La funzione del benchmark nella gestione su base individuale di portafogli

Luigi Gaffuri
03 Marzo 2017

Per delineare le caratteristiche della gestione, assume un ruolo fondamentale il benchmark, definito dall'art. 42 Reg. Consob n. 11522/1998 come “parametro oggettivo di riferimento coerente con i rischi a essa connessi al quale commisurare i risultati della gestione”.Il benchmark rappresenta il termine di paragone per poi valutare l'operato del gestore, sicché fornisce all'investitore l'elemento essenziale per la valutazione del servizio offerto.
Massima

Per delineare le caratteristiche della gestione, assume un ruolo fondamentale il benchmark, definito dall'art. 42 Reg. Consob n. 11522/1998 come “parametro oggettivo di riferimento coerente con i rischi a essa connessi al quale commisurare i risultati della gestione”.

Il benchmark rappresenta il termine di paragone per poi valutare l'operato del gestore, sicché fornisce all'investitore l'elemento essenziale per la valutazione del servizio offerto.

Il benchmark, se non impone al gestore di acquistare titoli nelle proporzioni indicate, in ogni caso costituisce un modo per valutare la razionalità e l'adeguatezza dell'attività dell'intermediario, giacché a ogni benchmark è associato un rischio, misurato statisticamente dalla volatilità che caratterizza il parametro prescelto a riferimento.

Il caso

Una banca ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino che, ad avviso della ricorrente, aveva impropriamente utilizzato come parametro di valutazione della condotta del gestore il benchmark, elemento contrattuale che non presuppone l'obbligo dell'intermediario di acquistare titoli nelle proporzioni indicate; in questo modo, secondo la banca, la corte d'appello ha erroneamente ritenuto sussistere un'obbligazione di risultato del gestore, attribuendo al benchmark il valore di una clausola contrattuale gerarchicamente sovraordinata rispetto a tutte le altre indicative delle caratteristiche della gestione.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

La questione

Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione ha ritenuto responsabile la banca per aver operato, in un periodo continuativo di circa sei mesi, in difformità rispetto al parametro indicato nel contratto di gestione, errando nella politica di investimento e di selezione degli strumenti finanziari e procurando agli investitori le perdite stimate in sede di consulenza tecnica di ufficio.

La Corte Suprema ha rilevato che per delineare le caratteristiche della gestione il benchmark assume un ruolo fondamentale in quanto rappresenta il termine di paragone per valutare l'operato del gestore e pertanto fornisce all'investitore l'elemento essenziale per la valutazione del servizio offerto; per quanto il suddetto parametro non imponga al gestore di acquistare titoli nelle proporzioni indicate, lo stesso costituisce un modo per valutare le razionalità e l'adeguatezza dell'attività dell'intermediario, atteso che ad ogni benchmark è associato un rischio, misurato statisticamente dalla volatilità.

Le soluzioni giuridiche

La decisione della Corte di Cassazione va considerata con riguardo alla previgente disciplina regolamentare, il Regolamento Consob n. 11522/1998, che a seguito dell'entrata in vigore della Direttiva MiFID, a decorrere dal 1° novembre 2007 è stato sostituito dal Regolamento Consob n. 16190/2007.

Come correttamente ricordato dalla Cassazione, l'art. 42 del Regolamento Consob n. 11522/1998 considerava il benchmark quale parametro oggettivo di riferimento, al quale commisurare i risultati della gestione, parametro che doveva essere indicato nel contratto per definirne le caratteristiche ed essere coerente con i rischi connessi; detto parametro doveva essere costruito facendo riferimento a indicatori finanziari elaborati da soggetti terzi e di comune utilizzo.

Il benchmark, ai sensi degli artt. 38-42 del sopra citato Regolamento, rappresentava uno degli elementi contrattuali che definivano i contenuti del servizio di gestione svolto dall'intermediario.

In particolare, l'art. 39 elencava le categorie distinte di strumenti finanziari e per ognuna di esse prevedeva parametri generali e specifici di differenziazione.

L'art. 40 riportava un elenco preciso delle operazioni che potevano essere effettuate dal gestore che comprendeva le compravendite a pronti e a termine, le vendite allo scoperto, le compravendite a premio, le operazioni di prestito titoli e di riporto, i pronti contro termine.

L'obbligo di definire con precisione le caratteristiche della gestione sulla base di specifici criteri regolamentari aveva la finalità di delimitare il perimetro della discrezionalità dell'intermediario e di consentire al cliente di acquisire una maggior consapevolezza del rischi connessi alla gestione.

Il fatto che il benchmark, oltre a consentire al cliente di verificare i risultati conseguiti dal gestore, dovesse risultare coerente con i rischi connessi alla gestione, ne estendeva la funzione quale indicatore di rischio.

Si poneva pertanto la questione se il gestore, pur non essendo obbligato a effettuare operazioni di investimento volte a replicare la composizione del benchmark, fosse quantomeno tenuto a realizzare un portafoglio caratterizzato da un rischio non superiore a quello connesso al parametro oggettivo di riferimento e, nel caso di benchmark composto da indici di particolari settori, dovesse osservare un obbligo di diversificazione del portafoglio nella stessa misura.

In questo senso si è pronunciata la Corte di Cassazione che ha considerato il benchmark vincolante sotto il profilo dell'assunzione di un livello massimo di rischio assumibile dal gestore per conto del cliente; alle stesse conclusioni sono pervenuti la stessa Cassazione con sentenza del 23 giugno 2016 n. 24545 e il Tribunale di Biella con decisione in data 5 aprile 2007 n. 221 (in Banca Borsa e Tit. cred. 2009, 63).

Va osservato che la Consob, anticipando le successive modifiche regolamentari, si era espressa in senso favorevole sulla possibilità di inserire nel contratto, in luogodel benchmark, un indicatore del livello massimo di rischio che l'investitore è disposto a sopportare (cfr Comunicazione n. DIN/5076376 del 17 novembre 2005).

L'autorità di vigilanza aveva rilevato che il benchmark può essere indicativo del rischio-rendimento atteso del portafoglio gestito del cliente nel caso in cui la composizione di detto portafoglio derivi dall'adozione di strategie di investimento basate su una politica di asset allocation definita ex ante (investimento in predeterminate categorie di strumenti finanziari, mercati, aree industriali).

Il benchmark, sempre secondo la Consob,non può invece assolvere la predetta funzione laddove la composizione del patrimonio gestito del cliente, in conformità a quanto specificato nel relativo contratto, sia soggetta a continue modifiche per quanto attiene la scelta degli strumenti finanziari (anche derivati), dei mercati e delle aree industriali, e pertanto la strategia di gestione sia finalizzata alla massimizzazione del rendimento per un dato livello di rischio.

Osservazioni

Dalla definizione riportata nell'art. 38 del Regolamento Consob n. 11522/98, si rileva che in base alla precedente normativa il benchmark aveva una duplice funzione.

Si trattava in primo luogo di un elemento volto a delineare, unitamente ad altri parametri indicati nel contratto, le caratteristiche della gestione e a delimitare pertanto la discrezionalità del gestore.

Il benchmark rappresentava inoltre un parametro volto a consentire all'investitore di commisurare i risultati effettivi della gestione, e pertanto, di valutare le capacità dell'intermediario.

La Suprema Corte ha ritenuto che il livello di rischio massimo assumibile dal gestore fosse quello espresso dal benchmark. Ad avviso di chi scrive, se tale indicatore concorreva con altri elementi a definire le caratteristiche della gestione, non poteva essere considerato l'unico parametro per misurare il rischio del servizio prestato al cliente; occorreva infatti tener conto anche degli altri indicatori di rischio rilevabili dal contratto di gestione e in particolare delle categorie di strumenti finanziari, con i relativi limiti percentuali di investimento, nei quali poteva essere allocato il patrimonio del cliente, degli obiettivi di investimento, della tipologia delle operazioni consentite.

Se, a titolo esemplificativo, come avviene nelle gestioni caratterizzate da una maggiore discrezionalità del gestore (cd gestioni flessibili), il contratto prevedeva la possibilità di investire in strumenti finanziari azionari sino al 100% del portafoglio del cliente e nel contempo indicava un benchmark composto da indici riferibili al mercato azionario e al mercato obbligazionario, significa che era concesso all'intermediario, in determinati periodi, assumere un rischio più elevato rispetto a quello connesso al parametro di riferimento. La verifica del rispetto del livello di rischio connesso al benchmark non può allora essere significativa se effettuata con riferimento ad un periodo limitato del rapporto intercorso con il cliente (come è avvenuto nella fattispecie sulla quale si è pronunciata la Cassazione), in quanto si deve considerare l'orizzonte temporale della gestione previsto dal contratto, nell'ambito del quale l'intermediario in base ai dati previsionali, poteva assumere una posizione di portafoglio sovra/sotto pesata rispetto al parametro di riferimento.

Si consideri in proposito che le linee di gestione contraddistinte da una maggiore flessibilità sono quelle che consentono di aggiungere maggiore qualità al servizio prestato dagli intermediari, diversamente dalle gestioni che in base alle previsioni contrattuali si limitano a replicare in ogni momento la composizione del benchmark (cd gestioni passive) e subiscono inevitabilmente l'andamento dei mercati.

Va poi osservato che per un investitore retail, dotato di conoscenze ed esperienze non elevate nel settore finanziario, sia più agevole rilevare il rischio dalle tipologie di titoli in cui potrà essere investito il suo patrimonio, piuttosto che dalla struttura di un benchmark composto da indicatori finanziari conosciuti in genere soltanto dagli operatori finanziari.

Le modifiche regolamentari apportate a seguito del recepimento della Direttiva MiFID stanno a dimostrare che in merito all'effettiva funzione del benchmark si è creata in passata una certa confusione, indotta da una formulazione non felice delle precedenti disposizioni.

In base all'attuale disciplina regolamentare, entrata in vigore il 1° novembre 2007, l'indicazione nel contratto del benchmark non è più obbligatoria; l'art. 38 del Regolamento 16190/2007, nel disciplinare il contenuto dei contratti di gestione, richiede infatti di fornire “la descrizione del parametro di riferimento, ove significativo, al quale verrà raffrontato il rendimento del portafoglio del cliente”, senza menzionare che il benchmark concorre a determinare le caratteristiche della gestione.

Il medesimo articolo prevede inoltre di indicare nel contratto “ gli obiettivi di gestione, il livello del rischio entro il quale il gestore può esercitare la sua discrezionalità ed eventuali specifiche restrizioni a tale discrezionalità”.

Il benchmark ha quindi ora, soprattutto, la funzione di rappresentare un parametro cui raffrontare il rendimento della gestione, e quindi costituisce uno strumento per valutare le capacità dell'intermediario; il livello di rischio della gestione e l'ambito della discrezionalità del gestore devono infatti essere indicati espressamente nel contratto per maggior comprensione dell'investitore, e non invece derivati indirettamente da altri elementi contrattuali.

Nelle gestioni “flessibili”, ove il gestore può discrezionalmente modificare la composizione del portafoglio, allocandolo in base a percentuali variabili tra strumenti finanziari di natura azionaria e obbligazionaria, il parametro oggetto di riferimento non può assumere alcuna significatività e pertanto l'indicazione nel contratto non solo risulta superflua, ma addirittura fuorviante.

Va aggiunto che non è obbligatorio indicare un benchmark solo se le caratteristiche della gestione non consentano di individuare un parametro di riferimento significativo; diversamente, nel caso di limiti di gestione che definiscano in modo preciso la natura degli strumenti finanziari e i settori nei quali può essere investito il portafoglio del cliente, la sua indicazione deve ritenersi ancora necessaria, sebbene la sua funzione sia ora limitata a consentire al cliente una valutazione dei risultati di gestione.

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