Nelle riorganizzazioni societarie, la conversione forzosa di un credito costituisce l'oggetto di una datio in solutum che dispiega effetti estintivi irreversibili sulle obbligazioni pecuniarie originarie, con la conseguenza che, anche in caso di risoluzione del concordato preventivo, i crediti forzosamente convertiti in azioni non possono risorgere nella loro consistenza originaria in ipotesi di fallimento susseguente, stante la prevalenza della disciplina societaria su quella fallimentare.
Massima
Nelle riorganizzazioni societarie, la conversione forzosa di un credito costituisce l'oggetto di una datio in solutum che dispiega effetti estintivi irreversibili sulle obbligazioni pecuniarie originarie, con la conseguenza che, anche in caso di risoluzione del concordato preventivo, i crediti forzosamente convertiti in azioni non possono risorgere nella loro consistenza originaria in ipotesi di fallimento susseguente, stante la prevalenza della disciplina societaria su quella fallimentare.
Il caso
Una società deposita domanda di concordato, proponendo, tra le altre condizioni, il pagamento di un creditore, per una quota pari al trenta per cento, in denaro mediante tre rate annuali senza interessi e, per una quota pari al settanta per cento, mediante conversione in azioni, emesse a seguito d'una delibera di aumento di capitale riservato con esclusione del diritto d'opzione, al fine di coprire le perdite e ricapitalizzare la società. Il concordato non è stato regolarmente eseguito e ne è stata pertanto dichiarata la risoluzione ai sensi dell'art. 186 l. fall., con conseguente fallimento della società. Il creditore, che aveva ottenuto l'assegnazione di azioni per un valore corrispondente al settanta per cento del proprio credito, presenta domanda di insinuazione, assumendo che la risoluzione del concordato abbia effetto retroattivo, comporti il ripristino della situazione anteriore alla pronuncia del provvedimento omologativo di cui all'art. 183 l. fall. e consenta di reclamare l'intera obbligazione pecuniaria originaria. Il Tribunale di Reggio Emilia, decidendo in sede di opposizione allo stato passivo, respinge la domanda sul presupposto che l'assegnazione di strumenti (nel caso di specie, azioni) in esecuzione di un concordato preventivo omologato esplica effetto estintivo irreversibile dell'obbligazione di pagamento di un creditore concordatario in ragione della prevalenza della disciplina societaria su quella fallimentare.
La questione giuridica e le soluzioni
Il provvedimento affronta il delicato, e sempre più attuale, tema della soluzione di una crisi d'impresa mediante il ricorso ad operazioni straordinarie (tra le altre, conversione forzosa di crediti in azioni, quote, obbligazioni e strumenti finanziari partecipativi, fusione, scissione, scorporo di azienda) e della loro sorte in caso d'insuccesso della procedura concorsuale concordataria, comparando le tre discipline normative applicabili (civile, societaria e fallimentare), e giungendo alla conclusione che, ove deliberata e regolarmente eseguita, un'operazione straordinaria deve ritenersi irreversibile e pertanto tale da determinare un effetto estintivo dell'originaria obbligazione di pagamento, sicché il creditore forzosamente convertito perde il diritto d'insinuazione nell'ipotesi di fallimento susseguente.
Osservazioni
Il decreto del Tribunale di Reggio Emilia offre lo spunto per fare una riflessione, che trae origine dalla sempre maggiore sofisticazione tecnica delle soluzioni negoziali della crisi d'impresa, sulla tipologia di operazioni straordinarie adottabili nel contesto (o, comunque, in esecuzione) di un piano di risanamento attestato ai sensi dell'art. 67 l. fall., di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell'art. 182-bis l. fall. e di un concordato preventivo, verificandone poi la sorte in caso di insuccesso di uno di questi strumenti attraverso un'analisi comparativa della disciplina societaria sotto il profilo degli effetti di una delibera assembleare e della disciplina fallimentare sotto il profilo della sorte dell'obbligazione pecuniaria originaria.
Le procedure concorsuali generali e collettive sono state introdotte dal legislatore per gestire al meglio le complessità degli interessi coinvolti nella crisi dell'impresa, alla luce dell'inadeguatezza dei mezzi individuali di tutela dei creditori. La crisi dell'impresa è un fenomeno che coinvolge sempre più imprenditori ed essendo i creditori spesso anche imprenditori si determina un effetto ripercussivo da cui discende, in conseguenza dell'omesso integrale adempimento delle obbligazioni pecuniarie, la propagazione della crisi con un evidente pericolo per l'ordinato svolgimento della vita economica. Ma l'interesse dei creditori non è l'unico ad essere coinvolto, dato che, specie in presenza di grandi imprese, vengono in gioco interessi differenti ed anche superiori, tra cui, in particolare, quello di salvaguardare l'occupazione. La soluzione della crisi d'impresa, prima della riforma del diritto fallimentare apportata tra il 2005 ed il 2007, era definita e risolta attraverso meccanismi liquidativi. In linea con questa prospettiva ed anche considerate le norme vigenti prima delle modifiche della disciplina societaria del 2003, il compimento di operazioni straordinarie in pendenza di procedure concorsuali era generalmente escluso, in quanto le modifiche oggettive e soggettive dell'impresa erano ritenute incompatibili con le finalità liquidatorie cui era ispirata la legge fallimentare. Il quadro appena descritto ha iniziato a mutare con le riforme apportate alla disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grande imprese in crisi (in particolare, va fatto riferimento alla c.d. Legge Marzano), dato che il legislatore ha dotato le imprese di strumenti solutori della crisi aventi quale obiettivo la salvaguardia della continuità aziendale (intesa quale migliore garanzia del mantenimento dei livelli occupazionali e, più in generale, dell'interesse dei creditori), giungendo a pieno compimento con l'introduzione o la diversa modulazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti e del concordato preventivo.
Le operazioni straordinarie, ed in particolare le operazioni sul capitale volte alla conversione dei crediti in azioni od altri strumenti, rappresentano un elemento spesso indispensabile per il buon esito dei piani di ristrutturazione che prevedano la continuità aziendale dell'impresa in crisi, e di questo il legislatore ha preso piena coscienza nello stabilire, all'art. 160 l. fall., che la proposta di concordato preventivo può avere ad oggetto “la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma anche mediante cessione di beni, accollo o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote ovvero obbligazioni anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari o titoli di debito”; tutto ciò in piena coerenza con il nuovo impianto concorsuale, come delineato, tra gli altri, dagli artt. 104-bis e 105 l. fall. (che prevedono nella fase di liquidazione gli istituti dell'affitto e della vendita d'azienda, come pure la cessione di beni o rapporti giuridici in blocco), dall'art. 56 D.Lgs. n. 270/1999 (che prescrive che il programma dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi può contenere la “cessione dei complessi aziendali” o “la ristrutturazione dell'impresa” con “previsioni di ricapitalizzazione e di mutamento degli assetti imprenditoriali”) e dall'art. 4-bis D.l. n. 347/2003 (che dispone che il concordato straordinario stabilisca “la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione di creditori […] anche mediante accollo, fusione od altra operazione societaria” nel caso anche attraverso l'attribuzione di azioni, obbligazioni o altri strumenti finanziari). Una delle prime questioni venuta all'attenzione degli interpreti è la mancanza di una chiara regola che raccordi la disciplina codicistica sulle operazioni straordinarie e la disciplina fallimentare che regola le procedure concorsuali, specie sotto il profilo del rapporto, oggetto del decreto in commento, tra il principio di intangibilità degli effetti delle operazioni straordinarie, come dettato dagli artt. 2500-bis, 2504-quater e 2506-ter per le operazioni di trasformazione, fusione e scissione, e la disciplina degli effetti del concordato in caso di omologazione, risoluzione od annullamento.
L'attuale normativa non consente di risolvere il conflitto tra le due discipline e nella prassi si fa ricorso a soluzioni differenti, potendosi immaginare:
di differire alla fase esecutiva del concordato il compimento delle operazioni straordinarie (ma, quest'opzione ha la controindicazione di lasciare troppe incertezze sulla fattibilità del piano, data l'oggettiva imprevedibilità delle dinamiche societarie);
oppure di adottare delibere condizionate alla definitiva omologazione di piano e proposta concordataria;
oppure ancora di adottare delibere non condizionate (le quali non sopravvivono alla mancata omologazione del piano e della proposta concordataria, ma dovrebbero mantenere la loro efficacia in caso di annullamento o risoluzione di concordato precedentemente omologato).
Tra le operazioni straordinarie utilizzabili, e maggiormente utilizzate, vi è l'aumento di capitale destinato a convertire crediti in capitale, principalmente in presenza di un piano che preveda la continuità aziendale; conversione che, in caso di piano attestato di risanamento o di accordo di ristrutturazione dei debiti, sarà volontaria o consensuale, mentre, in caso di concordato preventivo, sarà forzosa. La conversione forzosa si traduce, in particolare, nella possibilità, offerta dalla disciplina del concordato preventivo, di imporre che il voto della maggioranza (per valore) obblighi tutti i creditori concorrenti a vedere soddisfatte le proprie pretese attraverso l'assegnazione di azioni, quote o altri strumenti finanziari partecipativi. Un elemento decisivo per il successo dello strumento del debt-to-equity swap nella ristrutturazione di imprese in crisi è rappresentato dal superamento del principio della par condicio creditorum, almeno nella sua rigida applicazione e fermo naturalmente l'ordine dei privilegi. L'art. 160, comma 1, lettere c) e d), l. fall. consente infatti di suddividere i creditori in classi omogenee e, nella prospettiva in esame, di offrire a classi diverse strumenti finanziari differenti sul corretto presupposto che la conversione di credito in capitale non è ipotesi appetibile per qualsiasi creditore. La lettera della norma lascia ampi margini nella formulazione del piano col quale si propone una conversione forzosa, con la precisazione di potersi distinguere, in via di prima approssimazione, tra piani che prevedano l'assegnazione di strumenti emessi dalla stessa società debitrice e piani che prevedano, invece, l'assegnazione di strumenti emessi da una società che funga da assuntore del concordato. E la scelta di non mutare l'identità del soggetto titolare delle attività rilevanti e, quale conseguenza, l'adozione della prima delle due ipotesi descritte dipende da ragioni di ordine pratico: perché i costi di trasferimento della titolarità delle attività della società debitrice sono molto elevati o richiedono il compimento di notevoli formalità, oppure perché la società in crisi è già quotata sui mercati regolamentati, sicché l'offerta in conversione di strumenti finanziari già ammessi alla negoziazione può essere un elemento di maggiore interesse per i creditori. Venendo a considerare, più nel dettaglio, l'aumento di capitale a servizio della conversione forzosa dei crediti, è opinione comune che si tratti di aumento di capitale per cassa e non di aumento di capitale in natura, quindi non soggetto agli adempimenti di cui all'art. 2440 c.c., il quale richiama gli artt. 2342 e 2343 c.c. I crediti anteriori alla domanda di concordato subiscono, infatti, una duplice mutazione, poiché, da un lato, diventano inesigibili e, dall'altro lato, devono considerarsi scaduti in modo da poter essere soddisfatti secondo quanto previsto nella proposta di concordato. Con il che, la sottoscrizione di un aumento di capitale al servizio di un debt-to-equity swap avviene attraverso la conversione di crediti da considerarsi certi, liquidi e, al momento della sottoscrizione, anche esigibili; e ciò con la precisazione che la liberazione dell'aumento di capitale avverrà attraverso la compensazione del debito da sottoscrizione con il credito convertito forzosamente, dunque non già, come normalmente accade, incrementando l'attivo mediante iniezione di denaro, ma diminuendo il passivo mediante estinzione di un debito. Resta ovviamente intesto che anche nell'operazione di debt-to-equity swap deve essere sempre rispettato il principio dell'effettività del capitale sociale e pertanto il valore dei crediti da portare in compensazione deve essere almeno pari al valore nominale delle azioni emesse e sottoscritte dai creditori; e normalmente il prezzo di emissione delle nuove azioni sarà alla pari, non potendosi tuttavia escludere che sia previsto un sovrapprezzo da destinare ad un'apposita riserva straordinaria, che non potrà essere distribuita finché la stessa riserva non sia pari al quinto del capitale sociale ai sensi dell'art. 2431 c.c.
Se, come appena visto, la conversione forzosa costituisce oggetto di un aumento di capitale liberato in denaro e non in natura, si pone la questione della tutela del diritto di opzione dei soci. Due le ipotesi: deliberare, secondo le regole ordinarie, un aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione ai sensi dell'art. 2441, comma 5 e 6, c.c., oppure, qualora ci si trovi nella situazione particolare in cui si è perso il capitale sociale e deve procedersi alla sua reintegrazione, la delibera non potrà escludere il diritto di opzione, a meno che vi sia una rinuncia unanime da parte degli azionisti. In caso di crisi d'impresa, non è difficile individuare il richiesto interesse della società per escludere il diritto d'opzione. Una struttura spesso usata nella prassi prevede una modalità alternativa di soddisfazione dei creditori: il credito viene soddisfatto in denaro, da raccogliersi attraverso un aumento di capitale offerto in opzione ai soci, oppure, per la parte di aumento di capitale rimasto inoptato, il credito verrà soddisfatto attraverso la conversione nelle stesse azioni (o altri strumenti finanziari partecipativi) rimaste inoptate. Qualora il piano non preveda la conversione totale dei crediti in capitale, si pone il problema se il credito residuo alla conversione debba essere soggetto al regime di postergazione ai sensi degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. a causa dello status di socio in cui vengono a trovarsi i creditori a seguito di conversione. L'opinione prevalente ritiene che debba prevalere la soluzione negativa in virtù dell'art. 182-quater, comma 3, l. fall. secondo cui “si applicano i commi primo e secondo quando il finanziatore ha acquisito la qualità di socio in esecuzione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo”.
L'art. 2443 c.c. consente che l'aumento di capitale a servizio della conversione forzosa sia delegato al consiglio di amministrazione in alternativa ad una deliberazione dell'assemblea straordinaria. È normalmente consigliabile che l'assemblea deliberi l'aumento o la delega al consiglio di amministrazione prima della domanda di concordato, in quanto elemento a favore della fattibilità del piano di concordato. È bene segnalare che, tra le due alternative, la seconda ha gli indubbi vantaggi di essere maggiormente flessibile e di consentire che la delega sia esercitata in un momento successivo al decreto di omologazione, evitando così di subordinare l'aumento di capitale alla condizione sospensiva dell'omologazione del concordato. Ulteriore questione da considerare in rapporto all'aumento di capitale a servizio dell'operazione di conversione è che, normalmente, una società in crisi ha un capitale che si è ridotto sotto la soglia del limite legale oppure si trova in una situazione di patrimonio netto negativo. Prima dell'introduzione dell'art. 182-sexies l. fall., si doveva necessariamente applicare la disciplina ordinaria, che impone la ricostituzione del capitale al minimo legale pena la verificazione di una causa di scioglimento della società e l'apertura della fase di liquidazione, con la conseguente impossibilità della prosecuzione delle attività. Tale situazione è venuta meno con le nuove previsioni, per cui gli obblighi di ricapitalizzazione e la relativa causa di scioglimento della società sono sospesi e quindi è possibile, anche in presenza di perdite superiori ad un terzo ed anche in caso di patrimonio netto negativo, deliberare un aumento di capitale a servizio della conversione. Si è così disinnescato un circolo vizioso, che caratterizzava il rapporto tra le norme a tutela del capitale ed i tempi e modi di ristrutturazione: da un lato la società non poteva proseguire l'attività senza coprire le perdite, e dall'altro per coprire le perdite era necessario completare la ristrutturazione. Sotto tale profilo è indubbiamente rilevante anche il nuovo orientamento, condiviso dal Consiglio Notarile di Milano, per cui è possibile deliberare, nei casi di sottocapitalizzazione, un aumento di capitale pur in assenza di preventiva integrale copertura delle perdite e riduzione di capitale esistente o nuovi apporti. Ultima, ma non per importanza, questione di ordine sistematico è se il procedimento di conversione di credito in equity produca una novazione oggettiva del credito oppure se determini una soddisfazione dei creditori attraverso una diversa prestazione, secondo lo schema della datio in solutum dell'art. 1197 c.c.
In favore della seconda soluzione, cui aderisce il Tribunale di Reggio Emilia, depone la lettera dell'art. 160 l. fall., che parla espressamente di soddisfazione mediante attribuzione di azioni, mentre a favore della prima interpretazione depone la significatività del mutamento che i crediti subiscono a seguito di conversione. A prescindere da questo dato, è pacifico che la conversione forzosa non si perfeziona al solo esito dell'omologa del concordato. Infatti, con l'omologa del concordato i creditori acquistano il diritto ad ottenere lo strumento finanziario offerto, mentre il negozio di sottoscrizione si concluderà solo a seguito del compimento di tutti gli atti societari prodromici e di un atto volontario del titolare del diritto. In buona sostanza, sarà onere dei titolari dei crediti esigere l'attribuzione degli strumenti finanziari offerti nel piano mediante la formalizzazione del negozio di sottoscrizione. E nel tempo intercorrente tra il decreto di omologa ed il negozio di sottoscrizione non è ben chiaro come dovrebbe essere qualificato il credito. Dal punto di vista dell'emittente, il capitale non può considerarsi aumentato sin quando non si sia perfezionato il negozio di sottoscrizione. A questo proposito, si potrebbe ipotizzare, almeno quando l'emittente sia lo stesso debitore, di considerare il credito come conferimento in conto aumento di capitale. L'art. 160 l. fall., come anticipato, lascia ampia libertà nello strutturare il piano di concordato ed in particolare, per quanto riguarda la conversione forzosa di crediti, prevede espressamente che la proposta di concordato possa includere l'attribuzione “di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito”. Molto utile si è rivelata nella prassi la figura degli strumenti finanziari partecipativi ai sensi dell'art. 2346 c.c., secondo cui “resta salva la possibilità che la società a seguito dell'apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, emetta strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nell'assemblea generale degli azionisti”. La norma non precisa quali diritti siano incorporati, ma, per distinguerli dagli strumenti finanziari non partecipativi, si ritiene che debbano necessariamente “partecipare” dal punto di vista patrimoniale o dal punto di vista amministrativo all'organizzazione della società emittente, restando inteso, secondo l'opinione prevalente, che gli strumenti finanziari partecipativi devono essere obbligatoriamente dotati, per lo meno, di diritti patrimoniali. A seconda delle caratteristiche loro concretamente attribuite dallo statuto, gli strumenti finanziari partecipativi possono essere inquadrati come apporti di capitale (strumenti di quasi-equity) o come strumenti di debito (assimilabili alle obbligazioni). Rientrano tra gli apporti a titolo di capitale di rischio gli strumenti le cui caratteristiche principali sono di
dare diritto a partecipare alla gestione dell'impresa secondo quanto previsto dallo statuto e dalla legge;
non dare diritto alla restituzione dell'apporto, ma solo a partecipare alla ripartizione del patrimonio residuo di liquidazione, di regola in proporzione ai relativi apporti;
rendere possibile che le riserve create con gli apporti dei sottoscrittori vengono erose dalle perdite eventualmente subite dalla società;
dare diritto a una remunerazione commisurata ai risultati dell'impresa nei limiti, ovviamente, degli utili effettivamente maturati dall'impresa e distribuiti dai soci.
Il paradigma degli strumenti di finanziamento è rappresentato dalle obbligazioni disciplinate dall'art. 2410 c.c., le cui caratteristiche principali sono il diritto alla restituzione della somma erogata a favore della società ad una scadenza prefissata ed una remunerazione basata su un tasso d'interesse. Tra gli strumenti di debito si annoverano le obbligazioni semplici, le obbligazioni convertibili e gli strumenti finanziari di debito assimilabili alle obbligazioni di cui all'art. 2411 c.c. Per quanto riguarda i diritti di natura amministrativa, il principale diritto incorporabile negli strumenti finanziari partecipativi è il diritto di voto su argomenti specificatamente indicati (art. 2351 c.c.), comunque escluso il voto in assemblea generale degli azionisti. Lo statuto può variamente configurare il diritto di voto dei titolari di strumenti finanziari partecipativi, ad esempio, si può prevedere che le delibere su alcune materie siano condizionate al loro voto favorevole oppure che determinate delibere necessitino di determinati quorum. La dottrina non è concorde su quale significato attribuire all'esclusione del voto dei portatori di strumenti finanziari dall'assemblea generale degli azionisti. Da un lato, si ritiene che il loro voto debba esprimersi in una specifica assemblea, mentre in senso contrario si è autorevolmente espresso il Comitato Notarile Triveneto, sostenendo che i titolari di strumenti finanziari possano esprimere il voto all'interno dell'assemblea degli azionisti, ma che il loro voto non possa essere esteso alla generalità degli argomenti e debba essere limitato a quelli specificatamente incorporati. L'art. 2351 c.c. prevede l'incorporabilità di un diritto amministrativo, vale a dire che sia “riservata, secondo modalità stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco”, precisando che “alle persone così nominate si applicano le medesime norme previste per gli altri componenti dell'organo cui partecipano”. La norma è chiara nello stabilire che i titolari di strumenti finanziari partecipativi possano nominare un componente del consiglio di amministrazione oppure un sindaco. Tuttavia, si è diffusa la prassi che i creditori richiedano una rappresentanza sia nell'organo amministrativo che nell'organo di controllo. Per risolvere il problema senza violare il disposto dell'art. 2351 c.c., si è prospettato di incorporare negli strumenti finanziari il diritto amministrativo atipico di poter esprimere gradimento sulla nomina del presidente del consiglio sindacale, nomina che rimane formalmente di competenza dell'assemblea generale degli azionisti. Un'ulteriore frequente prassi è quella per cui i creditori che ricevono in conversione strumenti finanziari partecipativi chiedano l'inserimento di clausole statutarie che attribuiscano diritti di veto in tema di operazioni straordinarie, quali la modifica dell'oggetto sociale, il trasferimento dell'azienda sociale, oppure al compimento di certi atti gestori quali, ad esempio, il superamento di una certa soglia di indebitamento. In dottrina si discute, propendendo verso l'ammissibilità, se possano essere incorporati in strumenti finanziari partecipativi i seguenti diritti amministrativi minori, vale a dire
il diritto di intervenire in assemblea,
il diritto di impugnare le delibere assembleari annullabili ai sensi dell'art. 2377 c.c.,
i diritti di controllo, come quello di denuncia per gravi irregolarità exart. 2409 c.c.,
e i diritti di informazione, come quelli di prendere visione di libri sociali ed estrarne copie.
Qualora la soluzione di una crisi d'impresa, come definita mediante un piano attestato ai sensi dell'art. 67 l. fall., oppure un accordo di ristrutturazione ai sensi dell'art. 182-bis l. fall., oppure un concordato preventivo, non abbia successo e pertanto venga resa oggetto, a seconda dei casi, di risoluzione e/o annullamento e/o recesso e/o comunque scioglimento, è verosimile ritenere che si apra, su richiesta di uno dei creditori, uno scenario fallimentare. E ciò in quanto la crisi, temporaneamente risolta mediante uno degli strumenti legali, si tramuta inevitabilmente in dissesto irreversibile, dunque nell'insolvenza prevista dall'art. 5 l. fall.. Questa conseguenza è stata presa in considerazione dal legislatore che, nel disciplinare gli strumenti di soluzione concordata della crisi, si è premurato di regolare gli effetti dell'eventuale fallimento sugli atti - oltre che sui pagamenti e sulle garanzie - posti in essere in esecuzione di uno degli strumenti sopra menzionati. Come noto, l'effetto comune a tutti questi strumenti consiste nell'esenzione dall'azione revocatoria fallimentare ai sensi dell'art. 67 legge fall. e non anche, secondo la comune interpretazione, dall'azione revocatoria ordinaria ai sensi dell'art. 2901 c.c., anche se – va detto – le operazioni sul capitale elaborate nell'ambito di un piano di risanamento o di un accordo di ristrutturazione rispondono ad interessi meritevoli di tutela ed idonei ad escludere la configurabilità di un pregiudizio in danno dei creditori dell'imprenditore in crisi, con conseguente improbabilità d'esperimento d'una azione ai sensi dell'art. 2901 c.c. nei confronti di atti ristrutturativi corporate. Questi atti, quale che sia l'attore che li esegue (socio o creditore nei termini descritti ai superiori paragrafi) determinano un rafforzamento del capitale sociale, generando un beneficio a favore di tutti creditori anche mediante il ripristino della continuità aziendale. I creditori beneficati non sono, infatti, soltanto quelli aderenti al piano ed all'accordo, ma anche quelli estranei. I primi hanno la prospettiva di recuperare le proprie ragioni mediante la partecipazione ai futuri utili dell'attività caratteristica. I secondi vedono, per contro, riequilibrata la situazione patrimoniale, reddituale e finanziaria dell'impresa, con conseguente possibilità di vedere soddisfatte le proprie ragioni nei termini pattuiti all'interno dei contratti originari. Ed è in questa prospettiva che la Suprema Corte ha avuto occasione di chiarire, in passato, che “esiste un interesse generale e sociale alla conversione dei crediti verso la società in capitale di rischio”. La situazione complessiva appena descritta depone, dunque, nel senso della definitività ed irreversibilità di un'eventuale operazione sul capitale mediante un piano di risanamento, un accordo di ristrutturazione oppure un concordato preventivo, con conseguente sua insensibilità alla successiva vicenda fallimentare. Né potrebbero ipotizzarsi, in caso di piano attestato di risanamento oppure di accordo di ristrutturazione, clausole negoziali che facciano dipendere la caducazione di queste operazioni dall'eventuale dichiarazione di fallimento dell'imprenditore in crisi, giacché queste clausole potrebbero essere passibili d'inefficacia ai sensi dell'art. 72, comma 6, l. fall. In altre parole, una volta assunte le necessarie deliberazioni da parte dei competenti organi sociali ed eseguiti i conseguenti atti, l'operazione sul capitale produce definitivamente i suoi effetti, risultando così dotata di una stabilità propria senza poter essere annullata od altrimenti invalidata in ragione del venir meno, per qualunque motivo e sotto qualunque forma, del presupposto che aveva legittimato i creditori ad ottenere azioni o strumenti finanziari partecipativi. Ora, se non può, per così dire, lavorarsi “a valle”, può tuttavia, e sempre per così dire, lavorarsi “a monte”, specie in ipotesi di accordo di ristrutturazione, prevedendosi, a livello pattizio, che le anzidette deliberazioni sociali siano sospensivamente condizionate almeno a due elementi: il primo è la positiva conclusione dell'accordo con i creditori ed il secondo è l'emissione del provvedimento omologativo da parte del competente Tribunale. Con il che, ove non venisse raggiunta la percentuale di consenso tra i creditori dell'impresa e, cumulativamente, mancasse l'omologazione giudiziale, allora l'operazione sul capitale resterebbe definitivamente inefficace. Analogo accorgimento potrebbe essere ipotizzato anche in caso di piano di risanamento, prevedendosi che l'impresa deliberi un'operazione inscindibile, dunque soggetta alla condizione di sua esecuzione da parte del numero di creditori pattiziamente previsto. In questo modo, l'intera operazione sul capitale diventerà efficace solamente dopo l'adesione di tutti i creditori interessati, garantendo, così, una specifica riduzione dei debiti societari convertibili in capitale di rischio o strumenti finanziari partecipativi.
In definitiva, ed in linea con quanto statuito dal Tribunale di Reggio Emilia, la risoluzione del concordato opera retroattivamente, facendo venir meno gli effetti modificativo-esdebitatori dell'accordo concordatario, sicché la stessa risoluzione non determina la caducazione automatica e retroattiva delle modifiche organizzative già attuate, destinate a dare vita a situazioni nuove ed irreversibili in considerazione dell'autonomia e della specialità della disciplina societaria che regola la invalidità delle deliberazioni. Ne discende che, venuti meno gli effetti modificativi del concordato sui rapporti obbligatori, i creditori, trattenuto quanto lecitamente riscosso in esecuzione del concordato (dovendo indiscutibilmente ritenersi i pagamenti atti dovuti, indipendentemente dall'applicazione analogica dell'art. 143, comma 3, seconda parte, l. fall.), avranno soltanto diritto all'eventuale residuo dovuto rispetto all'intero credito originario, con gli interessi maturati secondo le regole ordinarie. I creditori che abbiano ricevuto, a titolo solutorio, l'attribuzione dei beni, dei titoli ovvero delle partecipazioni sociali di valore corrispondente ai loro crediti, non avranno più alcun diritto da far valere nel susseguente fallimento in rapporto alle obbligazioni pecuniarie originarie.
Conclusioni
Il Tribunale di Reggio Emilia, attraverso un giudizio comparativo delle tre normative applicabili (civile, societaria e fallimentare) ad un'operazione straordinaria di conversione forzosa di crediti in azioni emesse in esecuzione di un aumento di capitale riservato con esclusione del diritto d'opzione, afferma che l'assegnazione di strumenti (azioni, quote, obbligazioni o strumenti finanziari partecipativi) esplica un effetto estintivo irreversibile dell'obbligazione di pagamento di un creditore concordatario in ragione della prevalenza della disciplina societaria sulla disciplina fallimentare, con la conseguenza che, in ipotesi di risoluzione del concordato e di susseguente fallimento, questo stesso creditore perde il diritto d'insinuazione.
Riferimenti giurisprudenziali e bibliograifici
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