dall'articolo 2476, settimo comma, del codice civile; d) l'azione prevista dall'articolo 2497, quarto comma, del codice civile; e) tutte le altre azioni di responsabilità che gli sono attribuite da singole disposizioni di legge”. La specifica previsione dell'art. 257, comma 6, del Codice, espressamente limitata all'azione sociale di responsabilità, appare allora volta a chiarire che il curatore della liquidazione giudiziale di società di persone non può esperire nei confronti del socio amministratore l'azione dei creditori sociali prevista dall'art. 2394 c.c.. Non è chiaro, tuttavia, se tale scelta da parte del legislatore costituisca un'adesione alla tesi secondo cui l'art. 2394 c.c. (contrariamente agli artt. 2393 e 2395 c.c.) non sarebbe analogicamente applicabile alle società di persone, oppure, più semplicemente, una mancata presa di posizione sul punto, nel qual caso, aderendo all'opposta tesi secondo cui anche i creditori di società di persone potrebbero agire in giudizio per far valere la responsabilità degli amministratori nei loro confronti (tesi invero fondata, più che sull'applicazione analogica dell'art. 2394 c.c., sull'invocazione dell'art. 2043 c.c.), potrebbe anche sostenersi che la legittimazione all'esperimento di tale azione permanga in capo ai singoli creditori ad onta dell'apertura della liquidazione giudiziale della società. 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