Danno risarcibile ai soci in ipotesi di concambio da fusione non congruo
20 Ottobre 2016
Massima
Nel giudizio volto al risarcimento del danno subito dal socio in ragione della determinazione di un rapporto di cambio da fusione non congruo, il rilievo del patrimonio della società incorporata avviene per il tramite della mediazione del rapporto di cambio tra le azioni della incorporata e quelle della incorporante, mediante la valutazione di entrambe le società e la fissazione dei rapporti matematici relativi; diversamente, non costituisce un criterio corretto di liquidazione del danno l'immediato pagamento in favore del socio di minoranza – in via proporzionale pro quota – del minor incasso conseguito dalla società partecipata per la dismissione di un bene sottocosto, atteso che varrebbe come risarcire il danno indiretto al di fuori dei casi ammessi dalla legge. Il caso
La Corte d'Appello di Genova, decidendo su rinvio, ha condannato in solido Amministratori e Sindaci di una società incorporata per il danno cagionato in capo al socio in conseguenza della determinazione di un rapporto di cambio da fusione non congruo. In particolare, a parere dei Giudici di secondo grado, l'organo amministrativo, in assenza di rilievi sul punto da parte del Collegio Sindacale, avrebbe fornito informazioni non veritiere nell'ambito della situazione patrimoniale prodromica alla fusione, ivi sottostimando il valore di un pacchetto azionario all'epoca posseduto dalla società incorporanda e ceduto sottocosto a ridosso dell'operazione di fusione. La richiamata sottostima patrimoniale – sulla cui base è stato determinato il rapporto di cambio – ha cagionato un danno in capo al socio della società incorporata, il quale, per effetto di un concambio non congruo, si è visto attribuire una partecipazione nella società incorporante avente valore inferiore rispetto a quello della partecipazione ab origine detenuta nella incorporata. Ai fini della liquidazione del danno de quo, i Giudici hanno attribuito rilevanza alla differenza esistente tra il prezzo cui l'incorporanda ha ceduto il pacchetto azionario a ridosso della fusione ed il maggior valore di mercato delle dette azioni, così come all'uopo determinato da una C.T.U. Avverso un simile giudicato, gli organi sociali della incorporata hanno proposto ricorso innanzi alla Suprema Corte, contestando, fra l'altro, il criterio adottato dai Giudici di merito ai fini della quantificazione del danno subito dal socio in conseguenza della descritta sottostima patrimoniale. Le questioni
Data per accertata, nel merito, l'esistenza di una situazione patrimoniale ex art. 2501-quater c.c. della società incorporata posta alla base del rapporto di cambio in tutto sottostimata, la Sentenza in commento si sofferma, nella fase iniziale della propria parte motiva, sul rapporto di cambio da fusione, richiamandone logiche sottostanti ed interessi che il Legislatore ha ritenuto al riguardo meritevoli di tutela. Più precisamente, gli Ermellini rimarcano la necessità ex lege che il rapporto di cambio – pur se da quantificarsi nell'ambito di un “ragionevole banda di oscillazione”, in mancanza di criteri inderogabili al riguardo imposti dalla norma di legge – risulti congruo.
Il concambio – in virtù del cd. “principio di parità” – dovrebbe garantire che a ciascun socio delle società partecipanti alla fusione sia attribuita una partecipazione nell'incorporante di valore sostanzialmente conforme rispetto a quello della partecipazione posseduta ante operazione di fusione. In tale contesto, la Corte di Cassazione rimarca quindi che il valore delle azioni di ciascuna società partecipante alla fusione, quale base per il calcolo del rapporto di cambio, deriva dalla consistenza del relativo patrimonio sociale; tale patrimonio, nel caso della società incorporanda di specie, ricomprendeva anche il valore di partecipazioni all'epoca detenute dalla predetta società ed oggetto di vendita, a ridosso della fusione, ad un prezzo decisamente inferiore rispetto a quello di mercato. Quanto sopra premesso, la Suprema Corte si addentra nella materia del contendere, concentrandosi sulle modalità di quantificazione del danno risarcibile in favore del socio in presenza di un rapporto di cambio non congruo, quale conseguenza della sottostima del patrimonio della società ab origine partecipata.
Al riguardo, la Sentenza de qua sottolinea come occorra in proposito raffrontare non già la posizione del socio post fusione con quella esistente ante operazione, bensì la situazione del socio al cospetto di un rapporto di cambio non congruo con quella ove il detto rapporto risulti invece correttamente determinato. Nel caso di specie, il danno patito dal socio dell'incorporata corrisponderebbe quindi, principalmente, al minor valore della partecipazione nell'incorporante ricevuta in concambio rispetto a quello configurabile in ipotesi di una fusione correttamente perfezionata. In ragione di tali principi, la Sentenza de qua agitur sancisce che il danno risarcibile al socio non possa in alcun modo coincidere, come invece stabilito dai Giudici di merito, con la perdita di valore del patrimonio della società, quale differenza tra il valore di cessione del pacchetto azionario detenuto dall'incorporanda all'epoca della fusione ed il valore di mercato delle dette azioni esistente in pari data. Infatti, ai fini del risarcimento del danno in questione, il patrimonio della società incorporata, correttamente rideterminato, non deve essere considerato stand alone, bensì quale termine del rapporto di cambio tra le azioni della incorporata e quelle della incorporante. Il valore del patrimonio della società – concludono gli Ermellini – rileva dunque, ai fini della quantificazione del danno de quo, per il tramite della mediazione del rapporto di cambio, tenuto conto della valutazione di entrambe le società e la fissazione dei rapporti matematici relativi. Osservazioni
La commentata Sentenza ha il pregio di evidenziare alcuni importanti principi in tema di rapporto di cambio, addivenendo a conclusioni in tutto condivisibili poste a tutela dei soci di società partecipanti ad operazioni di fusione. Al riguardo, preme rilevare come, fatta eccezione per il caso in cui la società incorporante possegga la totalità del capitale dell'incorporata, nelle operazioni di fusione i soci dell'incorporata – destinata, come tale, a cessare di esistere – si vedono assegnare, in sostituzione delle proprie partecipazioni originarie, partecipazioni nel capitale della società incorporante, sulla base, per l'appunto, del cd. rapporto di cambio determinato dagli organi amministrativi. Il rapporto di cambio – evidenziato espressamente quale parte integrante del progetto di fusione ai sensi dell'art. 2501-ter, n.3), c.c. – definisce quindi il numero di azioni – ed il conseguente aumento di capitale – che la società incorporante deve emettere in favore dei soci della società incorporata.
In tale contesto, come puntualmente colto dalla Sentenza de qua, il Legislatore ha previsto, ad esclusiva tutela delle compagini sociali interessate dall'operazione, la necessità che il rapporto di cambio risulti congruo; il fine è quello garantire che, al termine dell'operazione, il valore corrente della partecipazione detenuta da ciascun socio nella società incorporante risulti sostanzialmente corrispondere con il valore della partecipazione posseduta da ciascun socio prima della fusione, salvo contemplare, ai sensi art. 2501-ter, comma 2, c.c., eventuali conguagli in denaro di ammontare comunque limitato. Peraltro – considerato che, nella pratica, il concambio “teorico” posto a tutela della finalità di cui supra risulta sovente oggetto di negoziazioni tra le parti – la congruità del rapporto di cambio deve risultare da apposita relazione predisposta da uno o più esperti ex art. 2501-sexies c.c., a meno che l'unanimità dei soci non intenta rinunciarvi. In tema di determinazione del concambio, la Suprema Corte tiene sapientemente a rimarcare come il rapporto di cambio risulti in tutto correlato alle consistenze patrimoniali delle società partecipanti alla fusione. E' tuttavia appena il caso di precisare che non assumerebbero in proposito rilevanza – contrariamente a quanto incidentalmente osservato dalla commentata Sentenza – le risultanze della situazione patrimoniale da fusione ex art. 2501-quater c.c., posto che la stessa deve essere redatta a valori contabili, in osservanza delle norme sul bilancio d'esercizio. Diversamente, secondo l'insegnamento dei corretti principi contabili (cfr. OIC. n. 4), ai fini della determinazione del concambio rilevano i valori effettivi o di cd. capitale economico dei patrimoni delle società partecipanti alla fusione, i quali devono trovare compiuta illustrazione e giustificazione nell'ambito della relazione dell'organo amministrativo alla fusione da sottoporre ai soci ex art. 2501-quinquies c.c.
In tale contesto giuridico normativo, appaiono condivisibili i criteri di liquidazione del danno risarcibile in favore dei soci in ipotesi di determinazione di un concambio non congruo, così come qui sanciti dalla Suprema Corte. Più precisamente, pare in tutto ragionevole ritenere che occorra in proposito attribuire rilevanza alla perdita di valore della partecipazione al riguardo sofferta dal socio – oltre che dei relativi diritti amministrativi – da cui l'esigenza di ricondurre il patrimonio del detto socio nella condizione in cui si sarebbe trovato in assenza dell'illecito. In forza di tali presupposti, si rende quindi necessario procedere ad un raffronto tra il rapporto di concambio determinato in misura congrua con quello, non corretto, effettivamente quantificato nello specifico caso di interesse. Adottando una simile impostazione, la sottostima di un asset della società incorporata e, di conseguenza, del relativo patrimonio sociale, non può tradursi – de plano – nella quantificazione del danno da riconoscersi al socio per effetto un concambio determinato in misura non congrua; la sottovalutazione del valore corrente del patrimonio della società incorporata non assume infatti rilevanza, per quanto qui d'interesse, stand alone, né il valore di tale patrimonio può essere considerato in termini assoluti. Al contrario, il valore corrente del patrimonio della società incorporata, correttamente rideterminato, va assunto in termini relativi, giacché da raffrontarsi, ai fini della determinazione del rapporto di cambio prodromica alla stima del danno risarcibile, con il valore corrente della società incorporante. Solo una volta rideterminato il concambio in misura congrua, potrà procedersi, sulla base del raffronto con il concambio non correttamente quantificato, alla liquidazione del danno in favore del socio concambiante. Così commentata per cenni la parte motiva alla base della decisione qui assunta dagli Ermellini, preme da ultimo osservare come la Sentenza de qua non abbia trattato, giacché verosimilmente avulso dalla materia del contendere, il tema della data rilevante ai fini della quantificazione del danno risarcibile, sebbene oggetto di un vivace dibattito dottrinale; vi sono infatti Autori intesi ad attribuire in proposito rilevanza alla data della delibera di fusione, al cospetto di altri volti a propendere per il giorno in cui è resa la Sentenza di condanna. Conclusioni
La commentata Sentenza ha il pregio di evidenziare una serie condivisibili principi in tema di danno liquidabile in favore dei soci allorché al cospetto di concambi da fusione determinati in misura non congrua. L'auspicio è quello che gli organi sociali, qualora intenzionati ad implementare un'operazione di fusione, osservino scrupolosamente le disposizioni al riguardo stabilite dal Codice Civile, le quali, laddove disciplinanti il rapporto di cambio, intendono tutelare i diritti dei soci, con particolare riferimento a quelli di minoranza. |