La titolarità dell’azione di responsabilità in caso di fallimento della s.r.l.

10 Novembre 2016

In caso di fallimento di s.r.l., il curatore, ai sensi dell'art. 146, comma 2, lett. a), l. fall., è l'unico soggetto legittimato a proseguire l'azione di responsabilità sociale già promossa dal socio, nella qualità di sostituto processuale della società, ai sensi dell'art. 2476, comma 3, c.c., sicché, ove nel giudizio d'appello, riassunto nei confronti del fallimento, il curatore non abbia inteso proseguire l'azione restando contumace, la domanda va dichiarata improcedibile per il sopravvenuto difetto di legittimazione attiva del socio.
Massima

In caso di fallimento di s.r.l., il curatore, ai sensi dell'art. 146, comma 2, lett. a), l. fall., è l'unico soggetto legittimato a proseguire l'azione di responsabilità sociale già promossa dal socio, nella qualità di sostituto processuale della società, ai sensi dell'art. 2476, comma 3, c.c., sicché, ove nel giudizio d'appello, riassunto nei confronti del fallimento, il curatore non abbia inteso proseguire l'azione restando contumace, la domanda va dichiarata improcedibile per il sopravvenuto difetto di legittimazione attiva del socio.

Nel caso in cui, nella pendenza del giudizio di responsabilità degli amministratori di s.r.l. intentato dai soci e dalla società ex art. 2476, comma 3, c.c., venga dichiarato il fallimento di quest'ultima, la legittimazione attiva alla prosecuzione dell'azione spetta in via esclusiva al curatore fallimentare. Laddove egli non intenda proseguire il giudizio, il giudice ne deve dichiarare l'improcedibilità della domanda.

Il caso

Nelle more di giudizio (pervenuto in grado di appello) promosso da soci di s.r.l. per la declaratoria di responsabilità ex art. 2476 c.c. di amministratore e sindaci della società, quest'ultima viene dichiarata fallita. Interrotto, il processo viene riassunto dall'amministratore appellante (unico soccombente in primo grado) nei confronti delle parti già costituite e della curatela fallimentare, che rimane contumace. In parziale riforma della sentenza appellata, la Corte d'appello condanna sia l'amministratore che i sindaci, al risarcimento dei danni direttamente in favore del fallimento della società. Di tale condanna (oltre che di altri aspetti) si dolgono, per quanto qui di interesse, i ricorrenti in Cassazione, cioè due dei sindaci rimasti contumaci in appello, ed altre parti che propongono ricorso incidentale.

La Suprema Corte, con la statuizione in esame, si sofferma proprio sul ricorso incidentale, promosso da uno dei sindaci – il quale adduce la violazione degli artt. 81 c.p.c. e 146 l. fall., in quanto dopo la dichiarazione di fallimento della società, la Corte territoriale non avrebbe potuto decidere nel merito la causa per sopravvenuto difetto di legittimazione attiva della fallita e dei suoi soci, spettando la titolarità dell'azione esclusivamente al curatore fallimentare, che aveva scelto di non costituirsi – e, con riferimento alla posizione dei sindaci, risolve il giudizio proprio in ragione di tale eccezione, ritenendo assorbito perciò ogni altro profilo posto al suo vaglio, tanto in via principale che incidentale.

Conferma invece la sentenza di condanna dell'amministratore (unico soccombente fin dal primo grado di giudizio) ravvisando, in ragione della mancata proposizione da parte sua di ricorso incidentale, gli estremi del giudicato con riferimento al capo della sentenza di appello che lo riguardava.

Le questioni

Il provvedimento in commento affronta i riflessi processuali afferenti la pretesa risarcitoria promossa dal socio di società a responsabilità limitata, secondo il disposto di cui all'art. 2476 c.c., per il caso in cui nelle more del giudizio intervenga dichiarazione di fallimento della società. In particolare, si sofferma – escludendola – sulla persistenza della legittimazione ad agire in capo al socio originario attore.

Invero, all'indomani della riforma societaria del 2003 – per effetto della quale negli artt. 2476 e 2487 c.c. non è più previsto il richiamo agli artt. 2392, 2393 e 2394 c.c., e cioè alle norme in materia di società per azioni – da più parti si avanzarono dubbi in ordine alla legittimazione del curatore fallimentare di srl all'esercizio della predetta azione.

La S.C. è intervenuta da tempo a dipanare ogni dubbio in merito valorizzando l'ampia portata dell'art. 146 l. fall. che, nel testo riformulato dall'art. 130 D. Lgs. 5/2006, prevede che tale organo è abilitato all'esercizio di qualsiasi azione di responsabilità contro amministratori, organi di controllo, direttori generali e liquidatori di società,“così confermandosi l'interpretazione per cui, anche nel testo originario, si riconosceva la legittimazione del curatore all'esercizio delle azioni comunque esercitabili dai soci o dai creditori nei confronti degli amministratori, indipendentemente dallo specifico riferimento agli artt. 2393 e 2394 c.c.” (cfr. Cass., sez. I, 21 luglio 2010, n. 17121).

Con la pronuncia in esame i giudici di legittimità sono andati oltre, affermando che gli organi della procedura concorsuale sono esclusivi titolari della legittimazione a intraprendere e a proseguire azioni già in corso, con conseguente sopravvenuta carenza di legittimazione in capo al socio che abbia agito ex art. 2476, comma 3, c.c. in veste di sostituto processuale. Infatti, proprio per il meccanismo processuale tipico di quest'azione, promossa dal socio ma in nome e per conto della società, in caso di sopravvenuto fallimento della società, l'intervento del curatore a tutela degli interessi della massa fa venir meno la legittimazione ed anche l'interesse del singolo a stare in giudizio (che sino ad allora era da considerare al pari di un sostituto processuale).

A simile soluzione era già pervenuta la stessa Cassazione, in particolare con la sentenza a Sezioni Unite del 17 dicembre 2008 n. 29420 - seppure per il diverso caso dell'azione revocatoria - affermando che se il curatore esercita detta azione a giudizio già iniziato, da quel momento si sostituisce al creditore principale che per primo l'aveva intrapresa e che ciò esclude il contestuale concorso delle due azioni. Di conseguenza, l'azione iniziata dal singolo creditore diviene improcedibile: cioè, come evidenziato anche in vari commenti alla sentenza delle SS.UU., ove sia stata proposta un'azione revocatoria ordinaria e in pendenza del relativo giudizio sopravvenga il fallimento del debitore ed il curatore subentri nell'azione in forza della facoltà prevista dall'art. 66 l. fall., la legittimazione e l'interesse ad agire dell'attore originario vengono meno, per cui la domanda originariamente da lui proposta diviene improcedibile ed egli non ha alcun altro titolo per continuare a partecipare al giudizio.

In sintesi, nel caso di azione intrapresa dal singolo socio e nell'ipotesi del fallimento sopravvenuto, va riconosciuta al curatore la legittimazione processuale al fine di proseguire il giudizio, con un'inevitabile modifica oggettiva dei termini della questione, in quanto la domanda, che avrebbe dovuto giovare al solo patrimonio sociale, va in realtà a vantaggio di tutti i creditori. Ciò si spiega con la natura derivativa della legittimazione del socio rispetto a quella della società, come è confermato (si legge nella sentenza in commento) “dalle disposizioni in merito al suo diritto al rimborso delle spese di lite (art. 2476, comma 4, c.c.) e da quelle concernenti la riserva alla società del potere di rinunciare o di transigere l'azione (art. 2476, comma 5, c.c.), nonchè in generale dalla considerazione che, in ogni caso, del risultato dell'azione si giova esclusivamente il patrimonio sociale”. Ed è sulla scorta di tali considerazioni che il Supremo Collegio conclude il procedimento rilevando la improcedibilità dell'azione, precisando che “in tema di azione di responsabilità sociale promossa nei confronti degli amministratori e dei sindaci di s.r.l., ai sensi dell'art. 2476, comma 3, c.c., dai soci in sostituzione processuale della società, nel caso di suo successivo fallimento, ai sensi dell'art. 146, comma 2, lett. a), l. fall., è il curatore fallimentare l'unico soggetto legittimato a proseguire l'azione. Sicché, quando nel corso dell'appello riassunto nei confronti del fallimento della società, il curatore non abbia inteso proseguire l'azione, la causa deve essere dichiarata senz'altro improcedibile, per sopravvenuto difetto di legittimazione attiva dei soci.”

Osservazioni

Considerato che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza richiamato pure dalla pronuncia esaminata, l'azione ex art. 146 l. fall. compendia in sé entrambe le azioni – quella spettante alla società e in via surrogatoria ai soci e quella spettante ai creditori – ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della fallita, visto unitariamente come garanzia sia per i soci che per i creditori sociali; la conclusione raggiunta dalla S.C. è agevolmente spiegabile, alla luce del principio generale della par condicio creditorum (art. 2741 c.c.), in relazione alla “componente” extracontrattuale dell'azione.

E' del pari ovvia in relazione all'azione spettante alla società in ragione del tenore degli artt. 43, comma 1 e 200, comma 2, l. fall. che attribuiscono agli organi della procedura la legittimazione all'esercizio di tutti i diritti patrimoniali del fallito.

Alla luce della portata delle norme appena richiamate è pure insostenibile la persistenza, in capo ai soci, della legittimazione ad intraprendere l'azione in via sostitutiva.

La conclusione raggiunta dalla S.C. potrebbe, forse, apparire meno scontata in relazione all'ipotesi esaminata, vale a dire quella in cui l'azione sociale esercitata dai soci ex art. 2476, comma 3, c.c. sia già in corso e la curatela decida di non costituirsi rimanendo contumace. Se infatti è indubbio che un intervento adesivo della curatela eliderebbe la legittimazione e l'interesse ad agire del socio (fatto salvo, in caso di esito favorevole, il suo diritto a ottenere, insinuandosi al passivo, il rimborso ex art. 2476, comma 4, c.c. delle spese sostenute fino a quel momento); trarre analoga conclusione dalla mancata costituzione della curatela significa attribuire alla contumacia il valore di una implicita rinuncia all'azione, valore che invece certamente non si potrebbe attribuire – stante l'esplicito tenore dell'art. 2476, comma 5, c.c. – alla (ipotetica) contumacia della società in bonis, la cui qualità di litisconsorte necessario nel giudizio di responsabilità avviato dal socio in veste di sostituto processuale è stata pure espressamente affermata dalla S.C. (Cass., sez. I, 26 maggio 2016, n. 10936, in questo portale, con nota di Romano, La posizione della società nelle azioni di responsabilità proposte dal socio verso gli amministratori).

Se è vero, inoltre, che i soci attori, nel corso del giudizio di primo grado, avevano esteso la domanda in origine proposta contro l'amministratore anche ai sindaci, chiamati in causa dall'amministratore, per quanto emerge dalla parte in fatto della pronuncia in esame, la sentenza di primo grado che aveva negato la responsabilità dei sindaci non è stata impugnata né dai soci, né dalla società, ma dal solo amministratore convenuto, legittimato ad agire ex art. 2055, comma 2, c.c. nei confronti degli obbligati in solido, non già però a esperire l'azione sociale nei loro confronti.

Deve dunque ritenersi che, alla data della riassunzione, la curatela fosse ancora in termini per impugnare, ché diversamente la pronuncia di condanna dei sindaci in favore della società emessa in grado di appello sarebbe stata cassata per difetto di legittimazione attiva in capo all'unico appellante (amministratore).

Infine va osservato che, sebbene la questione relativa al difetto di legittimazione ad agire – decisiva nel caso di specie per i sindaci – sia rilevabile d'ufficio dal giudice dell'impugnazione quando sulla stessa non vi sia stata una pronuncia esplicita, trattandosi di questione pregiudiziale sulla quale non può formarsi il giudicato implicito (cfr. da ultimo, Cass., sez. V, n. 20979/2013), nel caso di specie, mancando il ricorso incidentale dell'amministratore, era preclusa alla Corte qualunque pronuncia. Né ricorrono, con riferimento alla condanna di più obbligati in solido, gli estremi dell'art. 336 c.p.c. (cfr. Cass. Civ., sez. III, n. 2522/1974).

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