Strumento inadeguato alla soluzione della crisi e responsabilità nel fallimento

01 Aprile 2016

L'omessa presentazione di una tempestiva istanza di fallimento in proprio espone amministratori e sindaci, con il concorso dell'attestatore, a responsabilità risarcitoria nel caso in cui l'accordo di ristrutturazione dei debiti predisposto per risolvere la crisi si sia rivelato inattuabile secondo un giudizio di prognosi ex ante.
Massima

Sussiste la responsabilità ai sensi degli artt. 146 l. fall. e 2043 c.c., in relazione all'art. 217, comma 1, n. 4, l. fall., degli amministratori e dei sindaci, con il concorso dell'attestatore di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell'art. 182-bis l. fall. rivelatosi inattuabile secondo un giudizio di prognosi ex ante, nell'omessa presentazione di una tempestiva istanza di fallimento in proprio di un'impresa che versi in stato di crisi.

Il pregiudizio azionabile nel procedimento di responsabilità incardinato dal curatore fallimentare non può consistere nella sola differenza dei c.d. patrimoni netti, essendo necessario identificare le specifiche condotte che hanno determinato un maggiore indebitamento per la società e le specifiche attività che non sarebbero state eseguite in caso di tempestiva dichiarazione di fallimento, con conseguente consolidamento del patrimonio sociale e della relativa esposizione debitoria.

In sede di esercizio cautelare di un'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 146 l. fall., il danno può determinarsi mediante ricorso al criterio equitativo in misura corrispondente ai debiti che sono stati assunti dalla società e che non sarebbero stati contratti nell'ipotesi in cui il fallimento fosse stato dichiarato tempestivamente, dunque e quanto meno, in misura pari agli interessi che sono maturati sui debiti pregressi e che, con la dichiarazione di fallimento, non sarebbero potuti maturare.

Il caso

Una società deposita istanza ai sensi dell'art. 182-bis, comma 6, l. fall., conseguendo l'assegnazione di un termine per il deposito di ricorso omologativo di accordo di ristrutturazione e contestualmente un provvedimento inibitorio di azioni (esecutive e cautelari) da parte dei creditori. La procedura si conclude con un provvedimento di improcedibilità per omesso deposito di un accordo ai sensi dell'art. 182-bis l. fall.

La società, a distanza di quattro mesi, deposita un nuovo ricorso ai sensi dell'art. 182-bis l. fall. ottenendo questa volta un provvedimento omologativo. L'accordo di ristrutturazione dei debiti così omologato risulta ineseguito e la società viene dichiarata fallita.

Il curatore agisce, in va cautelare mediante ricorso per sequestro conservativo, nei confronti degli amministratori e dei sindaci, contestando l'illecita prosecuzione dell'attività aziendale in data posteriore al verificare della causa di scioglimento legale della perdita del capitale sociale, l'esecuzione di pagamenti preferenziali e la falsificazione dei bilanci sociali.

Il curatore, nella stessa sede, agisce anche nei confronti dell'attestatore dell'accordo di ristrutturazione risultato ineseguito, contestandogli, in ragione dell'inapplicabilità ratione temporis dell'art. 236-bis l. fall., l'ipotesi delittuosa di falsa perizia ai sensi dell'art. 373 c.p. o, comunque, di falsità in certificati ai sensi dell'art. 481 c.p., nonché un contributo causale attivo ai sensi dell'art. 2043 c.c., in ragione della sua scorretta attestazione, nella ritardata dichiarazione di fallimento della società. Il Giudice di prima istanza respinge la richiesta cautelare, che viene invece accolta in sede di reclamo, peraltro con una serie di correttivi, tra cui la ritenuta inapplicabilità all'attestatore delle fattispecie penali di cui agli artt. 373 e 481 c.p., diretti a contenere la misura conservativa alle sole conseguenze immediate e dirette della ritenuta condotta colpevole di amministratori, sindaci ed attestatore.

Le questioni

Il Tribunale di Venezia affronta e risolve la delicata questione della responsabilità di chi (amministratore, sindaco ed attestatore) abbia rispettivamente attivato, non impedito ed attestato uno strumento solutore di una crisi di impesa alternativo al fallimento, che si sia poi rivelato, secondo un giudizio di prognosi ex ante, inadeguato ed infattibile, traducendosi dunque in un semplice differimento della dichiarazione di fallimento e, con esso, nella maturazione di un danno incrementale che avrebbe potuto essere evitato o, quanto meno, significativamente ridotto, con finale affermazione di una responsabilità nella prospettiva di cui all'art. 217, comma 1, n. 4, l. fall. ed identificazione del pregiudizio in misura corrispondente al maggior indebitamento, dipendente da attività specificatamente individuate, che non si sarebbe registrato in caso di tempestiva dichiarazione di fallimento.

Osservazioni

L'ordinanza in commento tratta il delicato e molto attuale tema della responsabilità di chi decida di adottare, non impedire ed attestare uno strumento solutore di uno stato di crisi d'impresa che si riveli, nell'ipotesi di fallimento sequenziale e secondo un giudizio di prognosi ex ante, inattuabile e dunque tale da produrre, quale unico effetto, il differimento di una dichiarazione di fallimento e, con esso, l'inutile maturazione di poste passive, tra cui in particolare gli interessi sull'esposizione debitoria chirografaria, che erodono la massa attiva da destinare alla soddisfazione dei creditori sociali.

Questo essendo il quadro di riferimento, appare sicuramente utile distinguere l'analisi della responsabilità degli organi sociali rispetto alla diversa, se pur concorrente, responsabilità dell'attestatore, onde poi pervenire all'identificazione dei criteri di quantificazione del danno imputabile nei confronti di ciascuno di questi soggetti; tutto ciò con una particolare attenzione nei riguardi dell'attestatore, di cui nell'ordinanza in commento vengono verificate le condizioni alle quali possa essere tratto a giudizio risarcitorio ai sensi dell'art. 146 l. fall.

La responsabilità degli organi gestori e controllori di enti collettivi costituisce, da sempre, oggetto di vivace dibattito e di contrastanti interpretazioni, risultando tutt'oggi di estrema attualità e dando costante adito a nuove riflessioni in ragione del continuo mutare del quadro di riferimento, sostanziale e normativo. Ne è prova, per un verso, il recente pronunciamento delle Sezioni Unite della S. C. in merito alle condizioni di applicabilità del criterio di quantificazione del danno in base al c.d. patrimonio netto fallimentare, il quale, dopo essere stato per lungo tempo, giudicato desueto, anzi decisamente negletto, è tornato alla ribalta nelle aule di giustizia. Ne è prova, per altro verso, la nuova frontiera dei rischi di gestione e controllo cui vanno quotidianamente incontro gli organi sociali in una situazione di crisi d'impresa, specie durante il lungo periodo di negoziazione con i creditori finanziari di uno degli strumenti previsti dalla legge fallimentare (tra cui, su tutti, il piano attestato di risanamento e l'accordo di ristrutturazione dei debiti), allorquando è noto che possono maturare perdite anche ingenti e devono essere compiute scelte amministrative non semplici che, in un'ottica di valutazione posteriore da parte di un ufficio fallimentare, potrebbero essere sindacate a titolo di contributo causale commissivo od omissivo nell'aggravamento del dissesto patrimoniale.

Le situazioni c.d. distressed sono ormai sempre più frequenti ed è molto sottile la linea di demarcazione tra dovere e responsabilità amministrativa o sindacale, essendo essenziale che colui che gestisce o controlla un ente collettivo affronti la crisi come se si trovasse innanzi ad una malattia. È noto infatti che la crisi conosce molteplici fasi, dall'incubazione alla maturazione e dalla ripercussione all'esplosione, essendo fondamentale, anche nella prospettiva di evitare future contestazioni di responsabilità, intervenire tempestivamente prima della fase esplosiva e trovare soluzioni che, nel rispetto dei principi societari e concorsuali, consentano l'adozione di un programma che sia concretamente idoneo a diagnosticare, gestire e risolvere una situazione di tensione finanziaria prima che degeneri in insolvenza irreversibile.

L'esperienza insegna, e l'ordinanza in commento dimostra, che lo scrutinio della condotta degli organi sociali viene frequentemente, quando non esclusivamente, in evidenza nel contesto concorsuale, allorquando il curatore fallimentare, sostituendosi ai soci ed ai creditori, promuove un'azione di responsabilità finalizzata a conseguire, anche in via d'urgenza e sotto forma di sequestro conservativo, il ristoro dei danni cagionati per effetto della violazione dei doveri prescritti dalla legge oppure dall'atto costitutivo e dallo statuto di un ente collettivo.

Qualora, come nel caso in esame, intervenga una figura terza, qual è l'attestatore, dovrà essere accertata anche la sua posizione e la sua attività nella prospettiva di verificare se ed in quali termini egli abbia contribuito alla causazione di un pregiudizio patrimoniale risarcibile ed a lui imputabile, muovendo dal dato che la peculiarità del ruolo, la rilevanza sociale della posizione ricoperta e la crucialità dell'intervento di un soggetto qualificato non possono che comportare il risvolto della sua responsabilità nel caso di attestazioni dolosamente o colposamente non veritiere.

In primo luogo, l'attestatore può essere ritenuto responsabile nei confronti dell'imprenditore in favore del quale è stata condotta l'attività professionale. La responsabilità nei confronti di tale soggetto è pertanto, per sua stessa natura, di tipo contrattuale (art. 1218 c.c.), in ragione del vincolo negoziale sussistente con l'imprenditore. La responsabilità del professionista deve essere commisurata ai canoni di diligenza professionale propri di tale attività, restando peraltro inteso che le obbligazioni assunte dal professionista devono essere annoverate tra le c.d. obbligazioni di mezzo e non di risultato, giacché il professionista non è tenuto a pervenire ad un determinato esito, ma deve invece rispettare nell'esercizio del proprio incarico determinati standard di diligenza che, ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c. sono proporzionati alla natura dell'attività svolta.

Sono state enucleate in dottrina alcune fattispecie “tipiche”, che ben riassumono le differenti ipotesi in cui potrebbe ritenersi sussistente la responsabilità professionale dell'attestatore: una errata attestazione negativa in termini di fattibilità; una errata attestazione di attuabilità di un piano non meritevole e fin dall'inizio non applicabile e conseguentemente in seguito non omologato; una attestazione positiva formatasi sulla base di considerazioni logiche non corrispondenti alle risultanze acquisite o ai dati oggettivi che sarebbero dovuti essere assunti; ed in via generale il ritardo nell'attestazione. In tutti questi casi, l'evento dannoso potrebbe essersi verificato con la partecipazione dell'imprenditore, ad esempio nei casi in cui le informazioni necessarie per le attestazioni siano comunicate con ritardo ovvero non siano state fornite con la necessaria completezza per la corretta formazione del giudizio dell'esperto o, peggio ancora, siano state volontariamente occultate o artefatte.

Più gravoso è invece il ruolo dell'interprete nell'analisi dei profili di responsabilità a carico del professionista attestatore nei confronti dei terzi, verso i quali non vi è una relazione “diretta”, sancita dall'accordo contrattuale. In queste ipotesi, la fonte della responsabilità del professionista (generalmente ritenuta di natura extracontrattuale) va individuata nell'affidamento che i soggetti terzi ripongono nell'attività dell'attestatore, in considerazione della rilevanza del suo ruolo e della particolare posizione assunta nel contesto delle procedure minori. E' intuibile, però, che le attestazioni del professionista siano calate in contesti caratterizzati da obblighi pubblicitari diversi, e con riguardo a procedure contraddistinte da maggiore o minore “giudizialità”: il discorso, quindi, non può essere affrontato in modo unitario, ma occorre evidenziare le peculiarità dell'attestazione resa ai sensi dell'art. 67 l. fall., di quella prevista dall'art. 182 l. fall. (anche oggi considerate le nuove declinazioni segregative ai sensi dell'art. 182-speties l. fall.) e dell'attestazione ai sensi dell'art. 161 l. fall.

In relazione ai piani di risanamento attestati, deve essere fatto notare come questi, in via generale, non siano destinati, salva esplicita richiesta dell'imprenditore in crisi, ad essere resi pubblici, e quindi ad incidere sui processi decisionali dei terzi, inferendo sulla loro libertà contrattuale o causando il loro affidamento. In linea puramente teorica, quindi, il terzo potrebbe rimanere del tutto estraneo alla strutturazione del piano, alla seguente attestazione ed all'espressione di un giudizio di sua fattibilità.

Peraltro, è anche utile notare che la natura unilaterale e riservata del piano di risanamento dovrebbe comportare (sempre in teoria) l'assenza di un controllo da parte dei terzi creditori circa la correttezza del giudizio espresso dal professionista. In virtù di quanto sopra, sembrerebbe quindi che l'attestatore non debba rispondere nei confronti di terzi; tuttavia, è risaputo che la prassi si allontana radicalmente dal quadro sin qui descritto. Nella realtà, infatti, i creditori terzi (tra cui le banche) non soltanto ricevono piena informazione dall'imprenditore (rectius, nella maggior parte dei casi, dagli amministratori della società) circa il piano e le sue caratteristiche, ma sono anzi convolti in modo attivo nell'individuazione di un percorso di risanamento: è tipico peraltro che l'imprenditore avvii delle trattative preliminari sondando la disponibilità dei creditori in relazione alle diverse alternative per la ristrutturazione dell'imprese (i.e., dilazione dei pagamenti, consolidamento delle passività a breve, stralcio) e che proprio in base a tali disponibilità sia modellato il piano oggetto di asseverazione, tale asseverazione essendo tenuta in forte considerazione da tali creditori terzi anche nei propri iter istruttori e deliberativi interni (ove previsti).

Alla luce di quanto sopra, è quindi facile comprendere perché l'attestazione formulata dal professionista abbia un peso rilevante nelle scelte dei terzi in relazione ai contratti da concludersi con l'imprenditore in crisi, anche nel caso dei piani attestati di risanamento. Per tale motivo, si ritiene che il professionista sia soggetto a responsabilità anche nei confronti dei terzi creditori che si siano affidati all'attestazione e siano rimasti danneggiati dalle valutazioni infedeli o negligenti del professionista.

Considerazioni simili a quelle appena esposte possono essere formulate anche con riferimento all'ipotesi di accordi di ristrutturazione ai sensi dell'art. 182-bis l. fall., procedura in cui è maggiormente presente sia l'elemento pubblicitario, sia l'elemento giudiziale.

Anche in questo caso, l'affidamento nella relazione di attestazione ingenerato in capo ai creditori può dar luogo ad una responsabilità di natura extracontrattuale a carico dell'attestatore, qualora sia stato arrecato un danno immediato e diretto ai terzi in conseguenza del loro affidamento nella relazione di attestazione. Certamente si considerano legittimati ad agire verso il professionista i creditori che partecipano all'accordo di ristrutturazione come conseguenza dell'affidamento riposto nella valutazione del professionista. Si ritiene, inoltre, sia in giurisprudenza che in dottrina, che possano agire nei confronti dell'attestatore anche i creditori non aderenti all'accordo di ristrutturazione, indipendentemente dalla loro natura di creditori preesistenti o di creditori successivi all'accordo, e sebbene, in ogni caso, tali creditori mantengono il diritto di essere pagati integralmente ed alla scadenza. Difatti, tali soggetti, pur essendo estranei all'accordo, potrebbero risultarne direttamente danneggiati, nel caso in cui le previsioni contenute nello stesso, per negligenza o infedeltà risultino inadeguate a garantire la soddisfazione dei loro crediti.

Da ultimo, occorre rilevare che anche nell'ambito di una procedura di concordato preventivo ai sensi dell'art. 161 l. fall., il professionista attestatore può essere ritenuto responsabile nei confronti dei creditori dell'imprenditore, sussistendo anche in questo caso una responsabilità di natura extracontrattuale.

Tale responsabilità sussiste nei confronti dei creditori anteriori all'omologazione del concordato, il cui danno conseguente può essere quantificato come la minor somma che tali creditori potranno ricavare dal fallimento successivo al tentativo di concordato - non andato a buon termine a causa dell'attestazione negligente o infedele del professionista - rispetto a quanto avrebbero potuto ottenere nel caso di una tempestiva apertura della procedura fallimentare.

Oltre all'ipotesi sopra delineata, si ritiene in linea teorica sussistente anche una responsabilità del professionista attestatore nei confronti dei creditori successiviall'omologazione. In tal caso, si ritiene che l'origine del danno possa rinvenirsi in una lesione della libertà contrattuale (si presume cioè che, nel caso in cui il debitore fosse fallito in precedenza, tali creditori non avrebbero stipulato alcun contratto); la quantificazione del danno in questo caso sarebbe particolarmente complessa, in quanto risulterebbe necessario prendere in considerazione l'aspettativa tradita del creditore derivante dall'attestazione e quanto il singolo creditore avrebbe invece potuto conseguire se, a fronte di una relazione attestativa di diverso contenuto, il piano di concordato non fosse stato approvato.

Il punto di partenza comune ai diversi casi sopra richiamati sembra rinvenirsi nella natura extracontrattuale della possibile responsabilità in capo al professionista attestatore, riconducibile quindi ai principi generali previsti dall'art. 2043 c.c. e, più nello specifico alla lesione del diritto di corretta informazione dei terzi, nonché alla lesione dell'affidamento che i terzi abbiano riposto su tali informazioni e sulle valutazioni svolte nella relazione attestativa.

In tale prospettiva, il creditore sarà tenuto a provare tutti gli elementi costitutivi del reato, purtuttavia con l'eventuale temperamento dell'onere derivante dall'applicazione del principio di vicinanza della prova, dovendosi quindi tener conto della possibilità effettiva di ogni creditore di provare fatti e circostanze che rientrino nella sua effettiva capacità di conoscenza.

Va tuttavia aggiunto, per completezza, che parte della dottrina ha ritenuto possibile ricondurre la responsabilità del professionista attestatore nei confronti di creditori terzi nella diversa categoria della responsabilità contrattuale, ritenendo applicabili ai casi sin qui prospettati le note teorie in materia di responsabilità “da contatto sociale”. Secondo questa prospettazione, il professionista assume nei confronti dei creditori terzi un dovere di protezione, desumibile anche dal dettato normativo che gli impone di esprimere il giudizio sulla fattibilità del piano, avendo in oggetto la soddisfazione di tutti i creditori. In ragione dell'affidamento da questi riposto nelle valutazioni di veridicità dei dati e di fattibilità del piano svolte dal professionista, su quest'ultimo graverebbe quindi un particolare obbligo protettivo nei confronti di tutti i soggetti direttamente coinvolti dall'attestazione.

Nella prospettiva sopra descritta, il Tribunale di Venezia conduce un'analisi a doppio spettro, procedendo a verificare, per un verso, i fondamentali teorici e pratici del diritto commerciale e fallimentare attraverso la disamina delle regole di condotta e delle conseguenze della loro violazione nelle società di capitali, mentre, per altro verso, dedicandosi ad analizzare, da un punto di vista più strettamente pratico, quali siano le modalità di calcolo di un danno azionabile nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili, quali siano le sue declinazioni matematiche e finanziarie in base alle singole fattispecie rilevanti, e quali siano le modalità di verifica delle contestazioni mosse da chi azioni giudizialmente un pregiudizio causalmente connesso a negligente gestione, controllo ed attestazione di un'attività di impresa.

Tutto questo andando ad identificare lespecifiche responsabilità imputabili agli amministratori, ai sindaci ed all'attestatore che, nei rispettivi ruoli, abbiano procrastinato il termine di dichiarazione di fallimento di un'impresa in stato di crisi mediante l'adozione di un piano di risanamento collegato ad un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell'art. 182-bis l. fall. che, secondo un giudizio di prognosi ex ante, si è rivelato completamente inattuabile, sostanzialmente perché i ricavi da destinare a servizio dell'indebitamento finanziario dipendevano dalla liquidazione di cespiti immobiliari i cui valori erano stati colpevolmente sopravvalutati e, pertanto, mai avrebbero potuto essere ritratti in sede di vendita sul mercato.

Più nel dettaglio e sotto il primo profilo, il Tribunale di Venezia ha fatto applicazione dei criteri di scrutinio della condotta amministrativa, sindacale ed attestativa, muovendo dalla premessa per cui il promotore di un giudizio ai sensi dell'art. 146 l. fall. è richiesto di identificare chi sia oggettivamente e soggettivamente responsabile di ogni singolo addebito mosso e delle conseguenze patrimoniali arrecate alla società ed al ceto creditorio; indicare quale sia l'esatto momento in cui ciascun convenuto avrebbe dovuto o comunque potuto, secondo il criterio della diligenza amministrativa o sindacale, percepire il denunciato stato di dissesto della società poi dichiarata fallita; precisare la quantificazione del pregiudizio imputato a ciascun convenuto; indicare, qualora vi siano più soggetti ritenuti responsabili e costoro siano stati in carica durante periodi non omogenei, la quota di pregiudizio imputabile in via esclusiva alla condotta di ognuno di essi, dimostrare l'elemento oggettivo del nesso tra le condotte effettivamente ascrivibili ed i danni che ne sono derivati in rapporto di causalità necessaria; e non ultimo dare evidenza certa d'un dolo o, quanto meno, d'una colpa qualificata del soggetto ritenuto responsabile.

Di qui, la conclusione secondo cui gli amministratori, con il contributo causale omissivo dei sindaci, hanno negligentemente ed imprudentemente sottovalutato la situazione di crisi aziendale mediante la predisposizione di un piano di risanamento e la stipulazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti che hanno determinato un indebito ritardo nella dichiarazione di fallimento, anche in conseguenza dell'illecita condotta, rilevante nella prospettiva di cui all'art. 2043 c.c., dell'attestatore cui va addebitata la colpa di avere certificato l'attuabilità di questo accordo mediante un giudizio superficiale e completamente inadeguato da un punto di vista sostanziale.

Più nel dettaglio e sotto il secondo profilo, il Tribunale di Venezia ha escluso che potesse ascriversi ad amministratori, sindaci ed attestatore un danno incrementale pari alla semplice differenza matematica tra il patrimonio netto alla data di perdita del capitale sociale ed il patrimonio netto fallimentare, anche e soprattutto in considerazione degli effetti discendenti dall'art. 182-sexies l. fall. sugli obblighi di ricapitalizzazione in caso di deposito di una istanza prenotativa ai sensi dell'art. 182-bis, comma 6, l. fall. e oppure di un ricorso omologativo di accordo di ristrutturazione dei debiti.

Nel fare tanto, risultano correttamente applicate le più recenti e corrette linee guida in tema di quantificazione del danno azionabile in sede di azione di responsabilità ai sensi dell'art. 146 l. fall., anche perché l'art. 1223 c.c. fissa il contenuto dell'obbligazione risarcitoria nella perdita subita (c.d. danno emergente) e nel mancato guadagno (c.d. lucro cessante) che siano conseguenza immediata e diretta di un comportamento illecito.

Facendo propri questi rilievi e con riferimento al caso specifico, Il Tribunale di Venezia è pervenuto alla conclusione per cui il danno risarcibile dev'essere determinato sulla base delle conseguenze immediate e direttedelle violazioni contestate ad amministratori o sindaci e che tale danno vada calcolato in misura pari alla diminuzione patrimoniale effettivamente sofferta dalla società poi dichiarata fallita. In altre parole, al fine di procedere alla verifica di quale sia la concreta conseguenza di una condotta pregiudizievole, è necessario scindere l'accertamento del rapporto tra comportamento ed evento dannoso dall'accertamento del danno risarcibile, attraverso una comparazione tra la situazione che si è verificata in conseguenza dei fatti scrutinati e la situazione che si sarebbe verificata in loro assenza.

Con il che, il danno risarcibile da amministratori, sindaci ed attestatore è quello causalmente riconducibile alla loro condotta colposa o dolosa ed entro tale limite comprende, secondo i principi generali, il danno emergente ed il lucro cessante, dovendo essere in concreto commisurato al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, attivo od omissivo, non fosse stato posto in essere.

In particolare, se dal confronto tra (a) il risultato ottenuto tramite l'attuazione di un piano inidoneo e (b) quello cui si sarebbe ragionevolmente giunti con una diversa modalità di gestione della crisi, si determini che l'attuazione del piano abbia comportato una peggiore soddisfazione degli interessi dell'imprenditore rispetto a quella che si sarebbe alternativamente ottenuta, il risarcimento del danno dovuto dal professionista potrebbe consistere nel ripristino della situazione antecedente all'attuazione del piano. Inoltre in caso di ritardo nell'attestazione, che contribuisca a rendere impossibile la sua esecuzione, il danno causato nei confronti dell'imprenditore potrà derivare dalla perdita di valore del patrimonio, anche in virtù dell'aggravamento del passivo.

Nell'ottica della quantificazione del danno risarcibile in sede di azione di responsabilità ai sensi dell'art. 146 l. fall., la situazione che ricorre con maggiore frequenza è quella dell'indebita prosecuzione dell'attività sociale in presenza di una causa di scioglimento della società con conseguente aggravamento del dissesto, contemplata un tempo dall'art. 2449 c.c. e, dopo la riforma, dal combinato disposto degli artt. 2485 e 2486 c.c.

Rispetto a tale specifica ipotesi si è fatto, nel tempo, ricorso sostanzialmente a tre criteri: il criterio tradizionale del c.d. patrimonio netto fallimentare, il criterio della c.d. differenza tra patrimoni netti (i.e., quello alla data di ritenuta perdita del capitale sociale e quello fallimentare) ed il criterio equitativo.

Il Tribunale di Venezia non considera giustamente il primo criterio (che identifica il danno imputabile agli amministratori ed ai sindaci nella differenza tra attivo ed ammontare dei crediti ammessi nello stato passivo patrimoniale accertato nel corso della procedura concorsuale) e concentra la propria attenzione sul secondo ed il terzo criterio, muovendo dalla constatazione per cui va ritenuto imputabile il solo danno che risulti conseguenza immediata e diretta delle commesse violazioni nella misura equivalente al detrimento patrimoniale effettivamente dipendente dalla condotta illecita dei soggetti ritenuti responsabili; ciò in quanto lo squilibrio patrimoniale di una società insolvente può avere, e per lo più ha, cause molteplici, non necessariamente tutte riconducibili al comportamento illegittimo dei gestori e dei controllori della società. La sua concreta misura dipende spesso non tanto dal compimento di uno o più atti illegittimi, quanto dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce.

Su questi presupposti, è stato elaborato il criterio alternativo dei c.d. netti patrimoniali, il quale comporta una comparazione tra la situazione patrimoniale alla data di ritenuta perdita del capitale sociale e la situazione patrimoniale fallimentare, considerando quale pregiudizio imputabile la differenza negativa che si registra, al netto degli oneri che sarebbero comunque maturati in caso di immediata messa in liquidazione della società e delle conseguenze che non avrebbero potuto essere soggettivamente percepite da parte di un diligente amministratore o sindaco.

Si è affermata in seguito una tesi più rigorosa, secondo la quale il danno risarcibile dovrebbe essere sempre accertato nel dettaglio, mediante scrutinio delle singole operazioni successive al momento in cui gli organi sociali avrebbero dovuto arrestare l'attività sociale.

La conclusione elaborata da dottrina e giurisprudenza è quella per cui, ove si contesti ad amministratori e sindaci l'aggravamento del dissesto, non si dovrebbe cercare, ad ogni costo, una regola di calcolo generale, ma bisognerebbe probabilmente procedere, anche su base equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., ad una simulazione di “liquidazione virtuale”, accertando se e quali oneri passivi sarebbero comunque maturati anche in caso di tempestivo arresto dell'attività aziendale, onde calcolare esattamente il pregiudizio da indebita prosecuzione e collegarlo causalmente alla condotta dei soggetti ritenuti responsabili.

Il Tribunale di Venezia, nell'ordinanza in commento, ha dimostrato di aderire a tale impostazione, valutando la condotta di amministratori, sindaci ed attestatore che, in concorso tra loro, hanno consentito l'adozione di uno strumento solutore della crisi aziendale completamente inadeguato, inattuabile ed infattibile, procrastinando la dichiarazione di fallimento in proprio, con la conseguenza di poter affermare che il danno da loro risarcibile va determinato sulla base delle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate e che tale danno vada calcolato in misura pari alla diminuzione patrimoniale effettivamente sofferta dalla società poi dichiarata fallita, sostanzialmente pari al maggior indebitamento per oneri finanziari ed interessi che una tempestiva dichiarazione di fallimento avrebbe sicuramente consentito di evitare.

Di qui, la successiva constatazione per cui è logico parlare di danno, oltre che di nesso tra questo e la condotta, soltanto se sia prima chiarito quale sia il comportamento contestato al gestore di un'impresa, oltre che agli altri soggetti con lui concorrenti, e quale violazione questo comportamento abbia concretamente integrato, con il conseguente e corretto corollario per cui l'inadempimento di un'obbligazione c.d. di comportamento non può desumersi da qualunque inadempimento, ma soltanto da quello che si ponga in rapporto di efficienza causale o concausale con il danno di cui si chiede la liquidazione.

Ma, se così è, allora il danno non può essere calcolato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare oppure tra netti patrimoniali registrati in periodi differenti (i.e. data di assunta perdita del capitale sociale e data di dichiarazione di fallimento), giacché questo significherebbe imputare una responsabilità sostanzialmente oggettiva per il solo fatto che la una società sia caduta in dissesto, con l'ulteriore aggravante di addebitare, a titolo di colpa, anche le perdite d'esercizio dovute ad una “normale” crisi aziendale.

La necessaria e sicuramente condivisibile conseguenza è dunque che, in casi analoghi a quello oggetto di indagine da parte del Tribunale di Venezia, deve procedersi al confronto tra il risultato ottenuto tramite l'attuazione di un piano di risanamento infattibile e quello che si sarebbe potuto registrare mediante l'adozione di una diversa soluzione concorsuale, rappresentando la differenza tra questi due risultati il pregiudizio ragionevolmente contestabile ed imputabile ai soggetti ritenuti responsabili.

Conclusioni

Devono ritenersi responsabili gli amministratori, con il contributo causale omissivo dei sindaci, che hanno negligentemente ed imprudentemente sottovalutato la situazione di crisi aziendale mediante la predisposizione di un piano di risanamento e la stipulazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti che hanno determinato un indebito ritardo nella dichiarazione di fallimento, anche in conseguenza dell'illecita condotta, rilevante nella prospettiva di cui all'art. 2043 c.c., dell'attestatore cui può essere addebitata la colpa di avere reso un giudizio di attuabilità superficiale e completamente inadeguato da un punto di vista sostanziale, con finale quantificazione del danno in misura pari alla differenza tra il risultato ottenuto tramite l'attuazione di un piano di risanamento infattibile e quello che si sarebbe potuto registrare mediante l'adozione di una diversa soluzione concorsuale.

Minimi riferimenti giurisprudenziali e bibliografici

Sul tema della gestione di una crisi di impresa: M.P. PASTORE, L. JEANTET, L. BASSO, A. VAROLI, La Ristrutturazione. Linee guida e strumenti di composizione della crisi, F. Angeli, 2° ed., 2015.

Sul tema della responsabilità dell'attestatore: Trib. Roma 22 aprile 2013; Cass. Civ 30 luglio 2012, n.13565; Trib. Reggio Calabria 24 gennaio 2012; Trib. Milano 25 marzo 2010.

In dottrina, B. BLASCO, La responsabilità da contatto sociale qualificato e suoi rapporti con gli obblighi ti protezione, in Diritto e processo, 12, 2011; G. BRESCIA, Le attestazioni del professionista nella legge fallimentare, Milano, 2014, 361 ss.; G. DESIMONE – L.- JEANTET “L'indipendenza del professionista attestatore e la disciplina della sua responsabilità civile e penale”, in giustizicivile.com; A. DIDONE, Chiose in tema di responsabilità civile del professionista attestatore, in ilFallimentarista.it; D. GALLETTI, La responsabilità civile dell'attestatore nel fallimento, in ilFallimentarista.it.

Sulla responsabilità degli organi sociali e sulla quantificazione del danno: Cass., 2 ottobre 2015, n. 19733; Trib. Milano, 23 settembre 2015; Trib. Milano, 6 luglio 2015;Trib. Napoli, 25 giugno 2015; Cass., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100; Cass., 11 luglio 2013, n. 17198; Cass. 4 luglio 2012, n. 11155; Cass., 4 aprile 2011, n. 7606; Cass., 11 marzo 2011, n. 5876; Cass., 23 giugno 2008, n. 1703; Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass., 23 maggio 2008, n. 17033; App. Milano, 11 luglio 2007; Trib. Milano, 9 aprile 2013; Trib. Trieste, 15 dicembre 2011; Trib. Salerno, 9 aprile 2009; Trib. Mantova, 20 dicembre 2007; Trib. Salerno, 25 ottobre 2006.

In dottrina, S. AMBROSINI, Quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità, in La responsabilità di amministratori, sindaci, revisori contabili, a cura di S. Ambrosini – F. Bonelli, Milano, 2007, 295; A. AURICCHIO – G. COVINO – L. JEANTET, Il danno e il definitivo tramonto del criterio del patrimonio netto fallimentare, in ilSocietario.it; A. AURICCHIO – G. COVINO – L. JEANTET, Danno azionabile contro amministratori e sindaci: il criterio del “patrimonio netto fallimentare”, in ilSocietario.it, 2015; A. BONSIGNORI, Il fallimento delle società, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, diretto da F. Galgano, Padova, 1988, 262; BOZZA, Diligenza e responsabilità degli amministratori di società in crisi, in Fall., 2014, 1107; CARMELLINO, Il criterio del deficit patrimoniale al vaglio delle Sezioni Unite, in Il Fallimento, 2015, 939; U. DE CRESCIENZO, Questioni in tema di responsabilità di amministratori, in Fall.,2004, 1126; E. GABRIELLI, La quantificazione del danno nell'azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, in Riv. dir. priv., 2004, 7 e ss.; A. PENTA, La quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità: le operazioni compiute dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, in Dir. fall., 2006, I, 670 e ss.; L. JEANTET – L. MARTINO, L'azione di responsabilità nei confronti degli organi di enti collettivi, Giuffrè, 2015; L. JEANTET – L. MARTINO, Fallimento e azione di responsabilità: all'esame delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione l'applicazione del criterio del “netto fallimentare” per la quantificazione del danno risarcibile, in giustiziacivile.com; A. JORIO, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. comm., 2011, I, 157; L. MANCINI, L'accertamento del danno nell'azione di responsabilità contro l'amministratore di società fallita, 2015, in giustiziacivile.com; A. PATTI, Quantificazione del danno nell'azione contro gli amministratori, in Fall., 1996, 23; C. PROTO, Criteri di determinazione del danno causato dagli organi sociali, in Fallimento, 1998, 678; R. RORDORF, La responsabilità civile degli amministratori di s.p.a. sotto la lente della giurisprudenza (I parte), in Società, cit., 1200; ID. Il risarcimento del danno nell'azione di responsabilità contro gli amministratori, in Società, 1993, 617; G. TARANTOLA, Brevi riflessioni sulle azioni di responsabilità degli amministratori, in Giur. it., 2000, 1771; M. VITIELLO, Il danno risarcibile nelle azioni di responsabilità della curatela, in Giur. comm., 2013, I, 163.

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