Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 160 - Presupposti per l'ammissione alla procedura 1 2
L'imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere: a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito; b) l'attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore; possono costituirsi come assuntori anche i creditori o società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato; c) la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei; d) trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse. La proposta puo' prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purche' il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, inragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d). Il trattamento stabilito per ciascuna classe non puo' avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione3. Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza4 In ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuita' aziendale di cui all'articolo 186-bis5
[1] Articolo sostituito dall'articolo 2, comma 1 del D.L. 14 marzo 2005, n. 35. [2] Rubrica modificata dall'articolo 12, comma 1, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. [3] Comma aggiunto dall'articolo 12, comma 2, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. [4] Comma aggiunto dall'articolo 36 del D.L. 30 dicembre 2005, n. 273. [5] Comma aggiunto dall'articolo 4, comma 1, lettera a), del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132 ; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 1, del medesimo decreto. InquadramentoIl concordato preventivo esibisce il proprio tratto caratterizzante nel profilarsi come procedura concorsuale nel cui ambito il debitore non viene «disarcionato» dall'impresa e conserva, di contro, il potere di gestione e di disposizione dei beni, sia pur sotto il controllo dell'autorità giudiziaria e con alcuni vincoli per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione. Proprio la tutela del diritto di proprietà in capo all'imprenditore insolvente consente, anzi, di porre costui in condizione di proporre un accordo ai propri creditori, volto a colmare, sia pure in parte, le proprie esposizioni debitorie, prima che si faccia luogo alla liquidazione fallimentare, quindi in alternativa ad essa. Una ragione concorrente è rappresentata dalla convinzione del legislatore che una composizione «pattizia» con i creditori sia sempre più vantaggiosa rispetto ad un intervento eterodiretto e, in ultima istanza, obiettivamente ablatorio. La norma in commento disciplina i presupposti di ammissione alla procedura concorsuale del concordato preventivo, tratteggiandone le condizioni di accesso, tanto di natura soggettiva, quanto oggettiva, riassumibili in uno stato di crisi o insolvenza, in una domanda proveniente da un imprenditore o da una società commerciale rientranti nei paradigmi descritti dall'art. 1 l.fall., nell'elaborazione di un piano per uscire dalla crisi debitamente documentato e dal contenuto non imperativo, ma declinabile in qualunque forma salvaguardi la posizione dei creditori privilegiati (art. 160 comma 2). Il programma di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti può assumere una connotazione duttile ed eterogenea. La ristrutturazione dei debiti potrà implicare il pagamento non integrale degli stessi, tempi diversi di adempimento rispetto a quelli originari, e soprattutto modalità di adempimento differenziate, potendo contemplare cessione di beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito. La prosecuzione dell'attività aziendale, per quanto incentivata nel tessuto delle norme sul concordato preventivo, non è considerata requisito di ammissibilità alla procedura, sicché il concordato è compatibile con l'attività di liquidazione. Potranno quindi essere presentati piani di tipo liquidatorio (dell'intera azienda o solo di un suo ramo), piani di continuazione dell'impresa, piani di tipo moratorio, volti a far recuperare l'equilibrio finanziario dell'impresa e posticipare il ripristino del regolare flusso dei pagamenti dovuti, piani «misti», tutti attuabili con libertà di impiego degli strumenti giuridici che si riterranno idonei al raggiungimento dello scopo prefissato dal piano stesso. L'art. 160 delinea, poi, la facoltà di prospettare una suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei e trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse. La norma consente anche la possibilità di pianificare che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'art. 67, terzo comma, lett. d); viene precisato, peraltro, che il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione. Natura e finalità dell'istitutoIl concordato preventivo era ignoto al codice di commercio del 1882, che, infatti, conosceva solo l'istituto della moratoria fallimentare, con la quale il debitore che aveva cessato i pagamenti era facoltizzato ad ottenerne una dilazione, giustificando, con valide prove, che la cessazione era ascrivibile ad avvenimenti straordinari e imprevedibili e, parallelamente, dimostrando con documenti o con prestazione di idonea garanzia che l'attivo del suo patrimonio superava il passivo (artt. 819 e ss.). Solo nel 1903 l'istituto della moratoria, che non aveva dato buona prova di sé, venne rimpiazzato con il concordato preventivo, la cui funzione si risolveva nel consentire una sistemazione di un dissesto commerciale che, in quanto condivisa dal debitore con i suoi creditori, era idonea ad evitagli la dichiarazione di fallimento. La funzione che a tutt'oggi contrassegna ontologicamente il concordato è quella eminentemente esdebitatoria: attraverso il concordato si raggiunge l'obiettivo, approvato dal voto della maggioranza dei creditori, di appianare con l'impiego di mezzi straordinari e più o meno parzialmente le esposizioni debitorie dell'imprenditore, smarcandolo, in esito all'adempimento del concordato medesimo, dalle obbligazioni originarie con riferimento al residuo non corrisposto. L'istituto concordatario è stato completamente riarticolato dal d.l. 14 marzo 2005 n. 35, conv. in legge 14 maggio 2005 n. 80 e dai successivi d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 e d.lgs. 12 settembre 2007 n. 169 (c.d. decreto «correttivo»). Alla primigenia finalità del soddisfo dei creditori si è affiancato l'obiettivo del mantenimento, ove possibile, dell'impresa sul mercato, attraverso una gestione negoziata, quindi pilotata, della crisi. In tal senso, l'originario fulcro del concordato, consistente nella mera dismissione dei beni in un quadro concorsuale ed in funzione esdebitatoria, è stato sostituito dalla ristrutturazione dei debiti, tesa alla conservazione dei valori aziendali, e ove possibile al risanamento, dunque alla sopravvivenza dell'impresa. Presupposto soggettivoAI fini dell'accesso al concordato preventivo, la riforma del 2005 ha fatto venir meno le condizioni soggettive che facevano riferimento alla «meritevolezza» dell'imprenditore, ossia alla sua incensuratezza per reati di bancarotta o altro delitto contro il patrimonio, la fede pubblica, l'economia, l'industria o il commercio; alla regolare tenuta della contabilità; all'iscrizione nel registro delle imprese da almeno un biennio. Tale approdo è conforme all'idea secondo la quale il concordato preventivo è oggi strumento per la risoluzione in via negoziale della crisi d'impresa, e non più viatico esdebitatorio dell'imprenditore «onesto e sfortunato». In questa prospettiva, il concordato è procedura concorsuale alternativa al fallimento e rappresenta – per definizione – un mezzo vocato ad evitarlo. La pienezza dell'alternatività si coglie sol che si consideri che per essere ammessi al concordato è necessaria la qualità di imprenditore assoggettabile a fallimento (art. 1). I soggetti che possono chiedere il concordato sono, dunque, gli stessi che possono fallire. Lo si intende leggendo la rubrica dell'art. 1 che parla di «Imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo»: accedono gli imprenditori o le società commerciali che hanno superato almeno uno dei tre parametri previsti dalla richiamata norma d'apertura della legge fallimentare. L'onere della prova del superamento dei requisiti dimensionali si connota diversamente che in presenza di un'istanza di fallimento: se in quest'ultimo caso è il debitore a dover allegare di non essere assoggettabile a fallimento e a fornire la prova del mancato superamento dei predetti parametri dimensionali, in ambito concordatario è l'imprenditore che invoca l'ammissione alla procedura a dover dimostrare il superamento di almeno una delle soglie dimensionali. Rimangono esclusi dall'ambito concordatario gli imprenditori non fallibili. La procedura è, viceversa, riservata all'imprenditore commerciale non piccolo, ivi compreso l'imprenditore cessato o defunto e le società di persone irregolari, ed a coloro che possono accedere alla procedura di amministrazione straordinaria. Non possono avvalersi dall'opportunità concordataria, oltre ai piccoli imprenditori, gli imprenditori agricoli, le società semplici, le associazioni non riconosciute, i consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi. Lo strumento concordatario è sottratto anche agli enti pubblici. Diversamente sembrerebbe doversi ragionare per le società in mano pubblica (quindi per le c.d. società in house), per le quali la giurisprudenza di legittimità segue – sia pure in generale e non anche in riferimento specifico alla materia concordataria – un approccio «tipologico», che valorizza la natura giuridica della società in mano pubblica e ritiene che la stessa non sia sovvertita dal fatto che l'ente pubblico ne possegga il «pacchetto» maggioritario delle quote (Cass. S.U. n. 17287/2006; (Cass. S.U. n. 26806/2009; (Cass. S.U. n. 10299/2013) Non legittimate sono le «start-up innovative» di cui al d.l. n. 179/2012, le quali sono dichiarate non sono soggette a procedure concorsuali ad eccezione della procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento (art. 31), con un'evidente previsione tesa a facilitarne la diffusione e la penetrazione; non a caso le start-up in questione si sottraggono all'esclusione decorsi quattro anni dalla loro costituzione. Sono certamente legittimate a proporre la domanda di concordato le società commerciali, a prescindere dall'effettivo esercizio di attività commerciale, le società in liquidazione, le società di fatto, le società di persone collettive irregolari, gli incapaci autorizzati all'esercizio dell'impresa, l'imprenditore cessato o defunto, purché non sia decorso l'anno dalla cessazione o dalla morte. Nell'ipotesi di cancellazione della società dal registro delle imprese, tanto il procedimento per dichiarazione di fallimento quanto le eventuali successive fasi impugnazione continuano a svolgersi nei confronti della società e per essa del suo legale rappresentante (Cass. S.U. n. 5070/2013), ad onta della sua cancellazione dal registro, dal che si ricava che il ricorso per l'ammissione alla relativa procedura potrà essere proposto dalla società cancellata dal registro delle imprese in persona del suo organo amministrativo (Ambrosini). Esulano dall'ambito di applicazione dello strumento concordatario le banche, le SIM, le SICAV e le SGR che – a tenore dell'art. 80, comma 6, d.lgs. n. 385/1993 e dell'art. 57, comma 3, d.lgs. n. 58/1998 – rimangono assoggettate, in via esclusiva, alla liquidazione coatta amministrativa. Le imprese assicurative, del pari, non fruiscono del mezzo concordatario, posto che l'art. 238, comma 1, d.lgs. n. 209/2005 prevede che non si applichi loro il Titolo III della legge fallimentare. Non legittimati a reclamare l'accesso al concordato sono anche i soci illimitatamente responsabili delle società di persone, posto che l'art. 184, comma 2, sugli effetti esdebitatori del concordato afferisce solo le obbligazioni sociali, mentre l'art. 154, in punto di proponibilità di un concordato, è norma speciale non suscettibile di applicazione analogica. Di contro, sono legittimate le imprese soggette alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, secondo la duplice disciplina dettata dal d.lgs. 270/1999 e dal d.l. n. 347/2003 e successive modificazioni (v. Trib. Roma, 20 aprile 2010; Trib. Novara, 24 febbraio 2010, in Fall., 2010, 1180; Trib. Biella, 21 luglio 2004, in Giur. comm., 2006, II, 551). Anche le società sottoposte a liquidazione coatta amministrativa sono legittimate ex lege a far uso del concordato (v. Trib. Udine, 8 agosto 2008, in unijuris.it). Se il concordato è richiesto da una società, occorre la allegazione dei documenti attestanti i poteri di firma dei sottoscrittori, previsti dall'art. 152 l.fall. Non sembra ammissibile la possibilità di una produzione differita. Peraltro, il requisito di cui all'art. 152, comma 3, è necessario non solo per la sottoscrizione della proposta e delle condizioni del concordato ma anche per la sottoscrizione ed il deposito della «domanda» propriamente detta (Trib. Modena, 28 novembre 2012). Presupposto oggettivoLa possibilità di accedere alla procedura concordataria preventiva è oggi concessa a qualunque imprenditore che si trovi in «stato di crisi». Segnatamente l'accesso al concordato non è più indefettibilmente consentito all'imprenditore che versi in stato di insolvenza ai sensi dell'art. 5 l.fall., palesandosi sufficiente che il predetto soffra attualmente una mera crisi. Benché la relativa nozione non sia definita, può intendersi come crisi la situazione di dissesto temporaneo, che può portare all'insolvenza, ma anche essere sanata. Rileva, in altri termini, quella condizione patrimoniale, economica e finanziaria – anche coincidente con la temporanea carenza di liquidità – suscettibile di determinare il rischio di decozione. Crisi e insolvenza sono legate da un rapporto da genus a species, come evincibile dal secondo comma dell'art. 160, in forza del quale «ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza». La crisi, pur ricomprendendo la insolvenza, non si esaurisce in essa, ma può attenere anche a situazioni di squilibrio economico o financial distress. In ultima analisi, lo stato di crisi postulato dalla norma sembra coincidere con una nozione necessariamente empirica, tale da comprendere tutte le difficoltà dell'impresa e cioè sia l'insolvenza reversibile (rappresentata dalla temporanea difficoltà di adempiere), che l'insolvenza irreversibile, costituendo entrambe le situazioni aspetti quantitativi di un medesimo fenomeno, distinguibili solo per la prognosi di superabilità o meno dell'attuale dissesto. La crisi affascia, pertanto, contesti aziendali, di varia genesi e gravità, di carattere organizzativo, come pure economico o finanziario, accomunati dal fatto di richiedere un intervento straordinario che poggia sul consenso dei creditori e sulla sospensione delle azioni esecutive. Nessun rilievo ostativo assume l'imputabilità all'imprenditore proponente dell'origine dell'insolvenza o dello stato di crisi, essendo stato soppresso l'antico requisito soggettivo della meritevolezza. Modalità di soddisfazione dei creditoriAi sensi del secondo comma dell'art. 160 viene attribuita al debitore una larghissima autonomia nella scelta del contenuto del piano di affronto della crisi. Vi è una libertà tendenzialmente globale nella determinazione delle modalità ristrutturativo-satisfattive dei crediti. In tal senso, il proponente può prospettare una rimodulazione, sia qualitativa che quantitativa, delle proprie esposizioni debitorie, «attraverso qualsiasi forma». Il che vuol dire che non esiste limite esterno all'inventiva del proponente, alla cui piena autonomia è devoluta la programmazione del superamento della crisi. Il percorso di ristrutturazione è connotato da una significativa atipicità delle soluzioni. In questo quadro, gli schemi operativi della «cessione dei beni», dell'«accollo», delle «operazioni straordinarie», annoverati nella lett. a) dell'art. 161, comma 1, hanno una declinazione solo esemplificativa In definitiva, nell'ottica del recupero della solvibilità, il soggetto che accede alla procedura concorsuale in esame può riarticolare liberamente la propria impresa nel modo più confacente alla riconquista della competitività, dell'equilibrio economico-finanziario e della performance smarriti; per altro verso, può programmare tanto unabbattimento, quanto una dilazione dei singoli debiti. In tal senso, il concordato può precipuamente atteggiarsi come remissorio, in tal guisa rispondendo all'obiettivo di ridimensionare l'impatto dei crediti, falcidiando i chirografari e i privilegiati incapienti e assicurando a costoro un mero pagamento in percentuale rispetto alla primigenia ragione. In alternativa, il concordato può connotarsi come dilatorio, essenzialmente perseguendo, non lo scopo di un abbattimento della misura dei debiti, ma un differimento delle relative scadenze. Quasi sempre finalità remissoria e finalità dilatoria sono frammiste. E in tutti i casi l‘adempimento parziale o riscadenzato potrà avvenire secondo le modalità più disparate, quindi finanche differenti dal pagamento monetario. La soddisfazione dei creditori può trovare attuazione, in buona sostanza, secondo forme anche indirette e, comunque, diverse dal pagamento di somme, purché parametrate nel valore che assicurano alla misura originaria del credito. Forme espressamente previste Si è detto, appena sopra, della valenza esemplificativa dell'elenco di potenziali forme satisfattive elencate nella lettera a) della norma in commento. La prima delle modalità mentovate è la «cessione dei beni», che pur riecheggiando la cessio bonorum di cui all'art. 1977 c.c., si sostanzia nella messa a disposizione di cespiti propri o altrui, attuali o futuri, da parte del debitore, in funzione della liquidazione e del successivo riparto del ricavato. Lo schema è quello di un vero e proprio mandato in rem propriam conferito ai creditori a disporre dei beni del debitore per liquidarli e soddisfarsi sul ricavato della liquidazione (v. Cass. n. 3588/1996, in Giust. civ., 1996, I, 2247, con nota di Lo Cascio e in Fall., 1996, 1189, con nota di Naldini). Sarà ovviamente il debitore a scegliere quanti e quali beni cedere. In tal senso sembrano deporre, non solo la massimizzazione dell'autonomia nella determinazione dei contenuti del piano, ma, più da vicino, la genericità della lettera della legge («cessione dei beni»), il paradigma di cui al sopra richiamato art. 1977 c.c., che prevede esplicitamente la possibilità di una cessione parziale, nonché l'art. 186-bis, comma 1, che, in tema di continuità aziendale, fa riferimento alla liquidabilità dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa Non manca, peraltro, in giurisprudenza un orientamento che esclude la liceità della cessione parziale, assumendone, come assorbente, il contrasto con la garanzia generica di cui all'art. 2740 c.c. (Trib. Roma, 25 luglio 2012). La cessione potrà avvenire pro soluto, quindi senza assunzione di impegni sugli esiti finali della liquidazione, che potranno essere sottodimensionati rispetto alla percentuale satisfattoria pronosticata (v. Trib. Milano, 13 luglio 2006, in fallimentitribunalemilano.net), oppure pro solvendo, con il conseguente obbligo, al netto della cessione dei beni, di assicurare ai creditori il pagamento di una predefinita percentuale (v. Trib. Ancona, 13 ottobre 2005, in Fall., 2005, 1404). In realtà, alla luce del nuovo art. 161, comma 2, lett. e), il concordato con cessione pro soluto sembra palesarsi illegittimo, nella misura in cui non consente di «assicurare» a ciascun creditore un'«utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile», come, invece, preteso dalla norma. La lettera a) dell'art. 160 reca una citazione esemplificativa dell'accollo quale modalità estintiva dei debiti concordatari, contemplando, pertanto, l'espressa opportunità che un terzo, ovviamente a priori non obbligato, decida di assumere su di sé le esposizioni passive del proponente, secondo la fattispecie di cui all''art. 1273 c.c.. In difetto di distinguo testuali e di profili ostativi sistematici, l'accollo potrà essere tanto privativo, quanto cumulativo. Tenuto conto del possibile impiego dell'accollo, nulla esclude che possa farsi ricorso agli istituti codicistici «limitrofi» della delegazione di pagamento e dell'espromissione. Operazioni straordinarie La lettera a) dell'art. 160 consente al proponente di ristrutturare i debiti e soddisfare i crediti attraverso l'effettuazione di «operazioni straordinarie». Il riferimento affascia sia il conferimento d'azienda o di ramo d'azienda, sia le operazioni sul capitale, sia, infine, le operazioni disciplinate nel Capo X, Titolo V del codice civile, ossia trasformazione, fusione e scissione, il cui impiego è stato esteso alle procedure concorsuali nel contesto della riforma del diritto societario del 2003. Le delibere concernenti le operazioni societarie possono essere adottate, dietro autorizzazione ai sensi dell'art. 167, prima dell'omologa del concordato, ma sotto la condizione del suo conseguimento (v. Trib. La Spezia, 5 novembre 2010, in Fall., 2011, 539 per un caso di trasformazione). Qualora, infatti, si attendesse l'omologa al fine di porre in essere le operazioni de quibus, i creditori non verrebbero posti al riparo dal rischio che alle stesse non venisse dato per qualche ragione corso. Il conferimento dell'azienda o di un suo ramo è esplicitamente previsto per l'ambito fallimentare dall'art. 105, comma 8, l.fall., fatto, peraltro, oggetto di estensivo richiamo dall'art. 182, in tema di concordato preventivo. Il conferimento – che vale a salvaguardare i valori aziendali, nel mentre si provvede alla soddisfazione dei creditori – avverrà ad appannaggio di una newco, le cui partecipazioni saranno susseguentemente liquidate in funzione della distribuzione del ricavato fra i creditori in concorso. In alternativa, è ben possibile attribuire a questi ultimi direttamente le partecipazioni in proporzione alle rispettive ragioni di credito e alle percentuali di soddisfacimento prefissate. In buona sostanza il capitale di reddito correlato ai singoli crediti verrà tradotto, per scelta unilaterale del debitore proponente, in capitale di rischio. Contestualmente, appare chiaro che si procederà a liberare da responsabilità la massa a mente dell'art. 2560, comma 1, c.c.. Quanto alle sopra richiamate operazioni di trasformazione, fusione e scissione, esse giovano all'imprenditore proponente il concordato a compiere un adeguamento della fisionomia dell'impresa alle rinnovate esigenze dettate dalla peculiare contingenza. Ristrutturare i debiti significa, d'altronde, riorganizzare l'impianto societario, rendendolo maggiormente idoneo a fronteggiare l'impatto della crisi, tenuto conto, del resto, che nessuna delle operazioni in discorso incide sul funzionamento degli organi sociali. La trasformazione delle società sottoposte a procedura concorsuale è permessa dall'art. 2499 c.c., qualora sia preservata la piena compatibilità dell'operazione, da un lato con le finalità proprie della procedura concorsuale, dall'altro con lo stato di avanzamento della procedura. Occorre, in tal senso, una piena coerenza funzionale fra la trasformazione e il piano concordatario. In tal senso, innegabilmente l'operazione in discorso, tesa intrinsecamente al risanamento dell'impresa, appare in astratto maggiormente congeniale ai concordati in continuità aziendale, molto meno a quelli liquidatori, rispetto ai quali, cionostante, non è escluso sia suscettibile di apportare vantaggi in concreto, perlomeno a livello di riduzione di costi. La sussistenza della compatibilità tra operazione straordinaria e procedura concorsuale in atto è necessariamente rimessa al giudice, in quanto soggetto deputato a controllare l'attività del debitore e ad autorizzarne gli atti di straordinaria amministrazione (v. art. 167) Quanto al margine finale per il compimento dell'operazione di trasformazione, non v'è addentellato normativo che escluda l'opportunità di modificare la struttura societaria fino all'omologa che conchiude la procedura concordataria, facendo residuare la mera fase «contrattuale-adempitiva». Qualora la trasformazione sia già perfezionata, con relativa iscrizione della delibera nel registro delle imprese, ove successivamente il concordato venga annullato o risolto rileva il principio di intangibilità delle operazioni straordinarie. In ipotesi di trasformazione posta in essere nel contesto concordatario non si fa applicazione, attesane l'eclatante incompatibilità, dell'art. 2500-ter, comma 1, nella parte in cui riconosce al socio dissenziente il diritto di recesso a fronte della delibera assunta a maggioranza dagli altri soci. Invero, la liquidazione della quota al dissenziente implicherebbe la genesi di un credito prededucibile che influenzerebbe in negativo le aspettative di soddisfacimento dei creditori in concorso. Manifestamente inapplicabile al quadro concordatario è anche l'art. 2500-quinquies c.c., in forza del quale la trasformazione non libera i soci a responsabilità illimitata dalla responsabilità per le obbligazioni sociali sorte prima della trasformazione se non risulta che i creditori sociali hanno dato il loro consenso alla trasformazione. Invero, viene in evidenza la norma speciale di cui all'art. 184, che estende ai soci illimitatamente responsabili gli effetti esdebitatori connessi al concordato promosso dalla società. Venendo alla fusione, non sussistono profili d'ostacolo al suo pieno utilizzo in ambito concordatario. D'altronde, l'art. 2501, comma 2, vieta il ricorso a detta operazione alle sole società in liquidazione che abbiano avviato la distribuzione dell'attivo. La fusione, anzi, nella misura in cui attua la sostanziale rimozione della società in crisi o decotta, facendo venire in evidenza una nuova realtà societaria non insolvente, quindi in grado di ammortizzare le esposizioni debitorie della prima, si mostra confacente, almeno in astratto, a tutte le tipologie di piano concordatario, sia di impianto liquidatorio, sia con declinazione nel senso della continuità aziendale. Ai sensi dell'art. 2504-bis, comma 1, c.c. la società risultante dalla fusione assume i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, sicché i creditori concordatari potranno soddisfarsi sul patrimonio della società germinata dall'operazione straordinaria. Ovviamente, a monte, la fusione rappresenterà una via legittimamente percorribile solo laddove il patrimonio netto della società che in esito ad essa viene partorita sia sufficiente a colmare, sia il fabbisogno concordatario, sia gli i debiti riconducibili all'altra società protagonista dell'operazione. In caso contrario, la fusione minerebbe la causa stessa del concordato preventivo, recidendone la funzione satisfattoria, sulla base di una mera confluenza e confusione di patrimoni che a null'altro gioverebbe, se non a sottrarre al ceto dei creditori concordatari la garanzia generica ex art. 2740 c.c. In base a tali premesse, se in astratto nulla esclude che la fusione interessi due società che si trovino entrambe in concordato preventivo, in concreto la percorribilità dell'ipotesi si profila disagevole. Sempre in linea di principio, l'art. 2503 c.c., che prevede l'opportunità, per i creditori di entrambe le società partecipanti alla fusione di opporsi all'operazione nel termine di sessanta giorni decorrenti dal deposito della relativa delibera nel registro delle imprese, sembra attecchire nel contesto concordatario. Invero, la funzione del rimedio in discorso non è pienamente assorbita dalla salvaguardia indiretta, rappresentata dalla possibilità di «bocciare» con il voto l'ipotesi concordataria. Infatti, a prescindere dalla titolarità del diritto di voto e dal suo esercizio, va riconosciuta a ciascun creditore la facoltà di contestare quelle modifiche della struttura e della fisionomia dell'impresa che appaiono suscettibili di limitare la garanzia patrimoniale a suo favore. Con riferimento, infine, alla scissione, non pare sussistere altro limite se non quello che ne esclude la percorribilità nel caso di società in liquidazione che abbiano intrapreso la distribuzione dell'attivo. Sebbene, in generale, la scissione sia affine a qualsiasi tipologia di piano, nondimeno la compatibilità va testata nel concreto, posto che la scissione si rivela conforme con le finalità e lo stato della procedura concordataria, nella sola misura in cui la società in concordato assurga a beneficiaria della scissione, con l'attribuzione di un patrimonio attivo. Anche in questo caso ai creditori concorsuali farà capo la possibilità di opporsi, a mente dell'art. 2506-quater, comma 4, c.c. che rimanda all'art. 2503 c.c. L'opposizione assolverà alla funzione di evitare l'uscita dal patrimonio della proponente il concordato di beni, attraverso l'attribuzione ad altre società. Nondimeno, a tenore della norma codicistica da ultimo richiamata ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico. In tal senso, il ceto dei creditori concordatari potrà fare affidamento sulla responsabilità solidale delle società venute in essere in conseguenza della scissione. Attribuzione di azioni e strumenti finanziari Tra le modalità satisfattorie tipizzate, l'art. 160, lett. a) annovera l'attribuibilità ai creditori – secondo lo schema della datio in solutum – di azioni, quote, obbligazioni (anche convertibili in azioni), altri strumenti finanziari e titoli di debito. In ambito concordatario è stata in tal guisa importata un'opportunità operativa propria dell'amministrazione straordinaria (v. art. 4-bis, comma 1, lett. c), d.l. n. 347/2003), opportunità tesa a consentire la prosecuzione dell'esercizio di impresa mediante la conversione dei crediti in azioni o altri strumenti finanziari e partecipativi, normalmente in concomitanza con un'operazione di aumento del capitale sociale. Detta conversione, in quanto contemplata in un piano di concordato, rivela connotazione forzosa, in quanto, approvato, i creditori vengono resi assegnatari delle azioni e degli strumenti quand'anche dissenzienti. Nel caso di aumento del capitale sociale a pagamento in funzione della soluzione concordataria può essere escluso o limitato il diritto dei soci a sottoscrivere le azioni di nuova emissione con prioritàrispetto ai potenziali nuovi soci, ai sensi dell'art. 2441, comma 5, c.c. La conversione si perfeziona, in forza dell'art. 184, automaticamente e ope legis, secondo il meccanismo proprio del concordato, quindi in virtù dell'omologazione e del dispiegarsi dei relativi effetti. È possibile adottare una delibera di aumento del capitale condizionata sospensivamente all'omologa: la delibera vien iscritta nel Registro delle Imprese e diviene eseguibile non appena è iscritto pure il decreto di omologa. Alternativamente la delibera di aumento del capitale e di emissione di nuove azioni (o altri strumenti) può essere assunta prima dell'omologa ed essere condizionata risolutivamente al suo mancato ottenimento. È anche possibile accludere nel piano concordatario la mera promessa di deliberare l'aumento e l'emissione a seguito dell'omologa, con l'esigenza in tal senso della prestazione di una idonea garanzia che valga a sterilizzare i rischi di una successiva mancata adozione della delibera e dell'incoercibilità dell'impegno assunto in tal senso. Altre forme ricorrenti Il piano può prevedere una datio in solutum, quindi l'attribuzione di beni e diritti in luogo del denaro. In tal senso depone la positiva valutazione di adattabilità della fattispecie al contesto concordatario che il legislatore ha obiettivamente compiuto laddove ha previsto, nel corpo della lettera a) della norma in commento, una peculiare forma di dazione solutoria quale «l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito». Benché non annoverato nell'elenco esemplificativo della lettera a) della norma in esame, deve reputarsi senz'altro ammissibile il concordato con garanzia, nel cui quadro consta la prestazione, prima dell'omologa, di garanzie reali (pegno, ipoteca), personali (fideiussione), atipiche (esemplificativamente, un trust segregativo di beni in funzione della liquidazione e distribuzione del ricavato tra i creditori secondo gli impegni concordatari assunti; v. Trib. Napoli, 19 novembre 2008, in Fall., 2009, 325), comunque idonee a coprire l'importo complessivo dei pagamenti programmati. Una parte della giurisprudenza di merito è dell'avviso che la garanzia possa attenere anche soltanto a beni ricompresi nel patrimonio del debitore che avanza la domanda di concordato, valorizzandosi in tal senso, ancora una volta, l'ampiezza della libertà riconosciuta al proponente nella strutturazione del piano di affronto della crisi e il peso dirimente conferito al ceto creditorio in punto di valutazione della convenienza dell'ipotesi concorsuale formulata (App. Catania, 20 dicembre 1989, in Dir. fall., 1990, II, 181; Trib. Milano, 12 marzo 1987, in Fall., 1987, 884; Trib. Vicenza, 29 aprile 1985, in Fall., 1986, 77, con nota di Schiavon). La giurisprudenza di legittimità ritiene, di contro, imprescindibile che l'oggetto della garanzia sia esterno al patrimonio debitorio e valga, in tal guisa, effettivamente a rafforzare le aspettative della massa dei creditori (Cass. n. 18324/2007; Cass. n. 12300/1992). L'art. 160, comma 1, lett. b) contempla la fattispecie del c.d. concordato con assuntore, prevedendo un'ulteriore modalità satisfattiva, consistente nell'«attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore». I presupposti immaginati dal legislatore sono analoghi a indicati dall'art. 124 per il concordato fallimentare, sostanziandosi nel contestuale transito in capo ad un terzo sia delle attività che delle obbligazioni dell'impresa in concordato. Per espressa previsione sono legittimati quali possibili assuntori i creditori, le loro partecipate, società costituite ad hoc da costoro o da terzi, ma non dal debitore che, in tal guisa, diverrebbe garante e assuntore di sé stesso (v. Trib. Bari, 25 febbraio 2008, in Fall., 2008, 695). L'assunzione può avere molteplici declinazioni. Esemplificativamente, il concordato in questione è suscettibile di risolversi nella semplice liquidazione degli assets dell'assuntore; in alternativa può comportare il conferimento dell'azienda all'assuntore; può anche implicare la costituzione di una newco con capitale interamente sottoscritto da quest'ultimo e attribuzione delle azioni ai creditori; può concernere tutto il patrimonio del debitore oppure essere limitata ad una parte di essa, come si evince dal generico riferimento testuale alla «attribuzione delle attività»; può sottendere un'assunzione liberatoria oppure cumulativa, quindi implicare oppure escludere la liberazione del debitore; può contenere una limitazione della responsabilità dell'assuntore ad una parte delle obbligazioni debitorie (per esempio risultanti dalle scritture contabili), sia in virtù dell'applicazione analogica dell'art. 124, comma 1, in forza del quale «il proponente può limitare gli impegni assunti con il concordato ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta» (Trib. Bologna, 25 gennaio 2006; Trib. Mantova, 8 marzo 2007). L'assunzione assume efficacia coevamente alla definitività del decreto di omologa, rimanendo, nondimeno, pattiziamente possibile differire detta efficacia all'integrale esecuzione del concordato. Cass. I, ord. n. 13425/2023, ha affermato che nell'ipotesi di concordato fallimentare con assunzione nel quale il proponente si sia obbligato a pagare i creditori chirografari e gli eventuali terzi revocati in misura non superiore alla percentuale residua spettante ai creditori chirografari per effetto di pregressi piani di riparto, il creditore di regresso, soccombente nel giudizio di revocatoria fallimentare, non può chiedere all'assuntore del concordato il pagamento della differenza tra l'intero credito e la quota residua ridotta in percentuale per effetto dei pregressi riparti che il proponente si era obbligato a corrispondere a tutti i creditori chirografari. Suddivisione dei creditori in classi. L'art. 160, comma 1, lett. c), contempla la possibilità di suddividere i creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei, prevedendo trattamenti differenziati tra i creditori appartenenti a classi diverse. Introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento con il d.l. n. 347/2003 (c.d. «Legge Marzano») sull'amministrazione straordinaria delle imprese di rilevanti dimensioni, il classamento dei creditori è istituto d'importazione, che trova i propri paradigmi nella legislazione statunitense e in quella tedesca. La finalità della suddivisione risiede nell'esigenza di agevolare la raccolta del consenso sull'ipotesi concordataria. I creditori vengono aggregati, sia nell'ottica di circoscrivere l'incidenza di coloro che potrebbero denegare il proprio consenso per scopi incongrui ed ingiusti, sia nella prospettiva di assicurare a ciascun creditore ciò che è maggiormente adeguato alla sua posizione in tal guisa facilitando il formarsi del consenso, sia, infine, per trovare una equa, quindi convincente, composizione fra gli interessi di cui sono portatori i diversi creditori. Suddividere i creditori in classi è facoltativo (v. Cass. n. 3274/2011). Militano in tal senso, non solo la latitudine ampia del potere del debitore nella prospettazione del piano da presentare ai creditori, ma plurimi dati testuali, dai quali si evince che il classamento è, per un verso, un'opzione, per altro verso e conseguentemente, un'eventualità: l'art. 160, comma 1, reca l'inciso «può prevedere»; gli artt. 163, comma 1, e 177, comma 1, del pari, letteralmente recitano «ove siano previste diverse classi»; l'art. 182-ter, comma 1, dispone «in caso di suddivisione in classi». La Corte di Cassazione ha confermato detta facoltatività (v. Cass. n. 3274/2011 cit., la quale evidenzia che l'obbligo delle classi non può derivare dalle diverse situazioni individuali che possono portare a valutazioni variegate sulla proposta, dal momento che dette situazioni sono potenzialmente tante quanti sono i creditori e il loro censimento, prima ancora che arbitrario, sarebbe impossibile e comunque porterebbe ad una proliferazione assurda delle classi e, al limite alla predisposizione di tante classi quante sono i creditori, senza considerare che, in assenza di parametri normativi di riferimento, la valutazione del giudice rischierebbe di confinare pericolosamente con una sostanziale discrezionalità). Non sono mancate, peraltro, nella giurisprudenza di merito pronunce nel senso della necessità della formazione delle classi, posta in rapporto al fine di consentire ai creditori di esprimere il voto in un contesto di sufficiente chiarezza della proposta loro rimessa (Trib. Biella, 23 aprile 2009 e Trib. Monza, 07 aprile 2009). La norma in commento stabilisce, senza definirli, due criteri di formazione delle classi, richiamando «posizione giuridica e interessi economici omogenei». La posizione giuridica sembra concernere gli aspetti relativi alla genesi del credito, alla sua fonte, alla natura e alla esecutività del titolo che lo sorregge, alle caratteristiche intrinseche, date dal rango (chirografario o privilegiato), dalla liquidità e dalla esigibilità L'interesse economico investe natura, oggetto, importo del credito, attività esercitata dal creditore, pregressi e attuali rapporti economici fra quest'ultimo e il debitore, non essendo indifferente che un creditore sia un fornitore anziché un istituto di credito, un soggetto ormai scollegato dall'orbita economica dell'impresa in concordato o un suo interlocutore ancora strategico. Ai criteri di formazione si affiancano alcuni limiti, che circoscrivono la libertà di suddivisione in classi da parte del debitore. Il primo limite attiene ai privilegiati per i quali sia previsto il pagamento integrale, i quali non possono formare una classe ammessa al voto ai sensi dell'art. 177, se non per la porzione di credito non garantita, vuoi per incapienza della garanzia (in ragione dell'insufficienza del valore del bene anche connessa al rispetto delle cause legittime di prelazione di grado poziore), vuoi per rinuncia del creditore alla garanzia stessa. Il secondo limite riguarda l'ordine delle cause legittime di prelazione, che, ai sensi dell'art. 160, comma 2, non ammette alterazioni. L'art. 163, commi 1 e 6, riconosce al tribunale il compito di svolgere una verifica sulla correttezza della formazione delle classi (v. commento sub art. 163). La correttezza è a presidio della genuinità del voto, che non può essere inquinato da elmenti di matrice oggettiva tali da comportare un più spiccato interesse del concordato per taluni, in luogo di altri, o una dannosità per altri ancora. In tal senso, è immanente nella facoltà di suddivisione attribuita al debitore la necessità di spiegare motivatamente le classi create e i criteri che le sostengono. Benché nulla escluda che possano esservi creditori interessati al buon esito dell'ipotesi concordataria a prescindere dalla loro sia pur minimale soddisfazione (si pensi a fornitori che hanno perso corrispettivi, ma che sono interessati a proseguire il rapporto con l'impresa «in ristrutturazione» più che ad ottenere gli importi pregressi), nondimeno sono reputate inammissibili per difetto di causa concreta le classi i cui creditori non ricevano alcuna soddisfazione (Cass. S.U. n. 1521/2013). Tuttavia, vi è chi ha autorevolmente ritenuto che la previsione di cui all'art. 161, comma 2, lett. e), nel contemplare l'obbligo di indicare nella proposta l'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile da offrire a ogni singolo creditore, non faccia riferimento alla percentuale (monetaria) di soddisfacimento, ma a qualsiasi vantaggio economicamente valutabile (Bozza). Il tribunale dispone di poteri istruttori che lo abilitano a chiedere al debitore informazioni sulle garanzie al fine di verificare la sussistenza del requisito dell'omogeneità di interessi economici tra i creditori appartenenti a ciascuna classe (Trib. Milano 4 dicembre 2008 ha ritenuto ammissibile la richiesta di una relazione informativa). È possibile che classi diverse di creditori ricevano un identico trattamento (v. Trib. Terni, 24 giugno 2010; contra Trib. Roma, 20 aprile 2010), non essendo stabilito alcun limite normativo di segno opposto. È ammissibile una classe composta da un solo creditore, posto che è certamente ipotizzabile che un creditore sia titolare di una posizione giuridica e di un interesse economico divaricati da quelli facenti capo a tutti gli altri. Percentuale minima di soddisfazione La proposta concordataria per essere ammissibile non può che realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico. In tal senso, milita – in una concezione negoziale del concordato preventivo – l'essenziale principio di cui all'art. 1322 c.c. In tale prospettiva, era apparsa inammissibile la previsione di una percentuale di soddisfazione nulla, irrisoria o meramente simbolica. In tal senso, si era espressa una parte della giurisprudenza di merito (v. Trib. Roma, 16 aprile 2008, in Dir. fall., 2008, II, 551, la quale aveva dichiarato l'inammissibilità di una proposta che prevedeva il pagamento in una percentuale dello 0,03%; in una prospettiva analoga v. anche Trib. Sant'Angelo dei Lombardi, 7 maggio 2013, in expartecreditoris.it). A salvaguardia della causa del concordato – che somma alla finalità esdebitatoria, la funzione rigorosamente satisfattoria – la possibilità concessa dallo strumento concorsuale di falcidiare i creditori, non può trasmodare nella loro pretermissione (Trib. Firenze, 27 luglio 2012). Secondo altro, divaricato avviso giurisprudenziale rimaneva, di contro, avulsa dal sindacato del tribunale, la valutazione sulla misura della percentuale indicata nel piano, posto che in essa è insito un giudizio di mera convenienza economica, come tale rimesso ai creditori (v. App. Genova, 3 luglio 2014 in relazione ad un caso nel quale il pronosticato pagamento dei chirografari si attestava all'1%.) Il dissidio compendiato è, oggi, risolutivamente sopito in virtù dell'entrata in vigore dei nuovi artt. 160, comma 4, e 161, comma 2, lett. e). In forza di dette disposizioni, il debitore è tenuto, da un lato, ad offrire ai chirografari, nel contesto dei concordati liquidatori, una percentuale minima pari al venti per cento del credito, dall'altro lato, comunque (e sempre) a precisare in proposta l'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile offerta a ciascun creditore. Contrariamente a quanto era stato affermato prima della modifica dovuta al d.l. n. 83/2015, la Corte di cassazione ha chiarito che non spetta ai creditori, in sede di approvazione della proposta concordataria, valutarne l'idoneità ad assicurare il pagamento della soglia minima ai creditori chirografari. Compete invece al tribunale verificare che il piano preveda necessariamente il soddisfacimento dei creditori chirografari nella percentuale dovuta, nell'ambito del controllo demandatogli sulla fattibilità giuridica della proposta (Cass. ord. n. 13224/2021). Trattamento dei prelatiziLa discrezionalità conferita all'imprenditore nell'organizzazione del piano e della proposta, a livello di contenuto, tempi e modalità adempitive, è delimitata da un margine esterno rappresentato dall'intangibilità del pagamento integrale dei privilegiati. Sussiste, in altri termini, l'obbligo di soddisfare i prelatizi mediante un pagamento monetario corrispondente all'importo della ragione di credito; detto pagamento deve avvenire immediatamente dopo l'omologa, salvo il solo caso di cessione di beni ai creditori, allorquando il pagamento può attendere i (e calibrarsi sui) tempi di liquidazione dei beni gravati vincolo prelatizio. Segnatamente, si è in presenza di un «pagamento integrale» laddove consti un versamento in denaro, per l'intera entità del capitale e degli interessi maturati (nella misura prevista degli artt. 54 e 55) e senza una dilazione apprezzabile avuto riguardo alla scadenza naturale del credito (Trib. Pescara, 16 ottobre 2008; Trib. Mantova, 16 settembre 2010). La regola generale del pagamento integrale e indilazionato è stata, a più riprese, riaffermata ancora di recente (Cass. n. 10112/2014, in Foro it., 2014, 11, I, 3171, con nota di Fabiani, La ricerca di un equilibrio fra poteri del giudice ed interesse delle parti nel concordato preventivo; Cass. n. 20388/2014, in Fall., 2015, 273, con nota di Pirisi, La dilazione e la legittimazione al voto dei creditori assistiti da cause legittime di prelazione nel concordato preventivo). Nondimeno, il d.lgs. n. 169/2007 ha «temperato» la regola in discorso, posto che il comma 2 dell'art. 160 l.fall. prevede, adesso, che, sussistendo determinate condizioni, i prelatizi possono essere soddisfatti percentualmente (e non integralmente), fermo e impregiudicato il divieto di alterazione delle cause legittime di prelazione. In linea con quanto disposto in materia di concordato fallimentare, il secondo comma in discorso consente ora di offrire un pagamento solo percentuale ai creditori privilegiati, avuto riguardo a quella parte del loro credito destinata a rimanere comunque insoddisfatta in ragione del presumibile valore di realizzo dei beni sui quali il privilegio ricade. In buona sostanza, è possibile limitare quantitativamente l'importo del pagamento proposto in ipotesi di incapienza del bene su cui la prelazione insiste. Nel quadro della accentuata libertà, da parte del debitore in concordato, di strutturare variamente la proposta è emersa l'ammissibilità della soddisfazione dilazionata dei prelatizi e dell'adempimento, nei loro confronti, con mezzi diversi dal denaro. Secondo la lettura in atto prevalente il credito è suscettibile d'essere «inciso» anche sul piano temporale e qualitativo (Cass. n. 10112/2014; Cass. n. 20388/2014). Si ritiene che l'art. 160, comma 2, non lo precluda, consentendo l'impiego di forme di soddisfazione diverse rispetto al «pagamento integrale». Nella misura in cui la disposizione in commento, a fianco al termine «pagamento», adopera la locuzione «soddisfazione», per ciò stesso «apre» alla possibilità di un'alterazione, non solo quantitativa, ma anche temporale o qualitativa dei crediti prelatizi. Del resto, l'art. 177, comma 3, nel prevedere che la parte dei crediti prelatizi che non trova capienza nei beni oggetto della prelazione sia «degradata» al rango chirografario e ammessa al voto, evoca espressamente proprio l'ipotesi della «soddisfazione non integrale», quindi di una falcidia dell'importo del credito, con ciò permettendo, per implicito, la sua soddisfazione in misura non integrale e/o in via dilazionata, con il «contrappeso» dell'attribuzione del diritto di voto (Trib. Catania, 27 luglio 2007, in Giur. comm., 2008, II, 687 con nota di Macrì). L'art. 182-ter, comma 1, nell'ammettere il pagamento parziale e dilazionato dei crediti tributari privilegiati parrebbe anch'esso andare nel senso del superamento del principio di intangibilità dei crediti prelatizi, confermando la sussistenza di un'opportunità generalizzata di incidere sui tempi e sulle modalità di soddisfazione con riferimento agli altri crediti assistiti da prelazione (Cass. n. 20388/2014). In tale contesto, la dilazione temporale null'altro rappresenta che una forma di soddisfazione non integrale del creditore privilegiato, pienamente legittima entro il limite rappresentato dall'esigenza che la soddisfazione non sia, comunque, deteriore rispetto a quella ricavabile da una virtuale alternativa liquidatoria (Trib. Ravenna 19 agosto 2014, in ilfallimentarista.it). Nella medesima prospettiva, la facoltà di prevedere modalità e mezzi di soddisfazione dei creditori ulteriori rispetto al pagamento monetario è già insita nel tenore del primo comma dell'art. 160, che non svolge alcuna differenziazione tra chirografari e prelatizi, limitandosi a riconoscere indistintamente la possibilità di soddisfare i creditori «in qualsiasi forma». Non è, del resto, accidentale che l'art. 161, comma 2, lett. e), impegni, senza distinguo, il debitore a presentare un piano contenente «la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta», descrizione che non si spiegherebbe se non (anche) in ragione dell'accessibilità a forme di soddisfazione dei crediti prelatizi diverse rispetto al contenuto primigenio dell'obbligazione. È da dire che la conformazione qualitativa del credito – attuata giostrando unilateralmente, da parte del debitore, sul tempo dell'adempimento e sull'oggetto della prestazione offerta in luogo di quelli originariamente contemplati dall'obbligazione – non vale a sovvertire la funzione della garanzia patrimoniale specifica, la quale, d'altronde, non attribuisce al creditore il diritto ad ottenere un «pagamento integrale», ossia un adempimento esattamente corrispondente al contenuto dell'obbligazione, ma solo quello a conseguire un pagamento preferenziale sul ricavato ottenuto con la liquidazione dei beni vincolati a garanzia del credito. Modalità e limiti della falcidia La falcidiabilità dei prelatizi è esplicitamente limitata, ai sensi dell'art. 161, comma 2, alla previsione di una misura di soddisfazione «non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'art. 67, terzo comma, lett. d)»; occorre, inoltre, che il trattamento stabilito per ciascuna classe non abbia «l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione». La soddisfazione non integrale dei crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca è condizionata dall'incapienza dei beni sui quali insiste la causa di prelazione, ossia dalla «certificata» insufficienza loro valore in rapporto all'ammontare del credito garantito. Nella prospettiva di falcidiare i crediti prelatizi, il debitore è tenuto a depositare, unitamente al proprio ricorso per l'ammissione al concordato, una relazione giurata che attesti il valore di mercato ascrivibile ai beni oggetto della prelazione, correlato al momendo di pronosticabile realizzo, secondo le modalità e i tempi prospettati dal piano. La relazione de qua contempla, sia la verifica dell'esistenza dei beni, che la loro puntuale descrizione, con l'indicazione dei criteri attraverso i quali si individua specificamente il valore, secondo una prospettiva che terrà debitamente conto della declinazione liquidatoria o di continuità aziendale del concordato. La soddisfazione, ancorché non integrale, dovrà essere – a tenore della norma in commento – quantomeno pari, se non superiore, a quella che il prelatizio otterrebbe in virtù del ricavato di un'ipotetica vendita coattiva in ambito concorsuale del bene attinto dalla garanzia. In buona sostanza, il parametro di raffronto sarà costituito dal valore indicato nell'anzidetta relazione giurata, calibrato non su una vendita nel libero mercato, ma in una virtuale sede fallimentare. Segnatamente, la relazione contiene una valutazione comparativa tra quanto i creditori prelatizi falcidiati ricaverebbero nell'ipotesi concordataria e quanto ritrarrebbero nell'ipotesi di liquidazione fallimentare dei beni ai valori indicati nella relazione stessa. In tal senso, il perito giurato svolgerà una prognosi dettagliata delle percentuali di soddisfazione suscettibili di essere assicurate al creditore in costanza di concordato o in una prefigurata eventualità fallimentare (v. Trib. Roma, 2 ottobre 2010, in Fall., 2011, 351, che ha sanzionato di inammissibilità la domanda di concordato in quanto la relazione non specificava la misura di soddisfazione dei creditori prelatizi nell'ipotesi alternativa al concordato, risultando pertanto del tutto inidonea a soddisfare il requisito di legge). La giurisprudenza ritiene che la relazione estimativa costituisca, indefettibilmente, un documento autonomo e separato rispetto all'attestazione di cui all'art. 161, comma 3, venendo in rilievo un differente requisito formale ove si consideri che la prima, diversamente dalla seconda, è necessariamente giurata (v. Trib. Roma, 2 agosto 2010, in Fall., 2011, 351; Trib. Piacenza, 3 luglio 2008). Nulla parrebbe, peraltro, escludere la fusione in un unico documento sia della relazione che dell'attestazione, purché anche quest'ultima sia giurata. Del resto, sebbene si registri in giurisprudenza anche un orientamento che lo esclude (Trib. Piacenza, 3 luglio 2008), nondimeno il professionista autore della relazione di cui alla norma in commento sembrerebbe poter coincidere con la persona dell'attestatore, non essendo normativamente prevista una incompatibilità di ruoli e non configurandosi un problema di indipendenza nell'esercizio tanto dell'uno, quanto dell'altro. L'oggetto della relazione funzionale alla falcidia muta in ipotesi di crediti assistiti da privilegio speciale qualora sia irreperibile, nel patrimonio debitorio, il bene attinto dalla causa di prelazione. L'ipotesi frequente è quella del privilegio connesso al credito Iva di rivalsa, allorquando spesso rileva la mancanza (originaria o sopravvenuta) dei beni di riferimento: l'esempio è quello dei crediti derivanti da prestazione di servizi di natura professionale. La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che la mancanza nel patrimonio del debitore del bene gravato da privilegio non impedisce l'esercizio del diritto di prelazione, con la conseguenza che il credito va soddisfatto integralmente, sempre che il proponente non si sia avvalso della facoltà di limitare la soddisfazione dei creditori privilegiati alla sola parte del loro credito, che troverebbe capienza nell'ipotesi di liquidazione del bene gravato (Cass. n. 24970/2013). In tal caso, la degradazione al chirografo è condizionata al deposito di una perizia attestante, non il valore dei beni sui quali insiste la prelazione, ma l'inesistenza nel patrimonio del debitore dei beni che hanno formato oggetto delle prestazioni di beni e servizi cui il credito di rivalsa si riferisce, indipendentemente dal fatto che tale inesistenza sia un fatto notorio o sia già stata rappresentata dal professionista attestatore nella relazione ai sensi dell'art. 161, comma 3. Privilegiati generali L'art. 160, comma 2, può ritenersi, in linea di principio, applicabile ai crediti garantiti da privilegio generale sui beni dell'imprenditore – con conseguente ammissibilità di un pagamento percentuale – entro limiti stringenti. Invero, la soddisfazione parziale dei privilegiati generali lascerebbe fuori la possibilità di assegnare una percentuale di soddisfazione a favore dei creditori chirografari e ciò condizionerebbe l'ammissibilità stessa del concordato, non essendo immaginabile una soluzione concorsuale che escluda in radice qualsivoglia soddisfazione ragionevole dei chirografari medesimi (nel senso dell'inammissibilità della falcidia dei crediti assistiti da privilegio generale v. Trib. Piacenza, 1 luglio 2008). In tal senso, il margine di soddisfazione non integrale della categoria di creditori in discorso è racchiuso dentro l'ipotesi in cui il concordato sia supportato da finanza esterna. In altri termini, la possibilità di soddisfare parzialmente detto novero di creditori rimane circoscritta all'ipotesi in cui il pagamento dei creditori di grado successivo avvenga con risorse estranee al patrimonio del debitore (Arato, Nardecchia) o, comunque, con un quid pluris rispetto ai beni ceduti dal debitore (Vitiello). Nell'alveo della finanza esterna rientrano, peraltro, i flussi di cassa derivanti dalla continuazione dell'esercizio dell'impresa nell'ambito del concordato preventivo in continuità aziendale (art. 186-bis). Detti flussi, non scaturendo dalla liquidazione di beni del debitore, non rappresentano risorse ricadenti nella garanzia generica ex art. 2740 c.c. e, dunque, sono sottratti al concorso tra i creditori (Trib. Rovereto 13 ottobre 2014). La relazione di stima correlata alla proposta concordataria che contempli la falcidia dei crediti assistiti da privilegio generale avrà come oggetto necessario tutto il patrimonio dell'imprenditore, inclusivo anche dei beni immobili nel caso di privilegi generali con collocazione sussidiaria su quest'ultimi. In buona sostanza, la relazione assorbirà tutte le voci patrimoniali attive, comprese le azioni giudiziarie suscettibili di consentire l'acquisizione di somme di denaro, quindi pure le azioni di responsabilità verso gli organi sociali e le azioni revocatorie ordinarie e fallimentari (v. Trib. Udine 15 giugno 2011; Trib. Pordenone, 21 ottobre 2009). Rispetto dell'ordine delle prelazioni A mente dell'art. 160, comma 2, vale il principio della non alterabilità delle cause legittime di prelazione. Sull'interpretazione della disposizione in forza della quale «il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione» si confrontano posizioni divaricate. Una prima lettura rinviene nella norma la fissazione del limite del pagamento integrale del prelatizio di rango poziore rispetto a quelli di rango via via sotto ordinato. In altri termini, ciò che attiene al patrimonio del debitore va necessariamente attribuito secondo l'ordine delle prelazioni, con soddisfazione integrale del prelatizio di maggior grado prima che quello di grado inferiore possa essere soddisfatto anche solo percentualmente; i chirografari devono, inoltre, trovare soddisfazione integrale prima che i creditori postergati possano, anche solo parzialmente, essere soddisfatti a loro volta (Stanghellini). In tal senso, qualora la proposta concordataria contempli la falcidia di privilegiati generali in ragione dell'incapienza dei beni cui afferisce la prelazione, la soddisfazione dei privilegiati di rango inferiore, come pure dei chirografari, è suscettibile di avvenire esclusivamente con l'impiego di risorse esterne rispetto al patrimonio dell'imprenditore, poiché l'accertamento dell'insufficienza dei beni a soddisfare il prelatizio di grado anteriore postula che l'intero patrimonio mobiliare sia adoperato per pagare quel creditore, senza che alcunché possa residuare a favore dei prelatizi sotto ordinati o dei chirografari (in dottrina v. Bozza; in giurisprudenza v. Trib. Treviso, 11 febbraio 2009, in Fallimento, 2009, 1439; Trib. Milano, 20 luglio 2011 e Trib. Udine, 15 giugno 2011). La giurisprudenza di legittimità ritiene incisivamente, dal canto suo che l'art. 160, secondo comma, debba essere interpretato nel senso che l'apporto del terzo si sottrae al divieto di alterazione della graduazione dei crediti privilegiati solo allorché risulti neutrale rispetto allo stato patrimoniale della società debitrice, non comportando né un incremento dell'attivo né un aggravio del passivo (Cass. n. 9373/2012). Un'altra opzione interpretativa asserisce la possibilità, per il debitore, di una differente e graduata soddisfazione in percentuale dei creditori prelatizi, decrescente a misura della progressiva graduazione dei diritti di prelazione. Nella norma ora in esame si scorge soltanto un limite alla creazione di una preferenzialità in deroga inversa rispetto a quella prevista dalla legge (Patti), ma non anche il limite dell'integrale soddisfazione dei creditori di rango poziore rispetto a quelli successivi. In presenza di una falcidia di taluni creditori prelatizi è ipotizzabile, in buona sostanza, la soddisfazione dei prelatizi di rango inferiore, purché ciò non si concretizzi in un trattamento migliorativo rispetto a quello riservato ai primi. Segnatamente, il debitore nel formare le classi dei creditori prelatizi deve semplicemente assicurare al creditore di rango sovraordinato un trattamento che, per quanto falcidiato, non sia comunque inferiore rispetto a quello riservato ai creditori prelatizi di rango successivo; non è imprescindibile fissare in proposta il pagamento integrale, palesandosi sufficiente prevedere un pagamento perlomeno eguale rispetto ai creditori che nell'ordine delle prelazioni si collocano dopo (App. Torino, 14 ottobre 2010, in Fall., 2011, 349). Un addentellato normativo di supporto parrebbe rintracciabile nell'art. 182-ter, comma 1, l.fall., il quale, nel prevedere che «se il credito tributario o contributivo è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore» parrebbe presupporre proprio l'attribuibilità di somme ai creditori prelatizi di rango inferiore anche in presenza di una falcidia. Nulla escluderebbe nella prospettiva in commento, non solo di prevedere il medesimo trattamento per creditori aventi rango diverso, ma anche di inserirli in un'unica classe. Pagamento dilazionato dei prelatizi Il debitore può proporre il pagamento dilazionato nei confronti dei titolari delle cause di prelazione. L'ammissibilità del degrado temporale dei crediti assistiti da cause legittime di prelazione è esplicitamente permessa dall'art. 186-bis, comma 2, lett. c), in materia di concordato preventivo con continuità aziendale, il quale dispone che «il piano può prevedere, fermo quanto disposto dall'art. 160, secondo comma, una moratoria fino a un anno dall'omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione di prelazione». Un primo avviso interpretativo rinviene in detta disposizione la fissazione di un limite idoneo ad escludere la prevedibilità in proposta di una moratoria ultrannuale (Di Marzio, Lamanna). Altro orientamento reputa che la norma evocata non imponga una soglia temporale massima di dilazionabilità del credito, rivelando una portata precettiva solo in funzione dell'esclusione del diritto di voto nei casi di moratoria intrannuale, talché, ove la moratoria esorbitasse rispetto al limite di un anno, riprenderebbe vigore la regola generale della attribuzione del diritto di voto (in dottrina v. Lo Cascio). In giurisprudenza v. Trib. Bolzano, 27 febbraio 2013 e Trib. Terni, 12 febbraio 2013. A supporto dell'orientamento più liberale può essere valorizzata la locuzione «fermo quanto disposto dall'art. 160, secondo comma» di cui all'art. 186-bis, comma 2, lett. c), locuzione tesa a far salva l'applicabilità dell'art. 160, comma 2, nell'interezza della sua portata precettiva, atta a consentire una «soddisfazione» dei prelazionari variamente articolata sia in punto di modalità, che in punto di tempi. In tale prospettiva, l'art. 186-bis, comma 2, lett. c), avrebbe semplicemente introdotto, non un limite ulteriore, ma una facoltà aggiuntiva, strumentale a favorire la disponibilità immediata di maggiori risorse in funzione della continuità aziendale; tale facoltà si affiancherebbe a quella generale prevista dal menzionato comma 2 dell'art. 160, non a caso mantenuto «fermo» e che, solo, vale a scandire i limiti alla soddisfazione non integrale dei prelatizi (Trib. Ravenna, 19 agosto 2014, in ilfallimentarista.it). Mette in conto considerare che nel caso in cui il piano contempli la liquidazione dei beni vincolati a garanzia del credito, l'art. 186-bis, comma 2, lett. c), prevede che i prelatizi non sono esclusi dal voto nonostante la moratoria infrannuale. Secondo un orientamento, il pagamento, il riferimento alla liquidazione dei beni di cui alla norma appena richiamata sancirebbe il divieto di dilazionare il pagamento dei prelatizi oltre il momento della liquidazione dei beni sui quali insiste la causa di prelazione, talché il pagamento dovrebbe svolgersi contestualmente alla liquidazione medesima, senza che la proposta concordataria possa contemplare ulteriori differimenti (Bozza). Altra lettura interpretativa ascrive al debitore la piena facoltà di concepire in proposta una dilazione inferiore o superiore alle tempistiche della liquidazione, ritenendo che la norma anzidetta valga solo in funzione della legittimazione al voto: segnatamente, i creditori muniti di cause di prelazione speciale su beni destinati alla liquidazione non sono legittimati al voto se è loro proposta una dilazione compatibile con le tempistiche di una ipotetica liquidazione fallimentare, recuperano, di contro, la legittimazione in presenza di un disallineamento al riguardo (Fabiani). La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire che qualora la dilazione sia suscettibile di comportare una «perdita economica» in relazione al ritardo subito, avuto riguardo ai tempi «normali» di conseguimento delle somme, la soddisfazione non può ritenersi integrale; laddove, viceversa, la dilazione, pur generando una perdita «finanziaria», non implichi detta «perdita economica», a livello di quantum, la soddisfazione deve reputarsi integrale (Cass. n. 20388/2014). Nell'ottica di escludere la perdita economica occorrerà che ricorra il pagamento del credito per l'intero importo in linea capitale, con il riconoscimento di interessi nella misura di cui agli artt. 54 e 55 l.fall. per l'intera durata della dilazione (Trib. Catania, 27 luglio 2007, in Giur. comm., 2008, II, 677). In particolare, il riconoscimento di interessi compensativi per l'intero periodo della dilazione colma la perdita economica dovuta al ritardo con cui il creditore consegue la disponibilità delle somme dovute, assicurando la piena equivalenza tra quanto prospettato in proposta e quanto il creditore conseguirebbe se fosse pagato per intero e a scadenza (Trib. Siena, 25 luglio 2014, in Fall., 2014, 275). Qualora, per converso, facesse difetto il riconoscimento di interessi sull'importo del credito prelatizio, l'oggetto di dilazione sarebbe subordinato all'allegazione di una relazione di stima ex art. 160, comma 2, idonea ad attestare che, nel contesto fallimentare alternativo, la soddisfazione del credito sarebbe quantitativamente non inferiore a quella prevista dalla proposta concordataria. In tal caso, il credito subirebbe una decurtazione temporale e quantitativa che non può superare la falcidia che il debitore sconterebbe in sede fallimentare, in virtù dell'incapienza dei beni, e che ha un'incidenza pari alla «perdita economica» derivante dal ritardo di conseguimento della somma a credito. Pagamento dei prelatizi con mezzi diversi dal denaro Il debitore può prefigurare la soddisfazione dei titolari delle cause di prelazione attraverso modalità divese dal pagamento monetario e, in particolare, mediante una datio in solutum estrinsecantesi nell'assegnazione di azioni o strumenti finanziari. Al voto maggioritario dei creditori è sottoposto l'impiego nei confronti dei prelatizi di un meccanismo di compensazione tra il debito di conferimento e il credito concorsuale nei riguardi della società che emette le predette azioni o i menzionati strumenti (v. supra). Lo statuto primitivo del credito viene, in tal guisa, rimaneggiato. Al prelatizio occorrerà assicurare che il valore monetario delle azioni o degli strumenti assegnati (il c.d. fair value, correlato ai diritti patrimoniali che dalle azioni e dagli strumenti discendono) sia almeno pari al valore che egli conseguirebbe in sede fallimentare. Qualora il valore di mercato delle azioni o degli strumenti sia inferiore alla misura reale del credito (comprensivo di capitale e interessi) soccorrerà la relazione giurata di stima ex art. 160, comma 2 (v. supra). In dottrina si registra, peraltro, un orientamento che ritiene imprescindibile il ricorso alla relazione anzidetta anche in qualunque ipotesi, stimando assorbente l'alterazione qualitativa del credito che la datio in solutum comunque comporta (Ranalli). In ogni caso, occorrerà adeguare la proposta al principio di non alterazione delle cause legittime di prelazione (v. supra). Falcidiabilità del credito Iva L'art. 182-ter, comma 1, dispone che in relazione al credito IVA – assistito privilegio generale ai sensi dell'art. 2751 c.c. – possa prevedersi in proposta un trattamento dilazionato, non anche una riduzione quantitativa. La giurisprudenza di legittimità, scorgendo nel richiamato articolo una norma sostanziale attinente al trattamento dei crediti, ne ha ritenuto, fino ad un recentissimo passato, l'applicabilità anche al concordato senza transazione fiscale (Cass. n. 22931/2011 e Cass. 22932/2011; Cass. n. 7667/2012; Cass. n. 1444/2014). L'art. 182-ter conterrebbe, in questa prospettiva, la fissazione di un limite alla generalizzata falcidiabilità dei crediti prelatizi delineata dall'art. 160, comma 2. Una diversa lettura, tesa a consentire la falcidia dell'IVA nei concordati senza transazione fiscale, è parsa alla Corte di Cassazione poco logica, oltre che in attrito con la doverosa armonizzazione a livello comunitario della gestione del tributo (v. anche Cass. n. 9541/2014; nella giurisprudenza di merito v. Trib. Padova, 30 maggio 2013, App. Milano, 20 novembre 2014, App. Bologna, 03 novembre 2014, Trib. Busto Arsizio, 17 marzo 2015, tutte edite in ilfallimentarista.it). La Corte costituzionale, dal canto suo, con sentenza n. 225/2014, ha avvalorato l'opzione ermeneutica riassunta, evidenziando che l'IVA ha natura di «risorsa propria» dell'Unione europea, tanto da essere contrassegnata, a livello di disciplina interna, da un principio di indisponibilità della pretesa tributaria, cui fa da corollario l'intangibilità del relativo credito in sede di transazione fiscale, quand'anche la falcidia del credito si palesasse, in ipotesi, più conveniente rispetto alla soddisfazione ritraibile nell'ipotesi fallimentare. L'impostazione compendiata implicherebbe in astratto che, non potendosi sovvertire l'ordine delle prelazioni – rilevando un precipuo limite in tal senso ex art. 160, comma 2 – e collocandosi l'IVA al diciannovesimo grado nell'ordine dei privilegi (art. 2778 c.c.), la maggior parte dei privilegiati generali andrebbe pagata sempre integralmente, pena l'inammissibilità del concordato per violazione dell'ordine delle cause legittime di prelazione. Ne scaturirebbe un drastico restringimento dei margini di incidenza della falcidia ai sensi della norma da ultimo richiamata. Tuttavia, la Suprema Corte ha significativamente ritenuto che l'attribuzione al credito IVA di uno «statuto» particolare, eccezionale ed inderogabile non incide automaticamente sul trattamento degli altri, che, pertanto, sebbene poziori rispetto ad esso non esigono l'integrale pagamento, soggiacendo, piuttosto, ai soli limiti generali (e alle condizioni di falcidiabilità) di cui all'art. 160, comma 2. Nondimeno, si sono registrate nella giurisprudenza di merito prese di posizione che, nell'interpretare i principi sanciti dal Giudice nomofilattico, hanno escluso che, in ipotesi patrimonio sociale non capiente in funzione del pagamento dei creditori anteriori, le risorse del debitore possano essere impiegate per pagare integralmente il credito iva a detrimento dei creditori di grado poziore, posto che in tal guisa si urterebbe contro il divieto di alterazione dell'ordine delle prelazioni di cui all'art. 160, comma 2 (Trib. Torino, 22 gennaio 2015, in ilfallimentarista.it). In tal senso, la falcidia dei creditori anteriori sarebbe ipotizzabile soltanto adoperando finanza esterna per impattare integralmente l'ammontare del credito IVA. Varie pronunce di merito hanno, peraltro, negli anni scorsi, ritenuto la falcidiabilità del credito per IVA nel concordato preventivo senza transazione fiscale, rimarcando l'irragionevole disparità di trattamento che, diversamente, si avrebbe rispetto al concordato fallimentare, ove il principio d'intangibilità non opera (App. Venezia, 23 dicembre 2013; Trib. Bari, 3 luglio 2014, in ilfallimentarista.it; App. Genova, 27 luglio 2013; Trib. La Spezia, 19 settembre 2013; Trib. Como, 29 gennaio 2013, in Foro it., 2013, 10, I, 2948). Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno da poco radicalmente riveduto l'orientamento sedimentato di legittimità, puntualizzando che l'art. 182-ter, comma 1, come modificato dall'art. 32 del d.l. n. 185 del 2008, conv. con l. n. 2/2009, laddove esclude la falcidia sul capitale dell'IVA e l'intangibilità del relativo debito, costituisce un'eccezione alla regola generale, stabilita dall'art. 160, comma 2, della falcidiabilità dei crediti privilegiati, compresi quelli relativi ai tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea e, trova, quindi, applicazione solo nella speciale ipotesi di proposta di concordato, accompagnata da transazione fiscale (Cass. S.U., n. 20988/2016). La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con sentenza del 7 aprile 2016, aveva, del resto, significativamente evidenziato che la normativa comunitaria (art. 4, par. 3, T.U.E. e gli artt. 2, 250, par. 1, e 273 direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006) non osta a che quella nazionale permetta ad un imprenditore insolvente di chiedere, attraverso il concordato preventivo, di pagare parzialmente un debito IVA, attestando, in virtù dell'accertamento condotto da un esperto indipendente, che detto debito non riceverebbe, in ogni caso, un trattamento migliore in ipotesi di fallimento. Nell'ottica del revirement della Corte di Cassazione, l'operatività del principio di integrale soddisfazione dell'IVA viene ora rimessa alla scelta del debitore, che al principio soggiace solo in quanto facoltativamente ricorre alla transazione fiscale ex art. 182-ter. Il divieto di falcidia del credito IVA si connota, allora, alla stregua di limite correlato alla prospettata transazione fiscale. D'altronde, la normativa comunitaria non annovera disposizioni che prescrivano agli stati membri un determinato trattamento di detto credito, escludendone il concorso con gli altri. Il fatto poi che l'Unione Europea imponga agli stati l'adozione di tutte le misure utili a garantire la riscossione totale dell'IVA non ne lascia fuori la falcidiabilità qualora essa, comunque, assicuri un livello di soddisfacimento maggiore di quello conseguibile in sede fallimentare. Trattamento dei chirografariIl d.l. n. 83/2015 ha aggiunto all'art. 160 un quarto comma, ove è previsto che «in ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all'articolo 186-bis>>. Non sembrano esservi dubbi che detta disposizione, innestata all'interno di una norma che contempla i presupposti per l'ammissione alla procedura enuclei un nuovo requisito del concordato, la cui mancanza comporterà l'inammissibilità della proposta ai sensi dell'art. 162. Non è dubbio che la fissazione di una soglia minima di accesso pari al pagamento del 20% dell'ammontare dei crediti chirografari trovi un suo naturale spazio di attuazione nel concordato liquidatorio. L'eccezione prevista per il concordato in continuità è sorretta sia da un generico favor nei confronti di tale soluzione, sia soprattutto dalla natura intrinseca a detto tipo di concordato, nel quale è addirittura fisiologica la previsione di una soddisfazione legata al futuro andamento dell'impresa e ai relativi flussi generati, sicché l'alea è un elemento immanente alla continuità (come all'impresa «viva» in genere). Posta, dunque, l'esclusione espressa dei concordati in continuità, in quelli liquidatori il comma 4 introduce, in buona sostanza, la necessaria indicazione della percentuale vincolante offerta ai creditori chirografari, che non potrà mai essere inferiore del venti per cento dell'ammontare originario del credito. Un problema pratico di non poco momento sarà dato dall'esigenza di sceverare le ipotesi di continuità da quelle di continuità comprensiva di previsioni liquidatorie. Occorre evitare i tentativi di eludere la soglia del venti per cento, battezzando come opzioni concordatarie «in continuità» quelle a prevalente contenuto liquidatorio (si immagini il caso di un concordato di «continuità» indiretta, nel quale un affitto d'azienda si mostri funzionale alla già programmata, susseguente dismissione dell'azienda stessa). Una chiave di lettura efficace è quella che esclude dall'alveo applicativo della nuova regola i soli concordati nei quali la soddisfazione dei creditori provenga, non già dal ricavato della liquidazione, ma dalla gestione interinale. Qualora, infatti, la continuità non sia volta a generare flussi satisfattori per i creditori, ma a valorizzare l'azienda in vista della futura liquidazione, non si palesa ragionevole far operare l'eccezione del secondo periodo del comma 4 ora in commento. Il limite dell'abuso del diritto, induce a ritenere che nei casi in cui la continuità sia frammista ad incombenti liquidatori, debba farsi ricorso al criterio della prevalenza, così ritenendo applicabile la regola del venti per cento, ogni qual volta il ricavato dalla liquidazione dei beni costituisca la porzione principale dell'attivo concordatario, rispetto ai flussi di cassa in tutto o in parte destinati alla soddisfazione dei creditori. Nondimeno, al di fuori del recinto dell'eccezione dichiarata, la regola sancita dalla norma in commento ha in sé un'evidente forza espansiva: proprio dal suo incipit – «in ogni caso» – oltre che dalla sua collocazione nell'art. 160 – che assegna al proponente un largo ventaglio di opportunità nella creazione dei contenuti della proposta da rivolgere ai creditori, la quale può assumere «qualsiasi forma» – pare doversi desumere che ogni forma di concordato, al netto di quello in continuità aziendale (per il quale il secondo periodo del comma 4 in commento introduce un'eccezione), soggiaccia alla regola di nuovo conio del venti per cento. Coordinare detta regola al contesto complessivo che ora l'acclude implica, peraltro, la necessità di intendere il termine «pagamento», non in senso stretto, ma alla stregua di equivalente di «soddisfazione», posto che la «soddisfazione» dei creditori può assumere connotazioni eterogenee (risolvendosi in ipotesi in una datio in solutum) e posto che, una lettura restrittiva del predetto termine, varrebbe a circoscrivere la percentuale di nuova introduzione al solo concordato liquidatorio. La limitazione della operatività della regola ai soli creditori chirografari è meramente apparente, posto che, in via indiretta, essa fissa un «argine» anche in rapporto al trattamento dei prelazionari. Infatti, ove questi ultimi fossero soddisfatti in misura complessivamente inferiore alla soglia minima del venti per cento – da assicurare, come s'è veduto, ai chirografari – verrebbe sovvertito l'ordine delle cause legittime di prelazione, con conseguente contrasto fra il comma 4 e il comma 2 dell'art. 160. Mette punto escludere, per contro, che la neonata regola del 20%, nel concordato con classi, condizioni il trattamento della singola classe al rispetto necessario della soglia legale. In altri termini, la soglia non va applicata a ciascuna classe, potendosi prevedere pagamenti ad essa inferiori in relazione a talune classi, purché in rapporto al complessivo «ammontare» dei crediti chirografari, la soglia in questione sia rispettata. Del resto, la norma non fa riferimento al singolo credito, che, pertanto, può essere astrattamente soddisfatto in misura minore (Trib. Milano 7 aprile 2016; Trib. Pistoia, 29 ottobre 2015, in ilfallimentarista.it, con nota di Ravina). I dubbi interpretativi suggeriti dalla norma afferiscono il significato attribuibile alla locuzione «assicurare il pagamento». Gli orientamenti venuti in essere sono essenzialmente due. Secondo un primo avviso il debitore è tenuto ad assumere, nella proposta di concordato, un'obbligazione di pagamento di carattere monetario nei confronti dei creditori chirografari. Si sottolinea in tal senso che la disposizione va letta in combinato disposto con il comma 2, lett. e) dell'art. 160 –di coeva introduzione – in forza del quale «in ogni caso la proposta deve indicare l'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore». La circostanza che il debitore debba indicare l'utilità equivale a sancirne l'obbligo di attribuire a tutti i creditori un'utilità obiettivamente identificata che, per i concordati liquidatori, coincide con il pagamento della quota del venti per cento del credito (Trib. Milano 7 aprile 2016 cit.; Trib. Palermo, 25 maggio 2016). Si evince, peraltro, che in tutte le possibili tipologie di concordato, sia liquidatorio che con continuità aziendale, il debitore è tenuto ad indicare una utilità, quindi una percentuale vincolante di soddisfazione dei singoli creditori. Detta percentuale può essere, peraltro, ricompresa in un range tra minimo e massimo, purché la forbice rimanga contenuta (Ambrosini). Secondo una diversa lettura interpretativa il comma 4 dell'art. 160 e il comma 2, lett. e), dell'art. 161 difettano di elementi testuali che depongano nel senso dell'assunzione di un'obbligazione in senso tecnico di pagamento della percentuale. Dette norme, in altri termini, non contenendo espressioni inequivoche, non hanno codificato, in capo al proponente, una promessa di pagamento di una determinata percentuale del credito, ma soltanto fissato l'onere in capo al debitore di proporre fondatamente il pagamento del venti per cento (Trib. Pistoia, 29 ottobre 2015 cit.). Si evidenzia, in questa differente ottica, che la Corte di Cassazione ha reiteratamente escluso che, in difetto di un'espressa assunzione di una obbligazione in tale senso, la percentuale possa costituire oggetto della obbligazione assunta dal proponente nei confronti dei suoi creditori (Cass. n. 13818/2011; Cass. S.U., n. 1521/2013); si soggiunge che assicurare non è sinonimo del termine promettere, posto che il rispetto della norma impone soltanto di rendere fondatamente e ragionevolmente sicura e attendibile la previsione di soddisfazione del credito, secondo una prognosi solida e affidabile; si osserva che la percentuale di soddisfazione è elemento tendenzialmente inerente la fattibilità economica, sicché il controllo del tribunale inerente la fattibilità giuridica si risolve necessariamente nell'appurare che la proposta contenga l'assicurazione del soddisfacimento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari, sulla base di un piano che non possa essere qualificato come manifestamente inidoneo a raggiungere tale obbiettivo. In questa prospettiva si è osservato che con il termine «assicurare», il legislatore ha inteso riferirsi non già ad una soddisfazione meramente eventuale, ossia subordinata al realizzarsi di determinati eventi, ma ad una soddisfazione effettiva, che deve cioè trovare nel piano una sua autonoma indicazione con conseguente vaglio del professionista che attesta la fattibilità del piano (Trib. Firenze, 8 gennaio 2016). Ciò detto, «pagamento» è un termine tecnico che indica solo una delle possibili modalità di soddisfazione dei creditori (la corresponsione di denaro) ed esclude tutte le altre possibili forme di soddisfazione (cessione dei beni, operazioni straordinarie, conversione dei crediti in azioni). Ad interpretare in senso spiccatamente letterale l'art. 160, comma 4, si finirebbe per azzerare la libertà del proponente in controtendenza con il favor concordatario, posto che nei concordati liquidatori l'unica possibilità di soddisfare i creditori finirebbe per essere il pagamento in contanti del venti per cento dei crediti chirografari, pena il fallimento. Secondo un'interpretazione va riconosciuto al termine «pagamento» un significato analogo a quello di «utilità» di cui all'art. 161, comma 2, lett. e), per l'esigenza di leggere «in parallelo» le due norme di nuovo conio (Bozza). 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