Violazione del dovere di vigilanza e responsabilità del collegio sindacale
21 Giugno 2016
Massima
I membri del collegio sindacale di una società quotata, avente ad oggetto attività di investimento hanno, da un lato, il dovere di vigilare sugli organi amministrativi e gestionali della società per salvaguardare gli interessi degli azionisti da atti di abuso di gestione da parte degli amministratori e, dall'altro, quello di verificare l'adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società stessa, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare a garanzia degli investitori; essi hanno altresì l'obbligo di denunciare alla Consob eventuali irregolarità riscontrate nell'esercizio di tale dovere. In caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo "quoad functione", per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, senza che la complessa articolazione della struttura organizzativa della società possa comportare l'esclusione o il semplice affievolimento del loro potere-dovere di controllo. Il caso
Il presidente e i membri del collegio sindacale di una società di investimento quotata in Borsa, hanno proposto ricorso per Cassazione contro la sentenza della Corte d'Appello di Milano del 23 aprile 2013 che aveva parzialmente confermato il contenuto della delibera Consob n. 18369 del 7 novembre 2012 in forza della quale, ex art. 195, comma 1, D.Lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 (“TUF”), erano stati condannati al pagamento delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 193, comma 3, del T.U.F. per non aver vigilato sulla adeguatezza della struttura organizzativa della stessa, sulla affidabilità dei sistemi di controllo interno e amministrativo-contabile dal 2008 al 2010 e sulle modalità di concreta attuazione delle regole di governo societario, previste da codici di comportamento ai quali la società, mediante informativa al pubblico, aveva dichiarato di attenersi. In particolare, nonostante l'attestazione rilasciata dal collegio sindacale circa la correttezza dell'operato del consiglio di amministrazione e l'adeguatezza dei sistemi di controllo interno, amministrativo e contabile, nel corso di accertamenti ispettivi, erano emerse operazioni rischiose poste in essere da soggettivi privi dei necessari poteri, irregolarità nel trattamento dei documenti di spesa e carenze di presidi e controlli sul sistema delle deleghe e sulle iniziative dell'Organismo di Vigilanza, istituito ex art. 6 del D.Lgs. 231/2001. I ricorrenti hanno contestato l'addebito per omesso controllo sulla base di una responsabilità oggettiva, asserendo l'inesigibilità dei doveri di vigilanza in presenza di comportamenti degli amministratori volti ad occultare dolosamente la violazione delle regole di accorta gestione societaria, della quale non erano a conoscenza prima che fossero accertati. I ricorrenti hanno altresì lamentato che l'obbligo di comunicazione scatta solo in presenza di irregolarità accertate e non di sospetti da verificare sulla base di indagini. I sindaci hanno ulteriormente articolato le proprie difese sostenendo che l'obbligo di vigilanza non si sostanzia nella valutazione della opportunità e convenienza delle scelte gestionali ma, piuttosto, nella verifica del rispetto della legge e dell'atto costitutivo e che i sindaci non operano come ausiliari o per conto della Consob ma a tutela degli interessi della società. La questione
La questione giuridica risolta dalla Cassazione riguarda la responsabilità civile del collegio sindacale per violazione del dovere di vigilanza e, in particolare, il contenuto di tale dovere, gli interessi che è volto a tutelare e i limiti relativi. Le soluzioni giuridiche
L'art. 149, comma 1, T.U.F. specifica il contenuto dell'obbligo di vigilanza dei sindaci di società quotate in base al quale questi ultimi devono garantire l'osservanza della legge e dell'atto costitutivo, il rispetto dei principi di corretta amministrazione, l'adeguatezza della struttura organizzativa della società, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo contabile e l'affidabilità di quest'ultimo nel rappresentare correttamente i fatti di gestione, le modalità di concreta attuazione delle regole di governo societario previste da codici di comportamento, cui la società, mediante informativa al pubblico, dichiara di attenersi. I doveri sopra indicati integrano quelli previsti dall'art. 19 del D.Lgs. 39/2010 per il collegio sindacale nella sua veste di comitato per il controllo interno e la revisione contabile. In base al comma 3 del summenzionato art. 149 T.U.F., sui sindaci grava altresì un obbligo legale di denuncia alla Consob laddove riscontrino delle irregolarità nell'espletamento della attività di vigilanza a cui sono tenuti. Il collegio sindacale assume dunque la funzione di garante della legittimità della gestione e dell'osservanza dei principi di corretta amministrazione per la salvaguardia degli interessi degli azionisti contro atti di abuso di gestione degli amministratori. Ciò non si traduce in una valutazione della opportunità delle scelte sociali interne (che appartengono alla sfera di discrezionalità imprenditoriale degli amministratori: G. Gasparri, I controlli interni nelle società quotate, Gli assetti della disciplina italiana e i problemi aperti, in Quaderni Giuridici della Consob, 2013, 60) ma neppure si esaurisce in una mero controllo contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori dovendo al contrario comprendere il riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione (Cass. Pen., n. 8327/1998). Il dovere di controllo si pone in rapporto di genus a species rispetto all'obbligo di vigilare sulla adeguatezza della struttura organizzativa e delle metodologie finalizzate al controllo interno della società, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob a garanzia degli investitori (Cass. Civ., n. 20934/2009, in in Foro it., 2010, 11, I, 3128 (s.m.) con nota di Casoria). Il T.U.F. prevede un complesso sistema di scambi informativi e rapporti interorganici per consentire ai sindaci di adempiere ai propri obblighi di vigilanza, sintetizzato dagli artt. 149, comma 2, 150 e 151. Tale composita architettura organizzativa si completa con l'organismo di vigilanza (OdV) introdotto dal D.Lgs 231/2001 che ha altresì previsto la responsabilità amministrativa degli enti a meno che questi ultimi non riescano a dimostrare la sussistenza di un'adeguata ed efficiente struttura di “legalità aziendale” (Alessandri, La “vocazione penalistica” dell'OdV e il suo rapporto con il modello organizzativo in Aa.Vv., (a cura di Bianchini e Di Noia), I controlli societari. Molte regole, nessun sistema, Milano, 2010, 44 ss.). Se i sindaci non adempiono all'obbligo di vigilanza e dagli accertamenti ispettivi emergono delle irregolarità poste in essere dagli organi amministrativi e gestionali che hanno prodotto un danno, i sindaci ne dovranno rispondere a titolo di concorso omissivo laddove sussista un nesso di causalità fra i fatti degli amministratori e l'omissione della doverosa attività di controllo che avrebbe potuto impedire l'evento. In questo ultimo caso ai sindaci si applicheranno le sanzioni amministrative previste dall'art. 193, comma 3, lettera a) del T.U.F. Al fine di applicare le suddette sanzioni, l'amministrazione procedente è tenuta a provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria (i.e. l'elemento oggettivo dell'illecito), in particolare, è tenuta a fornire la prova della condotta illecita, che può essere offerta anche mediante presunzioni semplici, per effetto delle quali, nel caso di illecito omissivo, ricade sul soggetto ritenuto responsabile l'onere di fornire la prova di aver tenuto la condotta attiva dovuta oppure dimostrare la sussistenza di elementi tali da rendere inesigibile il comportamento attivo. L'intimato è facoltizzato a dare la prova di fatti impedienti ovvero di fatti tali per cui anche la piena osservanza dei doveri di controllo, in ogni suo aspetto, non sarebbe servita a conoscere ed evitare le condotte trasgressive altrui ma deve trattarsi di fatti “non smascherabili attraverso gli ordinari flussi informativi” e i rapporti interorganici sopra citati (Cass. Civ., n. 20930/2009, in Foro it., 2010, 11, I, 3128 (s.m.)con nota di Casoria). Inoltre i sindaci hanno l'onere di provare che l'inosservanza dell'obbligo di comunicare senza indugio e in modo completo alla Consob le irregolarità riscontrate sia dipesa da impossibilità dovuta a caso fortuito o forza maggiore. Nel caso oggetto della sentenza qui commentata, i ricorrenti hanno sostenuto l'inesigibilità dei doveri di vigilanza e, conseguentemente, la loro incolpevolezza sul presupposto che gli organi amministrativi avevano posto in essere comportamenti “mirati ad occultare dolosamente la violazione delle regole di un'accorta gestione societaria, della cui esistenza essi non erano a conoscenza prima che fossero accertati”. La Corte di Cassazione, riprendendo alcuni dei principi enunciati dalle numerose sentenze delle sezioni unite depositate il 30/9/2009 in materia di intermediari finanziari e, in particolare dalla sentenza n. 20934, ha replicato che l'omissione di vigilanza, ancorché ontologicamente incompatibile con l'effettiva rappresentazione degli illeciti da impedire, è perfettamente compatibile con la loro "rappresentabilità" e, dunque, con la colpa. In sostanza, la Suprema Corte, ha sottolineato che non aver appreso ciò che si sarebbe potuto conoscere, se il dovere di vigilanza fosse stato adempiuto, fonda un addebito di colpa non occorrendo, per la configurabilità di tali illeciti, la prova che il "garante primario" conoscesse in concreto ogni aspetto dell'attività posta in essere dai "garanti secondari", essendo viceversa sufficiente la sola "potenzialità di conoscenza", legittimamente destinata a presumersi, salva la prova di fatti impedienti. In sostanza non è necessario che i sindaci individuino specifici comportamenti illeciti posti in essere dagli amministratori dal momento che, per fondare la loro responsabilità, è sufficiente il fatto di non aver rilevato una macroscopica violazione o non aver reagito in alcun modo, ponendo in essere tutti gli atti necessari all'adempimento dell'incarico con diligenza, correttezza e buona fede (Cass. Civ. n. 24362/2013). Tuttavia, occorre sottolineare che la sentenza in commento omette di ricordare come quella delle Sezioni Unite della Cassazione del 30/9/2009 n. 20930 citata, tra i fatti impedienti per i quali anche la piena osservanza dei doveri di controllo non sarebbe servita a conoscere ed evitare le condotte trasgressive, cita espressamente l'ipotesi di doloso camuffamento dello scorretto operare da parte dei delegati. Per quanto riguarda l'elemento soggettivo dell'illecito, la legge n. 689/1981, che si applica a tutte le sanzioni amministrative, all'art. 3, sotto la rubrica appunto “elemento soggettivo” dispone che “nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”, applicando il principio della natura personale della responsabilità, tipico della responsabilità penale (cfr. art. 27, 1 comma, Cost), alla fattispecie soggettiva dell'illecito amministrativo. Tale principio, secondo la giurisprudenza, deve essere inteso nel senso della sufficienza della coscienza e volontà della condotta, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo e della colpa, atteso che la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l'onere di provare di aver agito senza colpa (Cass. Civ., n. 10508/1995, in Dir. industriale 1996, 25 con nota di Lamandini). Il principio sembra essere riaffermato dal T.U.F. che, in conformità al principio di cui all'art. 3 della legge n. 689/1981, prevede una presunzione iuris tantum di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che, nel rivestire una delle cariche che la legge contempla come costitutive dell'obbligo di tenere un comportamento diverso, lo abbia commesso o non lo abbia impedito, riservando a quest'ultimo l'onere di provare di aver agito incolpevolmente (Cass. Civ., n. 20934/2009, cit.). In particolare, per quanto concerne il contenuto degli illeciti omissivi impropri, o commissivi mediante omissione, il dovere di diligenza e l'obbligo di impedire l'evento finiscono per coincidere: per impedire il verificarsi di determinati eventi, il garante è tenuto a fare quanto gli è imposto dall'osservanza delle regole di diligenza dettate dalla situazione particolare (Cass. Civ. n. 20934/2009, cit., 3186). Pertanto, una volta integrata e provata la fattispecie tipica dell'illecito, al fine di escludere l'elemento psicologico e, dunque, la punibilità della omissione, i sindaci dovranno provare che essa sia dipesa da caso fortuito o forza maggiore (Cass. Civ. n. 20934/2009, cit., 3187.Parte della dottrina ha criticato questa impostazione sostenendo che “le previsioni espresse di presunzione di colpa a carico dell'agente, contenute nella Legge 689/1981, art. 2, comma 2, e art. 6, commi 1 e 2, dimostrerebbero che, se il legislatore si è preoccupato di esplicitare per specifici casi che il sanzionando è tenuto a provare l'assenza di colpa nella sua condotta, con queste eccezioni si è voluto implicitamente confermare la regola generale rappresentata dalla presunzione di non colpevolezza”. La stessa dottrina, con riferimento specifico al T.U.F., ha affermato che la tesi tradizionale condurrebbe a concludere che la sola circostanza di ricoprire una delle cariche previste dalla legge sarebbe sufficiente a fondare la sussistenza del requisito soggettivo dell'illecito configurando una vera e propria responsabilità oggettiva). Il principio della natura personale della responsabilità posto dall'art. 3 della legge n. 689/1981 deve essere coordinato con gli illeciti “di mera trasgressione” posti anche dall'art. 149 del T.U.F. e con la attuale realtà macro-societaria in cui opera la persona fisica, inserita in una fitta rete di rapporti che collega i diversi livelli dell'organizzazione aziendale. In particolare, l'art. 149 del T.U.F. disciplina una serie di fattispecie delle quali i sindaci sono chiamati a rispondere per omesso o tardivo esercizio dei doveri di vigilanza, incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di doverosità, rispetto alle quali è impossibile individuare un'intenzione o una negligenza nell'azione. Tale criterio di doverosità àncora il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico. Come sopra precisato, infatti, in queste fattispecie, l'azione, esaurendosi in una mera trasgressione, si identifica con la condotta inosservante (la c.d. “suitas”) che è neutra sotto il profilo del dolo o della colpa. Pertanto, sia in caso di illecito monosoggettivo che in caso di concorso omissivo nell'illecito, dal momento che non è possibile inferire l'atteggiamento psicologico del dolo o della colpa, lo si presume entro la suità (la suitas) della condotta inosservante. Il problema della prova dell'atteggiamento psicologico, è idonea a fondare, secondo le sezioni unite della Corte di Cassazione, la legittimità della presunzione di colpa e l'inversione dell'onere probatorio. Con la conseguenza che, una volta integrata e provata dall'autorità amministrativa la fattispecie tipica dell'illecito, sarà l'autore – presuntivamente colpevole ai sensi dell'art. 3 della Legge 689/1981 – a dover provare le circostanze anomale, impeditive di un giudizio di riprovevolezza, non potendo essere chiamato ad impossibilia. Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, sempre riprendendo i principi enunciati dalle sezioni unite nella sentenza n. 20934, ha escluso che la complessa articolazione della struttura organizzativa di una società di investimenti possa comportare l'esclusione o anche solo il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo dei membri del collegio sindacale proprio perché, come sopra chiarito, essi sono tenuti, a garanzia degli investitori, a verificare l'adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno di tale complessa articolazione e, in caso di accertate irregolarità, a denunciarle alla Consob. Tale adempimento non è subordinato ad una valutazione discrezionale dei sindaci né all'accertamento, da parte loro, dei requisiti oggettivi e soggettivi di una violazione della legge o dell'atto costitutivo ovvero del mancato rispetto, da parte degli organi sociali, dei principi di corretta amministrazione o dell'adeguatezza della struttura organizzativa della società. Infatti, la norma si limita a richiedere ai sindaci il riscontro delle irregolarità da cui consegue, come corollario, l'obbligo di comunicazione alla Consob (Cass. Civ. n. 3251/2009).
Osservazioni
I membri del collegio sindacale di una società quotata devono adempiere agli obblighi di vigilanza posti dall'art. 149 del T.U.F. con la diligenza e la professionalità richiesta dalla natura dell'incarico. Laddove i sindaci non vi adempiano e emergano delle irregolarità poste in essere dagli organi amministrativi da cui derivi un danno, i sindaci ne dovranno rispondere a titolo di concorso omissivo laddove sussista un nesso di causalità fra i fatti degli amministratori e l'omissione della attività di controllo a meno che i sindaci provino che l'omissione sia dipesa da caso fortuito o forza maggiore. Non vale ad escludere la responsabilità dei sindaci il fatto che gli amministratori abbiano occultato dolosamente la violazione delle regole di un'accorta gestione societaria perché è sufficiente a fondare la loro colpa la mera "rappresentabilità" degli illeciti senza che sia necessario che essi conoscano in concreto ogni aspetto dell'attività posta in essere dai "garanti secondari". Non vale altresì ad escludere la responsabilità dei sindaci la complessa articolazione della struttura organizzativa della società in cui operano perché essi sono tenuti, a garanzia degli investitori, a verificare l'adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno di tale complessa articolazione e, in caso di accertate irregolarità, a denunciarle alla Consob. |