Lite temerariaFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 96
07 Maggio 2016
Inquadramento
La responsabilità processuale aggravata è regolata dal codice di rito ed è sancita a carico della parte soccombente in giudizio, che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. Testualmente l' comma 1 , c.p.c. così è formulato «Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d'ufficio, nella sentenza».Elementi costitutivi della fattispecie sono:
All'esito, il giudice, su richiesta della parte vincitrice, può accordare la riparazione del nocumento che la condotta processuale imputata alla controparte ha determinato. La condanna al risarcimento per lite temeraria prevista dall' art. 96, comma 1 , c.p.c. , presuppone sempre l'istanza di parte, anche nel caso richiamato dall' art. 152 disp. att. c.p.c. in ordine alle controversie previdenziali (Cass. civ., s ez. lav., 2 dicembre 2015, n. 24526 ). Deve chiaramente trattarsi di un pregiudizio ulteriore rispetto alle spese sostenute, la cui refusione segue il principio di causalità exart. 91 c.p.c. Acquisita la prova dell'an debeatur, il cui onere ricade sull'istante, il giudice provvede alla liquidazione sulla scorta degli elementi offerti dal medesimo richiedente ovvero anche d'ufficio, evidentemente quando sia impossibile o assai difficoltoso fornire la prova dell'ammontare del nocumento. In proposito, la domanda di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. non può trovare accoglimento tutte le volte in cui la parte istante non abbia assolto all'onere di allegare (almeno) gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato ( Cass. civ., s ez. III, 27 ottobre 2015, n. 21798 ; Cass. civ., sez . un., 20 aprile 2004, n. 7583 ), salvo che essi siano desumibili dagli atti di causa ( Cass. civ., s ez. lav., 15 aprile 2013, n. 9080 ). Lo schema adoperato è quello della liquidazione equitativa exart. 1226 c.c. , come richiamato dall'art. 2056, comma 2 , c.c.
Inesistenza del diritto
La seconda ipotesi di responsabilità processuale si riferisce alle fattispecie in cui la parte abbia agito senza la normale prudenza, avvalendosi di specifici (tipici e qualificati) strumenti processuali, a tutela di un diritto di cui si accerti in via definitiva l'inesistenza. Gli strumenti processuali di cui la parte si avvale sono previamente individuati e, dunque, sotto tale profilo, si rientra in una forma di responsabilità speciale, a fronte di quella generale di cui all' comma 1 , c.p.c. (ovvero eccezionale, a fronte della responsabilità aggravata che è già di per sé speciale). Segnatamente, la norma così recita: Il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata, condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.Siffatta ipotesi di responsabilità processuale postula, sul piano obiettivo, un accertamento negativo: la successiva verifica dell'inesistenza del diritto cautelato. Sul piano subiettivo, detta forma di responsabilità opera a carico del solo agente (attore o creditore procedente), soggetto passivo potenziale destinatario della declaratoria di responsabilità, e non del resistente, soggetto attivo a vantaggio del quale è disposta la condanna al risarcimento dei danni. Inoltre, è necessario che la parte la quale rivendichi la titolarità di un diritto leso si avvalga di strumenti processuali rafforzativi tipizzati: l'attuazione di una misura cautelare, anticipatoria o assicurativa, la trascrizione della domanda giudiziale con finalità prenotativa, l'iscrizione di ipoteca giudiziale con finalità di garanzia, l'inizio o l'esaurimento del processo di esecuzione forzata con valenza satisfattiva coattiva della sua pretesa. Quando, in ragione dell'attivazione di tali presidi processuali, che arrecano in re ipsa una particolare ed incisiva limitazione delle facoltà di godimento e dispositive spettanti alla controparte, si acclari che il diritto a salvaguardia del quale i presidi citati sono stati azionati era inesistente, il giudice, su richiesta della parte interessata, riconosce il risarcimento dei danni. La riparazione del nocumento non consegue in via automatica all'accertamento dell'inesistenza del diritto, in guisa dell'attuazione di un provvedimento cautelare, della trascrizione della domanda giudiziale, dell'iscrizione di ipoteca giudiziale ovvero dell'inizio o del compimento dell'esecuzione forzata, ma presuppone, ad insindacabile giudizio del decidente, che l'agente abbia agito senza la normale prudenza, concetto chiaramente valutativo, che implica un minimo di rimproverabilità del danneggiante sotto il profilo subiettivo, quantomeno sub specie di colpa lieve. In questa evenienza il giudice riconosce la riparazione, potendo disporre la liquidazione in via equitativa, in forza del richiamo sul punto del secondo comma al primo comma dell'art. 96. Altra ipotesi di responsabilità processuale speciale (rectius eccezionale) è puntualmente regolata dall'ultima parte dell' art. 2920 c.c. , che, a tutela del terzo titolare di diritti sulla cosa mobile venduta in sede di esecuzione forzata, pur negando il diritto del terzo di potersi rivalere sul ricavato, ammette che questi possa richiedere il risarcimento dei danni a carico del creditore che abbia proceduto in mala fede nei confronti del terzo espropriato. Di contro, non vi è più alcun richiamo alla norma che disciplina la responsabilità processuale aggravata quando sia accolto il reclamo proposto davanti alla corte d'appello avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, ai sensi dell'art. 18 l. fall ., con conseguente disposizione della revoca di detto fallimento. Il terzo comma dell'abrogatoart. 21 l. fall . (abrogazione avvenuta a cura deld.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 ) stabiliva la condanna al risarcimento dei danni del creditore istante, per avere chiesto la dichiarazione di fallimento con colpa.Qualora siano incardinati i procedimenti tipizzati indicati dal secondo comma dell' art. 96 c.p.c. , non è precluso a priori il ricorso alla tutela risarcitoria di cui al primo comma, in presenza dei relativi presupposti.Sull'argomento, la giurisprudenza di legittimità ha testualmente precisato: L'applicabilità ai soli procedimenti esecutivi e cautelari della fattispecie tipizzata contenuta nella disposizione speciale del secondo comma dell' art. 96 c.p.c. non esclude applicabilità a tali procedimenti anche del primo comma del medesimo articolo, trattandosi di norma a natura generale ( Cass. civ., s ez. I, 30 luglio 2010, n. 17902 ). Sovvertendo un orientamento consolidato di segno contrario, recentemente la Corte di legittimità ha sostenuto che incorre in responsabilità processuale aggravata ai sensi dell' art. 96, comma 2 , c.p.c. il creditore che, senza adoperare la normale diligenza, iscriva ipoteca su beni, il cui valore superi i parametri previsti dall'art. 2875 c.c. rispetto al credito garantito, configurandosi un abuso del diritto della garanzia patrimoniale in danno del debitore( Cass. civ., s ez. III, 5 aprile 2016, n. 6533 ). La condanna al risarcimento dei danni da responsabilità processuale aggravata per la trascrizione di una domanda giudiziale, ai sensi dell' art. 96, comma 2, c.p.c. , presuppone l'accertamento dell'inesistenza del diritto oggetto di quest'ultima, nonché l'inosservanza da parte dell'attore della prudenza tipica dell'uomo di media diligenza. Ne consegue che il giudice, investito dell'istanza della parte danneggiata, non può pronunciare su di essa se non abbia preventivamente deciso le questioni di merito attinenti al grado di fondatezza della domanda trascritta ( Cass. civ., s ez. II, 11 aprile 2013, n. 8913 ). Diversamente, l'azione di risarcimento danni in caso di trascrizione illegittimamente eseguita al di fuori dei presupposti previsti dagli artt. 2652 e 2653 c.c. può essere proposta - a differenza dell'istanza risarcitoria per la trascrizione ingiusta (relativa ad una domanda poi risultata infondata) che va presentata, ai sensi dell' art. 96 c.p.c. , allo stesso giudice della causa oggetto di trascrizione - anche in via autonoma ex art. 2043 c.c. , che integra uno strumento idoneo ad assicurare una tutela estesa alla colpa lieve (invece esclusa ai sensi dell' art. 96 c.p.c. ), commisurata alle maggiori responsabilità dell'autore del fatto, e si giustifica per la diversità dell'oggetto dell'accertamento rispetto al giudizio su cui è intervenuta la trascrizione ( Cass. civ., s ez. III, 31 luglio 2015, n. 16272 ; Cass. civ., sez . U. , 23 marzo 2011, n. 6597 ). Ad esempio , ricorre un'ipotesi di trascrizione illegittima quando la pubblicità della domanda sia effettuata per un appezzamento di terreno più grande di quello oggetto della controversia .L' art. 45 l. 18.6.2009, n. 69 , ha introdotto ex novo il comma 3 dell'art. 96 c.p.c. (norma applicabile ai soli processi instaurati successivamente all'entrata in vigore della legge n. 69, come espressamente prescritto dal suo art. 58), in forza del quale «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».Il dibattito si è concentrato sui seguenti aspetti: la natura innovativa della fattispecie di responsabilità aggravata introdotta, la finalità avuta di mira dal legislatore e la funzione della condanna ivi regolata. Sotto il primo profilo è largamente prevalente l'indirizzo che attribuisce alla fattispecie delineata dal terzo comma dell' art. 96 c.p.c. la natura di forma ulteriore di responsabilità processuale introdotta dal legislatore, oltre a quelle già disciplinate dal primo e secondo comma dell'articolo. Quanto alla ratio della novella, l'intervento del legislatore ha il chiaro fine di rivitalizzare l'istituto della responsabilità aggravata, a fronte di una norma che nella sua formulazione originaria è rimasta quasi lettera morta, come da tempo auspicato dalla dottrina. La collocazione sistematica della norma, idealmente in combinato disposto con le altre modifiche apportate agliartt. 91 e92 c.p.c. , appalesa il tentativo di utilizzare la leva dei costi prodotti dal fenomeno processuale al fine di scoraggiare la scelta di litigare apud iudicem, sempre e comunque, in favore degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie. Si cerca così di colpire l'utilizzo abusivo della giurisdizione statuale per la soluzione dei conflitti ovvero di garantirne, lite pendente, un sicuro approdo ad una rapida decisione, scevra da comportamenti dilatori, sleali e scorretti.Con riguardo alla funzione della condanna è discusso se la nuova fattispecie di cui al citato terzo comma si affranchi totalmente dalla tutela risarcitoria per perseguire in via esclusiva uno scopo afflittivo ovvero se ricalchi comunque il modello dell'illecito processuale, in ragione della cui integrazione sia accordato un rimedio riparatorio, a fronte della causazione di un danno. Aderiscono al primo indirizzo le pronunce di merito emesse all'indomani dell'entrata in vigore della novella. Il nuovo comma 3 dell' art. 96 c.p.c. prevede un rimedio che non ha natura meramente risarcitoria ma «sanzionatoria» ed introduce nell'ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l'abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema, traducendosi, dunque, in «una sanzione d'ufficio»(Trib. Pordenone, 18 marzo 2011; cfr. anche Trib. Varese, 21 gennaio 2011 , in relazione al principio del giusto processo exart. 111 Cost. ). Su questa stessa linea direttrice si attesta l'opinione espressa dalla giurisprudenza di merito, in forza della quale il pagamento di una somma di denaro equitativamente determinata, disposto ai sensi dell'innovativa fattispecie di cui al terzo comma dell' art. 96 c.p.c. , non ricade nella categoria dei risarcimenti del danno, bensì in quella degli indennizzi, con precipuo intento sanzionatorio (cfr. Trib. Roma, s ez. dist. Ostia, 9 dicembre 2010 ). Il nodo da sciogliere, relativo alla determinazione della natura della disposizione di cui all'attuale comma 3 dell' art. 96 c.p.c. , è strettamente connesso alla questione inerente all'individuazione del campo di applicazione della fattispecie, in relazione alla fattispecie di cui al primo comma.Sulla questione, la Corte di legittimità ha evidenziato che l' 12 , l. 18 giugno 2009, n. 69 , ha aggiunto il comma 3 all'art. 96 c.p.c. , introducendo una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell'avversario (Cass. civ., s ez. I, 30 luglio 2010, n. 17902 ; analogamente in sede di merito v. Trib. Bari, sez. III, 14 febbraio 2012;Trib. Piacenza , 15 novembre 2011 ;Trib. Milano , 20 maggio 2015 ;Trib. Pistoia , 20 gennaio 2011 ).Nell'ottica della composizione tra aspetto puramente sanzionatorio e relegazione del sistema risarcitorio alla condizione indefettibile della causazione di un danno, derivante dalla condotta incriminata, si è posto un orientamento, per così dire temperato o intermedio, che ha reputato che il pregiudizio che dà luogo alla condanna con scopo marcatamente afflittivo, da cui non si può prescindere, è presunto ovvero può essere argomentato in base ad un ragionamento induttivo: da un lato, il pregiudizio supposto, dall'altro, l'intento punitivo che si manifesta attraverso la condanna alla corresponsione di una somma di denaro a vantaggio delle casse della parte privata vincitrice del giudizio. Aderendo a questa interpretazione, il giudice di merito ha affermato che l a condanna di cui al comma 3 dell' art. 96 c.p.c. ha una duplice funzione, sanzionatoria e risarcitoria, ed è riconducibile alla figura dei punitive (o exemplary) damages del diritto anglosassone. La funzione sanzionatoria è assicurata dalla (possibile) officiosità della condanna e dal fatto che può essere pronunciata in assenza di qualsiasi prova di un danno effettivo; la funzione risarcitoria sarà invece perseguita, in sede di liquidazione della somma, proprio agganciando la quantificazione ai criteri utilizzati per indennizzare il pregiudizio (sia pure presunto) subito dalla parte vittoriosa per aver dovuto agire o resistere in giudizio (Trib. Piacenza , 7 dicembre 2010 ). In questo senso, il vulnus che si consacra in una condanna propriamente punitiva, non già a vantaggio dello Stato bensì della parte vincitrice, anche senza sua esplicita domanda, con liquidazione d'ufficio, sarebbe sanato dalla funzione anfibologica della disposizione, a cui è sotteso un danno ricavabile per via inferenziale (per sussunzione dal fatto noto dell'utilizzo abusivo o emulativo del processo).La condanna ex art. 96, c omma 3 , c.p.c. ha natura anfibologica: lo Stato sanziona mentre il giudice risarcisce. Anfibologia strutturale da intravedere nella doppia anima dell'istituto: resta un risarcimento (copre un danno “presunto” della parte), ma ha funzione sanzionatoria poiché il giudice rende la condanna consapevole degli importanti effetti che essa avrà anche “fuori” dal singolo processo e per rimarcare la disapprovazione per l'utilizzo emulativo dello strumento processuale ( Trib. Varese , 2 ottobre 2012 ). Questa soluzione ha il pregio di riportare l'istituto della responsabilità processuale, anche nella sua ultima versione, nei limiti delle linee-cardine del sistema, il quale subordina l'inflizione di qualsiasi ristoro, anche se in funzione composita, compensativa, solidaristica e sanzionatoria, all'integrazione di un nocumento ingiusto patito dalla vittima, con valenza endo ed eso-processuale. Ma in senso contrario si rileva, con riferimento alla questione se per procedere alla condanna sia o meno richiesta l'esistenza di un danno di controparte, che va esclusa la necessità di un danno di controparte, pur se la condanna è stata prevista a favore della parte e non dello Stato, al probabile fine di rendere effettivo il recupero della somma e quindi l'afflittività della sanzione.; con riferimento alla tematica dell'elemento soggettivo richiesto in capo al destinatario della condanna, pare che possa essere seguita la tesi più garantista, che postula comunque la presenza del requisito della malafede o della colpa grave, non già della sola colpa lieve od addirittura della mera soccombenza; con riferimento alla problematica riguardante l'entità della sanzione monetaria, atteso che la norma non prevede limiti edittali, la soluzione più ragionevole ed utile ad orientare la discrezionalità del giudice è quella che utilizza il parametro delle spese di lite (Trib. Palermo , 23 novembre 2015 ;Trib. Milano , 21 novembre 2013 ).
Ci si è interrogati, inoltre, in sede di merito, sulla necessaria sussistenza dell'elemento soggettivo della mala fede o colpa grave ai fini della responsabilità processuale aggravata ex 3 , c.p.c.
Orientamenti a confronto
La questione è stata definitivamente risolta dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha ritenuto che l'elemento soggettivo espressamente identificato dal primo comma debba valere anche per la responsabilità delineata dal terzo comma, pena l'incompatibilità della norma con i principi dell'ordinamento. ( Cass. civ., sez. VI- II, 11 febbraio 2014, n. 3003; Cass. civ., sez. VI- II, 30 novembre 2012, n. 21570). Proprio perché la previsione introdotta dalla novella del 2009 assurge ad una finalità distinta ed ulteriore rispetto a quella meramente compensativa, sarebbe possibile il cumulo tra la condanna ex art. 96, commi 1 e 3, c.p.c. Che l'eterogeneità tra le due fattispecie ne consenta l'astratto concorso, senza determinare un'indebita duplicazione della medesima responsabilità, è affermato da un filone della dottrina. Allo stesso modo, nel senso della teorica coesistenza tra le due ipotesi si è espressa la giurisprudenza di merito, nella cui motivazione si precisa che la fattispecie di cui all'art. 96, comma 1, c.p.c. avrebbe un'applicazione residuale in quanto la Suprema Corte presuppone la prova di un danno non aliunde risarcito (Trib. Roma, 14 aprile 2015; Trib. Piacenza, 15 novembre 2011). Questa conclusione è, inoltre, argomentata sulla scorta di un appiglio di carattere letterale: l'uso delle locuzioni, in esordio, «n ogni caso» e, prima del riferimento alla condanna, «altresì» lascia intendere che il legislatore abbia voluto configurare la fattispecie di cui al neo-introdotto terzo comma come complementare e, quindi, convergente e concorrente con le fattispecie di cui ai precedenti primo e secondo comma. Secondo una diversa impostazione, invece, pur avendo le fattispecie regolate dal primo e dal terzo comma una loro propria identità ed autonomia, la loro coesistenza sarebbe inammissibile, poiché altrimenti si giungerebbe ad una duplicazione ingiustificata del medesimo titolo. Infatti, le citate fattispecie sono pur sempre riconducibili alla comune fonte della responsabilità aggravata. Cosicché, disposta la condanna ai sensi del primo comma, sarebbe preclusa l'ulteriore condanna ai sensi del terzo comma, pena l'ingiusta penalizzazione del soccombente, estesa a dismisura, e l'indebito arricchimento del vincitore. Il divieto del concorso tra le due fattispecie è altresì spiegabile alla stregua della riconduzione anche dell'ipotesi di cui al terzo comma ad una natura riparatoria, sebbene a fronte di un danno presunto, con più marcata accentuazione dell'aspetto comminatorio. Benché la fattispecie, i cui contorni sono delineati dal terzo comma dell'art. 96 c.p.c., sia connotata da una valenza sanzionatoria più marcata, il beneficiario della condanna è pur sempre la parte vincitrice del giudizio e non lo Stato. Il che suffraga, non già di per sé ma unitamente ad altri elementi (vedi gli aspetti letterali di aggancio alle fattispecie di cui ai commi precedenti), la collocazione sistematica della norma pur sempre nell'alveo della tutela risarcitoria con funzione composita. Il risarcimento ex art. 96 c.p.c. deve essere riconosciuto alla controparte (e non all'Erario), anche se questa sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato (Trib. Milano, 13 febbraio 2013). Sul punto è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell' art. 96, comma 3 , c.p.c. per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. nella parte in cui dispone che la condanna, anche d'ufficio, della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata sia prevista a beneficio della controparte, anziché a favore dell'Erario ( Trib. Firenze , ord. , 16 dicembre 2014 ), questione tuttora pendente. Nel caso di condanna, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., la possibilità che la liquidazione sia disposta in via equitativa, senza che il legislatore fissi alcun limite edittale, impone comunque il riferimento a parametri orientativi di quantificazione al fine di impedire che il potere riconosciuto dalla disposizione si traduca in un autentico arbitrio, esorbitante rispetto allo scopo che la norma intende perseguire. Nondimeno, non sussiste unanimità di opinioni in ordine all'individuazione di detti parametri.
Orientamenti a confronto
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