Abusiva concessione di credito e legittimazione della curatela
12 Giugno 2017
Massima
E' legittimata ad agire la Curatela fallimentare nei confronti della banca che si assuma responsabile di avere danneggiato il patrimonio della società fallita, in concorso con gli amministratori di quest'ultima, per avere erogato credito in condizioni di accertata perdita del capitale sociale, ed in carenza di adeguata valutazione del merito creditizio.
Il danno può essere liquidato mediante l'applicazione del criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali. Il caso
Una Curatela fallimentare agisce in giudizio nei confronti degli amministratori di una società fallita e di alcune banche, imputando a tutti i soggetti, in concorso fra di loro, la responsabilità di avere aggravato il dissesto della società, mediante il procurato ritardo nell'emersione dello stesso, ed il conseguente deterioramento del patrimonio.
La Corte di Appello di Milano (sentenza 7 ottobre 2011) decide nel senso della inammissibilità della domanda introdotta verso le banche, siccome la Curatela non sarebbe titolare di una apposita legittimazione a fare valere il pregiudizio subito dalla Massa creditoria, e d'altro canto l'erogazione del credito sarebbe avvenuta su sollecitazione diretta dell'organo amministrativo della società debitrice, ossia da quest'ultima, in forza del nesso di immedesimazione organica.
La Suprema Corte ribalta il decisum, rinvenendo una legittimazione del Curatore a reclamare il risarcimento del danno subito dal patrimonio della società, diritto nel cui esercizio la Curatela subentra a seguito del fallimento.
La Corte poi manifesta il proprio deciso dissenso rispetto alla proposta di equiparare il criterio di liquidazione del danno fondato sulla differenza fra attivo e passivo fallimentari a quello della differenza dei netti patrimoniali, e afferma il principio di diritto per cui, nei casi come quello evidenziato, quando cioè sia accertata la perdita del capitale sociale, ed il fallimento subentri dopo un apprezzabile divario temporale, per effetto di condotte idonee ad occultarne la rilevanza, il danno può essere liquidato facendo riferimento al criterio presuntivo della differenza fra i netti patrimoniali di periodo. Le questioni giuridiche
L'abusiva concessione di credito, profili legittimativi Le soluzioni date ai due problemi dalla S.C. (legittimazione della Curatela a dolersi dell'abusiva concessione di credito, liquidazione del danno da prosecuzione illegittima dell'attività sociale dopo la perdita del capitale sociale) possono davvero sorprendere: per entrambe le ipotesi infatti erano in atto da tempo processi interpretativi riduzionistici, che venivano direttamente legati invero a pronunzie giurisprudenziali autorevoli.
Come è noto infatti la Curatela non può avanzare in via generale pretese in rappresentanza della Massa, difettando una apposita norma legittimativa, al di là dei casi espressamente previsti: Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, nn. 7029-7030-7031; Cass., 9 luglio 2008, n. 18832, e soprattutto Cass., Sez. Un., 18 maggio 2009, n. 11396 (per una ricostruzione analitica del concetto di “azione di massa”, con conferma e specifico richiamo del precedente del 2006, sia pur a proposito dell'azionabilità delle garanzie prestate da terzi nel concordato preventivo); v. anche, più di recente, Cass., 3 giugno 2010, n. 13465 (a proposito di azione di responsabilità dei creditori sociali nei consorzi).
Anche sulla base di tali orientamenti, alcune pronunzie di Corte di Appello avevano assunto nei tempi recenti una posizione assai restrittiva quanto alla legittimazione della Curatela ad instare in giudizio per il ristoro dell'abusiva concessione di credito: v. App. Bologna, 17 marzo 2015, Parmalat s.p.a.; ma v. anche la App. Milano, 20 marzo 2015; entrambe reperibili facilmente sul world wide web. Le pronunzie dei Tribunali successive a quelle sopra citate, d'altro canto, si collocavano invece spesso su posizioni divergenti, ed armoniche rispetto all'affermazione della legittimazione della Curatela (v. la nota sentenza “Ventaglio” del Tribunale delle Imprese di Milano, del 26 febbraio 2016, nel ponderoso apparato motivazionale; anche più di recente v. Trib. Prato, 15 febbraio 2017, in questo portale con nota di Cerisoli, La responsabilità solidale della banca con gli amministratori della società fallita per ricorso abusivo al credito).
Le Curatele dei fallimenti che in questi anni hanno tentato questa strada impervia hanno per lo più azionato un fascio di titoli, fra di loro concorrenti, ed univocamente diretti verso il ristoro del patrimonio della società fallita, leso dal comportamento illecito della Banca, in concorso con gli ex organi sociali:
La responsabilità della Banca viene così azionata al fine di ristorare il danno che le condotte sopra citate hanno cagionato direttamente al patrimonio sociale della fallita, e soltanto indirettamente ai creditori. Rispetto alla prospettazione di tale lesione, inferta al patrimonio sociale, la Curatela, che subentra al fallito ex artt. 42- 43 l.fall. nella gestione del relativo rapporto creditorio, sembra in effetti pienamente legittimata ad insorgere non solo contro gli organi sociali, ciò che è testualmente previsto ex art. 146 l.fall. (per di più accompagnata da un'esplicita azione “di massa”), ma altresì contro i terzi corresponsabili di tali fatti, in primis la Banca che col proprio comportamento abbia reso possibile od agevolato la prosecuzione dannosa dell'attività di impresa (spesso programmaticamente distruttrice di ricchezza), nonostante la palese (percepibile ed anzi spesso percepita dalla Banca) decozione della Società. La Corte di Appello di Bologna, nella sentenza “Parmalat” appena citata, si limita tuttavia ad una applicazione “pedissequa” della fattispecie di Cass., n. 13413/2010, senza nemmeno domandarsi se sia plausibile che la stessa esaurisca ogni prospettiva di tutela (e dunque di legittimazione) della Curatela. Ivi infatti si legge che l'unica responsabilità della Banca potrebbe discendere dalla prospettazione delle conseguenze civili del reato di bancarotta fraudolenta causativa dello stato di insolvenza (art. 216 l.fall.), non già anche di quelle del reato di bancarotta semplice per aggravamento del dissesto (“la condotta contestata di aggravamento del dissesto non è conforme alla condotta richiesta dalla Corte di legittimità di condotta del terzo idonea a determinare lo stato di insolvenza e già in sede di atto introduttivo del giudizio è necessario, ai fini della sussistenza della legittimazione ad agire, che in base ai fatti prospettati l'azione proposta e le contestazioni mosse all'operato del terzo si pongano in diretta connessione causale con la dichiarazione di insolvenza e con il conseguente evento dannoso”).
Sennonché, la natura apodittica di tali affermazioni non sembra poter sfuggire ad un esame men che superficiale: se già Cass., n. 13413/2010 aveva probabilmente inteso sfuggire alla sensazione di collidere con il dictum recente di Cass., Sez. Un., n. 7039/2006 (v. infra), a tal fine enfatizzando nella motivazione la “peculiarità” della fattispecie, intermediata dall'accertamento della responsabilità penale, di particolare gravità anche nella scala dei valori tutelati dagli artt. 216 ss. l.fall., la Corte distrettuale bolognese sembra aver inteso quella pronunzia più come un atto “legislativo” che interpretativo, per di più erroneamente inserito nella supposta cornice ordinamentale di un divieto generale di agire contro la Banca per tali condotte; divieto cui la S.C. avrebbe apposto nel 2010 una “deroga”, di portata eccezionale, e pertanto da applicare in termini rigorosi e restrittivi. Al contrario, nessuna disposizione di legge regola esplicitamente tali fattispecie, che pertanto debbono essere ricondotte ai principi generali; con esiti, crediamo, profondamente divergenti da quelli appena scrutinati. Già ad un esame superficiale, d'altro canto, si stenta a comprendere perché la condotta, pur essa penalmente rilevante, di aggravamento del dissesto, anziché di determinazione del medesimo, dovrebbe essere qualitativamente differente, sotto il profilo delle conseguenze risarcitorie civilistiche, posto che per entrambe è ben percepibile l'eziologia pregiudizievole che attiva l'obbligo risarcitorio ex art. 185 c.p.; è noto infatti che l'idoneità degli antecedenti causali a determinare l'evento dannoso prescinde, anche nel contesto penalistico di riferimento, dalla portata direttamente incidente od addirittura “assorbente”, o piuttosto meramente “concausale”, dello stesso: tutte le (con)cause, purché statisticamente idonee a produrre quel danno, sono “valide” (art. 41 c.p.). Il danno risarcibile, poi, in queste vicende, non è dato dalla insolvenza in sé, che semmai costituisce il mero danno-evento, bensì dalle conseguenze dannose conseguitene, in termini di diminuzione del patrimonio della società (c.d. danno-conseguenza) dopo l'insorgere del dissesto; non si vede pertanto perché il concorso della Banca nella “grave colpa” degli amministratori della Società connaturata nel ritardo nel chiedere il fallimento dovrebbe essere meno idoneo ad “attirare” la domanda risarcitoria della Curatela rispetto alla differente condotta che abbia direttamente concorso a provocare quel dissesto, così aprendo il processo di seriazione causale che successivamente, ancora attraverso la mancata attivazione per chiedere il fallimento, conduca alla diminuzione del patrimonio della società, e dunque ancora allo stesso danno- conseguenza risarcibile. Ed in definitiva, non si vede perché la legittimazione della Curatela debba essere necessariamente ricondotta alla violazione di un precetto penale, quando anche i distinti titoli civilistici azionabili costituiscono strumenti di tutela del patrimonio del debitore fallito contro gli atti dispersivi di ricchezza, posto in essere dai propri organi, anche in concorso con l'operato di terzi, fra i quali proprio la Banca. La conferma di ciò si ricava forse anche dalla recente Cass., Sez. Un., n. 1641/2017 (in questo portale, con nota di Fanciaresi, Legittimazione del curatore all'azione di responsabilità verso gli amministratori e pagamenti preferenziali) ove si rinviene la decisa affermazione per cui “a questa concorrenza di titoli di responsabilità corrisponde una legittimazione unitaria del curatore fallimentare sia in sede penale sia in sede civile per tutte le azioni esercitabili nei confronti degli amministratori”, ed ancora l'asserto per cui al danno da reato possono essere “riferibili” anche i titoli contrattuali ed extracontrattuali di cui agli artt. 2393-2394 c.c. (e 146 l.fall.), per i quali pure pertanto può discutersi di risarcibilità del danno “morale”, a prescindere dalla natura contrattuale od extracontrattuale dello specifico titolo. Per finire con l'asserzione, assai rilevante anche ai nostri fini, per cui “l'aggravamento del dissesto … non può esservi senza il depauperamento del patrimonio sociale”. In tutti i casi ove la Curatela potrebbe costituirsi parte civile contro un determinato soggetto, per uno qualsiasi dei reati implicati dall'art. 240 l.fall., deve inoltre sussistere altresì una parallela legittimazione in sede civile, al fine di ottenere il ristoro del medesimo danno. Ed il fatto che ancora non sia sopraggiunto alcun accertamento in sede penale non ha alcuna rilevanza nel giudizio civile, atteso che, come è noto, il Giudice civile può delibare in autonomia, ai fini della pronunzia sul risarcimento del danno, la sussistenza della condotta penalmente rilevante; e fra l'altro basta a tal fine l'accertamento di una condotta oggettivamente difforme dal precetto penale, senza che occorra accedere anche al profilo dell'elemento soggettivo del reato. D'altro canto, proseguendo l'esame della motivazione della sentenza “Parmalat”, si rileva, alla fine del decisum, la sensazione che la reale ratio della motivazione sia percepibile attraverso la argomentazione per cui “il curatore è inoltre privo di legittimazione ad agire con riferimento alla azione a tutela dei creditori sociali sotto il profilo dell'aggravamento dello stato di dissesto ed al pregiudizio al patrimonio sociale … non potendosi ritenere in ipotesi di abusiva concessione di credito, analoga alla fattispecie in esame, l'azione promossa verso il terzo, per i crediti illegittimamente erogati diretta alla tutela indistinta della massa dei creditori, ma al contrario trattasi di azione volta alla tutela dei singoli creditori danneggiati dalla prosecuzione dell'attività e dall'aggravamento dello stato di dissesto per effetto di detti finanziamenti, come tale esercitabile dai singoli danneggiati”. In realtà, tuttavia, anche a proposito del danno da bancarotta preferenziale l'orientamento restrittivo (costante tanto per il Tribunale delle Imprese di Milano: sentt. 22 dicembre 2010, in Società, 2011, e 18 gennaio 2011, in Fall., 2011; la prima delle quali è stata confermata da App. Milano, 18 novembre 2013, oggetto di ricorso per Cassazione, che ha originato il caso su cui è stata richiesta la rimessione alle Sezioni Unite; quanto per quello di Roma: v. sent. 29 settembre 2015) si basava sull'idea per cui il pregiudizio sarebbe internalizzato non già dalla Massa, né dal patrimonio della società in quanto tale, ma soltanto dai singoli creditori concretamente e specificamente pregiudicati, perché antergati a quello preferito, oppure di pari grado rispetto allo stesso, ma a fronte di un attivo “insufficiente” ad assicurare il loro soddisfacimento in misura pari a quanto ricevuto dl creditore “privilegiato” di fatto nel pagamento. Le recenti Sezioni Unite tuttavia hanno fatto strame, ed in modo assai risoluto, di tale argomento (“il disconoscimento della legittimazione attiva del curatore fallimentare da parte dei giudici del merito si fonda sull'assunto che il pagamento preferenziale possa arrecare un danno solo ai singoli creditori rimasti insoddisfatti, ma non alla società, perchè si tratta di operazione neutra per il patrimonio sociale, che vede diminuire l'attivo in misura esattamente pari alla diminuzione del passivo conseguente all'estinzione del debito”): nella pronunzia n. 1641/2017 infatti si legge che “si tratta tuttavia di assunto palesemente erroneo, perchè il pagamento preferenziale in una situazione di dissesto può comportare una riduzione del patrimonio sociale in misura anche di molto superiore a quella che si determinerebbe nel rispetto del principio del pari concorso dei creditori. Infatti la destinazione del patrimonio sociale alla garanzia dei creditori va considerata nella prospettiva della prevedibile procedura concorsuale, che espone i creditori alla falcidia fallimentare … del resto, anche dal punto di vista strettamente contabile, il pagamento di un creditore in misura superiore a quella che otterrebbe in sede concorsuale comporta per la massa dei creditori una minore disponibilità patrimoniale cagionata appunto dall'inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale in funzione di garanzia dei creditori”; Dunque anche il fatto che i creditori precedenti l'erogazione del credito possano avvertire il danno in misura differente da quanto può dirsi per quelli successivi non può arrestare in limine l'azione della Curatela, che è legittimata ad insorgere per ottenere il ristoro del danno subito dal patrimonio sociale, a condizione ovviamente che dimostri i presupposti di fatto dell'esistenza del diritto. Se così sembrano cadere gli argomenti ostativi utilizzati dalla Corte bolognese, anche il rigetto della pretesa ad opera della Corte milanese nella pronunzia del 2015 sembrano basarsi su di un altro argomento ordinariamente opposto per respingere l'azione del fallimento: quello della immedesimazione organica fra società fallita e suoi amministratori, sicché il danno al patrimonio sociale sarebbe provocato dallo stesso danneggiato, e non potrebbe trovare applicazione l'art. 1227 c.c. Tale affermazione si rinviene, è vero, anche nel tessuto della motivazione delle Sezioni Unite n. 7039 del 2006. Essa tuttavia è a mio sommesso avviso fallace. Nella sua assolutezza tale argomento impedirebbe al danneggiato di agire contro i terzi che abbiano collaborato col suo rappresentante al fine di danneggiarlo, persino per titolo doloso, esentando così irrazionalmente i “fiancheggiatori” del proprio rappresentante, che invece dovrebbero rispondere in concorso collo stesso, secondo i principi generali. D'altro canto, anche in materia di rappresentanza “legale” deve escludersi che il concorso, in danno del rappresentato, del fatto illecito doloso del rappresentante legale e del terzo possa escludere la responsabilità di quest'ultimo, posto che diversamente verrebbe meno la stessa esigenza di tutelare l'interesse del rappresentato (e cfr. per tutti Bianca, Commento all'art. 1227, in Comm. c.c. Scialoja- Branca, Bologna- Roma, 417 ss., anche per l'affermazione per cui il concorso fra danneggiante e soggetto del cui operato il danneggiato debba rispondere (ad es. il dipendente dell'imprenditore ex art. 1228- 2049 c.c. può generare riduzione del risarcimento ex art. 1227 c.c., e non già “assorbirne” la responsabilità). Ed è difficile non condividere l'osservazione per cui, essendo la banca un soggetto dotato di specifica e “qualificata” (anche in forza del titolo amministrativo di legittimazione all'esercizio dell'attività tipica) professionalità, e quindi destinatario di puntuali obblighi di “cura” dell'interesse altrui, la questione del contributo causale del danneggiato alla verificazione del danno non può essere riguardata allo stesso modo di come avverrebbe nell'ambito dei rapporti fra soggetti posti in posizione paritaria, soprattutto sotto il profilo informativo. Ancora, la osservazione delle norme come l'art. 2497 c.c., ove il danno alla società controllata scaturisce da un comportamento sicuramente (nella maggior parte dei casi) “collusivo” fra la società controllante e gli amministratori della società controllata, dimostra che è ben possibile l'operare del concorso nei termini che abbiamo illustrato (cfr. sull'art. 2497 c.c., anche sotto se un profilo in parte differente, Viscusi, Profili di responsabilità della banca nella concessione del credito, Milano, 2004, 104 nota 11; cfr. anche Bonfatti, La responsabilità civile della banca locale nell'erogazione del credito alle imprese di rete, in La crisi d'impresa nelle reti e nei gruppi, a cura di Cafaggi e Galletti, Padova, 2005). Dunque parrebbe davvero ipotizzabile la legittimazione della Procedura ad agire contro la banca al fine di ottenere il ristoro, eventualmente in concorso con gli organi della società. E per un'affermazione forte della possibilità del concorso della banca ex art. 2055 c.c. nel fatto dell'amministratore della società, riconoscibilmente pregiudizievole per quest'ultima, può vedersi Cass., 31 marzo 2010, n. 7956 (Rel. Rordorf), peraltro coeva alla n. 13413, ove la S.C. ha ritenuto sanzionabile la condotta della banca che non sollevi obiezioni a fronte del comportamento dell'amministratore che versi un assegno sul c/c intrattenuto con la società, e poi prelevi la provvista per versarla su c/c “proprio”, ad estinzione della propria esposizione personale verso l'istituto; la motivazione indugia sulla presenza di un obbligo di agire fondato sui principi di buona fede e correttezza. Perché dunque enfatizzare, ai fini della soluzione del “problema” dell'abusiva concessione di credito, il “respiro corto” della sentenza n. 13413/2010, rispetto al più ampio e coevo decisum della n. 7956/2010 ? Forse perché in quest'ultimo caso l'attrice non era una curatela fallimentare, bensì la stessa società danneggiata, ancora in bonis? Ma che differenza allora dovrebbe scorgersi in punto alla legittimazione attiva, quando è notorio che il curatore aziona in questi casi (come ha fatto nel nostro caso) proprio ed appunto il diritto della società fallita al risarcimento del danno, ossia lo stesso diritto ? E difatti nella sentenza “Ventaglio” del Tribunale di Milano (del 26 febbraio 2016) si legge che “l'attore ha esercitato un'azione risarcitoria chiedendo alle Banche in tesi concorrenti con gli (innominati e non identificati) amministratori di VIL il ristoro del presunto danno consistente nell'aggravamento del dissesto prodottosi dopo il momento in cui essi avrebbero dovuto chiedere il fallimento in proprio (art. 217 n. 4 l.f.), ovvero il danno in tesi derivante dalla prosecuzione con modalità non conservative dell'attività della società dopo la perdita del capitale sociale (art. 2486 c.c.). Si tratta perciò in primis di azioni contrattuali – sebbene il concorso delle banche nell'illecito causativo di danno sia qualificabile in termini di responsabilità extracontrattuale (v. supra, V.1) –, in quanto deducono la responsabilità degli amministratori della società verso la società stessa (alla quale sono legati da rapporto pacificamente contrattuale) per un danno, ipotizzabile in astratto, al suo patrimonio. … è un danno che si produce anzitutto sul patrimonio sociale e che ricade indirettamente ed indistintamente su tutti i creditori, traducendosi nella diminuzione della massa attiva posta genericamente a loro garanzia e disponibile al riparto, sicché, per questo aspetto, le azioni, direttamente riconducibili al disposto degli artt. 217 n. 4 e 2486 c.c., sono inquadrabili nella categoria delle azioni ex artt. 2394 (e 2394 bis) c.c., non già ex art. 2395 c.c. Si tratta dunque di azioni che indiscutibilmente rientrano nel disposto dell'art. 146 comma 6 lett. a) l.fall., al cui esercizio il curatore è per legge legittimato”. Così pure, nel caso deciso da Trib. Prato, 15 febbraio 2017, il Giudice ha cura di precisare che “la Curatela non ha esercitato un'azione volta a tutelare il singolo creditore, bensì un'azione fondata sul concorso delle banche convenute nella responsabilità dell'amministratore nei confronti della società”. L'”approdo” di Cass., n. 9983/2017 appariva dunque ormai come inevitabile.
La liquidazione del danno Come suaccennato, la S.C. nella pronunzia in commento convalida altresì la praticabilità di una tecnica liquidativa del danno, per tali fattispecie, ove cioè sia ragionevole inferire dalla prosecuzione dell'attività nonostante la riconoscibile perdita del capitale sociale la generazione di un pregiudizio per la società decotta, fondata sull'art. 1226 c.c., e sul calcolo della differenza fra i “netti patrimoniali di periodo”. Tanto più quando, come nel caso di specie, fosse intercorso un significativo divario temporale fra la perdita del capitale sociale ed il fallimento.
Anche in tal caso la sentenza, nella sua spoglia determinazione, potrebbe sorprendere; ma in realtà la frequente constatazione, soprattutto in dottrina, di orientamenti giurisprudenziali contrari, spesso fatti risalire a Cass., Sez. Un., n. 9100/2015, poggiava più su di un equivoco che sui fatti. Talune affermazioni contenute nella motivazione della pronunzia delle Sezioni Unite appaiono in effetti cristalline, e difficilmente reversibili; alcune presentano decisi spunti di novità, rispetto allo stato un po' monocorde del dibattito giurisprudenziale, e dunque vanno giustamente enfatizzate. Trovo tuttavia che sia altrettanto indispensabile evidenziare come il grand arret n. 9100 riguardi un caso molto particolare, caratterizzato da evidenti peculiarità non facilmente replicabili, e che la tendenza dei giorni successivi, diffusa soprattutto fra gli operatori, ad interpretarne la ratio decidendi come se i principi in essa formulati fossero naturalmente estensibili anche a fattispecie assai diverse da quella esaminata, debba essere oggetto di attente valutazioni critiche. La pronunzia si segnala infatti per la linearità dei passaggi motivazionali, che appaiono tutti assai calibrati e ponderati, e dunque poco inclini a legittimare indebite “estensioni” della ratio decidendi oltre il tracciato segnato dall'estensore. Le novità meritevoli di riflessione attengono a mio avviso soprattutto a due profili: la prima si compendia nell'affermazione, assai risoluta, e difficilmente confutabile, per cui ad ogni condotta illecita corrispondono potenzialmente danni differenti, caratterizzati da processi eziologici specifici, e da valutare alla luce di criteri liquidativi altrettanto potenzialmente specifici. Non può essere negato del resto che l'incentrarsi della prassi giudiziaria degli anni ‘70 e '80 sul criterio del c.d. deficit fallimentare (ossia della differenza fra l'attivo liquidato ed il passivo accertato in sede fallimentare), fosse scarsamente idoneo a dare conto della varietà dei comportamenti illeciti che caratterizzano la fase antecedente l'ingresso in procedura, la c.d. twilight zone, così da recidere ogni possibile legame razionale fra condotta, nesso di causalità e danno. Al contrario il comportamento specifico deve essere messo in correlazione con la sfera delle conseguenze “statisticamente prevedibili” che possono conseguirne, e solo con queste: la condotta distrattiva o dissipativa cagiona tipicamente la diminuzione del patrimonio sociale, in misura proporzionale ai valori dell'attivo sottratti o dispersi; al limite la stessa condotta, se particolarmente connotata dal punto di vista qualitativo e quantitativo, può anche porsi alla base della causazione dell'insolvenza, là dove inneschi un processo deteriorativo che conduca, per effetto della prosecuzione dannosa dell'attività e della ulteriore distruzione di ricchezza, al dissesto, ma allora la condotta di cui si discute non costituisce più una mera sottrazione di attivo, bensì una fattispecie complessa che priva l'impresa delle sue stesse caratteristiche di efficienza e di economicità, e dunque sotto tale punto di vista va osservata, alla luce di massime di esperienza diverse, e di procedimenti causali differenti. D'altro canto non è affatto inconsueto che ad una medesima condotta possano ricollegarsi danni-evento differenti, oppure che dallo stesso danno- evento scaturiscano danni-conseguenze molteplici. E nessuna sottrazione o mancata tenuta di scritture contabili può di per sé provocare un danno patrimoniale, se non al limite la spesa per la curatela fallimentare di ricostruire altrimenti la situazione, anche facendo ricorso a servizi di operatori specializzati (società di revisione, esperti, etc.). Affermazione quest'ultima nient'affatto nuova, se si pensa che la giurisprudenza penale afferma da decenni che il falso in bilancio di per sé non cagiona danno: il falso semmai può occultare un danno già cagionato, od ancora in fieri. Ma anche in tale ultima evenienza la condotta ascrivibile agli organi sociali muta dal punto di vista qualitativo: non li si rimprovera più per non aver tenuto le scritture, o per averle tenute in modo inattendibile, bensì per aver occultato una distrazione, oppure per aver così celato la stessa situazione effettiva della società, impedendo od ostacolando le azioni reattive di tutti coloro che siano facoltizzati a rilevare tempestivamente le anomalie e ad attivarsi, per dovere (controllori, revisori, autorità di vigilanza), o per diritto (creditori). E dunque il danno non scaturisce qui dall'alterazione o dalla patologia nella tenuta delle scritture: esso promana invece dalla prosecuzione indisturbata dell'attività, nonostante lo sfacelo economico e finanziario che una corretta rilevazione dei fatti di gestione consentirebbe già di percepire ed anche di impedire. L'altra novità rilevante è costituita dall'enfasi posta sul momento dell'allegazione nel processo delle condotte reprensibili degli organi sociali, prima ancora che su quello della prova degli elementi dell'illecito. Anche qui la scelta non è casuale, ma è piuttosto conseguenza del recepimento dell'orientamento giurisprudenziale, oramai consolidato, sull'inadempimento contrattuale: spetta al creditore allegare in giudizio il comportamento inadempiente del debitore, tanto quando sia dedotta un'obbligazione di risultato, quanto di mezzi; spetta al debitore provare che tale inadempimento non gli è imputabile. Principio quest'ultimo già recepito dalla stessa S.C. a proposito della responsabilità degli organi sociali, tanto per le fattispecie precedenti la riforma del 2003-2004, quanto per quelle successive. L'allegazione, come è noto, innerva il thema decidendum della causa, attiene ai fatti costitutivi del diritto fatto valere: solo che ciò che è allegato può essere oggetto di richieste di prova; e solo ciò che è allegato in modo sufficientemente specifico può dirsi appartenere al processo, anche perché diversamente la controparte non potrebbe assumere posizione a ragion veduta, innescando se del caso il procedimento della “non contestazione” (art. 115 c.p.c.). Nella fattispecie oggetto del ricorso deciso dalle Sezioni Unite la procedura fallimentare attrice si era limitata a dedurre la mancata tenuta delle scritture contabili, e a fondare su tale allegazione la richiesta di commisurare il danno alla differenza fra attivo e passivo. Mancava dunque un'allegazione di un comportamento anche astrattamente idoneo a cagionare un danno, sufficiente a legittimare un'indagine istruttoria. La fattispecie si segnala dunque come caso- limite, difficilmente “esportabile”; ed anche la particolarità della vicenda rende poco plausibile che le Sezioni Unite abbiano inteso lanciare chissà quale “monito” a curatele fallimentari e Tribunali delle Imprese, delegittimando i criteri metodologici che oggi sono più diffusi, al fine di liquidare il danno che scaturisce dalla condotta prefallimentare più frequente: la continuazione dell'attività caratteristica pur in condizioni di già avvenuta perdita di continuità aziendale, di conclamata insolvenza, di perdita integrale del capitale sociale. Non a caso, crediamo, i Tribunali delle Imprese, consci di come non esista alcuna alternativa logica e ragionevole per liquidare diversamente il danno nel 90% dei procedimenti civili in questione, hanno continuato ad orientare la loro attività come nel passato, assegnando quesiti ai c.t.u. “nel solco” della tecnica ormai consolidata. Soprattutto il Tribunale delle Imprese di Milano, che non è certo noto per il “lassismo” nella valutazione di queste azioni, ed è anzi forse il più rigoroso fra i Tribunali delle Imprese d'Italia. V. per la consolidation di tale prassi Trib. Milano, 7 ottobre 2014, quasi un “prontuario operativo” per l'esercizio di queste azioni; e v. anche la sentenza del 23 settembre 2015 dello stesso Tribunale, successiva alla pronunzia delle Sezioni Unite e quindi consapevole della stessa. Sull'utilizzo del criterio della “perdita incrementale” cfr. anche, dopo la pronunzia delle Sezioni Unite, Trib. Palermo, 6 ottobre 2015, in questo portale; sui netti patrimoniali v. anche Trib. Bologna, 22 ottobre 2015, Fall. CTO; Trib. Roma, 22 settembre 2015, Fall. Imco. Più di recente v. addirittura Trib. Venezia, 15 febbraio 2017: “il criterio che appare utilizzabile ai fini di una valutazione equitativa del danno, resa necessaria dallo svolgimento di attività di gestione prolungata per quasi due anni dopo l'erosione del capitale sociale con importante aggravio delle perdite, senza che siano nel contempo individuabili singolarmente specifiche operazioni dannose … è costituito dalla quantificazione del passivo accertato in sede fallimentare e dalla sottrazione da tale importo dell'attivo realizzato in sede fallimentare; così determinato lo sbilancio attivo – passivo fallimentare, da tale importo va detratto il patrimonio netto negativo accertato al momento della perdita del capitale sociale, al fine di ottenere l'importo finale relativo all'aggravio del passivo, costituente il risarcimento del danno”. Non potrebbe del resto essere razionalmente contestato l'utilizzo del criterio dei “netti patrimoniali di periodo” (oppure di quello, in realtà assai prossimo, della c.d. “perdita incrementale”) quando vi sia stata, come non di rado capita, una condotta di “indirizzo” strategico dei soggetti economici di riferimento a determinare la prosecuzione dell'attività sociale, orientata a fini extraeconomici, e nonostante la clamorosa perdita di ogni prospettiva di continuità aziendale; tale prosecuzione infatti avrebbe provocato, per effetto dell'andamento negativo della gestione operativa, un deterioramento patrimoniale che non potrebbe essere altrimenti dimostrato. Anche quanto al nesso eziologico, d'altro canto, il modello stocastico di riferimento, adottato dalla giurisprudenza in materia di responsabilità civile, al fine di valutare la sussistenza di un idoneo nesso causale fra condotta e danno, è quello del “più probabile che non”. Applicando tale concetto al fenomeno della prosecuzione dell'attività di impresa anche dopo la sopravvenuta perdita del capitale sociale e/o della continuità aziendale, quando cioè il paradigma dell'azione amministrativa dovrebbe rispondere ad una logica “conservativa” (arg. ex art. 2486 c.c.), rivolta semmai alla predisposizione di un adeguato strumento di regolazione della crisi, se ne dovrebbe ricavare semmai la conclusione per cui la protrazione dell'impresa sociale, secondo modalità conformi a quanto praticato prima del momento “critico” (così come normalmente avviene, peraltro, là dove tale cesura temporale sia occultata tramite accorgimenti di bilancio od altri espedienti), ad es. continuando ad implementare le linee di un piano strategico la cui razionalità è stata oramai “falsificata” dal mutamento della situazione, cagiona ragionevolmente un pregiudizio al patrimonio sociale. Corrisponde infatti ad una “massima di esperienza”, codificata dalla letteratura aziendalistica, o se si preferisce all'id quod plerumque accidit, l'osservazione per cui l'impresa, quando ha cessato di operare come un'entità in funzionamento (going concern), distrugge ricchezza, bruciando molto più probabilmente cassa, anziché non. D'altro canto anche l'ordinamento giuridico presenta indizi evidenti della ricezione di tale osservazione empirica: l'art. 186-bis l.fall., infatti, condiziona la praticabilità di un concordato “con continuità aziendale”, ossia con prosecuzione dell'attività imprenditoriale da parte del debitore anche soltanto in crisi, non soltanto alla presenza di un piano di ristrutturazione “fattibile”, ma altresì alla prova positiva della corrispondenza della protrazione dell'impresa al “miglior interesse” dei creditori: non basta cioè che continuare l'impresa sia neutro per l'interesse dei creditori, ma occorre che sia fornita la prova addirittura di un vantaggio positivo per costoro. Il Legislatore infatti aveva ben presente come la situazione implicata dall'art. 186-bis l.fall. comportasse un pericolo di aggravamento del pregiudizio per i creditori, insito nella prosecuzione dell'attività, sicché ha ritenuto di condizionarne la legittimità alla necessaria dimostrazione della compatibilità di tale linea di azione con la tuela di tale interesse. E la funzionalizzazione dell'agire sociale all'interesse creditorio, dopo la constatata insufficienza del patrimonio sociale, corrisponde del resto ad una direttiva basilare anche del diritto societario (arg. ex art. 2394 c.c.). Ciò si verifica proprio perché è notorio che proseguire la rotta senza mutamenti radicali, in tali circostanze, produce generalmente danni per coloro che oramai sono i soggetti principalmente interessati (e soprattutto tutelati dalla Legge) alla valorizzazione del patrimonio sociale, laddove il soggetto economico, e chi ne è esponenziale, è vittima dell'azzardo morale, ed avverte incentivi perversi per il proprio agire, che lo possono indurre a trasformare il rischio di impresa in “scommessa”. Soltanto nel fallimento, ove lo spossessamento è integrale, ed il controllo pubblicistico massimo, è consentito proseguire l'attività anche nella neutralità dell'interesse dei creditori, e persino a tutela di interessi differenti da quelli di costoro (art. 104 l.fall.). Tale direttiva funzionale, propria del concordato preventivo, ossia di una procedura concorsuale, caratterizzata comunque da un intenso controllo pubblico, non può essere ritenuta irrilevante anche al fine di valutare il comportamento del debitore che si trovi ancora in bonis: a maggior ragione anzi essa deve trovare applicazione anche all'agire degli amministratori dopo che essi abbiano potuto constatare la perdita dei requisiti minimi che condizionano la “normalità” della loro gestione. Dunque può ritenersi che sussista un nesso eziologico fra la perdita del capitale e/o della continuità e la diminuzione del patrimonio sociale che ne è susseguita, quando si dimostri che l'attività sia proseguita anche dopo tale momento, senza radicali inversioni di rotta, ispirate alla logica regolatoria della crisi. Di “certo” non pare invece consentito, né opportuno, cercare di far dire alle Sezioni Unite quello che “certamente” non hanno voluto affermare. In effetti diversi operatori, probabilmente i più abituati a difendere membri di organi sociali nelle azioni di responsabilità, già nei giorni successivi alla divulgazione della pronunzia, hanno a più riprese affermato con studiata convinzione che la stessa delegittimerebbe definitivamente la metodica dei c.d. netti patrimoniali, e renderebbe obbligatoria la allegazione in giudizio di “specifici” atti di gestione, la cui “specifica” dannosità andrebbe provata in modo puntuale ed analitico. L'unico passo della motivazione in cui si accenna a tale (distinto) problema è però quello in cui si dice che se i comportamenti gestionali incriminati “avessero soltanto aggravato il dissesto, unicamente tale aggravamento potrebbe essere ricollegato a quelle violazioni”; il che vuol dire che, se il dissesto è già in atto, chi ne aggravi le dimensioni non può essere chiamato a rispondere delle conseguenze lesive del dissesto in sé (ossia del deficit fallimentare), bensì solo dell'aggravamento; ma nulla si dice poi nello specifico su come misurare le dimensioni e le conseguenze risarcitorie di tale aggravamento. Così come da nessuna parte della motivazione si rinviene l'affermazione per cui l'allegazione dovrebbe riguardare “specifici” atti di gestione: si parla semmai di “qualificati inadempimenti”, di “violazioni di doveri di diligenza”, generici o specifici. Dunque le letture restrittive in questione sembrano frutto più che altro di un “abbaglio”. Certo occorrerà che la prospettazione in giudizio, in tali ipotesi, sia conforme allo schema descritto dalla sentenza n. 9100: dunque si dovrà allegare in modo chiaro la violazione dei doveri legali che si ascrive alla responsabilità degli organi sociali; e si dovrà dimostrare che la ricostruzione del danno proposta è conforme alla sfera delle conseguenze eziologicamente probabili (rectius “regolari”) di quella condotta. D'altro canto, che l'incentrarsi dell'art. 2486 c.c., rispetto al vecchio testo dell'art. 2449 c.c., sulla visione “dinamica” della gestione “conservativa”, avente ad oggetto non solo la “integrità”, ma anche (e diremmo soprattutto) il “valore” del patrimonio sociale, dovrebbe suggerire l'adozione di una chiave di lettura per cui l'illecito è costituito dalla stessa prosecuzione indebita dell'attività caratteristica. La gestione infatti non è più vista dal Legislatore da tempo come una mera serie di atti: essa è un'attività dinamica, che non si risolve nella sommatoria dei suoi prodotti negoziali; è inoltre un'attività che si muove entro una cornice funzionale che nelle fasi di vita “ordinaria” della società è determinata con la massima libertà dagli amministratori, attraverso il processo di pianificazione strategica, senza il quale l'organizzazione non può essere considerata “adeguata” (arg. ex art. 2381 c.c.). Quando tuttavia la prospettiva di continuità gestionale (going concern) svanisce, a causa della perdita del capitale sociale e/o dell'insorgere dell'insolvenza, quella cornice funzionale muta necessariamente: gli amministratori non sono più liberi di determinare liberamente gli obiettivi da conseguire, nell'ottica del perseguimento del profitto: essi debbono gestire l'immediato in modo da conservare le virtualità del patrimonio aziendale nell'ottica della futura liquidazione, al contempo compiendo i passi necessari al fine di porre la società in stato di liquidazione, oppure, se la situazione è talmente grave da rendere impossibile una liquidazione “controllata” degli assets, instare direttamente per il fallimento. Fra tali alternative “futuribili”, si colloca anche la possibilità dell'espletamento di un accordo di ristrutturazione dei debiti, intermediato o meno dall'art. 182-bis l.fall., o di una proposta di concordato preventivo, espletamento che a date condizioni, quando esso si riveli chiaramente più favorevole alle ragioni dei creditori, potrebbe altresì ritenersi doveroso. Si vede bene dunque come la gestione degli amministratori della società in condizioni di perdita del capitale debba caratterizzarsi per il suo carattere dinamico, ossia per la sua capacità di proiettarsi in uno scenario futuro anch'esso “pianificato”, e non per il compimento di singoli atti che possono o meno essere considerati “dannosi” o “vantaggiosi”. E' proprio il “saldo” di quell'attività, espresso dalla sua capacità di conservare ex art. 2486 c.c. il “valore” dell'azienda, a determinarne allora il carattere giuridico o piuttosto antigiuridico. D'altro canto, proprio la elisione dai costi prodotti dei ricavi correlati, nonché degli apprezzamenti prodottisi dai deprezzamenti degli elementi del patrimonio, la cui sintesi è proprio rappresentata dalla focalizzazione del saldo del “patrimonio netto” finale, appare conforme anche al principio civilistico della compensatio lucri cum damno, appartenendo i due elementi alla stessa matrice eziologica, e concorrendo insieme a determinare il danno “reale”. E la prospettiva dei netti patrimoniali di periodo si rivela pertanto non già eterogenea, bensì armonica rispetto alla cornice funzionale ove gli amministratori sono chiamati a muoversi, dopo aver riscontrato che non vi sono perduranti prospettive di continuità aziendale. Nessun atto di gestione, infatti, può ritenersi in sé e per sé “conservativo” oppure no, senza collocarlo all'interno del “progetto” che gli amministratori hanno predisposto, progetto ovviamente compatibile con le direttive funzionali imposte dall'art. 2486 c.c. E dunque l'allegazione in giudizio della illegittima prosecuzione dell'attività caratteristica, in funzione di una pianificazione strategica oramai “abrogata” dal mutamento irreversibile dello scenario aziendale, soddisfa pienamente i canoni indicati dalle Sezioni Unite, e non li viola. Violativa semmai sarebbe la pretesa che quell'allegazione attenesse ad atti specifici di gestione, da valutare per la loro intrinseca dannosità o vantaggiosità, perché ciò costituirebbe un approccio asistematico, ascientifico, aprioristico, destinato a funzionare soltanto nelle situazioni più semplici ed anche forse meno gravi, in cui l'attività imprenditoriale risulti per avventura scomponibile in una mera sequenza di atti osservabili in modo atomistico. Nello stesso modo, l'applicazione del criterio liquidativo prescelto, sia esso quello dei c.d. netti patrimoniali, oppure della c.d. perdita incrementale netta, in realtà assai vicini fra di loro, dovrà scontare gli effetti di tutte quelle conseguenze apparentemente pregiudizievoli che si sarebbero verificate anche ove gli amministratori avessero fatto tempestivamente “la cosa giusta”. Poco cambia infatti se il danno viene calcolato mediante la differenza fra i due “saldi” di periodo del patrimonio netto, oppure attraverso l'apprezzamento del risultato economico prodottosi nello stesso periodo, che inevitabilmente va ad addebitare il patrimonio netto a fine esercizio. Talvolta anzi la valutazione in termini “economici” può essere più affidabile di quella patrimoniale, in quanto nel patrimonio netto si riflettono anche componenti, positive (ad es. immissioni di equity: v. infra) e negative (ad es. svalutative), che non passano per il conto economico, e possono non essere imputabili ai responsabili. Certo, in generale, il danno imputabile non può internalizzare anche tutti quei costi di una gestione liquidativa (penalità contrattuali per anticipata cessazione, compensi per liquidatori e professionisti, etc.) che si sarebbero prodotti comunque, anche se gli amministratori fossero stati i migliori del mondo (e v. le recenti pronunzie del Tribunale delle Imprese di Milano, già citate in precedenza). Nel momento in cui si ascrive alla responsabilità degli organi della società di non aver adottato una condotta alternativa che si reputa “corretta” (appunto: cessare l'attività, oppure ristrutturarla ragionevolmente), non si può infatti non depurare la diminuzione del patrimonio netto che si imputa loro da quegli addebiti che si sarebbero verificati proprio se fosse stato scelto il comportamento legittimo. Anche questo peraltro era un risultato ermeneutico cui la giurisprudenza della S.C. (e di merito) era già pervenuta con convinzione, e proprio in subiecta materia. In via di prima approssimazione i c.d. costi da liquidazione, assai difficilmente stimabili in modo preciso, e comunque ancora più difficilmente imputabili ai singoli soggetti che abbiano rivestito le cariche sociali nei singoli periodi in considerazione, se non mediante procedimenti di attribuzione pro quota, ed in forza di criteri del tipo pro rata temporis, potrebbero essere stimati come pari ai costi sostenuti dalla liquidazione fallimentare, sostenuti dalla Massa, e documentati nel rapporto semestrale ex art. 33 l.fall. D'altro canto, se l'unica condotta esigibile da parte degli amministratori, ed idonea a limitare il danno, fosse proprio la richiesta del proprio fallimento in proprio, allora sarebbero proprio tali costi a dover essere detratti dal pregiudizio, percepito in termini di differenza patrimoniale, oppure di perdita incrementale. Osservazioni critiche
Va anche detto che Cass., 20 aprile 2017, n. 9983, pur affrontando un caso di azione esercitata (da una curatela fallimentare) a tutela esclusiva del patrimonio sociale (e non già della Massa creditoria), non sembrerebbe aver ritenuto di operare alcuna distinzione in ordine alla metodologia di stima del danno, anche se, trattandosi nel frangente di azione esclusivamente “sociale”, ove dunque l'oggetto è costituito da un pregiudizio subito dal patrimonio sociale, e non già dalla Massa creditoria, ciò potrebbe richiamare le incertezze espresse sul punto da parte di talune pronunzie giurisprudenziali. In queste ipotesi si è infatti dubitato della possibilità di liquidare il danno con la stessa metodica tipica delle azioni “creditorie”, ossia misurando la differenza fra i patrimoni netti nei due momenti rilevanti dell'inizio e della fine della condotta lesiva. Non v'è dubbio infatti che tale metodologia assecondi la percezione della perdita che subisce la Massa creditoria indistinta nel suo complesso, laddove invece per la lesione subita dal patrimonio sociale il problema è più complesso: una volta raggiunta e superata la quota “0”, infatti, esso diviene insufficiente a soddisfare i creditori, e prospetticamente non vi sarà più alcuna prospettiva di residuo utilizzabile per qualsiasi attività post liquidazione. Nelle uniche fattispecie sinora portate all'attenzione della giurisprudenza (cfr. Trib. Milano, 17 luglio 2015; e ancora Trib. Milano, 26 febbraio 2016, Fall.to Ventaglio International, p. 97 della motivazione, redatte dal medesimo estensore); v. anche Trib. Milano, 1 aprile 2016, cit., differente estensore, che rigetta una pretesa ex art. 2476 c.c. fondata sul “danno da dissesto”, in senso apparentemente ancora più limitativo), il Tribunale delle Imprese di Milano ha deciso nel senso per cui il danno potrebbe semmai essere rappresentato dall'ammontare delle plusvalenze “latenti”, ossia inespresse nel bilancio di esercizio (redatto come è noto secondo canoni di funzionamento), ma rappresentative del maggior valore realizzabile di determinati assets del patrimonio sociale rispetto al valore di libro.
La materia è tuttavia in costante e continua evoluzione, come anche la pronunzia in commento dimostra.
(Fonte: ilFallimentarista.it) |