Codice Penale art. 613 bis - Tortura 1

Giovanna Verga

Tortura 1

[I]. Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

[II]. Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.

[III]. Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

[IV]. Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà.

[V]. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell'ergastolo.

competenza: Trib. monocratico (comma 1); trib. collegiale (comma 2 e comma 4 ultima parte); Corte d’Assise (comma 5)

arresto: facoltativo (comma 1 e 2); obbligatorio (comma  4 ultima parte e  comma 5)

fermo: consentito

custodia cautelare in carcere: consentita

altre misure cautelari personali: consentite

procedibilità: d’ufficio

[1] Articolo inserito dall'art.1, comma 1, l. 14 luglio 2017, n. 110.

Inquadramento

Numerosi atti internazionali prevedono che nessuno possa essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti: tra gli altri, la Convenzione di Ginevra del 1949 relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; la Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950 (ratificata dalla l. n. 848/1955), la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificata dalla l. n. 881/1977), la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 2000, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti (la cd. CAT), ratificata dall'Italia con la l. n. 498/1988; lo Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale del 1998 (l. n. 232/1999). La maggior parte di tali atti si limita a proibire la tortura ma non ne fornisce una specifica definizione.

Tale definizione è invece contenuta, oltre che nella citata Convenzione ONU, nello Statuto della Corte penale internazionale nonché nella più datata Dichiarazione ONU del 1975.

La Convenzione Onu definisce la tortura come “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione”.

La stessa Convenzione precisa che, ai fini della qualificazione del reato di tortura, l'azione deve essere posta in essere da un pubblico ufficiale  “o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito”.

Moltissimi gli Stati che, proprio al fine di conformarsi a tale obbligo, hanno previsto il reato di tortura nel codice penale e, in alcuni casi, ne hanno sancito il divieto anche a livello costituzionale.

Con riguardo all'Italia deve ricordarsi che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha più volte condannato l'Italia per violazione dell'art. 3 CEDU, che sancisce il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti, evidenziando la ritenuta inadeguatezza dell'ordinamento penale italiano nel punire i fatti qualificabili come tortura. Vengono, in particolare, in rilievo le sentenze CGUE, sez. IV, 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia e, da ultimo, CGUE, sez. I, 22 giugno 2017, Bartesaghi Gallo c. Italia, che hanno entrambe dichiarato la violazione dell'art. 3 CEDU in relazione ai fatti commessi all'interno della scuola Diaz-Pertini in occasione del G8 di Genova, nella notte del 21 luglio 2001.

A fronte di tale quadro sovranazionale, nel nostro ordinamento è stata dapprima introdotta l'incriminazione dei fatti di tortura nel codice penale militare di guerra (art. 185-bis c.p.mil.g., introdotto dalla l. 31 gennaio 2002, n. 6, di conversione del d.l. 1 dicembre 2001, n. 421) e, successivamente, sancito il divieto di commercio di strumenti utilizzabili per la pena di morte, la tortura o altri trattamenti inumani o degradanti (d.lgs. 12 gennaio 2007, n. 11, che ha dato esecuzione al Reg. (CE) 27 giugno 2005, n. 1236/2005, adottato dal Consiglio dell'Unione Europea in data 27 giugno 2005), ma mancava del tutto l'espressa incriminazione, nel codice penale, del delitto di tortura. Tali fatti erano riconducibili alle fattispecie delittuose previste nel Titolo XII del codice, sui delitti contro la persona

L'introduzione nel codice penale del delitto di tortura dà attuazione nell'ordinamento italiano alla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (CAT), adottata nel 1984 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Ris. n. 39/46 e resa esecutiva in Italia con l. 3 novembre 1988, n. 498. L'approvazione dell'art- 613-bis è stata preceduta da un lungo dibattito dottrinale e parlamentare in ordine all'opportunità, ma soprattutto alle modalità di introduzione di una specifica incriminazione dei fatti di tortura

Dopo un articolato iter parlamentare (cfr. Senato AS. 10 e abb.Camera, AC. 2168), l'art. 1 l. n. 110/2017 ha introdotto nel codice penale - titolo XII (Delitti contro la persona), sez. III (Delitti contro la libertà morale) - i reati di tortura (art- 613-bis ) e di istigazione alla tortura (art. 613-ter).

L'illecito è connotato in modo solo parzialmente coincidente con la Convenzione ONU che, in particolare, definisce la tortura come reato proprio del pubblico ufficiale.

L'art- 613-bis punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Con la sentenza Cass n. 47079/2019  la Corte di Cassazione ha ritenuto che il "trauma psichico verificabile", previsto dal'art. 613-bis c.p. non deve necessariamente tradursi in una sindrome duratura da "trauma psichico strutturato" (PTSD) e può consistere anche in una condizione critica temporanea che risulti, per le sue caratteristiche, non integrabile nel pregresso sistema psichico della vittima, sì da minacciarne la coesione mentale e di tale condizione la norma richiede l'oggettiva riscontrabilità, che non esige necessariamente l'accertamento peritale, né l'inquadramento in categorie nosografiche predefinite, potendo assumere rilievo anche gli elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dal suo comportamento successivo alla condotta dell'agente e dalle concrete modalità di quest'ultima. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione cautelare che aveva ritenuto integrato l'evento in parola dalla sindrome da "evitamento", ricostruita dal giudice sulla base dello stato di profonda prostrazione in cui la vittima era stata ridotta, per essersi trovata "in balia di un branco di piccoli criminali, privato della sua dignità e incapace di opporre la pur minima resistenza").

Con la sentenza Cass.  n. 50208/2019  la corte di Cassazione ha affermato che in tema di tortura, la crudeltà della condotta si concretizza in presenza di un comportamento eccedente rispetto alla normalità causale, che determina nella vittima sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole dell'autore del fatto. (Fattispecie in cui le reiterate aggressioni ai danni di una vittima inerme, eseguite in tempo di notte e facendo irruzione nella sua abitazione, con l'utilizzo di corpi contundenti, accompagnate da urla di scherno e immortalate attraverso videoriprese sono state ritenute espressive del perseguimento, da parte degli aggressori, di una forma di sadica soddisfazione per la propria capacità di generare sofferenza) e che ai i fini della ricorrenza delle "acute sofferenze fisiche", quale evento del delitto di tortura previsto dall'art. 613-bis c.p., non è necessario che la vittima abbia subito lesioni.

Soggetti

Il comma 1 dell'art. 613-bis descrive una fattispecie di reato comune, che può essere quindi commesso non solo da coloro che ricoprano una particolare qualifica o si trovino in una particolare relazione con la vittima, ma da chiunque.

Quanto al soggetto attivo e passivo del reato, si richiede che il fatto sia commesso in danno di persona privata della libertà personale o che sia stata affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza del soggetto agente ovvero, ancora, che si trovi in situazione di minorata difesa.

Poiché l'art. 613-bis  non richiede espressamente che la privazione della libertà personale consegua ad un provvedimento lato sensu giurisdizionale (come accade laddove il soggetto passivo sia sottoposto a misure cautelari o precautelari, o a una pena o a una misura di sicurezza di natura custodiale), la norma deve poter trovare applicazione anche nel caso in cui la vittima del reato sia stata illegittimamente privata della libertà personale dall'autore del reato, resosi preventivamente responsabile di una delle condotte punite dagli artt. 605, 630 o 289-bis o da altre che si basano su uno schema analogo: ritenere il contrario significherebbe introdurre surrettiziamente un ulteriore requisito di fattispecie, restringendo l'ambito di operatività di una norma che già presenta numerosi elementi tipizzanti (così Colella).

Attraverso il riferimento alle condizioni di minorata difesa del soggetto passivo del reato il legislatore sembra aver inteso richiamare la circostanza aggravante comune di cui all'art. 61 n. 5), affidando all'interprete il compito di verificare – sulla scorta degli orientamenti giurisprudenziali sviluppatisi sul punto – se la vittima possa o meno definirsi particolarmente vulnerabile, alla luce delle sue caratteristiche personali (quali l'età o le condizioni fisio-psichiche) o del contesto in cui l'azione è stata posta in essere (Viganò).

Secondo la sentenza (Cass.  n. 47079/2019) della V Sezione Penale della Corte di Cassazione , le "condizioni di minorata difesa", previste dall'art. 613-bis c.p. per identificare una delle categorie dei possibili soggetti passivi del delitto, sussistono ogni qualvolta la resistenza della vittima alla condotta dell'agente sia ostacolata da particolari fattori ambientali, temporali o personali. (Fattispecie nella quale assumeva rilievo il disturbo psichiatrico e il disagio esistenziale della vittima, auto-emarginatasi dal contesto sociale, che aveva ripetutamente subito presso la propria dimora le violente incursioni notturne dei ricorrenti).

La sentenza  (Cass. 50208/2019) sempre della V Sezione Penale della Corte di Cassazione ha ritenuto che per la verifica della condizione di "minorata difesa" della vittima richiesta dall'art. 613-bis cod. pen., vanno valorizzate le condizioni personali e ambientali che facilitino l'azione criminale e che rendano effettiva la signoria o il controllo dell'agente sulla vittima, agevolando il depotenziamento se non l'annullamento delle capacità di reazione di quest'ultima. (In motivazione la Corte ha chiarito che la vulnerabilità della vittima va valutata in relazione al momento in cui l'aggressione viene perpetrata, e non già con riferimento alla possibilità di una reazione successiva, come quella che potrebbe consistere nella denuncia dei fatti).

Materialità

Rispetto all'art. 1 della Convenzione ONU, che prevede una condotta a forma libera da parte dell'autore del reato, l'art. 613-bis prevede esplicitamente che la tortura si realizza mediante violenze o minacce gravi o crudeltà (ovvero con trattamento inumano e degradante).

La necessità della pluralità delle condotte (violenze o minacce) non sembra, quindi, consentire di contestare il reato di tortura in presenza di un solo atto di violenza o minaccia. Peraltro, dalla formulazione del testo si realizza il reato di tortura anche qualora si sia determinato un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. In tale ultima ipotesi, per la contestazione del reato, si dovrebbe prescindere dalla pluralità delle condotte.  

Non pone particolari problemi interpretativi il riferimento alla violenza e alla minaccia, comune a molte fattispecie di parte speciale, e in particolare a quella di violenza privata di cui all'art. 610 Il legislatore richiede, però, che le stesse siano “gravi”, con ciò escludendo dall'alveo di applicabilità della norma in parola le condotte che si caratterizzano per la loro (particolare) tenuità.

In alternativa, l'azione deve connotarsi per la sua “crudeltà”: un concetto già utilizzato dal legislatore del 1930 nell'ambito dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 4), che secondo le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 40516/2016) “è di natura soggettiva ed è caratterizzata da una  condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole”; atteggiamento interiore la cui sussistenza deve essere accertata “alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti alle note impulsive del dolo”.

Come già detto l'art. 613-bis richiede la sussistenza di almeno due condotte – violente, minacciose o crudeli che siano -, salvo che il fatto non comporti un trattamento inumano o degradante per la dignità della persona. In questa seconda ipotesi, anche una sola condotta potrà dunque assurgere a “tortura” (sempre che, ovviamente, sussistano gli altri requisiti oggettivi e soggettivi di fattispecie): il delitto in commento si configura, pertanto, come un reato solo eventualmente abituale (così Colella cit.). L'espressione costituisce un novum per l'ordinamento penale nazionale e riecheggia il dictum dell'art. 3 CEDU che  prevede che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Con la  Sentenza (Cass. n. 47079/2019)  la V Sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che “il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell'incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. (In motivazione, la Corte ha precisato che per l'integrazione del reato nella sua forma abituale sono sufficienti due condotte, reiterate anche in un minimo lasso temporale).

Cass. n. 50208/2019 ha ritenuto che ai fini dell'integrazione del delitto di tortura di cui all'art. 613-bis, comma primo, c.p., la locuzione "mediante più condotte" va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico.

E' stato evidenziato che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, fra le tre categorie di mistreatments contemplate dall'art. 3 CEDU sussiste un rapporto di continenza, oltre che di progressione scalare: non vi è trattamento inumano che non sia, al tempo stesso, anche un trattamento degradante; e non vi è tortura che non sia, al tempo stesso, un trattamento inumano e degradante.  (Così Cassibba-Colella). La norma prevede poi come eventi alternativi le “acute sofferenze fisiche” o l'insorgenza di “un verificabile trauma psichico”, espressioni da intendersi, entrambe, come un quid minus rispetto alla nozione di lesioni.

La scelta del legislatore sembra in linea con gli obblighi di tutela penale di fonte sovranazionale e con le indicazioni della dottrina, considerato che molte delle nuove forme di tortura non lasciano segni sul corpo della vittima, e non sempre danno origine a vere e proprie patologie psichiatriche: si pensi al cd. waterboarding, o alla tecnica della privazione prolungata del sonno, o ancora agli effetti che anche una singola minaccia di tortura, quale quella oggetto del celebre caso Gäfgen (Corte EDU, Grande Camera, sent. 1 giugno 2010, Gäfgen c. Germania) potrebbe avere sulla psiche di una persona accusata di un crimine e sottoposta ad un interrogatorio finalizzato ad estorcerle una confessione (così Colella cit.).

Che il legislatore non abbia richiesto la causazione di lesioni è reso evidente dal fatto che il comma 3 prevede un'aggravante ad hoc per il caso in cui la vittima riporti vere e proprie lesioni.

Elemento soggettivo

La fattispecie si configura quale reato a dolo generico e non a dolo specifico. Non occorre, dunque, che il soggetto agente sia animato da alcuna particolare finalità, ben potendo egli agire senza alcun apparente scopo, per vendetta, per spirito di rivalsa o per puro sadismo.

Non richiedendo espressamente che la condotta sia sorretta dal dolo intenzionale, la norma sembra pacificamente ammettere che le acute sofferenze fisiche che le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico possano essere semplicemente accettati dal soggetto attivo, secondo lo schema del dolo eventuale (così Colella; Trianni).

La c.d. tortura di Stato

La tortura “di Stato” è descritta dal combinato disposto dei commi 1 e 2 del nuovo art. 613-bis. Il richiamo ai “fatti di cui al primo comma” con cui si apre il comma 2 chiarisce che i requisiti oggettivi e soggettivi che si sono fin qui descritti devono essere presenti anche nel caso in cui la tortura sia posta in essere nei rapporti “verticali”.

In aggiunta ai medesimi, nondimeno, la norma richiede la sussistenza di ulteriori elementi tipizzanti, che afferiscono alle caratteristiche del soggetto attivo e alle modalità della condotta. In particolare, l'agente deve ricoprire la qualifica di “pubblico ufficiale” o di “incaricato di pubblico servizio” (secondo le definizioni degli artt. 357 e 358), e i fatti devono essere commessi “con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”, secondo una formulazione del tutto analoga a quella dell'aggravante comune di cui all'art. 61 n. 9. E' stato affermato che in virtù del canone dell'interpretazione sistematica, potrà (e dovrà) trovare applicazione l'orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui l'abuso dei poteri o la violazione dei doveri sono configurabili anche quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio abbiano agito al di fuori dell'ambito delle loro funzioni, essendo sufficiente che le loro qualità abbiano comunque facilitato la commissione del reato.

La dottrina ritiene  che, al di là di quanto potrebbe prima facie apparire, il secondo comma dell'art. 613-bis assurga a fattispecie autonoma di reato e non a mera circostanza aggravante (così Colella; Viganò) soprattutto perché al comma 4 la norma contempla delle autentiche circostanze aggravanti – con la conseguenza che sarebbe insostenibile, dal punto di vista dogmatico, ipotizzare la sussistenza di un'aggravante dell'aggravante – e che il comma 3 prevede una causa di esclusione della tipicità del solo reato commesso da un soggetto qualificato, con ciò evidentemente escludendone la natura circostanziale. (sul punto si vedano anche Stefania Amato e Michele Passione, Il reato di torura in Diritto Penale Commentato.)

Il comma 3 dell'art. 613-bis prevede infatti che il comma precedente non si applica se le sofferenze per la tortura derivano unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

Le circostanze aggravanti

Il comma 4 dell'art. 613-bis ricollega alla causazione di lesioni personali aumenti di pena fino a un terzo se si tratta di lesioni lievi, di un terzo nell'ipotesi di lesioni gravi e della metà in caso di lesioni gravissime.

Occorre sottolineare che – come suggerito nei lavori preparatori – l'aggravante in esame si perfeziona solo laddove la condotta di cui al comma 1 si sia estrinsecata attraverso una pluralità di azioni, come si evince dal riferimento letterale “ai fatti” (e non “al fatto”) descritto dall'art. 613-bis comma 1.

Il comma 5 della norma in esame disciplina l'ipotesi in cui alla tortura segua la morte del soggetto passivo, tanto nel caso in cui la stessa sia una conseguenza non voluta quanto nel caso in cui l'agente l'abbia volontariamente causata. Il legislatore ha previsto per il primo caso la pena della reclusione di anni trenta con ciò evidentemente discostandosi dalla disciplina generale prevista dall'art. 586, rispetto alla quale ha previsto un trattamento sanzionatorio più severo, e per il secondo quella dell'ergastolo (pena che, comunque, si sarebbe dovuta applicare in ragione della configurazione di tale condotta come omicidio volontario, eventualmente aggravato dall'art. 61 n. 4; in questo senso Marchi ).

Si tratta dell'unica ipotesi in cui il legislatore ha espressamente richiesto che l'evento aggravatore debba essere sorretto dal coefficiente psicologico del dolo, e non meramente della colpa; ciò che ha indotto parte della dottrina a ritenere che, in realtà, sarebbe improprio in questo caso far riferimento al paradigma dei delitti aggravati dall'evento, dovendosi più correttamente affermare che la norma sia un'applicazione dell'art. 84, che disciplina il reato complesso (così Trianni).

In virtù dell'orientamento giurisprudenziale che qualifica l'evento aggravatore come circostanza, e in assenza di clausole che impongano divieti di bilanciamento o un bilanciamento vincolato, dovrebbe concludersi che tanto le circostanze descritte dal comma 4 quanto quelle descritte dal comma 5 possano soccombere a fronte di circostanze attenuanti alle quali il giudice attribuisca maggior peso, ivi comprese le attenuanti generiche di cui all'art. 62-bis (così Colella).

Rapporti con altri reati

Il delitto di percosse è assorbito ogni volta in cui il reato in esame trovi espressione nella sua variante cd. violenta. Lo stesso è a dirsi per il delitto di minaccia, nell'ipotesi in cui la tortura venga in rilievo nella sua variante cd. minacciosa.

Con riguardo al rapporto della fattispecie in esame con quella di lesioni volontarie deve ricordarsi che il quarto comma dell'art. 613-bis prevede un aggravamento di pena nel caso in cui, a seguito dei fatti previsti dal comma 1, il soggetto passivo del reato riporti, quale conseguenza non voluta dall'agente, lesioni personali. Restano, dunque, fuori dall'ambito di applicazione dell'aggravante or ora citata – con conseguente ipotizzabilità del concorso tra gli art. 613-bis  e 582 ss.  – le lesioni sorrette dal coefficiente psicologico del dolo, così come quelle che discendano da un solo atto di tortura, commesso con crudeltà e di per sé integrante un trattamento inumano e degradante

Considerazioni diverse valgono invece rispetto alla fattispecie di omicidio volontario. Il dettato dell'art. 84 – espressione del principio del ne bis in idem sostanziale – impone di escludere che l'art. 575 possa trovare applicazione autonoma, dal momento che la causazione volontaria della morte è prevista come una specifica circostanza aggravante dall'art. 613-bis comma 5, con tutte le conseguenze che tale conclusione – ineludibile in sede interpretativa – determina in punto  di trattamento sanzionatorio

La prima parte dell'art. 613-bis comma 5 – che prevede la pena di 30 anni di reclusione per il caso in cui dai fatti descritti dal primo comma discenda la morte del soggetto passivo come conseguenza non voluta dall'agente – sembra poi precludere, in linea di principio, la possibilità di contestare in modo autonomo l'omicidio preterintenzionale e l'ipotesi residuale di morte come conseguenza di altro reato, salvo che:

  1. non sia apprezzabile alcun rapporto di derivazione causale tra gli atti di tortura e la morte; oppure
  2. la condotta di tortura sia stata posta in essere attraverso una sola azione caratterizzata da crudeltà e integrante un trattamento inumano e degradante, atteso che anche l'art. 613-bis comma 5 fa riferimento “ai fatti” (e non “al fatto”) di cui al comma 1.

Disposizioni processuali

La l. n. 110/2017 ha introdotto una disposizione procedurale che - novellando il codice di procedura penale -  stabilisce l'inutilizzabilità, nel processo penale, delle dichiarazioni eventualmente ottenute per effetto di tortura. La norma fa eccezione a tale principio solo nel caso in cui tali dichiarazioni vengano utilizzate contro l'autore del fatto e solo al fine di provarne la responsabilità penale.

La modifica del testo unico immigrazione

La riforma coordina con l'introduzione del resto di tortura l'art. 19 t.u. immigrazione (d.lgs. n. 286/1998): sono vietate le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta che sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura. La disposizione - sostanzialmente aderente al contenuto dell'art. 3 della Convenzione ONU -  precisa che tale valutazione tiene conto se nel Paese in questione vi siano violazioni "sistematiche e gravi" dei diritti umani.

Il limite alle immunità diplomatiche e l'estradizione

L'art. 4 l. n. 110/2017 esclude il riconoscimento di ogni "forma di immunità" per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati  per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale (comma 1). L'immunità diplomatica riguarda in via principale i Capi di Stato o di governo stranieri quando si trovino in Italia nonché il personale diplomatico-consolare eventualmente da accreditare presso l'Italia da parte di uno Stato estero.

Viene poi previsto l'obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura; nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, lo straniero è estradato verso il Paese individuato in base alla normativa internazionale.

Profili processuali

L'arresto per il commi 1, 2 e 4  è facoltativo in flagranza (art. 381), per il quinto comma è obbligatorio in flagranza (art. 380). Il fermo è consentito (art. 384). Le misure cautelari personali sono consentite (artt. 280, 287).

La procedibilità è d'ufficio.

Competente per il comma 1 è il Tribunale monocratico. Per il primo comma nell'ipotesi aggravata da lesioni personali gravi o gravissime e per i commi 2, 4 e 5 competente è il Tribunale Collegiale.

Bibliografia

Cassibba-Colella, Proibizione della tortura, in Ubertis–Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, 2016, 67; Cancellaro, Tortura: nuova condanna dell’Italia a Straburgo, mentre prosegue l’iter parlamentare per l’introduzione del reato, in Dir. pen. cont., fasc. 6/2017, 322 ss.; Colella, Il Nuovo delitto di tortura, Il libro dell’Anno del diritto, Treccani, 2018; Marchi, Prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p., in Dir. pen. cont., fasc. 7-8/2017, 155 ss.; Preziosi, Il reato di tortura. Dalla giurisprudenza Europea alla legge 110/2017; Trianni, Tortura (art. 613 bis c.p.), in Garofoli (a cura di), Compendio di diritto penale-parte speciale, 2017; Viganò, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la Camera dei  Deputati. Parere reso nel corso dell’audizione svoltasi presso la Commissione giustizia della Camera dei Deputati il 24 settembre 2014, in Dir. pen. cont., 25 settembre 2014; Stefania Amato e Michele Passione, Il reato di torura in Diritto Penale Commentato.

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