Fallimento del socio ed esclusione automatica dalla società di persone: note sull’art. 2288 c.c.

Salvo Leuzzi
30 Giugno 2015

La dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile di società di persone determina la sua esclusione di diritto dalla società, ai sensi dell'art. 2288 c.c.
Massima

La dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile di società di persone determina la sua esclusione di diritto dalla società, ai sensi dell'art. 2288 c.c. - applicabile, come nella specie, ex art. 2293 c.c., alla società in nome collettivo - ed il bilanciamento tra la tutela della società e la massa creditoria del fallimento del socio si realizza, da un lato, evitando alla società l'eventualità pregiudizievole di avere il fallimento nella compagine e precludendo al fallimento di vendere la quota in via esecutiva; dall'altro, nel rendere oggetto della massa attiva fallimentare il credito di liquidazione della quota.

In una società di persone, la situazione patrimoniale da assumere, ai sensi dell'art. 2289 c.c., a base della liquidazione della quota di un socio uscente non può essere redatta - a differenza di quanto si pratica in caso di recesso da una società per azioni - facendo riferimento all'ultimo bilancio o, comunque, ai criteri di redazione del bilancio annuale di esercizio, ma occorre tener conto dell'effettiva consistenza al momento della uscita del socio, sicché, ai fini della determinazione del valore dell'avviamento - la cui rilevanza, quale elemento del patrimonio sociale, si proietta nel futuro, traducendosi nella probabilità, pur fondata su elementi presenti e passati, di maggiori profitti per i soci superstiti -, vanno considerati non solo i risultati economici della gestione passata ma anche le prudenti previsioni della futura redditività dell'azienda.

Il caso

Un socio, dichiarato fallito, veniva escluso di diritto da una s.n.c.. Egli proponeva, pertanto, opposizione avverso la deliberazione di esclusione dalla società, domandando la condanna di quest'ultima al risarcimento dei danni in suo favore. Successivamente, i soci della s.n.c. deliberavano la trasformazione di essa in s.p.a. Il socio estromesso si opponeva anche avverso detta deliberazione.

Nondimeno, le sue domande venivano rigettate dal Tribunale di Torre Annunziata, che riconosceva in capo al socio fallito unicamente il diritto di credito correlato alla liquidazione della quota.

Tale decisione del giudice di primo grado trovava conferma in appello. Avverso la decisione emessa dal giudice del gravame, il socio fallito proponeva ricorso per cassazione, cui resiste con controricorso la s.p.a.

Con l'unico motivo di censura il socio ha chiesto se l'esclusione di diritto da una società di persone, collegata dall'art. 2288, comma 1, c.c. alla dichiarazione di fallimento di un socio, debba essere ritenuta efficace, non dalla data della sentenza dichiarativa di fallimento, ma solo dal momento in cui la società in bonis compia atti a rilevanza esterna, ovvero da quello in cui il patrimonio della società in questione sia fatto oggetto di azioni o pretese da parte del fallimento del socio e se, di conseguenza, la chiusura del fallimento per l'estinzione del passivo dichiarata prima dell'efficacia dell'esclusione sancita dall'art. 2288, primo comma, c.c. ne comporti o meno applicabilità.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, osservando come, in particolare, la giurisprudenza invocata dal ricorrente sia del tutto estranea al thema decidendum, concernendo la questione relativa agli effetti del fallimento delle società di persone ai fini dell'applicazione degli artt. 10 e 147 L.F.. I giudici di legittimità hanno, pertanto, ribadito il principio in base al quale l'esclusione del socio fallito opera di diritto, sì che correttamente la Corte di merito ne ha fatto risalire gli effetti al momento del deposito della sentenza di fallimento.

Le questioni giuridiche e la soluzione

La Corte di Cassazione, nella sentenza annotata, puntualizza che l'esclusione di diritto del socio ai sensi dell'art. 2288 c.c. costituisce il mezzo attraverso il quale si attua la estromissione dalla società del socio, la cui partecipazione, per cause afferenti la sua persona o il suo apporto o dipendenti dal suo comportamento, non può essere ulteriormente consentita, essendosi radicalmente modificate le basi sostanziali della sua originaria partecipazione.

La legge prevede, come cause di esclusione che operano automaticamente, e cioè senza necessità di una deliberazione dei soci o di una sentenza – giustappunto – la liquidazione della quota del socio su richiesta dei creditori particolari di lui e la dichiarazione di fallimento del socio, ex art. 2288 c.c., quest'ultima ipotesi ricorrente nel caso di specie.

In tali situazione, a ben guardare, non è neppure parlare di esclusione in senso tecnico: l'estromissione del socio, invero, non dipende affatto dalla volontà degli altri soci, bensì dalla richiesta dei creditori particolari o dalla dichiarazione di fallimento, situazione per effetto delle quali, anche a prescindere dalla esclusione, la quota del socio deve essere liquidata.

La società pertanto non può che limitarsi sic et simpliciter ad una eventuale presa d'atto di ciò che accade ope legis, al di fuori della (e a prescidenre dalla) sua volontà.

Con ogni evidenza, queste cause di cosiddetta esclusione operano soltanto in quanto sussista un diritto dei creditori particolari del socio a chiedere la liquidazione della quota. Soltanto su questa base la dichiarazione di fallimento del socio può essere riguardata come causa di esclusione.

Giova allora considerare che l'“uscita” del socio dalla società, quale che ne sia la causa determinante, esige la definizione dei suoi rapporti con società, proprio mediante la liquidazione della quota del socio uscente. Ed il principio essenziale sta in ciò, che il socio uscente o i suoi eredi non sono titolari del diritto ad ottenere una quota proporzionale dei beni, ma esclusivamente ad una somma di denaro che ne rappresenti il (contro)valore, avuto riguardo alla situazione patrimoniale registrabile nel giorno in cui il rapporto – automaticamente, nel caso dell'art. 2288, comma 1°, c.c. – si scioglie, giorno coincidente con quello del deposito della sentenza di fallimento.

Il pagamento della quota dovrà avvenire, peraltro, nel termine di sei mesi da tale data, sicché, se nel frangente dello scioglimento del rapporto tra socio e società, sussistono operazioni in corso, non può che tenersi conto dei risultati positivi o negativi di dette operazioni, rettificando alla loro stregua la determinazione del valore se del caso eseguita.

Sull'aspetto da ultimo segnalato, la sentenza in commento richiama un assai risalente pronuncia di legittimità (Cass. Civ., sez. I, n. 2772/1969), precisando che, ai fini della redazione della situazione patrimoniale suscettibile d'essere assunta a base della valutazione della quota di un socio uscente, non è possibile far riferimento – diversamente da quanto è praticabile, ai tenore dell'art. 2437 c.c., in ipotesi di recesso da una società per azioni – all'ultimo bilancio o, in ogni caso, ai criteri previsti per la redazione del bilancio annuale di esercizio. Di contro, è d'uopo aver riguardo alla effettiva consistenza della quota al momento della uscita del socio. In tal senso, tenuto conto che l'avviamento è elemento del patrimonio sociale idoneo a tradursi nella probabilità di maggiori profitti per i soci superstiti, nella determinazione del valore di detto bene debbono tenersi in conto non solo i risultati economici della gestione pregressa, ma anche le prudenti previsioni della futura redditività dell'azienda.

Ciò detto, la pronuncia in commento richiama, altresì, la sentenza datata 24 marzo 2011, n. 6734, con la quale la Suprema Corte ha osservato che, sebbene l'operatività di diritto dello scioglimento del rapporto sociale si possa riferire temporalmente al momento stesso della dichiarazione di fallimento, nondimeno i suoi effetti definitivi non si verificano fino a quando la quota del fallito non venga liquidata ad istanza di qualunque interessato, ovvero fino a quando nella società di due soci non sia stata compiuta la liquidazione della società. In buona sostanza, fintantoché uno dei narrati due eventi non si concretizzi, l'esclusione del socio non può dirsi compiuta, sicché qualora la sentenza dichiarativa di fallimento venga revocata, la revoca investe la situazione concessa all'esclusione di diritto ponendola nel nulla, come se essa non fosse mai venuta a giuridica esistenza.

I giudici di legittimità, pertanto, richiamando nel decisum la pronuncia n. 6437 del 24 marzo 2011, ribadiscono l'essenziale principio in esso espressa ( su cui v. diffusamente infra), nonostante chiariscano che detto principio riferendosi alla diversa ipotesi della chiusura del fallimento, non applicabile al caso de quo.

Osservazioni

Vi sono due ipotesi in cui l'esclusione del socio non dipende dalla volontà degli altri partecipanti al sodalizio, rimanendo determinata da circostanze esterne. Ambedue le ipotesi sono regolate dai due commi dell'art. 2288: il primo caso è quello del socio fallito che automaticamente viene escluso come conseguenza del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti; il secondo è quello del socio la cui quota sociale sia stata liquidata su richiesta del suo creditore particolare.

Nel dettaglio, l'art. 2288 c.c. prevede l'estromissione di diritto del socio dalla società semplice tanto allorché costui sia stato dichiarato fallito, tanto allorché abbia subìto la liquidazione della quota ad opera di un terzo creditore, secondo le modalità scandite dall'art. 2270 c.c.

Secondo l'art. 2288, comma 1, c.c., dettato in tema di società semplice, «è escluso di diritto il socio che sia dichiarato fallito». È un eventualità che tipicamente si ravvisa quando il socio fallisca in relazione all'esercizio di un'impresa individuale, ovvero in conseguenza del fallimento di un'altra società di persone di cui faccia parte con responsabilità illimitata (in quest'ultimo caso, il fallimento del socio è disposto ai sensi dell'art. 147, comma 1, L.F.).

L'esclusione in parola si produce di diritto nel momento in cui è dichiarato il fallimento del socio ed è inderogabile pattiziamente, trattandosi di norma imperativa. Una pronuncia, se del caso adottata dagli altri soci sul punto, varrebbe quindi alla stregua di mera presa d'atto.

Le cause di scioglimento del rapporto previste dall'art. 2288 sono tassative ed operano automaticamente (Ferri, Le società, in Tratt. Vassalli, Torino, 1985, 292), in quanto determinano il radicale venir meno delle ragioni obiettive della partecipazione sociale (Cottino, Diritto commerciale, I, 2, 4a ed., Padova, 1999, 151). Il fallimento di un socio ha inevitabili ripercussioni pregiudizievoli sull'attività comune; con la liquidazione della quota cessa, pertanto, il presupposto stesso della partecipazione (Ferrara, Corsi, Gli imprenditori e le società, 12a ed., Milano, 2001, 297).

La regola generale dell'art. 149 L.F.

Una regola generale in tema di fallimento di società di persone è fissata dall'art. 149 L.F.: il fallimento di un socio illimitatamente responsabile non produce il fallimento di altra società, di cui il primo sia egualmente socio.

Non si tratta di una disposizione pleonastica o inutile al cospetto del dettato dell'art. 2288 c.c., de quale aiuta a segnare rigorosamente i margini obiettimi (v. infra). La ragione della norma della legge fallimentare si rinviene allora nella carenza di quel vincolo indissolubile di responsabilità e di sostanziale comunanza di sorte economica, che si riscontra invece fra società e impresa personale del singolo socio nell'ipotesi dell'art. 147 L.F., per cui, almeno da un punto di vista logico, la regola dell'art. 149 non costituisce applicazione del principio desumibile dall'art. 2288 c.c, ponendosi, per converso, quale principio del tutto distinto, che non concerne la vicenda interna della società, bensì i riflessi su quest'ultima di un'insolvenza relativa ad altra impresa.

L'art. 149, a ben vedere, è perfettamente coerente con il sistema, nel senso che anche quando la società non abbia personalità giuridica, il suo patrimonio sociale resta autonomo, e perciò va distinto con nettezza da quello personale dei soci, con la conseguenza che l'eventuale stato d'insolvenza del patrimonio del singolo socio è di per sé improduttivo di effetti nei confronti della società.

La ratio dell'art. 2288 c.c.

Alcuni punti saldi, pur nella varietà delle opinioni, attengono alla ricostruzione della ratio della disposizione.

La giustificazione della norma sull'esclusione automatica del socio nei casi compendiati nei due commi del richiamato art. 2288 c.c. appare eloquente: essa è precipuamente volta a salvaguardare la società in bonis dagli effetti dell'insolvenza personale del socio.

Merita considerere che, per alcuni, la norma si preoccuperebbe unicamente di tutelare l'interesse degli altri soci (Ferrara jr.-Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 2001, p. 296, nota 1, cui sembra aderire Cass., 20 maggio 1975, n. 1991, in V. Buonocore, G. Castellano e R. Costi, Società di persone (Casi e materiali), II, Milano, 1978, p. 1150). Si parla anche di «protezione autoritativa della società», nel senso che il fallimento del socio è visto come un evento necessariamente idoneo a ripercuotersi negativamente sulla società, ove il socio «dovesse continuare a rimanere tale, per il discredito (giudicato) inevitabile che ne deriverebbe» (Ghidini, Società personali, Padova, 1972, p. 591).

Nello specifico, l'estromissione per fallimento si spiega anche sotto ulteriori piani convergenti: viene anzitutto in evidenza la sopravvenuta inidoneità del socio a cooperare nella gestione societaria; viene in rilievo, inoltre, la necessità immediata, da parte degli organi della procedura, di acquisire la quota del socio dichiarato fallito, onde procedere alla liquidazione della quota; viene in risalto, infine, l'opportunità di proteggere i terzi e, segnatamente, i creditori del socio fallito.

Del resto, l'attività sociale implica, nelle società di persone, una incessante partecipazione dei soci alla gestione, svolgendosi essenzialmente attraverso le loro prestazioni. A tenore dell'art. 2247 c.c. «con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividere gli utili». Segnatamente, nella società semplice il raggiungimento dello scopo sociale è correlato alla virtuosa interdipendenza tra il conferimento dei beni nel fondo comune e l'attiva collaborazione nell'esercizio dell'attività. Allorchè a carico di un socio vengano in essere situazioni patrimonialmente pervasive, quali la dichiarazione di fallimento o la liquidazione della quota, è necessario scongiurare il prodursi di contraccolpi economicamente rilevanti (e tendenzialmente esiziali) sulla società e sul suo fondo comune.

Autorevoli autori sostengono che la norma avrebbe principalmente lo scopo di ribadire il principio dell'essenzialità del conferimento, poiché non è concessa (la partecipazione e la permanenza in società senza conferimento, il quale appunto verrebbe meno in seguito alla dichiarazione di fallimento (G. Ferri, Delle società. Artt. 2247-2324, in Comm. c.c., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1968, p. 304).

È questa forse l'opinione prevalente: è in gioco anche l'interesse dei terzi e, principalmente, dei creditori particolari del socio (Auletta, Deroghe contrattuali alla disciplina dell'esclusione nelle società di persone, in Annali del Seminario giuridico dell'Università di Catania, II, Napoli, 1948, p. 147 ss.; Simonetto, Fallimento del socio ed esclusione, in Riv. soc., 1959, p. 199 ss.), pur se di riflesso, per il tramite degli organi della procedura fallimentare. Nello stesso solco emeneutico da ultimo segnato, si è cercato di sintetizzare la ricorrenza di detti interessi – ciascuno dei quali insufficiente, da solo, a giustificare l'esclusione di diritto del socio fallito – affermando che il fondamento della norma consisterebbe «nella mera volontà sanzionatoria del legislatore del 1942», e quindi sostanzialmente «in un generale interesse pubblico al corretto andamento dell'economia» (Bollino, Le cause di esclusione del socio nelle società di persone e nelle cooperative, in Riv. dir. comm., 1992, I, pp. 394 e 396).

In ogni caso, dunque, il fallimento del socio giustifica l'esclusione di diritto dalla società e comporta come effetto primario la liquidazione della quota ai fini della procedura concorsuale.

In effetti, con il fallimento, il socio perde la disponibilità dei suoi beni e la capacità legale di amministrare (art. 42 L.F.), sicchè tutti gli atti da lui compiuti dopo il fallimento sono inefficaci rispetto ai creditore. Inoltre il fallimento assoggetta alla procedura concorsuale tutti i beni del fallito e fra tali beni è da comprendersi la quota sociale, determinata in una somma di denaro che rappresenti il suo valore al momento del fallimento.

Il fallimento, come noto, produce lo scioglimento di alcuni rapporti giuridici, mentre per altri lascia la facoltà di scelta al curatore (art. 72 e ss. L.F).

In entrambe le situazioni condensate nell'art. 2288 c.c. vengono meno sia l'opportunità della collaborazione personale, sia l'apporto dato dal conferimento. Pertanto, in detti casi, nessuno degli altri soci avrebbe interesse a conservare al socio il suo posto in seno alla società. Peraltro, procedimentalizzare detta esclusione – se del caso mediante il ricorso alle modalità di cui all'art. 2287 c.c. – costituirebbe un vano aggravio di mezzi.

L'eventuale alienazione della quota da parte del socio che poi fallisca sia un atto revocabile ai sensi dell'art. 67 comma 1 l. fall., in quanto atto che riduce la garanzia patrimoniale dei creditori.

Alla luce delle copiose riflessioni svolte in punto di ratio della norma, tutte portatrici di una parte di verità, è forse opportuno prendere atto che la giustificazione sistemica dell'art. 2288 c.c. deve rinvenirsi, in realtà, nella tutela congiunta di plurimi interessi: la protezione dell'interesse degli altri soci, l'esigenza di “schermare” la società in bonis rispetto alle conseguenze dell'insolvenza personale del socio, la difesa dell'interesse dei terzi e, segnatamente, dei creditori particolari del socio.

Ragioni affini a quella passate in rassegna con riferimento al caso del socio fallito emergono pure in rapporto all'altra ipotesi di esclusione di diritto regolata dall'art. 2288 c.c., quella che il secondo comma della norma riserva al socio contro il quale un creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota con le modalità di cui all'art. 2270 c.c.

La norma interpone un presidio a difesa dell'ente contro il socio che, non pagando i suoi debiti, obbliga la società a liquidare la sua quota per pagare un creditore.

Peraltro, a mente dell'art. 2270 c.c., il creditore particolare del socio può far valere i suoi diritti sugli utili che spettano al debitore (quindi può finanche pignorare e farsi assegnare detti utili), oltre a poter compiere atti conservativi sulla quota che spetterà al socio al momento della liquidazione, che di regola il creditore non può provocare (cfr. anche art. 2305 e 2307 c.c.). Quando, tuttavia, gli altri beni del socio debitore risultano insufficienti a soddisfare i suoi creditori, ciascun creditore ha il diritto di ottenere la liquidazione della quota.

Ci troviamo al cospetto di conseguenze sostanziali affini rispetto a quelle del fallimento del socio: incapacità del socio di far fronte alle proprie obbligazioni e inidoneità a prestare seria e proficua cooperazione. Fallimento e liquidazione della quota secondo le modalità dell'art. 2270 c.c. finiscono per integrare, in ultima analisi, due situazioni oggettivamente omologhe.

L'ambito applicativo dell'art. 2288 c.c.

Chi riconduce la ratio dell'esclusione di diritto del socio fallito al venir meno dell'apporto ritiene che la norma non si applichi alle società in nome collettivo ed in accomandita regolari, in quanto in esse non sussiste il diritto del creditore particolare alla liquidazione della quota del socio debitore (Ferri, 295). Chi, viceversa, ritiene che il fondamento della norma sia nell'intrinseca incompatibilità dello status di fallito con quello di socio, è propenso a configurare una portata più generale della norma e ad escludere che il fallito possa assumere la posizione di socio in ogni società personale (Ferrara, Corsi, 297).

Nonostante la varietà delle opinioni in campo e benchè l'art. 2288, 1º comma, c.c. sia espressamente dettato per la società semplice, l'avviso prevalente ne estende l' ambito applicativo anche alle altre società personali, senza che possano operarsi distinzioni tra soci che beneficiano di forme di responsabilità limitata e soci illimitatamente responsabili (in dottrina, Angeloni, I diritti del creditore particolare del socio, in Riv. dir. comm., 1955, I, p. 105; Bollino, op. cit., p. 387; Cottino-Sarale-Weigmann, Società di persone e consorzi, in Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, III, Padova, 2004, p. 280; Ferrara jr.-Corsi, ibidem; Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1962, p. 95).

La giurisprudenza, dal canto suo, ha ritenuto (già da tempo) che il principio di cui all'art. 2288, 1° c., secondo il quale il socio che sia stato dichiarato fallito è escluso di diritto, si applica anche allorché si tratti di società in accomandita semplice (App. Milano 18.1.2000; Trib. Udine 6.2.1988).

Nella giurisprudenza di legittimità per l'applicabilità all'accomandatario, si è espressa Cass., 20 maggio 1975, n. 1991, per l'applicabilità all'accomandante, Cass., 22 maggio 2003, n. 8091, in Rep. Foro it., 2003, voce Redditi (imposte).

Dalla riportata estensione si è tratta la conseguenza che, in caso di fallimento personale del socio di dette società, sussisterebbe «il diritto dei creditori particolari del socio fallito, e quindi della curatela fallimentare, ad ottenere la liquidazione della sua quota» (App. Bologna 13.2.1987).

In realtà, s'è visto come la ratio sistemi della norma debba leggersi nella sovrapposizioni teleologica di distinti profili, che tutti insieme valgono a giustificarla.

Pare pertanto destinata a restare isolata l'opinione di chi negava potesse essere escluso di diritto l'accomandante, a causa del minor rilievo attribuito, in questo caso, all'intuitus personae.

Va rilevato che l'adesione alla tesi estensiva è suscettibile di determinare, nelle s.n.c., una disparità di trattamento tra esecuzione individuale (non concessa dall'art. 2305 c.c.) ed esecuzione collettiva (ammessa proprio dall'art. 2288 c.c.). Tale disparità sarebbe invece eliminata se si aderisse all'impostazione che applica l'art. 2288, comma 1, c.c. alle sole società semplici, poiché solo in questo tipo sociale il legislatore ha ammesso che i creditori particolari del socio possano ottenere la liquidazione della quota durante la società.

Ciò detto, nelle ipotesi esaminate si è supposto che la società di cui il socio fallito era parte non versasse in stato di insolvenza.

Cosa accade, per converso, nel caso in cui il fallimento del socio sia conseguenza del fallimento della stessa società dalla quale si sostiene che questi debba essere escluso?

La norma, se applicata in senso strettamente letterale, sembrerebbe comprendere anche questa ipotesi, dal momento che non si può negare trattarsi di un socio fallito. Questa conclusione è stata disattesa dalla dottrina dominante (cfr. Campobasso, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società, Torino, 1999, 113, secondo cui è escluso di diritto: «il socio che sia dichiarato fallito, salvo ovviamente che non si tratti di fallimento conseguente al fallimento della società») e denegata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., 20 maggio 1975, n. 1991, cit., con nota adesiva dei Commentatori) sulla base della motivazione che «la norma riflette la esigenza che una società di persone non venga coinvolta nel fallimento in proprio di un socio; mentre nella fattispecie è il socio illimitatamente responsabile che resta coinvolto dal fallimento della società. Un uguale trattamento delle due ipotesi non è configurabile, in quanto, mentre nella prima la società permane in bonis e gli effetti del fallimento del socio riguardano sostanzialmente la sfera patrimoniale del rapporto societario con la liquidazione della posizione del socio ad opera del curatore, nella seconda è la società che, divenuta insolvente, coinvolge nel fallimento il socio [...]». Ne discende che «Tale parallelismo di condizione [...] non può che continuare nelle vicende successive alla pronuncia di fallimento, con la conseguenza che se la società non si estingue con la chiusura della procedura, perché la liquidazione dei beni è stata sospesa o evitata in conseguenza della mancanza di passivo, il socio illimitatamente responsabile conserva nella società tale posizione».

Va, peraltro, rilevato che se l'art. 2288 si applicasse al fallimento della società e dei soci, tutti i soci illimitatamente responsabili dichiarati falliti dovrebbero ritenersi esclusi di diritto, il che costituisce un argomento ad absurdum, che conferma la bontà dell'avviso espresso dai giudici di legittimità negli arresti citati.

Per concludere in questo senso, è opportuno prendere in considerazione l'art. 2308 c.c. in forza del quale «La società si scioglie [...], salvo che abbia per oggetto un'attività non commerciale, per la dichiarazione di fallimento». Poiché lo scioglimento opera nei confronti di tutti i soci ed instaura la fase liquidativa, rimangono superate le istanze di tutela rispettivamente degli altri soci e dei terzi che sono alla base, come si è visto, dell'art. 2288, comma 1, c.c.. In questa fase, insomma, smarrisce ogni rilevanza l'intuitus personae che caratterizzava la partecipazione reciproca dei soci e non sussiste più il rischio né che il curatore, addentrandosi negli affari sociali, determini la spersonalizzazione della gestione, né che i creditori particolari del socio possano subire pregiudizio dalla prosecuzione dell'attività sociale. È anche per tale motivo che l'art. 2288, comma 1, c.c. non è applicabile nel caso in cui non è la società ad essere coinvolta dal fallimento del socio, ma è quest'ultimo (ove illimitatamente responsabile) ad essere coinvolto dal fallimento della società.

Già a suo tempo, d'altronde, la Cassazione aveva avuto modo di puntualizzare che“l'esclusione di diritto del socio che sia dichiarato fallito, prevista dall'art. 2288 c.c. tende a preservare la società in bonis dagli effetti dell'insolvenza personale del socio e non opera, quindi, nell'ipotesi in cui il fallimento del socio sia effetto di quello della società, in forza della responsabilità illimitata del primo per le obbligazioni della seconda” (Cass. Civ., 20 maggio 1975, n. 1991, in Dir. Fall., 1975, II, 738 e in Riv. Dir. Comm., 1975, II, 283 ), per poi evidenziare che “l'esclusione di diritto del socio che sia dichiarato fallito, prevista dall'art. 2288 c.c., si riferisce alla ipotesi del fallimento del socio "in proprio", e non anche a quella della estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile ai sensi della legge fallimentare” (Cass. civ. Sez. III, 28 aprile 1978, n. 2010).

I giudici di piazza Cavour hanno, ancora piuttosto di recente, chiarito che “il fallimento delle società di persone non determina lo scioglimento del vincolo sociale, poiché l'esclusione di diritto del socio che sia dichiarato fallito, prevista dall'art. 2288 c.c., applicabile alle società di fatto in virtù del disposto dell'art. 2297 c.c., tende a preservare la società "in bonis" dagli effetti dell'insolvenza personale del socio e non opera, quindi, nell'ipotesi in cui il fallimento del socio sia effetto di quello della società, in forza della responsabilità illimitata del primo per le obbligazioni della seconda” (v. Cass. Civ., sez. I, 1 luglio 2008, n. 17953, in in Fallimento, 2008, 10, 1145).

Aspetti problematici: il momento dello scioglimento del rapporto

Per quanto riguarda il momento dello scioglimento del rapporto, in caso di fallimento, l'esclusione si determina alla data dell'apertura della procedura (anche se l'apporto non viene meno in quel frangente, esso tuttavia è destinato a venir meno nel corso della procedura fallimentare: Ferri, 295); nel caso di liquidazione della quota, occorre che la quota sia effettivamente liquidata, non bastando la semplice richiesta del creditore del socio (Ferrara, Corsi, 297). In quest'ultimo caso, l'esclusione opera dalla data della richiesta, ma è sottoposta alla condizione sospensiva della liquidazione della quota (Di Sabato, La società semplice, in Tratt. Rescigno, 16, Torino, 1985, 99).

In dottrina si rileva che l'esclusione ex lege contemplata dall'art. 2288, 1º comma, c.c. per il socio di cui sia stato dichiarato il fallimento integra un'ipotesi di scioglimento immediato ed automatico del rapporto sociale relativo al socio.

L'intervenuto scioglimento del rapporto sociale rispetto al socio fallito impedisce, in quest'ottica ermeneutica, di estendere a questi la responsabilità per debiti sociali sorti quando l'esclusione si fosse già prodotta, non rilevando a tal fine il mancato esaurimento delle procedure liquidative, né l'eventuale sopraggiunta revoca del fallimento.

Proprio quest'ultimo profilo è tutt'altro che assodato in giurisprudenza.

La Corte di Cassazione, in una recente pronuncia richiamata – come sopra accennato – proprio nel decisum della sentenza ora in commento sembra muoversi in un senso interpretativo differente. Secondo Cass., Sez. III, 24 marzo 2011, n. 6734, il rapporto sociale di un socio di una società di persone viene meno di diritto in virtù della dichiarazione del fallimento di lui, per la peculiare rilevanza della considerazione della persona e delle sue qualità anche patrimoniali che normalmente determina i contraenti alla stipula del contratto di società personale. Nondimeno, sebbene l'operatività di diritto dello scioglimento del rapporto sociale vada riferito temporalmente al momento stesso della dichiarazione di fallimento, i suoi effetti in certo senso definitivi non si verificano — o perlomeno non si cristallizzano — fino a quando la quota del fallito non sia effettivamente liquidataad opera dei competenti organi fallimentari.

Infatti, la partecipazione del socio, benché escluso di diritto, al patrimonio sociale comporta, fino all'epilogo finale della liquidazione della sua quota, se non altro la persistenza di rapporti di debito e credito verso la società (e verso gli altri soci) ed esige che si ritenga pendente e non ancora esaurito, sia pure a questi più limitati fini, il rapporto giuridico preesistente.

La tracciata conclusione vale a maggior rigore nel caso di una società di persone costituita da due soci soltanto, posto che l'esclusione di diritto di uno dei soci determina pure lo scioglimento della società, in applicazione dell'art. 2272, n. 4, c.c., per il venir meno della pluralità di soci.

Anche in siffatta ipotesi gli effetti di tale esclusione non saranno compiutamente esauriti fino alla liquidazione della società, da attivarsi nelle forme previste dal codice civile o dalla legge fallimentare, a seconda che si discorra di liquidazione ex art. 2770 c.c. o di fallimento del singolo socio.

Detta precisazione è significativamente rilevante, sol che si consideri che il socio dichiarato fallito a titolo individuale, dovrà esser considerato non avere mai perduto la qualità di socio per effetto della revoca del fallimento, qualora la sua quota non sia stata liquidata o la società sia rimasta in vita.

Pertanto fintantochè non si sia compiuta la liquidazione “reale” della quota del socio escluso ex lege deve ritenersi il permanere delle situazioni giuridiche correlate alla qualità di socio, in ambedue le ipotesi di cui all'art. 2288 c.c., il che implica che l'intervenuta revoca del fallimento del socio di dispieghi pienamente la propria efficacia ex tunc, confermando la responsabilità del socio medesimo rispetto ai debiti contratti dalla società quando era già stato dichiarato fallito, dunque nelle more della revoca in discorso.

È circostanza non di poco momento: il fatto che il fallimento del socio non ne elida in misura integrale la capacità processuale implica l'onere, per costui, finanche di impugnare i decreti ingiuntivi emessi nei suoi confronti e nei confronti della società durante la procedura fallimentare, giacché «l'incapacità del fallito non è assoluta, ma, in relazione alle finalità per le quali è prevista, relativa, tanto che il suo rilievo è rimesso all'iniziativa degli organi della massa dei creditori [...]; pertanto, il creditore che si mantenga estraneo alla procedura concorsuale ben può agire contro il fallito per ottenere un provvedimento che, pur non essendo opponibile al momento alla massa dei creditori, diviene eseguibile quando il debitore ritorna in bonis; e ne consegue che, se il fallito non si difende a seguito della notifica di un decreto ingiuntivo da parte di un creditore per un credito estraneo alla massa, il provvedimento, decorsi i termini di opposizione, diviene definitivo ed acquista esecutività dopo la chiusura del fallimento» (v. ancora Cass., Sez. III, 24 marzo 2011, n. 6734). E d'altronde, il decreto ingiuntivo reso nei confronti di una società di persone estende i suoi effetti anche nei riguardi dei soci illimitatamente responsabili, sicché anche ciascuno di questi ha l'onere di interporre opposizione, nel senso che, in difetto di sua opposizione, la condanna emessa in sede monitoria diviene definitiva anche nei suoi riguardi.

In definitiva, secondo la giurisprudenza di legittimità riportata, la dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile di società di persone determina la sua esclusione di diritto dalla società, ai sensi dell'art. 2288, applicabile alle s.n.c. in virtù dell'art. 2293 c.c., e tuttavia la revoca di tale dichiarazione di fallimento produce la reviviscenza della predetta qualità con effetti retroattivi, allorchè lo scioglimento del vincolo sociale particolare, pur riferibile al momento dell'originaria dichiarazione di fallimento, non sia seguito dal completo esaurimento, ex art. 72 L.F., del rapporto societario pendente mediante la liquidazione della quota societaria stessa ovvero, per la società costituita da due soci, come mediante liquidazione della società ex art. 2272, n. 4, c.c..

Da quanto detto deriva che, non verificandosi alcuno dei predetti eventi, il socio risponde anche dei debiti della società sorti durante il periodo in cui egli è restato assoggettato al fallimento poi revocato (Cass. civ., Sez. III, 24 marzo 2011, n. 6734, richiamata nella sentenza ora in rassegna).

L'esclusione di diritto del socio fallito (ex art. 2288, 1º comma, c.c.) si instaura, dunque, in termini definitivi ed irreversibili soltanto quando sia intervenuta la liquidazione della quota del socio escluso (o la liquidazione della società), il attribuisce una connotazione in certo senso “progressiva” alla formazione di tale fattispecie, che si articola per momenti (e passaggi) successivi, compiendosi nella sola (e ultima) fase liquidativa.

È da dire che il lapidario dettato dell'art. 18, 15º comma, L.F., stabilendo che «se il fallimento è revocato, restano salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi della procedura», non offre a fini ricostruttivi elementi esegetici netti ed esaustivi.

La norma de qua sembra concernere soltanto gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi della procedura concorsuale, senza potersi estendere né agli atti posti in essere nei confronti di essi, né agli atti negoziali o processuali che fossero ancora in corso di esecuzione quando è intervenuta la revoca del fallimento.

Il legislatore, dal canto suo, nel biennio della riforma della legge fallimentare, non ha inteso soffermarsi sulla sorte degli effetti che la revocata sentenza con cui fosse stato dichiarato il fallimento avesse già direttamente esplicato sui rapporti sostanziali preesistenti (segnatamente, per quel che qui rileva, di natura societaria).

Onde rimuovere gli ingiusti pregiudizi derivati all'ex-fallito ed ai terzi dal fallimento dichiarato in assenza dei necessari presupposti, parrebbe in linea di principio preferibile propendere per la tendenziale reviviscenza dei rapporti giuridici incisi dal fallimento ormai revocato.

Tuttavia, la procedura fallimentare può talora incidere irreversibilmente sui rapporti sostanziali, tanto che non risulti più possibile il ripristino dello status quo ante. È proprio quanto si verifica nel caso dell'esclusione di diritto del socio fallito di società in nome collettivo, prodottasi in modo automatico ed immediato (a norma dell'art. 2288, 1º comma, c.c.) in seguito alla dichiarazione di fallimento, indipendentemente dal fatto che non sia intervenuta la liquidazione della quota (o della società stessa, ex art. 2272, n. 4, c.c., se composta da due soli soci).

L'irreversibilità di situazione cagionata dall'esclusione ope legis del socio conduce ad escludere che costui, qualora ne sia revocato il fallimento, debba poi rispondere per debiti contratti dalla società quando egli ne era già formalmente escluso.

Si valorizza in quest'ottica ermeneutica un dato essenziale: la fase liquidativa non rappresenta un elemento costitutivo dell'esclusione, bensì un mero effetto di essa.

Tuttavia, la Corte di Cassazione nella evocata pronuncia del 24 marzo 2011, n. 6734 (richiamata nella sentenza ora in rassegna) connette all'intervenuta revoca del fallimento la piena retroattività della reviviscenza della qualità di socio del fallito, ritenendo che l'esclusione ex art. 2288, 1º comma, c.c. non si fosse ancora compiuta in mancanza della conseguente liquidazione (o della liquidazione della società ex art. 2272, n. 4, c.c.). In definitiva, la quota — osserva la Cassazione — va liquidata e pertanto sino a quando il relativo procedimento non sia stato completato quegli effetti, pur automatici, non potrebbero 'considerarsi cristallizzati', dunque definiti.

La soluzione, tuttavia, desta qualche dubbio nella misura in cui profila un contrasto con una precisa distinzione, presente anche in dottrina, tra le due ipotesi disciplinate dall'art. 2288. Infatti, se è vero che nel caso della liquidazione della quota su istanza di un creditore particolare del socio (comma 2) la fattispecie si perfeziona solo con il soddisfacimento delle ragioni di questi (con il che si avvera la condizione sospensiva cui è sottoposta l'esclusione, con effetto retroattivo alla data della richiesta) (v. Ferrara-Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 2001, 297; Di Sabato, La società semplice, in Tratt. Dir. Priv. a cura di Rescigno, Torino, 1985, 99), nell'ipotesi del fallimento (comma 1) par essere vero il contrario, atteso che l'''uscita'' dalla compagine sociale si produce senz'altro di diritto, concretizzandosi con l'apertura della procedura (Ferri, Le società, in Tratt. Dir. Priv. It. a cura di Vassalli, Torino, 1987, 298 e seg.). In effetti il diritto di credito, avente ad oggetto il valore della quota che l'art. 2289 prevede doversi corrispondere, pare rappresentare una autonoma conseguenza dell'avvenuto scioglimento, che il curatore può, di volta in volta, liberamente decidere se (convenga) esercitare o meno. In concreto, dunque, la quota potrebbe non essere mai di fatto liquidata con la corresponsione del suo tantundem; non per questo, tuttavia, nei confronti di chi fosse stato escluso dovrebbe potersi ipotizzare il riacquisto della qualità di socio, una volta conclusa la procedura fallimentare: la cesura intervenuta in forza dell'art. 2288, comma 1, infatti, dovrebbe considerarsi inconvertibile e definitiva, proprio in quanto il rapporto che lo legava all'ente si è definitivamente sciolto ipso iure.

La Corte di Cassazione sembra costruire la c.d. esclusione di diritto quasi come una fattispecie a formazione progressiva, che si snoderebbe attraverso una catena di fasi, l'ultima e definitiva delle quali consisterebbe nella liquidazione della quota del socio escluso (la sentenza evoca "tutti gli effetti della situazione giuridica complessiva che si riconduce all'esclusione di diritto").

Di contro, giova rimarcare che la esclusione di diritto, in entrambe le ipotesi contemplate dall'art. 2288 c.c. contempla, in realtà, due casi di scioglimento automatico del rapporto sociale relativo ad un socio, che si determina ex se, appena se ne verifichino i presupposti, senza bisogno di una deliberazione dei soci e senza alcuna possibilità, per questi, nel nostro caso per il socio superstite, di impedire lo scioglimento (A Bolaffi, La società semplice. Contributo alla teoria delle società di persone, Milano 1975, p. 471).

La liquidazione della quota, pare, in realtà, un mero effetto derivante dallo scioglimento del rapporto sociale relativo ad uno dei soci, che postula il perfezionamento della fattispecie di scioglimento, alla quale essa rimane, tuttavia, estranea.

La stessa giurisprudenza di legittimità ha avuto occasione di chiarire che la costituzione del rapporto societario e l'originario conferimento, da cui discende la qualità di socio, sono la "causa remota" del diritto alla liquidazione alla quota (Cass., Sez. Un., 23 ottobre 2006, n. 22659) , di guisa che, in caso di esclusione dalla società a causa di dichiarazione di fallimento del socio, il credito di quest'ultimo relativo alla quota di liquidazione nasce - o, almeno, diviene certo - esclusivamente per effetto della dichiarazione di fallimento (Cass., 7 luglio 2008, n. 18599).

Una conferma alle considerazioni sin qui svolte, è ravvisabile nella morte di un socio di una società di persone, in conseguenza della quale l'erede acquista soltanto il diritto di ottenere la liquidazione della quota che faceva capo al de cuius. La circostanza che la società non provveda in conformità configura soltanto un inadempimento ad un obbligo, senza poter comportare il subentro del creditore nella compagine sociale (Cass., 23 marzo 2005, n. 6263).

Anche nell'ipotesi di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio per causa di morte, è opinione consolidata che gli eredi del socio defunto non acquisiscano la posizione del socio defunto nell'ambito della società e non assumano perciò la qualità di soci, divenendo titolari soltanto del diritto alla liquidazione della quota del loro dante causa. Diritto, che sorge indipendentemente dal fatto che la società continui o si sciolga: ne discende che la mancata liquidazione della quota rappresenta un inadempimento dei soci superstiti, ma non determina, in mancanza di accordo, il subentro nella società dell'erede del socio (Cass. 11 maggio 2009, n. 10802; Cass. 23 marzo 2005, n. 6263).

Altri aspetti problematici: la valutazione della quota

Secondo quali criteri deve quantificarsi e liquidarsi la quota? Si è indotti a ritenere che parametro precipuo per valutare l'ammontare del credito (o debito) del socio uscente parrebbe essere rappresentato senz'altro dal bilancio della società, che soccorre, del resto, anche laddove si tratti di individuare l'importo del conferimento e la parte di utile o di perdita.

Il bilancio ha in sé tutti gli elementi perché si conoscano la consistenza patrimoniale ed il reddito della società in unità di tempo: il suo scopo si identifica proprio con tali elementi; è in chiara dipendenza (ne riassume i saldi) con le strutture contabili previste dagli art. 2214 ss. c.c.

Allorchè sussiste, per contratto o per legge, l'obbligo della redazione del bilancio d'esercizio, la determinazione della quota del socio uscente deve farsi, dunque, sulla base delle risultanze del bilancio, che nel sistema è posto dal legislatore proprio a garanzia dei soci e dei terzi.

Il bilancio, del resto, non è solo una somma di valori, ma un prospetto di elementi attivi e passivi riguardati secondo la loro attitudine a concorrere alla futura gestione d'impresa, ossia a produrre reddito.

Nondimeno, la giurisprudenza tuttavia si è più volte espressa in maniera contraria, ed ha ritenuto utilizzabile l'ultimo bilancio approvato quale parametro per la valutazione della quota del socio uscente solo nel caso in cui detto criterio sia previsto nello statuto sociale. Nel confermare detta contrarietà, la pronuncia in commento richiama il risalente arrêt rappresentato da Cass. Civ., sez. I, n. 2772/1969.

Ciò detto, si è indotti a ritenere che non possa non farsi riferimento al bilancio ai fini della valutazione della quota. Dispone l'art, 2217 comma 2 c.c. che l'inventario si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite, il quale deve dimostrare con evidenza e verità gli utili conseguiti o le perdite subìte. Viene in rilievo, pertanto, il principio di verità del bilancio, comune a ciascun tipo di impresa. Esso trova il conforto di nozioni contabili che non ammettono discordanze nei saldi che compongono il conto economico e la situazione patrimoniale (ossia gli “elementi” che insieme danno vita e forma al bilancio).

Certo, gli elementi del bilancio sono suscettibili di una valutazione soggettiva da parte dei suoi compilatori, il che implica una sostanziale relatività dei criteri adottati.

Il bilancio viene compilato da persone che per legge assumono responsabilità sia penale che civile sulla «prudenza» delle loro valutazioni e sul rispetto alle regole contabili di cui si occupa il codice.

Il bilancio falso, se ed in quanto predisposto fraudolentemente, è tornato ad essere regolato penalmente, il che è un elemento di preservazione tendenziale del principio di verità.

Ed è evidente che la valutazione di un'azienda in funzionamento, che intende continuare la sua attività, deve basarsi, oltre che sulla consistenza patrimoniale dei beni di cui dispone, anche sul going concern e sull'attitudine a produrre un utile in prospettiva.

L'azienda vale in rapporto alla sua attitudine a a produrre reddito, ossia in rapporto alla previsione afferente i risultati economici futuri.

È necessario verificare tutti gli elementi positivi e negativi esistenti e suscettibili di condizionare e modellare l'assetto produttivo aziendale con riflessi sulla redditività e sulla capacità futura di realizzare risultati remunerativi.

In altri termini, la consistenza patrimoniale va appurata non sulla vase degli elementi che formano il capitale apprezzati nel solo valore staticamente contabile, bensì nel valore che ne descrive la effettiva utilità ai fini della funzionalità aziendale.

Soltanto per i beni destinati alla vendita si deve tener conto del valore effettivamente realizzabile; per i beni strumentali occorre avere riguardo al livello di utilizzazione ed al ruolo del bene, tenuto conto del logorio e del deperimento subito nel frangente in cui si procede alla valutazione.

Il bilancio risponde adeguatamente alla necessità di tenere in debito conto il valore di avviamento. Una regola generale si ricava, del resto, dall'art. 2217 c.c., applicabile a ciascun tipo di impresa commerciale, in forza del quale «nelle valutazioni di bilancio l'imprenditore deve attenersi ai criteri stabiliti per i bilanci delle società per azioni». È perspico adesso il riferimento all'art. 2425 c.c., La giurisprudenza, dopo un primo orientamento contrario, ha ritenuto legittima la formazione del bilancio di società personale in base ai criteri dettati dalla legge per la società per azioni.

Conclusioni

La fattispecie vagliata dai giudici di piazza Cavour riproponeva il problema dell'esclusione di diritto del socio dichiarato fallito. Nello specifico, si trattava di stabilire se la dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile di società di persone determini o meno la sua esclusione di diritto dalla società, nonché la conseguente liquidazione della propria quota.

La Prima Sezione Civile della Corte ha riaffermato opportunamente il principio in base al quale l'esclusione del socio fallito opera di diritto, talché gli effetti risalgono al momento del deposito della sentenza di fallimento. Invero, il bilanciamento di tutela della società e della massa dei creditori del fallimento che ha attinto il socio impone, per un verso di estromettere in automatico la procedura concorsuale dalla compagine sociale, in guisa da sottrarre alla procedura medesima la possibili di acquisire la quota in sé e di alienarla a terzi in sede di attività liquidatoria fallimentare, per altro verso, esige che oggetto della massa attiva fallimentare sia non la quota – giustappunto – bensì il credito di liquidazione della quota medesima.

L'esclusione di diritto del socio fallito, in definitiva, è norma eminentemente posta a tutela della stessa società partecipata dal fallito; nel mentre la disposizione mira a far salva l'acquisizione di una utilità ripartibile ai creditori, da parte degli organi fallimentari, riconoscendo al fallimento l'opportunità di apprendere in via immediata il credito relativo alla liquidazione della quota, secondo un valore non a caso ancorato al momento dell'esclusione di diritto del socio, coincidente con la dichiarazione di fallimento (Cass. Civ., sez. I, n. 950/1993).

Riferimenti bibliografici e giurisprudenziali

Oltre ai riferimenti bibliografici e giurisprudenziali evidenziati nel corpo del testo, v., altresì, U.M. Carbonara, La revoca del fallimento e l'esclusione del socio di società in nome collettivo, in Giur. comm., fasc.1, 2013, p. 54, nota a Cass. civ. , 24 marzo 2011, n.6734, sez. III; c. UNGARI TRASATTI, Note minime in tema di interpretazione teleologica dell'art. 2288, comma 1, c.c., in Riv. notariato, fasc.1, 2005, p. 176, nota a Trib. Palermo, 6 aprile 2004; v. papagni, Socio fallito: escluso di diritto, ma gli spetta la liquidazione della quota, in Diritto & Giustizia, fasc.11, 2015, p. 2, nota a Cass. civ., 18 marzo 2015, n. 5449; A. M. Perrino, Sull'esclusione del socio di società di persone, nota a Cass. civ., sez. III, 24 marzo 2011, n. 6734

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