Amministratore-società: dalla parasubordinazione al rapporto organico-societario
23 Marzo 2017
Massima
L'amministratore unico o il consigliere d'amministrazione di una società per azioni sono legati da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell'immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell'assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell'art. 409 c.p.c.. Ne deriva che i compensi spettanti ai predetti soggetti per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili senza i limiti previsti dal quarto comma dell'art. 545 c.p.c. Il caso
La pronuncia in esame trae origine da un'azione esecutiva presso terzi, intentata dalla banca creditrice sulle somme accantonate da due società per azioni a titolo di emolumenti per l'attività di amministratore unico e consigliere d'amministrazione svolta dal debitore. Il giudice dell'esecuzione, dopo aver qualificato il rapporto intercorrente tra le società e il loro amministratore come rapporto di lavoro autonomo, ha quindi assegnato al creditore procedente l'intera somma accantonata dai terzi. Avverso l'ordinanza di assegnazione ha proposto opposizione il debitore, denunciando l'errata qualificazione del proprio rapporto con le società amministrate, avente natura di rapporto di lavoro parasubordinato ex art. 409, n. 3, c.p.c., con conseguente limitazione della pignorabilità dei crediti da lavoro al quinto del totale ex art. 545 c.p.c.. Accogliendo l'opposizione, il Tribunale ha aderito alla ricostruzione giuridica dell'opponente, dichiarando di conseguenza l'impignorabilità dei compensi oltre il quinto del loro ammontare. Proponendo ricorso per Cassazione, la banca creditrice ha contestato la correttezza della decisione impugnata, sottolineando in particolare due motivi di illegittimità della sentenza: l'omesso accertamento in concreto circa l'effettiva subordinazione dell'amministratore nello svolgimento della sua attività; l'incompatibilità astratta tra attività amministrativa e rapporto di lavoro parasubordinato, mancando alla prima le caratteristiche della continuità e della coordinazione. La questione, ritenuta di massima importanza, è stata rimessa all'esame delle Sezioni Unite. La questione
Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite consiste nello stabilire se il rapporto tra società per azioni e amministratori sia qualificabile come rapporto di lavoro parasubordinato o autonomo e, di conseguenza, stabilire se il limite di pignorabilità degli stipendi previsto dall'art. 545, comma 4, c.p.c. sia applicabile ai compensi o agli emolumenti dell'amministratore. Al fine di meglio comprendere il contenuto della pronuncia, pare opportuno premettere una sintesi del quadro normativo di riferimento. Come noto, la disciplina in tema di sequestri e pignoramenti degli stipendi è dettata dal D.P.R. n. 180 del 1950, che, destinato inizialmente a regolamentare i soli rapporti di lavoro alle dipendenze della P.A., è stato successivamente esteso anche al settore del lavoro privato con le leggi n. 311/2004 e n. 80/2005. In particolare, per quanto di interesse in questa sede, gli artt. 2 e 52 D.P.R. 180/1950 dispongono un limite alla pignorabilità dei crediti da lavoro dipendente o parasubordinato, stabilendo: nel primo caso, che “gli stipendi, i salari e le retribuzioni equivalenti (…) sono soggetti a sequestro e pignoramento (…) fino alla concorrenza di un quinto” (art. 2); nel secondo caso, che i compensi corrisposti ai titolari dei rapporti di lavoro di cui all'articolo 409, n. 3, c.p.c. “sono sequestrabili e pignorabili nei limiti di cui all'articolo 545 del codice di procedura civile”, ossia nella misura di un quinto (art. 52). Dal quadro normativo così delineato, emerge dunque una netta distinzione di tutela tra crediti da lavoro dipendente o parasubordinato e crediti da lavoro autonomo: per i primi, infatti, il legislatore ha previsto un limite di pignorabilità del credito pari al quinto del compenso dovuto; per i secondi, invece, non è prevista alcuna tutela e, perciò, i crediti risultano interamente pignorabili. Alla luce di tale premessa, emerge come la qualificazione giuridica del rapporto che lega amministratori e società produca rilevanti effetti applicativi. Infatti, ove si ritenga che lo stesso integri un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato, i relativi crediti possono essere pignorati e sequestrati nei limiti previsti dall'art. 545, comma 4, c.p.c.. Diversamente, ove il rapporto di lavoro sia qualificato come autonomo, gli stessi risultano integralmente espropriabili dai creditori. Le soluzioni giuridiche
Per risolvere la questione in esame, le Sezioni Unite hanno anzitutto ripercorso gli orientamenti interpretativi formatisi in dottrina e giurisprudenza. Sul punto, l'interpretazione dottrinale si è tradizionalmente divisa in due orientamenti: da una parte, i sostenitori della c.d. “teoria contrattualistica”, in base alla quale amministratore e società sarebbero legati da un vero e proprio rapporto negoziale (Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 1992, 467); dall'altra, i fautori della c.d. “teoria organica”, secondo cui l'amministratore non rappresenterebbe un centro autonomo di interessi, ma piuttosto un organo immedesimato nell'ente giuridico che rappresenta, senza che le due parti possano scindersi tra loro e regolamentare negozialmente i propri rapporti (Napoletano, Il lavoro subordinato, Milano, 1966, 199 ss.). Le due teorie, seguite a fasi alterne anche dalla giurisprudenza, hanno condotto a conclusioni applicative opposte. In particolare, sostenendo la natura negoziale del rapporto tra gestori e società, si è giunti a qualificare l'amministratore alternativamente come lavoratore autonomo, subordinato oppure parasubordinato. Diversamente, chi ha sostenuto la ricostruzione “organica” ha radicalmente escluso la configurabilità di un rapporto patrimoniale tra società e amministratore, che, rappresentando un organo necessario per l'operatività stessa della società, non è da questa scindibile. Per comporre il contrasto interpretativo, si è dunque reso necessario l'intervento della Cassazione a Sezioni Unite (Cass. Sez. Unite 14 dicembre 1994, n. 10680), che ha sostenuto la qualificazione del rapporto di amministrazione in termini di rapporto di lavoro parasubordinato, ai sensi dell'art. 409, n. 3, c.p.c. In particolare, i supremi giudici di legittimità hanno fondato la propria decisione su quattro considerazioni: a) l'esistenza di un rapporto organico tra amministratori e società, da riconoscersi nei rapporti giuridici verso terzi, non esclude la configurabilità di un vincolo obbligatorio tra amministratore ed ente nei rapporti interni; b) l'attività di gestione della società ben può presentare i caratteri della personalità, continuazione e coordinazione richiesti dall'art. 409, n. 3, c.p.c.; c) la natura imprenditoriale dell'attività non impedisce la configurazione di un rapporto di lavoro parasubordinato, come del resto pacificamente ammesso per l'institore; d) il rapporto di lavoro parasubordinato non presuppone necessariamente una situazione di debolezza contrattuale di una parte rispetto all'altra, difatti insussistente nei rapporti tra amministratore e società. I rilievi appena sintetizzati, seppur autorevoli, non sono riusciti tuttavia a sedare i contrasti in dottrina e giurisprudenza. In particolare, a fronte di pronunce che hanno confermato l'orientamento espresso dalla Suprema Corte, non ne sono mancate altre che hanno sostenuto la natura autonoma del rapporto di lavoro, ammettendo la legittimità di clausole statutarie che escludano compensi per gli amministratori (Cass. 26 febbraio 2002, n. 2861), così come la possibilità per questi ultimi di rinunciare alla retribuzione (Cass. 13 novembre 2012, n. 19714). Con la sentenza in esame, le Sezioni Unite hanno quindi inteso riesaminare il proprio precedente orientamento, tentando una nuova composizione degli orientamenti interpretativi anche alla luce della nuova disciplina delle società di capitali. Per risolvere il quesito sottoposto, infatti, le Sezioni Unite prendono le mosse dalla riforma del diritto societario del 2003, che ha definitivamente consacrato l'organo amministrativo quale figura egemone nell'organizzazione societaria. A conferma di tale assunto, le Sezioni Unite valorizzano anzitutto il contenuto dell'art. 2380-bis c.c., che affida la gestione dell'impresa in via esclusiva agli amministratori. Il riconoscimento di un potere di gestione esclusiva, unito al potere di rappresentanza generale attribuito dall'art. 2384 c.c., rende l'organo amministrativo del tutto autonomo da qualsiasi attività di coordinamento esterno, ivi compreso quello dell'assemblea dei soci. Quest'ultima, infatti, può essere titolare di un mero potere di autorizzazione degli atti amministrativi ex art. 2364, n. 5, c.c. in presenza di apposita previsione statutaria, ma non può certo limitare l'autonomia decisionale degli amministratori, che rimangono comunque liberi di non compiere l'atto autorizzato. La competenza eccezionale e residuale dell'assemblea dei soci, contrapposta alla competenza generale ed esclusiva degli amministratori, induce quindi a negare che l'attività di questi ultimi possa essere ricondotta a un rapporto di lavoro parasubordinato, di cui difetta il requisito essenziale dell'etero-coordinamento. Rigettata la ricostruzione interpretativa fatta propria nel 1994, con la pronuncia in esame le Sezioni Unite offrono quindi un nuovo spunto ermeneutico, valorizzando in particolar modo la portata del d.gs. n. 168/2003, istitutivo del c.d. “Tribunale delle Imprese”. All'art. 3, comma 2, lett. a) D.Lgs. n. 168/2003, infatti, il legislatore attribuisce al Tribunale delle Imprese la competenza a conoscere di tutte le controversie relative ai “rapporti societari, ivi compresi quelli concernenti l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario”. Ebbene, nell'esegesi di tale disposizione normativa si è osservato che tra i rapporti societari cui il legislatore fa riferimento deve necessariamente ricomprendersi anche il rapporto tra società e amministratori, sull'assunto che questi ultimi svolgano una funzione essenziale per la società, consentendo alla stessa di agire (Cass. 9 luglio 2015, n. 14369). Da tale presupposto discende che il rapporto tra amministratori e società non può qualificarsi né come contratto d'opera né come rapporto di tipo subordinato o parasubordinato, bensì come rapporto intrinsecamente “societario”, poiché indispensabile per assicurare l'agire stesso della società. Ne consegue, in definitiva, l'impossibilità di applicare ai compensi o agli emolumenti dell'amministratore la disciplina propria dei crediti da lavoro subordinato o parasubordinato, ivi compreso il limite di pignorabilità di cui all'art. 545, comma 4, c.p.c., salvo il caso eccezionale in cui l'attività amministrativa assuma in concreto i caratteri propri della subordinazione (Cass. 7 marzo 1996, n. 1793). Osservazioni
Con la pronuncia in esame, le Sezioni Unite compiono una netta presa di posizione a favore della teoria dell'immedesimazione organica. Ricostruire la relazione tra amministratori ed ente in termini di “rapporto societario”, infatti, significa escludere che tali due soggetti possano essere considerati come centri autonomi di interessi e che i loro rapporti patrimoniali possano essere ricondotti alla disciplina giuslavoristica. Tale soluzione, che nega la configurabilità di un rapporto di lavoro tanto parasubordinato quanto autonomo, risulta conforme allo schema delle società di capitali attualmente disegnato dal legislatore. Da una parte, infatti, la moderna struttura di governance societaria ha reso gli amministratori del tutto autonomi nella loro attività di gestione e, pertanto, svincolati da qualsiasi attività di coordinamento esterno. Dall'altra, l'attività amministrativa consiste non già in una mera prestazione d'opera professionale, quanto piuttosto in un'attività necessaria e imprescindibile per la vita stessa della società, sicché è congruo ritenere che le due realtà debbano essere considerate in un'ottica di necessaria immedesimazione. |