Il fallimento integra una condizione necessaria per la configurabilità dei reati di bancarotta, ma non ne costituisce l'evento - se non per le ipotesi di cui all'art. 223, comma 2, l. fall., nelle quali lo stesso è stato espressamente previsto come tale – né può essere posto in rapporto eziologico con la condotta.
Massima
Il fallimento integra una condizione necessaria per la configurabilità dei reati di bancarotta, ma non ne costituisce l'evento - se non per le ipotesi di cui all'art. 223, comma 2, l. fall., nelle quali lo stesso è stato espressamente previsto come tale – né può essere posto in rapporto eziologico con la condotta.
In tema di reati di bancarotta non è richiesta in capo all'amministratore - o al concorrente esterno nel delitto - la consapevolezza dello stato di insolvenza della società fallita o ammessa al concordato preventivo.
Il caso
Nella vicenda in esame, che riguarda il c.d. dissesto del San Raffaele, un imputato aveva presentato ricorso avverso la sentenza della Corte d'appello di Milano che lo aveva condannato per i reati continuati di associazione per delinquere (art. 416 c.p.) e bancarotta fraudolenta (art. 216 l. fall.). Nell'annullare con rinvio alla Corte territoriale la sentenza impugnata – limitatamente a capi della sentenza non trattati in questa sede e dichiarando infondati i restanti motivi di ricorso – la Corte di cassazione si sofferma approfonditamente sulla natura del fallimento in relazione alla configurazione del reato di bancarotta, sull'irrilevanza causale tra i fatti di bancarotta ed il dissesto dell'impresa, nonché sul perimetro dell'elemento psicologico del reato in capo al concorrente esterno nel delitto.
Le questioni giuridiche e le soluzioni
Il caso portato all'attenzione della Corte di cassazione pone, tra gli altri, tre temi giuridici di estrema rilevanza nell'ambito dei reati fallimentari:
l'individuazione della natura del fallimento in relazione alle fattispecie di reato previste dalla legge fallimentare, in particolare se esso costituisca l'evento del reato;
la necessità o meno del nesso eziologico tra la condotta distrattiva contestata ed il dissesto dell'ente;
la rilevanza o meno, in capo al concorrente esterno nel reato, della conoscenza dello stato di dissesto dell'ente ai fini dell'integrazione del dolo di bancarotta.
Nell'articolare i motivi di ricorso, la difesa dell'imputato si era richiamata largamente ai principi di diritto affermati in particolare da due sentenze della Cassazione, segnatamente: la sentenza, emessa nell'ambito del medesimo procedimento, di annullamento dell'ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere, con rinvio al GIP di Milano (Cass. Pen. Sez. V, 10 febbraio 2012, n. 16000), che analizzava gli argomenti in seguito sviluppati nella nota sentenza Corvetta (Cass. Pen. Sez. V, 24 settembre 2012, n. 2147). Quest'ultima, nello specifico, uscendo dall'alveo della giurisprudenza consolidatasi in materia, aveva tra l'altro affermato che il fallimento (rectius, lo stato di insolvenza o l'ammissione al concordato ai sensi dell'art. 236, comma 2, n. 1, l. fall.) costituisce l'evento del reato fallimentare: ne discende la necessità della sussistenza sia del nesso causale tra le condotte di bancarotta contestate ed il dissesto dell'ente, sia del dolo in capo all'extraneus, da intendersi come specifica conoscenza dello stato di decozione in cui versa l'ente depredato. Con la sentenza in commento, la Corte di cassazione dichiara invece l'infondatezza di tali deduzioni difensive e coglie l'occasione per offrire una rilettura della sentenza Corvetta più armonica rispetto agli orientamenti maggioritari costantemente ribaditi dal giudice di legittimità in merito ai temi sopra evidenziati. In particolare, quanto al primo tema concernente la natura del fallimento in relazione alla configurazione dei reati fallimentari, la Corte sottolinea l'assoluta particolarità del precedente costituito dalla sentenza Corvetta - peraltro superato da pronunce successive di segno contrario - e ribadisce l'estraneità del dissesto dell'ente rispetto alla struttura del reato fallimentare e la conseguente impossibilità di qualificarlo come evento del delitto stesso (sul punto, la Suprema Corte cita numerosi precedenti in senso conforme, tra i quali, Cass. Pen. Sez. V, 6 maggio 2008, n. 34584; Cass. Pen. Sez. I, 1 ottobre 2009 n. 40172; Cass. Pen. Sez. V, 9 ottobre 2012, n. 232; Cass. Pen. Sez. V, 25 ottobre 2012, n. 745). I Giudici di legittimità, anzitutto, osservano che la sentenza Corvetta – e tutti i precedenti ivi citati - si fondano su un errore interpretativo della nota decisione delle SS.UU. 25 gennaio 1958, n. 2: tale sentenza non si era affatto espressa definendo il fallimento quale elemento costitutivo del reato, bensì aveva testualmente qualificato la dichiarazione del fallimento come “condizione di esistenza del reato” (cfr. anche Cass. Pen. Sez. V, 26 giugno 1990, n. 15850) così, all'evidenza, distinguendola dai dati costitutivi della struttura essenziale del reato. Secondo la Corte, pertanto, le successive decisioni richiamate dalla sentenza Corvetta si riferiscono ad una nozione di elemento costitutivo del reato in senso assolutamente improprio: ne consegue, pertanto, che al fallimento non può essere riconosciuto “alcun significato interpretativo nella direzione della qualificazione del fallimento, o della situazione di insolvenza o dissesto che ne costituisce il fondamento sostanziale, come evento dei reati in esame”. Quanto al secondo tema di diritto affrontato, la Corte ribadisce l'irrilevanza, rispetto alla realizzazione della fattispecie criminosa, del collegamento eziologico tra il dissesto e la condotta delittuosa contestata, proposta invece dalla sentenza Corvetta. Il percorso argomentativo seguito dalla Corte è articolato in diversi motivi sistematici ed estremamente lucido:
anzitutto, la Corte osserva la difficoltà di tracciare un collegamento causale tra la condotta ed il dissesto, laddove esso è costituito da un atto giudiziario, quale la dichiarazione di fallimento o l'ammissione al concordato, estraneo alle determinazioni ed alla disponibilità del soggetto agente (difficoltà che, a ben vedere, aveva indotto l'argomentazione della sentenza Corvetta a riferire tale rapporto ad un evento identificato nel presupposto sostanziale del fallimento, ossia il dissesto o lo stato di insolvenza);
la stessa sentenza Corvetta ammette la difficile ipotizzabilità di un rapporto causale fra il dissesto e le condotte di bancarotta documentale (problema chiaramente non sussistente nei casi di bancarotta patrimoniale);
situazione analoga nei casi di bancarotta post-fallimentare ai sensi dell'art. 216, co. 2, l. fall., in cui la posteriorità temporale della condotta rispetto al fallimento esclude addirittura in radice alcuna dipendenza di quest'ultimo dalla condotta delittuosa;
la rilevanza del rapporto causale fra la condotta ed il dissesto è espressamente prevista per le sole fattispecie di bancarotta impropria di cui all'art. 223, comma 2, l. fall.;
l'apparente irragionevolezza della disparità giuridica laddove, in presenza di fatti di illegale ripartizione degli utili, sanzionati dall'art. 2627 c.c. e richiamati dall'art. 223, comma 2, n.1, l. fall., venisse contestato il delitto di bancarotta fraudolenta impropria in luogo della bancarotta impropria da reato societario. Invero, osserva la Corte, l'utile integralmente distribuito, in quanto di spettanza dei soci e non della società, non integra di per sé l'oggetto materiale del delitto di bancarotta per distrazione, ma lo diventa solo nell'ipotesi in cui la sua assegnazione avvenga senza la prededuzione dell'onere tributario e della conseguente penalità, incidendo in tal modo la condotta su disponibilità eccedenti quelle di pertinenza dei soci (si veda anche Cass. Pen. Sez. V, 18 febbraio 2009, n. 17692);
in chiusura, è estremamente significativo che l'art. 223, comma 2, l. fall. sia stato modificato dall'art. 4 D.Lgs. n. 61/2002 con l'estensione della sola previsione del nesso causale con il dissesto, precedentemente in vigore per le sole ipotesi di bancarotta impropria per causazione dolosa del fallimento, a quelle di bancarotta impropria da reato societario, senza che analoga disposizione sia stata con l'occasione introdotta anche per gli altri reati fallimentari. Ciò conferma, in altre parole, il persistente intento del legislatore di riservare il requisito della necessità del rapporto causale fra la condotta ed il dissesto al limitato ambito delle ipotesi di bancarotta impropria, escludendolo, di conseguenza, per le altre fattispecie di bancarotta.
In definitiva, conclude sul punto la Corte, la sentenza Corvetta non è in grado di porre in discussione ciò che, ove correttamente analizzato, si dimostra essere un costante e radicato orientamento giurisprudenziale per il quale il fallimento, pur integrando una condizione necessaria per la configurabilità dei reati di bancarotta - solo in tal senso definita con l'improprio richiamo alla nozione di elemento costitutivo del reato - non ne costituisce l'evento se non per le ipotesi di cui all'art. 223, comma 2, l. fall. per le quali lo stesso è espressamente previsto come tale. All'infuori di tali casi, la dichiarazione di fallimento o le situazioni ad essa assimilate svolgono una duplice funzione: in primo luogo, qualificare ulteriormente l'offesa nella prospettiva del pericolo che, in caso di intervento della procedura concorsuale, il soddisfacimento delle pretese creditorie sia pregiudicato dalla pregressa ed illecita depauperazione patrimoniale; in secondo luogo, attualizzare tale lesività con l'effettiva apertura della procedura indicata. In quest'ottica, l'atto giudiziale che qualifica ed attualizza l'offesa non è riconducibile ad alcuna delle categorie degli elementi costitutivi del reato, né, tantomeno, a quella dell'evento: ciò impedisce qualsiasi nesso in termini di rapporto causale con la condotta contestata. Anche in riferimento al tema del dolo di bancarotta in capo al concorrente esterno, la Corte di cassazione rigetta le deduzioni della difesa (che, nuovamente, richiamavano in larga parte principi espressi dalla sentenza emessa nell'ambito del subprocedimento incidentale “de libertate” e dalla sentenza Corvetta, sopra citate). In particolare, il ricorrente aveva sostenuto la necessità che l'affermazione di responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta fosse assistita dalla dimostrazione dello stato di consapevolezza di insolvenza della fallita in capo, nello specifico, al concorrente estraneo al reato: in altre parole, secondo la tesi difensiva, è indispensabile che lo stato di insolvenza sia previsto e voluto quale conseguenza della condotta (anche) del concorrente extraneus. Al proposito, la sentenza in commento si richiama alla vasta giurisprudenza che esclude la prospettiva del dissesto dall'oggetto del dolo dei reati di bancarotta: l'offesa tipica del delitto di bancarotta fraudolenta ha natura di pericolo e l'elemento soggettivo del reato, con specifico riferimento alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, deve essere individuato nella consapevolezza di dare ai beni della fallita una destinazione diversa da quella dovuta secondo le funzionalità dell'impresa, privando quest'ultima di risorse e garanzie per i creditori (accanto ai numerosi precedenti citati dalla Corte, sul punto, si segnalano in aggiunta: Cass. Pen. Sez. V, 29 gennaio 2013, n. 4362; Cass. Pen. Sez. V, 11 gennaio 2013, n. 20829; Cass. Pen. Sez. V, 26 settembre 2011, n. 44933; Cass. Pen. Sez. V, 13 gennaio 2009, n. 9299. Cass. Pen. sez. V 8 aprile 1988, n. 6992 precisava che, ad integrare il delitto di bancarotta fraudolenta nelle ipotesi di distrazione, è sufficiente la conoscenza e la volontà dell'agente di commettere i fatti di distrazione, avendo essi in sé stessi la sostanza della frode, senza che sia necessario alcun intento o alcuna previsione specifica di arrecare un pregiudizio economico al patrimonio dell'impresa in maniera da provocarne la decozione e, conseguentemente ai creditori della stessa, che sul patrimonio aziendale fondano la garanzia per il soddisfacimento delle ragioni creditorie. In senso conforme, Cass. Pen. Sez. V, 23 ottobre 1996, n. 10941). A conclusione del percorso della Corte, alla conoscenza dello stato di dissesto viene riservata una funzione meramente probatoria, quale elemento che, come altri – e quindi in un'ottica di non necessità – può risultare in concreto utile ai fini della dimostrazione del dolo che, anche per l'extraneus, si risolve nella consapevolezza di sottrarre dei beni alla funzione di garanzia dei creditori per scopi diversi dall'attività di impresa. Così delineato il perimetro dell'elemento soggettivo del reato, la Cassazione sposta l'analisi alla ricerca di eventuali elementi che consentano di introdurre una distinzione tra il dolo richiesto in capo all'amministratore di società ed il concorrente esterno nel reato fallimentare. La risposta in questo senso è negativa: in aderenza alle regole generali sul concorso di persone, non vi sono ragioni perché al dolo debba essere attribuito un contenuto diverso e più ampio per la posizione del concorrente esterno. In sostanza, il dolo dell'extraneus si risolve nella consapevolezza di concorrere nella sottrazione dei beni alla funzione di garanzia delle ragioni dei creditori per scopi diversi da quelli inerenti l'attività di impresa, a prescindere dalla conoscenza della condizione di insolvenza della stessa (si vedano sul punto, tra le altre: Cass. Pen. Sez. V, 21 maggio 2012, n. 19270; Cass. Pen. Sez. I, 13 maggio 2012, n. 16280; Cass. Pen. Sez. V, 13 gennaio 2009, n. 9299. Si segnala Cass. Pen. Sez. V, 27 ottobre 2006, n. 41333 che ha incentrato il dolo del concorrente estraneo non nella consapevolezza dell'insolvenza, ma in quella del rischio di insolvenza, identificato come pregiudizio per i creditori: anche in quest'ottica è evidente l'offesa di pericolo propria del reato, nella prospettiva dell'eventuale apertura di procedure concorsuali, del tutto identica, osserva la Corte, all'oggetto del dolo del soggetto intraneo all'impresa).
Conclusioni
La sentenza in commento rappresenta un importante “recupero” dei granitici principi espressi dal Giudice di legittimità in materia di elementi oggettivi e soggettivi del reato di bancarotta, messi in seria discussione dal revirement della sentenza Corvetta. “Una rondine non fa primavera”, aveva prudentemente ammonito la dottrina penalistica nei primi commenti alla sentenza Corvetta: così è stato. La Corte, non senza sottolineare l'estrema particolarità della situazione di fatto alla base dalla sentenza Corvetta (riferita alla posizione di un soggetto titolare della carica amministrativa di una società in un periodo di tempo delimitato e seguito, prima del fallimento, dalla gestione di soggetti diversi e da una procedura di amministrazione giudiziale ex art. 2409 c.c. conclusasi senza rilievi di insolvenza) ne supera l'orientamento (più garantista) anche grazie ad una approfondita rilettura - a vantaggio della propria tesi - del precedente panorama giurisprudenziale che aveva offerto alcuni argomenti di ancoraggio alla sentenza Corvetta stessa. Sulla questione nodale della natura del fallimento, che la Corte definisce una condizione necessaria per la configurabilità del reato di bancarotta, la decisione in commento esprime la distanza sia dalle posizioni espresse dalla dottrina maggioritaria - che ravvisa nella dichiarazione di fallimento una condizione obiettiva di punibilità del reato - sia dalla giurisprudenza che nel fallimento stesso ha individuato un elemento costitutivo del reato. Sul versante dei criteri soggettivi ed oggettivi dell'imputazione di bancarotta fraudolenta la Corte, anzitutto, non rileva alcuna distinzione tra la figura dell'amministratore di società e quella del concorrente esterno nel reato di bancarotta e ritorna pienamente ai precedenti consolidati. Peraltro la ribadita irrilevanza sia del nesso eziologico tra la condotta ed il dissesto della fallita, sia della sussistenza del dolo in relazione allo stato di insolvenza della stessa, espone la decisione a possibili profili di criticità, in quanto non si spiegano le ragioni per le quali, in materia di bancarotta, non dovrebbero operare i criteri ordinari di imputazione oggettiva e soggettiva previsti dagli artt. 40 e 43 c.p.
Riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi
Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate direttamente nel commento.
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