Piove sul bagnato: può l’omesso versamento di imposte e contributi diventare bancarotta fraudolenta?
24 Ottobre 2014
Massima
Gli inadempimenti tributari e previdenziali ben possono rientrare nelle operazioni dolose che cagionano il fallimento, tali da integrare l'ipotesi di bancarotta di cui all'art. 223 l. fall. In dette operazioni infatti rientrano tutti gli atti intrinsecamente pericolosi per la salute economica e finanziaria dell'impresa e dunque anche le condotte omissive di mancato adempimento alle obbligazioni tributarie e previdenziali, che accrescono l'indebitamento della società in conseguenza dell'accumularsi di interessi e sanzioni sulle somme non versate. Il caso
Con la sentenza n. 42811, depositata il 13 ottobre, la sez. V della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un imprenditore che si lamentava della ritenuta valenza, ad opera dei giudici di merito, dell'omesso versamento di imposte e contributi previdenziali quale ipotesi di bancarotta in conseguenza dell'intervenuto fallimento della società. Mentre i mass-media ed invero anche la giurisprudenza di merito e di legittimità, ormai da un paio di anni, si interrogano sulla rilevanza che la crisi di impresa e quindi una situazione di insolvenza possa avere nell'esonerare o meno da responsabilità penale per i reati tributari l'imprenditore che, per tali ragioni, ometta di versare le ritenute, i contributi, ovvero le imposte, la Suprema Corte lancia un ulteriore pesante monito in chiave repressiva.
Nel caso in cui, avverte la Cassazione, alla situazione di crisi dell'impresa consegua il fallimento della società, le omissioni di versamenti di contributi ed imposte potranno integrare quelle «operazioni dolose che cagionano il fallimento della società» menzionate nell'art. 223 l. fall. e dunque ipotesi di bancarotta fraudolenta. Poiché infatti, osservano gli Ermellini, le operazioni dolose di cui all'art. 223 l. fall. ben possono essere integrate da condotte omissive ed in esse rientrano tutti gli atti intrinsecamente pericolosi per la salute economico-finanziaria della impresa, non vi è alcun dubbio che, fra le stesse, siano annoverabili gli omessi versamenti di contributi ed imposte, che, come noto, espongono la società al conseguente obbligo di pagare, oltre dette somme, gli interessi e le pesanti sanzioni amministrative conseguenti alle omissioni. Laddove, poi, tali omissioni abbiano il carattere della sistematicità, non può esservi dubbio, per la Cassazione, della penale responsabilità anche per bancarotta fraudolenta ex art. 223 l. fall. dell'imprenditore. Non resta che constatare come il vigente sistema legislativo italiano e con esso l'interpretazione giurisprudenziale abbiano creato, con il passare degli anni, un sistema repressivo a fronte degli omessi versamenti di contributi previdenziali e tributari, tale da dare luogo ad un vero e proprio cortocircuito sanzionatorio. Chi infatti ometta di versare imposte e contributi si troverà in primis assoggettato al rischio delle sanzioni amministrative ed agli interessi di mora, in secondo luogo, laddove l'inadempimento permanga e attinga determinate soglie, al rischio delle sanzioni penali di cui agli artt. 10-bis e 10-ter d.lgs. n. 74/2000 ed al conseguente sequestro per equivalente finalizzato alla confisca, la cui natura sanzionatoria è stata definitivamente riconosciuta, ed infine, nel caso di successiva dichiarazione di fallimento, anche a dover rispondere di bancarotta fraudolenta.
Una vera e propria escalation sanzionatoria ed una evidente duplicazione di sanzioni penali ed amministrative ora legittimata dalle pronunce a Sezioni Unite n. 37424/2013, in tema di omesso versamento IVA, e n. 37425/2013, in tema di omesso versamento di ritenute, con le quali si è chiarito che tra le sanzioni amministrative per omesso versamento IVA e di ritenute certificate e le norme sanzionatorie penali non intercorre alcun rapporto di specialità (con conseguente applicabilità della sola sanzione penale ex art. 19 d.lgs. n. 74/2000), bensì di “progressione” per la maggior gravità della fattispecie penale, con conseguente applicabilità di entrambe le sanzioni. All'omesso versamento di imposte (i.e. IVA) potrà dunque, in ipotesi, conseguire: l'applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, la sanzione penale di cui all'art 10-ter, la confisca per equivalente ed ora, in caso di fallimento, la pena per il delitto di bancarotta fraudolenta. Ad un fatto, sostanzialmente unico sotto il profilo naturalistico, vengono fatte conseguire ben quattro sanzioni. Il semaforo rosso della CEDU
Un freno a tale deriva sanzionatoria potrebbe giungere, come ultimamente spesso accade, dalla giurisprudenza comunitaria. La sentenza del 4 marzo 2014 della CEDU, nota come sentenza Grande Stevens, ha infatti affermato il principio del ne bis in idem processuale fra le sanzioni penali e le sanzioni amministrative riconducibili alla materia penale, a prescindere dalla differente qualificazione alle medesime fornite dal paese membro.
Secondo la giurisprudenza comunitaria, l'identità del fatto sul piano storico naturalistico importa il ne bis in idem processuale ed il conseguente divieto di punire due volte il medesimo fatto con sanzioni di natura penale, ricomprendendosi in tale concetto anche le sanzioni punitive qualificate come amministrative dall'ordinamento interno. Orbene, come noto, detto principio è stato esteso dalla Corte CEDU, con la sentenza del 20 maggio 2014, Nykänen, anche alla materia fiscale chiarendo che le sanzioni amministrative tributarie, quando hanno una finalità non solo risarcitoria, ma punitiva, sono riconducibili alla materia penale, con conseguente operatività anche in tale campo del divieto di bis in idem processuale. La materia del concorso delle sanzioni nel diritto interno italiano, venuta meno la pregiudiziale tributaria, è regolata, invero, dall'art. 19 d.lgs. n. 74/2000 (che prevede il principio di specialità con prevalenza della sanzione penale).
Tuttavia, proprio per effetto delle due recenti sopra menzionate pronunce a Sezioni Unite (n. 37424/2013 e n. 37425/2013) non si applica il principio di specialità di cui all'art. 19, con conseguente cumulo e applicabilità di entrambe le sanzioni (penali ed amministrative). Tuttavia, la tensione di tale situazione con il sistema pattizio pare essere evidente ed è in conseguenza assai probabile che la giurisprudenza comunitaria ravviserà, nei casi in esame, una evidente violazione del ne bis in idem processuale, in quanto il processo penale è volto alla irrogazione di una seconda sanzione in materia penale per il medesimo fatto (il mancato pagamento dell'IVA o delle ritenute) che si protrae nel tempo e supera una determinata soglia, già sanzionato in via amministrativa. Ben più difficile, invece, che detto ragionamento possa estendersi al caso in esame, laddove la sanzione, invero assai grave, prevista dalla fattispecie di cui all'art. 223 l. fall. viene correlata al fallimento della società, che è fatto naturalistico indubbiamente diverso ed ulteriore rispetto all'omesso versamento, e che lede gli interessi patrimoniali dei creditori e non l'interesse dell'Amministrazione Finanziaria dello Stato all'incasso di imposte e contributi. Resta, dunque, la problematica del moltiplicarsi di sanzioni penali di fronte alla medesima originaria condotta e alla pluralità di conseguenza che ne derivano, che forse solo la, da tempo, auspicata riforma del diritto penale fallimentare potrebbe definitivamente chiarire e risolvere. |