Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 223 - Fatti di bancarotta fraudolenta.Fatti di bancarotta fraudolenta.
Si applicano le pene stabilite nell'art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo. Si applica alle persone suddette la pena prevista dal primo comma dell'art. 216, se: 1) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 del codice civile1; 2) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società. Si applica altresì in ogni caso la disposizione dell'ultimo comma dell'art. 216. [1] Numero sostituito dall'articolo 4 del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61. InquadramentoGli artt. 223 e 224 introducono ulteriori ipotesi di reati propri, accanto a quelle dell'imprenditore individuale, sanzionando quei comportamenti delittuosi realizzati da soggetti che rivestono determinate qualifiche o esercitano determinate funzioni tipiche della gestione e del controllo dell'impresa in forma societaria. L'estensione dell'ambito di applicabilità di tali previsioni anche a quei soggetti che, pur non rivestendo formalmente alcuna carica, ne esercitano di fatto le relative funzioni, prima costantemente affermata, è stata ora statuita dal d.lgs. 11 aprile 2002 n. 61 che ha esteso le qualifiche soggettive rilevanti per i reati societari previsti dal Titolo IX anche a quei soggetti che esercitano in modo significativo e continuativo i poteri tipici inerenti la qualifica e la funzione (Proto). Risponde dei delitti di bancarotta anche l'«amministratore di fatto» che abbia esercitato in concreto poteri di amministratore di una società in nome collettivo o in accomandita semplice e che, pertanto, non rivestendo la qualità di «socio illimitatamente responsabile», può non essere stato dichiarato fallito in proprio (Cass. pen. V, n. 43036/2009). In tema di reati fallimentari, la mancata estensione della dichiarazione di fallimento non preclude, di per sé, la responsabilità del socio accomandante che abbia violato il divieto di immissione nell'attività amministrativa, a titolo di concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta ascritto all'accomandatario, essendo sufficiente ai fini della lesione del bene giuridico tutelato dall'art. 216 l.fall. lo svolgimento di attività amministrativa, anche attraverso i contatti con i clienti dell'impresa, che implica inevitabilmente la gestione delle attività aziendali (Cass. pen. V, n. 44103/2011). Oggetto materiale del reatoRaggruppando in maniera sistematica le ipotesi delittuose previste dal primo comma dell'art. 223, si ricava che l'oggetto materiale del reato è costituito dai beni e dai documenti, nei casi di bancarotta patrimoniale impropria, previsti mediante il rinvio del comma 1 all'art. 216; dai singoli fatti di reato societario, previsti dal codice civile e richiamati dal n. 1 dell'art. 223, secondo comma, con espressa indicazione degli articoli, e, quanto alla previsione di cui al comma 2, n. 2, dal patrimonio dell'impresa societaria in ordine al quale la condotta dolosa o colposa dell'agente ha comportato quello stato di dissesto che ha cagionato il fallimento della società. In tema di illegale ripartizione di utili, la distribuzione di somme di denaro corrispondenti ad asseriti utili «in nero» concreta — ancorché essi rappresentino il profitto effettivo della gestione — una manomissione del capitale che integra la bancarotta fraudolenta patrimoniale, in quanto, ancorché l'utile non costituisca di per sé l'oggetto materiale della condotta di distrazione fraudolenta, essendo di spettanza dei soci e non della società, quando la sua assegnazione avvenga senza la pre-deduzione dell'onere tributario e della conseguente penalità tributaria (che sorge al momento della erogazione della ricchezza) si riscontra manomissione della ricchezza sociale poiché la distribuzione eccede quanto di pertinenza dei soci (Cass. pen. V, n. 17692/2009). Integra il reato di fallimento cagionato per effetto di operazioni dolose la condotta dell'amministratore che ometta il versamento delle imposte dovute — in relazione ai profitti realizzati mediante operazioni di ‘trading' immobiliare — gravando così la società da ingenti debiti nei confronti dell'erario e successivamente proceda alla distribuzione dei predetti utili a favore dei soci, in quanto allorché l'assegnazione dell'utile avvenga senza la pre-deduzione dell'onere tributario e della conseguente penalità tributaria — che sorge al momento dell'erogazione della ricchezza — si concreta una manomissione della ricchezza sociale, trattandosi di distribuzione che eccede quanto di pertinenza dei soci (Cass. pen. V, n. 17355/2015). Non integra il delitto di bancarotta fraudolenta impropria (art. 223, comma primo, l.fall.) la condotta dell'amministratore che «richiami» l'assegno privo di provvista, precedentemente versato in esecuzione della delibera di aumento di capitale, su conto corrente intestato alla società, considerato che, in tal caso, il patrimonio sociale non risulta impoverito non avendo il versamento di detto assegno incrementato la dotazione liquida del patrimonio della beneficiaria. Tale condotta, invece, poiché diretta ad esentare o comunque ad ostacolare l'esecuzione della pretesa societaria verso il socio sottoscrittore della delibera di aumento di capitale, può astrattamente configurare l'autonomo reato di fattispecie (art. 223, comma secondo, n. 1, l.fall. in riferimento all'art. 2626 c.c.) indebita restituzione di conferimenti sub specie di liberazione dei soci dall'obbligo di eseguire i conferimenti. (Cass. pen. V, n. 27918/2009). Il comma 1 dell'art. 223La possibilità di incriminare a titolo di bancarotta fraudolenta i soggetti preposti all'amministrazione e al controllo della società è affermata dal legislatore mediante semplice rinvio alle fattispecie di cui all'art. 216; considerate le difficoltà che pone la tecnica del rinvio, l'interprete sarà dunque tenuto, caso per caso, a valutare la possibilità che alcuni dei soggetti citati nella disposizione possano o meno rispondere del reato di bancarotta (Conti, 205). Il reato di bancarotta fraudolenta impropria ex art. 223, comma primo, l.fall. e quello di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario (art. 223, comma secondo, n. 1, l.fall.) sono in rapporto di specialità reciproca (nel caso di specie, relativo alla concessione da parte dell'amministratore della società fallita di un'ipoteca su un bene sociale a garanzia del mutuo erogato ad altra società per consentire a quest'ultima il pagamento delle quote della fallita, la S.C., escluso il concorso apparente di norme, ha ravvisato il concorso dei reati di bancarotta fraudolenta impropria per distrazione e di bancarotta fraudolenta impropria da infedeltà patrimoniale ex art. 2634 c.c.) (Cass. pen. V, n. 26083/2008). In tema di bancarotta, un'operazione distrattiva infragruppo dal carattere marcatamente patologico per la gravità delle condizioni finanziarie di tutte le società coinvolte — idonea, quindi, a determinare un trasferimento di valori connotato da «fraudolenza» — trova inquadramento nella fattispecie di cui al comma primo dell'art. 223 l.fall. e non in quello ex art. 2634 c.c., richiamato dal comma secondo dello stesso art. 223 (Cass. pen. V, n. 29036/2012). Ai fini della configurabilità del reato di bancarotta impropria da reato societario ex art. 2634 c.c. è necessario che gli atti di frode ai creditori siano espressione del potere di amministrazione, sia pure esercitato in una situazione di conflitto con l'interesse della società e con le finalità descritte dalla norma; laddove, invece, deve ritenersi sussistente il diverso reato di cui all'art. 223, comma primo, l.fall. quando siano realizzati atti di disposizione dei beni societari caratterizzati, secondo una valutazione «ex ante», da manifesta ed intrinseca fraudolenza, in assenza di qualsiasi interesse per la società amministrata (Cass. pen. V, n. 33306/2016). In tema di bancarotta fraudolenta societaria, la nuova formulazione dell'art. 223, comma secondo, l.fall., introdotta dall'art. 4 d.lgs. n. 61 del 2002 che richiede il nesso di causalità tra l'operato dell'amministratore e il fallimento della società non riguarda l'art. 223, comma primo, l fall. che, ai fini della condotta incriminata, fa riferimento al disposto di cui all'art. 216 l.fall., il quale prescinde da qualsiasi nesso eziologico in rapporto al fallimento (Cass. pen. V, n. 1694/2008). Così, anche: Il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (artt. 216 e 223, comma primo, l.fall.) e quello di bancarotta impropria di (art. 223 comma secondo, n. 2), concernono ambiti diversi: il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività né si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili, ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta ex art. 216 l.fall., si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali — concretandosi in abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l'andamento economico finanziario della società — siano stati causa del fallimento (Cass. pen. V, n. 17978/2010, Cass. pen. V, n. 24051/2014). In tema di reati fallimentari, la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all'art. 219, comma primo, l.fall. è applicabile alle ipotesi di bancarotta impropria previste dall'art. 223, comma primo della stessa legge (Cass. pen. V, n. 44933/2011). In caso di distrazione di beni sociali in favore di altra società appartenente al medesimo soggetto, la configurabilità, qualora intervenga il fallimento, del reato di cui al combinato disposto degli artt. 223, comma secondo, n. 1, l.fall., e 2634 c.c., non può essere esclusa, ai sensi del comma terzo del citato art. 2634 (secondo cui « in ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo»), per il solo fatto che il soggetto abbia il controllo di entrambe le società, occorrendo invece che egli abbia svolto una vera e propria funzione imprenditoriale di indirizzo e coordinamento delle società controllate (cosiddetto «holding pura»), eventualmente anche accompagnata da attività ausiliaria o finanziaria (cosiddetto «holding operativa») dotandosi, a tal fine, di apposita, idonea organizzazione, con correlativa assunzione di responsabilità ai sensi dell'art. 2497 c.c. (Cass. pen. V, n. 10688/2004). Integra la distrazione rilevante ex art. 216 e 223, comma primo, l.fall. (bancarotta fraudolenta impropria) la condotta di colui che trasferisca, senza alcuna contropartita economica, beni di una società in difficoltà economiche — di cui sia socio ed effettivo gestore — ad altra del medesimo gruppo in analoghe difficoltà, considerato che, in tal caso, nessuna prognosi positiva è possibile e che, pur a seguito dell'introduzione nel vigente ordinamento dell'art. 2634, comma terzo, c.c., la presenza di un gruppo societario non legittima per ciò solo qualsivoglia condotta di asservimento di una società all'interesse delle altre società del gruppo, dovendosi, per contro, ritenere che l'autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddistingue ogni singola società imponga all'amministratore di perseguire prioritariamente l'interesse della specifica società cui sia preposto e, pertanto, di non sacrificarne l'interesse in nome di un diverso interesse, ancorché riconducibile a quello di chi sia collocato al vertice del gruppo, che non procurerebbe alcun effetto a favore dei terzi creditori dell'organismo impoverito (Cass. pen. V, n. 7326/2007). In tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, qualora il fatto si riferisca a rapporti intercorsi tra società appartenenti a un medesimo gruppo, l'interesse che esclude l'effettività della distrazione e la configurabilità del reato non può ridursi alla partecipazione al gruppo stesso né identificarsi nel vantaggio della società controllante, in quanto il collegamento tra le società e l'appartenenza a un gruppo imprenditoriale unitario è solo la premessa per individuare uno specifico e concreto vantaggio per la società che compie l'atto di disposizione patrimoniale (Cass. pen. V, n. 1137/2008). In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, qualora il fatto si riferisca a rapporti fra società appartenenti al medesimo gruppo, il reato deve ritenersi insussistente se, operando una valutazione «ex ante», i benefici indiretti per la società fallita si dimostrino idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi e siano tali da rendere il fatto incapace di incidere sulle ragioni dei creditori della società. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto viziata la sentenza che aveva escluso la sussistenza di cd. «vantaggi compensativi» in un'ipotesi di trasferimento di risorse da società controllante, poi fallita, a società controllata, in cui l'87% del capitale sociale apparteneva alla fallita, giustificati dal regime di benefici fiscali di cui godeva la società controllata nel Paese straniero ove aveva sede) (Cass. pen. V, n. 30333/2016). Il capoverso dell'art. 223 n. 1Prima del d.lgs. 11 aprile 2002 n. 61 si era affermato che la norma in argomento punisse fatti, costituenti reati societari, trasportati, nella loro struttura e nel loro contenuto, nella sede fallimentare (Pajardi, Formaggia, 170). Più in particolare, secondo l'indirizzo consolidato della giurisprudenza, non si trattava di una ipotesi di circostanze aggravanti di delitti minori commessi prima del fallimento, ma di ipotesi autonome di reato di cui il fallimento era (come è tuttora) elemento costitutivo (Cass. pen. 19 luglio 1996). In realtà, la mancata previsione del nesso di causalità era fortemente criticata poiché il distaccare la condotta anche temporalmente dalla causazione o dall'evento fallimentare, determinava una distorsione per effetto della quale i fatti astrattamente idonei ad integrare la fattispecie, ma che non avevano per nulla determinato il fallimento e nel contempo si situavano diversi anni prima di questo, erano ugualmente in grado di essere perseguiti e puniti come bancarotta (Capocchi, Piano, 879). Ed è questa una delle ragioni per cui è intervenuta la riforma del secondo comma dell'art. 223, che ha fatto sì che il reato in esame divenisse reato di danno e non più di pericolo, richiedendo, invero, il verificarsi dell'evento dissesto, cui la condotta deve essere ora riconessa da un preciso nesso di causalità, espresso dalla dizione «ha cagionato o contribuito a cagionare il dissesto»). La fattispecie di bancarotta impropria da reato societario di cui all'art. 223 della legge fallimentare, come sostituita dall'art. 4 del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61, si pone in rapporto di specialità rispetto alla precedente, in quanto introduce, come elemento nuovo ed ulteriore rispetto alla precedente formulazione, il rapporto di causalità tra il delitto di false comunicazioni sociali, od altro reato societario tra quelli specificamente richiamati dalla norma, ed il dissesto della società fallita. Trattandosi, tuttavia, di specialità per aggiunta, deve ritenersi che essa comporti una totale abolizione della fattispecie abrogata, in quanto l'elemento aggiuntivo è tale da attribuire alla nuova fattispecie un significato lesivo del tutto diverso da quello della precedente fattispecie. In questa, infatti, assumeva rilievo la sola idoneità della condotta a rappresentare falsamente le condizioni economiche della società, nella nuova configurazione, invece, assume rilievo soprattutto la sua idoneità a contribuire al dissesto dell'impresa. L'abolizione del più grave delitto di cui all'art. 223 legge fallimentare non esclude, nondimeno, la configurabilità, in concreto, dell'ipotesi residuale del falso in bilancio, in quanto fattispecie generale rispetto a quella della bancarotta impropria (Conforme a Cass. pen. V, n. 21535/2002; difforme a Cass. pen. V, n. 34621/2002, Cass. pen. V, n. 34622/2002). Il delitto così come ora riformulato è ora strutturato come reato complesso, rispetto al quale un reato societario assunto come elemento costitutivo deve essere causa o concausa del dissesto societario, con al conseguenza che il momento consumativo del reato è da individuarsi nella dichiarazione di fallimento (Cass. pen. n. 32164/2009). Secondo parte della dottrina il nesso causale non avrebbe una dimensione solo materiale, richiedendo, altresì, un legame anche psichico, quanto meno sotto il profilo del dolo eventuale (Gambarella, 349). Quanto all'elemento soggettivo, il dolo si atteggia sempre come specifico, anche dopo la riforma dei reati societari. In tema di bancarotta impropria da reato societario, con riferimento al reato di cui all'art. 2621 c.c., il dolo richiede una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico.(Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva ritenuto sussistente l'elemento psicologico del reato in capo agli amministratori di fatto e di diritto, a fronte della esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica e finanziaria della società, al fine di ottenere l'ammissione al concordato preventivo e, comunque, la continuazione dell'attività d'impresa mediante manipolazione dei dati contabili e conseguente falsa rappresentazione della situazione contabile ai creditori e agli organi della procedura) (Cass. V n. 50489/2018). Il capoverso dell'art. 223, n. 2È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 223, comma secondo, n. 2, l.fall., per violazione dell'art. 25 Cost., sul presupposto dell'asserita indeterminatezza della nozione di operazioni dolose causative del fallimento della società, in quanto la norma incriminatrice configura un reato causale a forma libera, la cui condotta è sufficientemente definita da una serie di parametri che rendono conoscibile il precetto (Cass. pen. fer. n. 39192/2015). In tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose di cui all'art 223, comma secondo n. 2, l.fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo nell'esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la «salute» economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato (Cass. pen. V, n. 17408/2013). Conforme Cass. pen. V, 12945/2020, la quale aggiunge che la fattispecie si distingue dalle ipotesi generali di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui agli artt. 223, comma primo, e 216, comma primo, n. 1) l. fall. in cui, invece, le disposizioni di beni societari sono caratterizzate da manifesta e intrinseca fraudolenza, in assenza di qualsiasi interesse per la società amministrata. In tema di bancarotta fraudolenta ex art 223, comma secondo, n. 2 l.fall., le operazioni dolose che hanno cagionato il fallimento devono sempre comportare un'indebita diminuzione dell'attivo, ossia un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa, mentre la valutazione degli abusi di gestione o dell'infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo concretizzanti tali operazioni non può essere assunta in via generale ed astratta, ma dipende dal rilievo dei peculiari doveri statutari, dalla tipologia dell'organismo societario e dalla situazione economico/patrimoniale in cui la condotta si compie (Cass. pen. V, n. 17690/2010). In tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all'art. 223, comma secondo, n. 2, l.fall., possono consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria della impresa e, quindi, anche in una condotta omissiva produttiva di un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione impugnata che aveva considerato qualificabile come operazione dolosa a norma dell'art. 223, secondo comma, n. 2 l.fall., il mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità) (Cass. pen. V, n. 12426/2013). Integra il reato di fallimento cagionato per effetto di operazioni dolose la condotta dell'amministratore che ometta il versamento delle imposte dovute — in relazione ai profitti realizzati mediante operazioni di ‘trading' immobiliare — gravando così la società da ingenti debiti nei confronti dell'erario e successivamente proceda alla distribuzione dei predetti utili a favore dei soci, in quanto allorché l'assegnazione dell'utile avvenga senza la pre-deduzione dell'onere tributario e della conseguente penalità tributaria — che sorge al momento dell'erogazione della ricchezza — si concreta una manomissione della ricchezza sociale, trattandosi di distribuzione che eccede quanto di pertinenza dei soci. (Cass. pen. V, n. 17355/2015). In tema di reati fallimentari, la proroga di un finanziamento a condizioni onerose, in luogo della restituzione della somma maturata, può integrare un'operazione dolosa di cui all'art. 223, comma secondo n. 2, l.fall. rimproverabile ai gestori della società debitrice che ne abbiano fatto richiesta; tuttavia, affinché possa addebitarsene la responsabilità anche al creditore, non è sufficiente la mera decisione di concedere la proroga ovvero di pretendere condizioni più gravose piuttosto che richiedere l'immediato rientro ovvero il fallimento, e ciò anche quando questi è consapevole dello stato di dissesto del debitore, ma è, invece, necessario che il comportamento del creditore presenti, in forma diversa ed ulteriore, i caratteri del contributo causale alla consumazione del reato, come quando vi sia una istigazione, nella consapevolezza dell'impatto della proroga sull'equilibrio economico dell'impresa, a porre in essere l'operazione ritenuta illecita (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata per non avere il giudice di merito identificato il contributo causale prestato dal creditore in una operazione di differimento della restituzione di un prestito che il debitore aveva precedentemente veicolato, su indicazione del primo, a società già in stato di decozione e che era stato frazionato in quattro autonome linee di debito con scadenze progressive e con tassi differenziati e crescenti) (Cass. pen. V, n. 15613/2014). Le operazioni dolose di cui all'art. 223 l. fall. possono consistere anche in condotte omissive ovvero nella sistematica elusione dei doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo, quando questa comporti il fallimento della società e un depauperamento del patrimonio non giustificato dall'interesse per l'impresa (Cass. pen.V, n 43652/2019). Integra la fattispecie della causazione dolosa del fallimento la prestazione di fideiussioni bancarie, pur formalmente ricompresa nell'oggetto sociale, in modo continuativo, per importi superiori al valore del patrimonio e senza significativa contropartita, in favore di altra società in grave situazione di dissesto, amministrata dallo stesso legale rappresentante della società garante, con ciò determinano il fallimento di quest'ultima (Cass. pen. V, n. 9843/2018; Cass. pen. n. 11019/2007). Ai fini della configurabilità del reato di bancarotta impropria prevista dall'art. 223, secondo comma, n. 2, l.fall., non interrompono il nesso di causalità tra l'operazione dolosa e l'evento, costituito dal fallimento della società, né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente del dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all'art. 41 c.p. né il fatto che l'operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l'aggravamento di un dissesto già in atto, poiché la nozione di fallimento, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara, è ben distinta da quella di dissesto, la quale ha natura economica ed implica un fenomeno in sé reversibile (Cass. pen. V, n. 40998/2014; Cass. pen. V, n. 17690/2010). Integra il delitto di causazione del fallimento per effetto di operazioni dolose ai sensi dell'art. 223 comma secondo, n. 2 l.fall. il meccanismo di frode fiscale realizzato attraverso l'emissione di fatture per operazioni inesistenti e la costituzione di apposite società fittizie finalizzate ad ottenere liquidità con gli anticipi bancari e la detrazione dell'iva sulle merci acquistate e collocate sul mercato a prezzi concorrenziali la cui interruzione abbia provocato il tracollo finanziario e dunque il fallimento della società, potendo il reato fallimentare concorrere con quello tributario per diversità del bene tutelato, dell'elemento oggettivo e di quello soggettivo (Cass. pen. V, n. 40009/2014). In tema di fallimento determinato da operazioni dolose, che si sostanzia in un'eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l'onere probatorio dell'accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà dell'amministratore della complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i propri doveri a fronte degli interessi della società, nonché dell'astratta prevedibilità dell'evento di dissesto quale effetto dell'azione antidoverosa, non essendo invece necessarie la rappresentazione e la volontà dell'evento fallimentare (Fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto correttamente affermata la responsabilità, ex art. 223, comma secondo, n. 2, l.fall., nei confronti dell'amministratore di una società che con le sue condotte, in particolare l'accensione di un ingente mutuo; il pagamento delle sole due prime rate del piano di ammortamento, nonostante la società avesse liquidità per farvi fronte e la conservazione assolutamente imprudente ed illogica della liquidità così ottenuta non già in banca ma nella cassaforte della sede sociale poi oggetto di furto, ha integrato le operazioni dolose che hanno causato il dissesto della società) (Cass. pen. V, n. 38728/2014). In tema di fallimento determinato da operazioni dolose, che si sostanzia in un'eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l'onere probatorio dell'accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura «dolosa» dell'operazione alla quale segue il dissesto, nonché dell'astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell'azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell'integrazione dell'elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell'evento fallimentare (Cass. pen. V, n. 17690/2010:in motivazione, la S.C. ha precisato che per la configurabilità del reato è necessaria la rappresentazione dell'azione nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i doveri propri del soggetto societario a fronte degli interessi della società). In tema di fallimento determinato da operazioni dolose, che si sostanzia in un'eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l'onere probatorio dell'accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e in tema di bancarotta fraudolenta c.d. “impropria”, quale prevista dall'art. 223, comma secondo, n. 2, L.F., per il caso in cui sia stato “cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società”, deve ritenersi che, una volta accertata la contrarietà agli interessi sociali dell'operazione posta in essere, con coscienza e volontà, dall'amministratore, non possano valere ad escludere la configurabilità del reato, sotto il profilo soggettivo, la finalità perseguita dall'agente di “salvare il salvabile” e, sotto il profilo oggettivo, la preesistenza di cause di per sé tali da dar luogo alla produzione o anche al solo aggravamento del dissesto, dovendosi tenere ben distinta, a quest'ultimo proposito, la nozione di “dissesto” , avente natura economica ed implicante un fenomeno in sé e per sé reversibile, da quella di “fallimento”, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha censurato la sentenza di merito con la quale era stato assolto dal reato “de quo”, con la formula “il fatto non sussiste”, l'amministratore della società fallita al quale il suddetto reato era stato addebitato per avere ceduto in affitto l'azienda a fronte della promessa corresponsione di un canone destinato, per lo più, a non essere incassato). (In motivazione, la S.C. ha precisato che per la configurabilità del reato è necessaria la rappresentazione dell'azione nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i doveri propri del soggetto societario a fronte degli interessi della società) (Cass. pen. V, n. 17690/2010). In tema di bancarotta fraudolenta impropria, nell'ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa (Cass. pen. V, n. 45672/2015). In tema di bancarotta fraudolenta impropria, nell'ipotesi del fallimento causato da operazioni dolose, il concorso dell'extraneus — istigatore e beneficiario delle operazioni — è configurabile quando questi è consapevole del rischio che le suddette operazioni determinano per le ragioni dei creditori della società, non essendo, invece, necessario che egli abbia voluto causare un danno ai creditori medesimi. (Fattispecie relativa a condotta dolosa consistita nella emissione di fatture per operazioni inesistenti nel quadro di attività riconducibili al sistema cosiddetto delle «truffe intracomunitarie dell'IVA», o anche «truffe carosello») (Cass. pen. V, n. 41055/2014). Un argomento a difesa che molto spesso viene invocato quale ragione giustificatrice del comportamento tenuto consiste nell'asserire di avere tentato, con la condotta incriminata, di evitare l'imminente dissesto e la conseguente dichiarazione formale di fallimento. In proposito Cass. pen. V, n. 13383/2021, ha affermato che, per il caso in cui sia stato “cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società”, deve ritenersi che, una volta accertata la contrarietà agli interessi sociali dell'operazione posta in essere, con coscienza e volontà, dall'amministratore, non possano valere ad escludere la configurabilità del reato, sotto il profilo soggettivo, la finalità perseguita dall'agente di “salvare il salvabile” e, sotto il profilo oggettivo, la preesistenza di cause di per sé tali da dar luogo alla produzione o anche al solo aggravamento del dissesto, dovendosi tenere ben distinta, a quest'ultimo proposito, la nozione di “dissesto” , avente natura economica ed implicante un fenomeno in sé e per sé reversibile, da quella di “fallimento”, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha censurato la sentenza di merito con la quale era stato assolto dal reato “de quo”, con la formula “il fatto non sussiste”, l'amministratore della società fallita al quale il suddetto reato era stato addebitato per avere ceduto in affitto l'azienda a fronte della promessa corresponsione di un canone destinato, per lo più, a non essere incassato). Le circostanzeSecondo Cass. pen. 8 gennaio 1980, ove l'amministratore di una società dichiarata fallita sia incorsa nella violazione del precetto di cui all'art. 2621 c.c. ed abbia inoltre commesso uno o più fatti descritti nell'art. 216, dovrà rispondere non già di tanti reati quante sono le violazioni commesse, ma di un solo reato di bancarotta fraudolenta, aggravato ai sensi dell'art. 219, giacché quest'ultimo è applicabile, per effetto dell'applicazione estensiva, anche ai fatti indicati nell'art. 223, comma 2, n.1. BibliografiaCapocchi - Piano, Il reato di bancarotta fraudolenta, in Fall. 2002, 879; Conti, Diritto penale commerciale. I reati fallimentari, Torino, 205; Gambarella, Il nesso causale tra i reati societari e il dissesto nella nuova bancarotta fraudolenta impropria: profili dogmatici e e di diritto intertemporale, in Cass. pen. 2003, 349; Pajardi - Formaggia, I reati fallimentari, Le responsabilità penali dell'imprenditore nelle procedure di crisi, Milano, 1994, 170; Proto, Le azioni di responsabilità contro gli amministratori nella società a responsabilità limitata, in Fall. 2003, 1139. |