Trasferimento di quote di s.r.l. in violazione della clausola di prelazione: tra inopponibilità al terzo acquirente ed esclusione del riscatto per i soci pretermessi
20 Luglio 2015
Massime
Il patto di prelazione vincola il socio nei confronti degli altri soci nonché, se recepito nello statuto, anche nei confronti della società, ma non comporta la nullità del negozio traslativo nel rapporto tra socio cedente e terzo cessionario.
Il socio di una società di capitali che lamenti la violazione del suo diritto di prelazione nel caso di vendita di azioni sociali, statutariamente previsto, non può limitarsi a dimostrare in giudizio l'esistenza del suddetto patto, ma deve anche allegare e provare che dalla violazione è derivata una lesione del suo interesse a rendersi acquirente delle azioni trasferite a terzi, perché l'interesse del socio pretermesso non consiste nel mero rispetto del procedimento di cessione.
La violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta l'obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto, alla stregua delle norme generali sull'inadempimento delle obbligazioni, e non anche il diritto potestativo di riscattare la partecipazione nei confronti dell'acquirente. Il diritto di riscatto non integra un rimedio generale in caso di violazione di obbligazioni contrattuali, ma solo una forma di tutela specificamente apprestata dalla legge e conformativa dei diritti di prelazione previsti per legge, spettante ai relativi titolari. Il caso
Con reclamo ex art. 18 l. fall. veniva proposto appello avverso la sentenza dichiarativa di fallimento di una s.r.l. da parte di un'altra s.r.l. che aveva precedentemente acquistato le quote della prima da uno dei soci. L'altro socio della s.r.l. dichiarata fallita interveniva nel giudizio di reclamo, deducendo (i) la nullità dell'acquisto di quote, in quanto avvenuto in violazione della clausola di prelazione prevista nello statuto e (ii) l'inesistenza della qualità di socio in capo all'appellante, con conseguente venir meno della legittimazione attiva a proporre impugnazione avverso la sentenza di fallimento. La Corte d'Appello accoglieva le istanze del socio-intervenuto e dichiarava inammissibile il reclamo. La questione approdava alla Suprema Corte: il reclamante, infatti, proponeva ricorso avverso la sentenza della Corte d'Appello denunciando, inter alia, la violazione dell'art. 1418 c.c., per aver la Corte d'Appello accolto la tesi della nullità del trasferimento di quote fatto in violazione del patto di prelazione a favore dei soci. La Suprema Corte accoglieva il ricorso sul presupposto (i) che il trasferimento di quote effettuato in violazione della clausola di prelazione, prevista nello statuto sociale, non comporta la nullità del negozio traslativo tra socio cedente e terzo cessionario, come invece sostenuto da una parte della giurisprudenza e della dottrina (in primis Cass. 2763/1973), che i giudici di legittimità ritengono superata; (ii) che l'altro socio non aveva dimostrato il suo interesse ad agire, nel senso che si era limitato a dimostrare in giudizio l'esistenza del patto di prelazione, ma non aveva allegato e provato che dalla violazione fosse derivata una lesione del suo interesse a rendersi acquirente delle quote trasferite a terzi; requisito, quest'ultimo, richiesto dall'orientamento più recente della giurisprudenza. Infine la Suprema Corte coglie altresì l'occasione per ribadire, in linea con l'orientamento ormai pacifico della giurisprudenza, che al socio pretermesso non spetta il diritto di riscattare la partecipazione nei confronti del terzo acquirente, in quanto il diritto di riscatto ha carattere eccezionale ed è previsto solo in relazione ai casi di prelazione espressamente disciplinati dalla legge. La questione
La sentenza in commento è chiamata ad affrontare una delle questioni più discusse e controverse del diritto societario: se sia o meno nulla l'alienazione della partecipazione sociale effettuata in violazione di una clausola di prelazione inserita nello statuto sociale. Nel pronunciarsi su tale questione, la Suprema Corte coglie l'occasione per enunciare alcuni principi, peraltro in linea con l'orientamento più recente della giurisprudenza, attinenti anche ad altra questione collegata alla prima ed altrettanto controversa; ovvero, quale sia e come si declini il potere di reazione di coloro che avevano diritto ad esercitare la prelazione e che sono stati pretermessi e, in particolare, se ad essi sia o meno consentito esercitare il diritto di riscatto della partecipazione presso il terzo acquirente. Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte esclude che il trasferimento della partecipazione sociale in violazione di una clausola di prelazione contenuta nello statuto della società dia luogo a nullità del negozio traslativo nel rapporto tra socio cedente e terzo cessionario. Esclusa la nullità del negozio di trasferimento, i giudici di legittimità sembrano però riconoscere alla clausola di prelazione statutaria una efficacia c.d. “reale” nell'accezione qui di seguito indicata (sui diversi significati attribuiti da dottrina e giurisprudenza all'espressione “efficacia reale” della clausola di prelazione cfr. infra): se la prelazione è prevista a livello di statuto, la stessa assume un valore che trascende l'interesse dei singoli soci, acquistando un valore rilevante anche per la società; quest'ultima – la Cassazione non lo afferma espressamente, ma supporta la propria motivazione con massime di sentenze che si sono pronunciate in tal senso – ben può opporla a chi l'abbia violata, rifiutandosi di riconoscere il cessionario acquirente come socio. Sotto il profilo dei rimedi che spettano, invece, ai soci pretermessi, la Suprema Corte aderisce, anche qui, a quello che è ormai l'orientamento consolidato nella giurisprudenza recente e che si può riassumere in due principi: (i) il socio pretermesso ha interesse a far valere la violazione della clausola di prelazione statutaria soltanto se allega e dimostra che dalla violazione è derivata una lesione del suo interesse a rendersi acquirente della quota medesima; e (ii) nell'ipotesi in cui tale interesse venga in effetti allegato e dimostrato, il socio pretermesso ha diritto al risarcimento del danno da parte del socio cedente e di chi ha acquistato la quota in violazione della previsione statutaria, ma non anche il diritto di riscattare la quota presso il terzo acquirente. E ciò in considerazione del fatto che il diritto di riscatto ha carattere eccezionale ed è previsto solo in relazione ai casi di prelazione espressamente disciplinati dalla legge (tra questi, l'art. 732 c.c.). Osservazioni
Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte si pone in linea con l'orientamento prevalente negli ultimi anni, sia nella giurisprudenza sia nella dottrina, il quale esclude che la violazione di una clausola di prelazione statutaria comporti la nullità del negozio traslativo tra socio-cedente e acquirente-cessionario; ed esclude altresì che i soci pretermessi abbiano diritto a riscattare la partecipazione dal terzo acquirente, dovendo limitarsi a chiedere il risarcimento del danno (previa dimostrazione della lesione del proprio interesse a rendersi acquirenti della partecipazione ceduta al terzo). Preliminarmente all'esame dettagliato dei principi enunciati dalla Suprema corte, vale la pena evidenziare che la sanzione della nullità del trasferimento della partecipazione tra socio cedente e terzo cessionario era stata affermata da un orientamento risalente della giurisprudenza e della dottrina, sul presupposto della ritenuta efficacia c.d. “reale” della prelazione statutaria (in questo senso, cfr. F. Galgano, La società per azioni, in Trattato Galgano, vol. VII, II ed., Padova, 1988, 154: “In quanto consentita dall'art. 2355 co. 3 cod. civ., la prelazione tra soci viene considerata come prelazione legale, e dunque reale; la vendita delle azioni ai terzi in violazione della clausola è nulla”; in giurisprudenza, cfr. ex multis, Cass. 16 ottobre 1959, n. 2881 in Dir. fall. 1959, II, p. 904; Cass. 21 ottobre 1973, n. 2763 in Giur. comm. 1975, II, 23; Trib. Milano, 27 febbraio 1989 in Giur. comm., 1990, II, 564; Trib. Napoli 12 maggio 1993, in Dir. e giur., 1994, 439; Trib. Cagliari, 7 gennaio 2001). Ora, a parte che, come vedremo infra, la nozione di “efficacia reale” della clausola di prelazione statutaria è stata declinata in maniera molto variegata dalla giurisprudenza e dalla dottrina - sicché parlare di “efficacia reale” in sé e per sé non è significativo se non si individua l'esatto contenuto dell'espressione – resta, in ogni caso, il fatto che non esiste alcun collegamento necessario tra l'efficacia c.d. reale della clausola di prelazione statutaria (comunque la si voglia intendere) e la nullità del trasferimento avvenuto in violazione della clausola medesima. Infatti, le ipotesi di nullità operano soltanto in caso di violazione di norme imperative e la violazione di una clausola statutaria o di un patto parasociale (per l'ipotesi in cui la clausola di prelazione sia ivi contenuta) non possono essere equiparate alla violazione di una norma imperativa. Inoltre, le cause di nullità dei contratti sono tassative e previste dalla legge - in particolare, dalla norma dell'art. 1418 c.c. - mentre non compete allo statuto sociale incidere sulla validità o invalidità di atti stipulati tra terzi (cfr., in questo senso, L. Stanghellini, commento sub art. 2355 bis cod. civ., in Commentario alla riforma delle società (a cura di M. Notari), Milano 2008, 589; nello stesso senso Trib. Milano, 23 ottobre 1991, in Le Società n. 3, 1992, 357; Vettori, Efficacia ed opponibilità del patto di preferenza, Milano, 1988, 196 et seq.; V. Salafia, Le clausole relative alla circolazione delle azioni, in Le Società n. 4, 1991, 450). Al riguardo, è stato anche messo in luce che la limitazione del potere di disposizione, che è insita in ogni clausola di prelazione, non concerne gli elementi essenziali del negozio, ma è esterna ad essi ed attiene al soggetto che pone in essere il trasferimento (cfr. U. Carnevali, nota a Tribunale Bassano del Grappa, sentenza 17 febbraio 1993, in Le Società 1993, 977). Chiarite le ragioni per cui la tesi della nullità è stata “abbandonata” nel corso del tempo, segnaliamo come, accanto a questa tesi, si siano sviluppati diversi altri indirizzi di dottrina e giurisprudenza sul tema delle conseguenze della violazione della clausola statutaria di prelazione. Al riguardo, tali indirizzi sono tutti riconducibili ad un minimo comune denominatore; e cioè quello della inefficacia dell'atto di trasferimento; la tesi dell'inefficacia si rifrange poi in una serie di varianti: (i) inefficacia relativa (per la società): taluni affermano che il trasferimento sia efficace inter partes, ma inefficace (e quindi inopponibile) nei confronti della società che, pertanto, potrebbe rifiutare l'iscrizione del trasferimento nel libro soci e l'acquirente non potrebbe, così, esercitare i diritti sociali incorporati nella partecipazione ceduta. I soci pretermessi possono chiedere il risarcimento del danno, ma non riscattare la partecipazione presso l'acquirente. Si tratta di un orientamento che trova adesione anche in alcuni recenti arresti giurisprudenziali, oltre che nella stessa pronuncia in commento (cfr. ex multis; Cass. 3 giugno 2014 n. 12370; Cass. 23 luglio 2012 n. 12797; Trib. Busto Arsizio, 9 marzo 2012 secondo la cui massima: “Qualora lo statuto preveda una clausola di prelazione, la cessione di quote avvenuta contra pactum non è efficace nei confronti della società ai fini dell'esercizio dei diritti sociali dell'acquirente, impedendo anche l'iscrizione del cessionario nel libro soci; tale cessione è invece efficace inter parte, nonché nei confronti del socio pretermesso che non può agire ex art. 2932 cod. civ., ma può solo ottenere il risarcimento dei danni”; in dottrina, Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1963, p. 268; De Ferra, La circolazione delle partecipazioni azionarie, Milano 1964, 221); (ii) inefficacia relativa (per i soci): altri sostengono che, essendo la clausola posta nell'interesse dei soci, la società non può rifiutare l'iscrizione nel libro soci. L'alienazione è valida inter partes, ma inopponibile agli altri soci che avrebbero il diritto di riscatto in analogia con quanto previsto dall'art. 732 cod. proc. civ.; in altri termini la clausola avrebbe un'efficacia meramente parasociale, nonostante venga inserita nello statuto (cfr. ex multis, F. Ferri, Le società, III ed., Torino, 1987, 506; F. Santoro Passarelli, Struttura e funzione della prelazione convenzionale, in Riv. trim. di dir. proc. civ. 1981, 702 che parla di una “inefficacia relativa, sussistente cioè soltanto rispetto al soggetto che faccia valere il suo diritto, mediante riscatto”); (iii) inefficacia assoluta: si tratta della tesi che più si avvicina a quella della nullità: secondo questa posizione, iltrasferimento della partecipazione sociale è inefficace sia inter partes, sia nei confronti della società – che può rifiutare l'iscrizione nel libro soci - nonché nei confronti dei confronti dei soci pretermessi, legittimati a chiedere il risarcimento del danno, ma non il riscatto della partecipazione (cfr. F. Di Sabato, Diritto delle società, Milano, 2003, 212; G. Sbisà, Clausole statutarie sul trasferimento delle azioni, in G. Fre – G. Sbisà, Società per azioni artt. 2325 – 2409 cod. civ., in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca (a cura di) Francesco Galgano, Bologna, 1997; F. Ferrara – F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 1997, 392; C. Angelici, La circolazione della partecipazione azionaria, in G.E. Colombo – G.B. Portale (diretto da), Trattato delle società per azioni, Torino, 1991, 190 et seq.; in giurisprudenza, cfr. Trib. Roma 22 maggio 1989; Trib. Roma 4 maggio 1998; Trib. Verona, 20 ottobre 2006 n. 3011). Fatta questa premessa, veniamo ora ad indicare analiticamente i principi-cardine esposti nella sentenza in esame, nella quale si possono distinguere due fronti di analisi del problema, che abbiamo già anticipato; ovverosia quello degli effetti della violazione della clausola di prelazione per la società e quello degli effetti della violazione della clausola di prelazione per i soci pretermessi. Sotto il primo profilo – quello degli effetti della violazione della clausola di prelazione statutaria rispetto alla società – questi sono, in dettaglio, i principi espressi dalla pronuncia in commento: (i) l'acquisto della partecipazione sociale in violazione di un patto di prelazione (sia esso previsto solo a livello parasociale sia esso inserito nello statuto) non determina la nullità/invalidità dell'acquisto, ma pone problematiche di legittimazione del terzo acquirente a disporre con efficacia verso i terzi; (ii) le problematiche di legittimazione del terzo acquirente sono diverse a seconda che il patto di prelazione sia previsto solo a livello parasociale ovvero se esso sia inserito nello statuto; (iii) se il patto di prelazione non è previsto nello statuto, esso vincola il socio nei confronti dei soci pretermessi, ma non nei confronti della società (quest'ultima non può rifiutare l'iscrizione nel libro soci dell'acquirente); (iv) se il patto di prelazione è previsto nello statuto, esso è opponibile al terzo acquirente anche da parte della società, la quale potrà rifiutare l'iscrizione dello stesso nel libro soci ed impedirgli di esercitare i diritti sociali. Alla luce di quanto precede possiamo ritenere che la Suprema Corte, nella sentenza in commento, aderisca alla tesi che abbiamo convenzionalmente denominato della “inefficacia relativa (per la società)”. Infatti, i giudici di legittimità, una volta esclusa la nullità del negozio di trasferimento, accreditano quegli arresti giurisprudenziali secondo cui l'inserimento della clausola di prelazione nello statuto (anziché in un patto parasociale) costituisce una presunzione del suo carattere “sociale”, cioè di rilevanza della stessa rispetto ad un interesse – quello di assicurare l'omogeneità della compagine sociale - che trascende quello individuale del singolo socio; e, conseguentemente, il trasferimento avvenuto in violazione di tale clausola è inefficace nei confronti della società che può rifiutare di iscrivere l'acquirente nel libro soci. Alcune delle sentenze citate dalla pronuncia in esame hanno sintetizzato il concetto sopra esposto con lo “slogan”: «la clausola di prelazione inserita nello statuto ha “efficacia reale”; questa espressione non viene, però, richiamata dai giudici di legittimità nella sentenza in esame. Se il mancato richiamo sia o meno frutto di un preciso intendimento non è dato comprendere; resta il fatto che l'utilizzo di tale espressione, senza spiegarne il significato, crea confusione, in quanto ad essa sono stati attribuiti, nel corso del tempo, i significati più disparati: alcuni l'hanno usata infatti per chiarire che la società può opporla a chi l'abbia violata, rifiutando di riconoscere come socio l'acquirente; altri per descrivere il ben più forte effetto che la clausola avrebbe di rendere nullo o inefficace il trasferimento anche fra le parti; altri infine per richiamare addirittura l'idoneità della stessa a rendere soggetto ad un diritto di riscatto l'acquisto del terzo cessionario fatto in sua violazione (per una dettagliata rassegna delle posizioni in materia di efficacia della clausola di prelazione, con indicazione della terminologia utilizzata, cfr. C.A. Busi, Le clausole di prelazione statutaria, in Riv. Notariato, 2005, 453 et seq.). Alla luce di quanto precede, è stato giustamente osservato da autorevole dottrina, come sia preferibile parlare di possibili effetti della violazione della clausola senza etichettarli (così, L. Stanghellini, op. cit., 589). Ciò premesso, si può comunque concludere che con l'espressione “efficacia reale” della clausola di prelazione si alluda, quantomeno da parte dell'orientamento giurisprudenziale più recente, al fatto che la clausola di prelazione inserita in uno statuto faccia da “scudo” a che il terzo acquirente delle azioni (in violazione della clausola di prelazione medesima) possa pretendere di essere considerato quale socio della società delle cui azioni egli si è reso acquirente. In altri termini, “efficacia reale” significa che la presenza della clausola di prelazione nello statuto consente alla società (e ai soci pretermessi nei limiti che vedremo infra) di non riconoscere come socio il terzo che abbia acquistato le azioni in violazione del diritto degli altri soci di essere preferiti in caso di loro trasferimento (cfr. ex multis Cass. 23 luglio 2012, n. 12797, cit., secondo la cui massima: "Il patto di prelazione inserito nello statuto di una società di capitali ed avente ad oggetto l'acquisto delle azioni sociali, poiché è preordinato a garantire un particolare assetto proprietario, ha efficacia reale e, in caso di violazione, è opponibile anche al terzo acquirente; nello stesso senso, la recente sentenza del Trib. Milano, 9 marzo 2015 n. 4852). Sotto il secondo profilo trattato - ovverosia quello degli effetti della violazione della clausola di prelazione statutaria rispetto ai soci pretermessi, due sono i principi affermati dalla Suprema Corte: (i) il socio pretermesso che lamenti la violazione del patto di prelazione inserito nello statuto deve allegare e provare che dalla violazione è derivata una lesione del suo interesse a rendersi acquirente delle azioni trasferite a terzi; non è sufficiente provare la sola violazione del patto. In altri termini, l'interesse del socio pretermesso a far valere la c.d. “efficacia reale” della clausola di prelazione statutaria, non consiste nel mero rispetto del procedimento di cessione, ma deve essere sorretto da una manifestazione chiara dell'intenzione di acquistare la partecipazione al medesimo prezzo del terzo acquirente (nello stesso senso, l'orientamento più recente della giurisprudenza: ex multis, Trib. Milano, 9 marzo 2015 n. 4852, cit.; Cass. 23 luglio 2012, n. 12797, cit.; Trib. Milano 23.9.1991, in Giur. It. 1992, I, 2, 240; per una critica a questa impostazione, cfr. P. Revigliono, Questioni controverse in tema di clausole di prelazione tra argomentazioni tradizionali e nuovi spunti interpretativi, in Giur. it., 1992, nota a Trib. Milano, 23 settembre 1991); (ii) la violazione del patto di prelazione, comporta l'obbligo del cedente e del cessionario di risarcire il danno ai soci pretermessi, che questi dimostrino di aver eventualmente patito, ma non anche il diritto potestativo dei soci di riscattare la partecipazione nei confronti dell'acquirente. In altri termini la c.d. “efficacia reale” non deve essere intesa come legittimazione del socio pretermesso al riscatto della partecipazione. Il fondamento dell'esclusione del riscatto deve rinvenirsi nella fonte negoziale e non legale del patto di prelazione. Più precisamente, la legge (e cioè, per le società a responsabilità limitata, l'attuale art. 2469 c.c., anteriormente alla riforma del 2003 si trattava dell'art. 2479 c.c. secondo cui “le partecipazioni sono liberamente trasferibili … salva contraria disposizione dell'atto costitutivo”; per le società per azioni, l'art. 2355 bis cod. civ. che prevede che “lo statuto può sottoporre a particolari condizioni il …. trasferimento” delle azioni) non prevede né regolamenta il diritto di prelazione, bensì lo consente. La natura negoziale della fonte del diritto di prelazione comporta che dalla sua violazione deriva non può derivare il diritto potestativo di riscattare la partecipazione nei confronti del terzo acquirente. E' noto, infatti, che il diritto di riscatto non costituisce, invero, un rimedio generale in caso di violazione di obbligazioni contrattuali, bensì una forma di tutela specificamente apprestata dalla legge nel conformare i diritti spettanti ai titolari di diritti di prelazione che essa stessa prevede. Anche sotto questo profilo, la sentenza in esame si pone in linea con un orientamento ormai ampiamente consolidato (cfr. ex multis Trib. Milano, 9 marzo 2015 n. 4852 cit.; Cass. 3 giugno 2014, n. 12370 cit.; Trib. Milano 17.12.2012, ordinanza cautelare nel proc. R.G. n. 79276/2012 secondo la cui massima: “poiché il diritto di riscatto costituisce un così intenso limite all'autonomia contrattuale ed al principio generale di cui all'art.1379 cc che non può ravvisarsi in ipotesi diverse da quelle di prelazione legale in tal senso espressamente regolate dalla legge (retratto successorio, prelazione agraria, prelazione nell'ambito della locazione di immobili ad uso non abitativo)”; Trib. Milano, ordinanza cautelare 10.5.2013 nel proc. rg n. 15593/2013; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 7 giugno 2010). Un'ulteriore argomentazione a supporto della non configurabilità di un diritto di riscatto dei soci pretermessi è che tale esclusione appare comunque anche la soluzione più conforme al meccanismo della prelazione, il cui nucleo non è rappresentato da una promessa a stipulare suscettibile di esecuzione coattiva, ma dal mero obbligo di denuntiatio, con facoltà del denunziante di non accettare la proposta dell'oblato e, in definitiva, di non procedere ad alcuna vendita (cfr. Trib. Busto Arsizio, 9 marzo 2012, cit. nonché, da ultimo, Trib. Milano 24 aprile 2013, sentenza nel proc. rg n. 70523/2009 reperibile sul sito giurisprudenzadelleimprese.it, secondo la cui massima: "La denuntiatio rappresenta la mera dichiarazione di un'intenzione a vendere ad un terzo, volta ad innescare un'eventuale proposta di acquisto da parte dell'oblato, alle medesime condizioni dichiarate nella denuntiatio, proposta alla quale dunque, per la conclusione del negozio di cessione, deve far seguito un'ulteriore accettazione del denunziante, solo in presenza della quale si può dire concluso il negozio. E' allora da respingere la configurazione della denuntiatio e del conseguente atto di esercizio della prelazione quali, rispettivamente, proposta contrattuale e correlativa accettazione, idonee a dar vita ad un negozio di cessione" e nella cui motivazione si legge: "E tale orientamento pare al Tribunale preferibile rispetto al primo, in quanto risulta più aderente alla struttura del patto (o della clausola) di prelazione, consistente nella attribuzione ad un soggetto del diritto di essere preferito, a parità di condizioni, quale acquirente di un bene nel caso il proprietario dello stesso si determini alla alienazione del cespite nei confronti di un terzo (cfr. Cass. n. 8199/1993): struttura rispetto alla quale, dunque, il primo orientamento pone a carico del soggetto intenzionato alla vendita –privandolo del ruolo di accettante- l'ingiustificato rischio della sicura conclusione del contratto con il prelazionario, senza consentirgli alcuna valutazione sulla convenienza od opportunità della alienazione una volta che il destinatario della denuntiatio abbia esercitato il suo diritto e, dunque, una volta che al primo acquirente da lui liberamente prescelto si debba sostituire quello diverso e titolare del diritto di prelazione. La soluzione prescelta -salvo il caso nel quale la clausola regoli esplicitamente il meccanismo della prelazione in senso diverso e salvo ancora il caso nel quale il tenore della denuntiatio deponga espressamente nel senso della formulazione di una proposta negoziale specifica- pare del resto ancora più confacente alla struttura della prelazione in ambito societario, ove la clausola può tutelare l'interesse dei soci ad evitare alterazioni della compagine con l'ingresso di terzi ma, ove riguardi, come nel caso di specie, anche le cessioni infra soci, appare volta anche a consentire a tutti i soci una sorta di controllo circa la evoluzione delle originarie proporzioni di partecipazione e, dunque, deve consentire anche al socio intenzionato alla vendita di valutare, una volta che alla sua denuntiatio abbia fatto seguito l'esercizio del diritto di prelazione da parte di altri soci, l'opportunità di cessione a soci diversi da quelli originariamente da lui individuati quali acquirenti." Conclusioni
Gli assunti della Suprema Corte nella sentenza in esame sono condivisibili, sia quelli riguardanti gli effetti della violazione della clausola di prelazione verso la società, sia quelli sugli effetti della violazione medesima rispetto ai soci pretermessi. Da ultimo, vale la pena sottolineare un profilo su cui la sentenza in esame non si sofferma, ma che ci pare importante evidenziare a conclusione dell'analisi che precede: e cioè che i principi generali enunciati devono sempre essere declinati in relazione a quello che, in concreto, è il tenore della clausola di prelazione. Infatti, c'è prelazione e prelazione; le clausole prelatizie possono presentare i contenuti più vari e il compito dell'interprete dovrebbe essere innanzitutto quello di ricostruire l'effettiva volontà delle parti sottesa alla clausola. Tra i vari modi in cui la clausola di prelazione può essere declinata ne segnaliamo qui di seguito alcuni a titolo esemplificativo: c'è la clausola finalizzata ad applicarsi nel solo caso di compravendita della quota; quella finalizzata ad applicarsi in ogni caso in cui ci sia una variazione soggettiva nella compagine sociale; quella per la quale i consoci sono preferiti a parità di condizioni; e quella (cosiddetta “impropria”) per la quale la prelazione può essere esercitata per un prezzo inferiore a quello pagato dal terzo; quella che si applica a qualsiasi cessione, a quella che si applica solo alla cessione ad estranei; si può stabilire una prelazione soltanto per le cessioni aventi corrispettivo in danaro o comunque fungibile o si può stabilire una prelazione - in realtà “spuria” - che stabilisca che quando il socio non possa fornire un corrispettivo della cessione uguale a quello promesso dal terzo acquirente, perché si tratta di prestazione infungibile, corrisponda un equo valore delle azioni, vi sono poi prelazioni ancor più forti che possono stabilire il diritto degli altri soci di acquistare invece del terzo anche quando si tratti di un atto a titolo gratuito, anche qui con quantificazione del corrispettivo, od anche quando non si tratti in realtà di un contratto di trasferimento, ma questo avvenga ad altro titolo, di successione mortis causa o per fusione, per esempio. In altri termini, l'applicazione dei principi generali sopra delineati deve poi necessariamente coordinarsi con il contenuto specifico della clausola che di volta viene in considerazione. E non è detto che il trasferimento della partecipazione ad un terzo configuri sempre ed in ogni caso violazione della clausola di prelazione statutaria, molto dipendendo, per l'appunto, dal tenore della clausola medesima. Un esempio “lampante” di quanto appena descritto si riscontra nel caso esaminato dalla sentenza del Tribunale di Milano del 9 marzo 2015 n. 4852, cit. nel quale una quota di una società era stata trasferita ad altra società mediante conferimento, senza offrirla prima all'altro socio; tutto questo in presenza di un patto di prelazione statutario. Ebbene, il Tribunale ha ritenuto che la prelazione di cui alla clausola statutaria non fosse operante nel caso di specie, in quanto dal tenore della clausola sarebbe emerso un semplice obbligo di preferire il socio quando fosse offerta una prestazione in danaro o comunque fungibile; mentre nel caso specifico il trasferimento era avvenuto nell'ambito di un conferimento di partecipazione in altra società.
Riferimenti dottrinali e giurisprudenziali
Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento. In aggiunta ai predetti riferimenti, segnaliamo qui di seguito ulteriore dottrina in tema di clausola di prelazione: V. Meli, La clausola di prelazione negli statuti di società, Napoli, 1991; L. Stanghellini, I limiti statutari alla circolazione delle azioni, Milano, 1997; S. Gatti, L'iscrizione nel libro dei soci, Milano, 1969; G. Ferri, Le società, III ed. in Trattato di diritto civile fondato da Filippo Vassalli, vol. X, Torino, 1987; D. Corapi, Gli statuti delle società per azioni, Milano, 1971; L. Calvosa, La clausola id riscatto nella società per azioni, Milano, 1995; Bonelli, Clausole di prelazione: modelli per evitarne l'aggiramento, in F. Bonelli – P.G. Jaeger, Sindacati di voto e sindacati di blocco, Giuffrè, 1993, 272.
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