Clausole put a prezzo predefinito e divieto di patto leonino
22 Novembre 2016
Massima
L'accordo dei soci esterno al contratto sociale dal quale scaturisca in concreto un'esclusione assoluta e costante del rischio d'impresa e al quale non corrisponda alcun interesse meritevole di tutela ai sensi dell'art. 1322 c.c., configura elusione del divieto di patto leonino ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 2265 c.c. Il caso
La vicenda oggetto del caso in esame trae origine da un'operazione di acquisto di una partecipazione sociale in Banca Bipielle Net S.p.A., poi Banca Network Investimenti S.p.A. (BNI), società operante nel settore bancario e assicurativo, da parte di Sopaf S.p.A. (Sopaf). Tale ultima società, infatti, al fine di ottenere l'autorizzazione all'acquisto da parte di Banca d'Italia, decideva di coinvolgere nell'iniziativa DeA Partecipazioni S.p.A. (DeA), investitore reputato solido e affidabile quanto a capacità finanziaria. All'esito delle trattative e ottenuta l'autorizzazione di Banca d'Italia, Sopaf e DeA, insieme ad una società del gruppo Aviva, concludevano l'operazione di acquisizione, acquistando complessivamente una partecipazione azionaria pari al 79,73% del capitale sociale di BNI. Sopaf e DeA sottoscrivano, inoltre, un accordo parasociale - poi modificato in data 23 giugno 2008 – prevedendo a favore dell'ultima un'opzione put a prezzo predefinito, ai sensi della quale DeA avrebbe potuto disinvestire in qualsiasi momento, senza alcun onere, la propria partecipazione ad un prezzo almeno pari al costo del proprio investimento iniziale, oltre ad ogni ulteriore versamento a patrimonio netto della società, maggiorato di interessi convenzionali, impegnandosi Sopaf, a sua volta, ad acquistare tale partecipazione. Manifestata più volte la volontà di esercitare la summenzionata opzione e scaduti i relativi termini senza che Sopaf avesse trovato terzi interessati né si fosse offerta essa stessa di acquistare le azioni di titolarità di DeA, quest'ultima agiva in giudizio chiedendo l'accertamento dell'inadempimento e la condanna di Sopaf al pagamento del prezzo della partecipazione come predefinito nell'accordo parasociale. D'altro canto, Sopaf eccepiva la nullità del patto per violazione del divieto di patto leonino di cui all'art. 2265 c.c.: secondo la convenuta, infatti, la previsione in questione avrebbe consentito a DeA la cessione della propria partecipazione a un prezzo predeterminato, non già in base al valore della partecipazione in quel momento, bensì al valore del proprio investimento, escludendola sostanzialmente dalla partecipazione alle perdite della società. Con sentenza n. 15833 del 30 dicembre 2011, il Tribunale di Milano rigettava le domande attoree e, ritenute assorbite tutte le altre domande, eccezioni e questioni trattate dalle parti, dichiarava la nullità dell'accordo parasociale, considerandolo elusivo della ratio del divieto di patto leonino. Avverso la citata sentenza, DeA agiva in appello, impugnando il provvedimento e chiedendone l'integrale riforma sulla base, inter alia, dei seguenti motivi: erronea interpretazione e applicazione dei principi espressi da una precedente pronuncia dalla Suprema Corte di Cassazione, sentenza n. 8927/1994, e conseguente contraddittorietà della sentenza del giudice di prime cure, stante l'assenza del presupposto dell'assoluta e costante esclusione dalla partecipazione agli utili e alle perdite; erronea valutazione della funzione di scambio, commutativa e della dimensione extrasociale degli accordi; e mancata valutazione della funzione economica degli accordi. Sopaf si costituiva chiedendo il rigetto di tutte le domande formulate da DeA e la conferma della sentenza impugnata e, in subordine, riproponendo tutte le domande, anche istruttorie, poste nel processo di primo grado e ritenute assorbite dal Tribunale. Le questioni
La recente sentenza della Corte d'Appello milanese ritorna sul tema della legittimità delle clausole put a prezzo predeterminato contenute in specifiche pattuizioni parasociali e in particolare della loro compatibilità con la disciplina di cui all'art. 2265 c.c. L'art. 2265 c.c., infatti, sancisce la nullità dei patti con cui uno o più soci sono esclusi dalla partecipazione agli utili o alle perdite. La ratio di tale divieto andrebbe ricercata in ragioni di politica economica e risiederebbe, in particolare, nella volontà di rendere tutti i soci partecipi del rischio insito nello svolgimento dell'attività di impresa, al fine di garantire un esercizio avveduto e corretto dei relativi poteri, lato sensu gestori: la possibilità di perdere, infatti, l'investimento effettuato, rappresentato dal valore economico del proprio conferimento, dovrebbe costituire un efficace deterrente dalla conclusione di operazioni eccessivamente rischiose o aleatorie nonché un incentivo a prodigarsi per il favorevole esito dell'attività d'impresa (per una ricostruzione della ratio della norma, si veda G. Minervini, V. Cuffaro, F. Giorgianni, Un lodo sul patto leonino nelle società di capitali, in Contratto e Impresa, 2000, 2, 959 ss., ove si legge: «L'esigenza di un corretto esercizio del potere di gestione del socio verrebbe invero compromessa dall'esclusione del socio dalle perdite, perché questa situazione lo indurrebbe a privilegiare affari più azzardati, purché gli apparissero prospetticamente più proficui, posto che in ogni caso non sopporterebbe le conseguenze di un loro esito negativo; l'esclusione invece del socio dagli utili lo renderebbe indifferente ad una gestione proficua, dei cui risultati non beneficerebbe in nessun caso, lo indurrebbe invece ad un eccesso di prudenza e ad un immobilismo, che del pari pregiudicherebbero la gestione sociale». In giurisprudenza, si vedano Cass., 29 ottobre 1994 n. 8927 (caso Laminatoio di Buttrio), in Giur. comm., 1995, II, 478 ss., con nota di A. Ciaffi, Finanziaria regionale e patto leonino e nel merito Trib. Milano, 30 dicembre 2011, in RDS, 1, 2013, 64 ss.; risulta invece, superata la tesi dottrinale, sviluppatasi in epoca meno recente, secondo cui la partecipazione agli utili sarebbe stata elemento imprescindibile del contratto sociale, tale per cui ogni pattuizione diretta ad escluderla avrebbe inciso irrimediabilmente sulla causa stessa del contratto di società; di converso, la necessaria partecipazione dei soci alle perdite avrebbe scongiurato fenomeni usurari). Muovendo da tale impostazione, in quanto attinente alle radici sistematiche della disciplina di tutti i fenomeni societari, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie tendono ad applicare tale principio anche alle società di capitali e, al di fuori del dettato statutario, anche con riferimento ai patti tra soci (sul punto, Cass., 29 ottobre 1994, n. 8927, cit. Non è mancato, tuttavia, chi si sia espresso in senso contrario: secondo un autore, infatti, non possono trascurarsi le diversità strutturali tra le varie forme associative e, nello specifico, tra le società personali e le società di capitali; in particolare, nelle società di persone, proprio per bilanciare la loro responsabilità illimitata, i soci sono di regola anche amministratori della società. Solo per queste ultime, quindi, avrebbe effettivamente senso porre un divieto di patto leonino, considerando anche che nelle società di capitali la gestione sociale è riservata esclusivamente agli amministratori (si veda G. Penzo, Opzione di vendita a prezzo fisso e divieto di patto leonino: una convivenza possibile, in Soc., 2, 2014, 146 ss.). D'altro canto, tuttavia, non può non considerarsi lo stretto legame tra i soci e gli amministratori, essendo questi ultimi nominati dall'assemblea dei soci. Sulla problematicità della questione, G. Minervini, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contratto e Impresa, 1988, 771 ss. e G. Sbisà, Circolazione delle azioni e patto leonino, in Contratto e Impresa, 1987, 816 ss. Dall'ambito applicativo della norma esulano, tuttavia, quelle fattispecie che, pur prevedendo una partecipazione agli utili o alle perdite non coerente con l'entità della propria partecipazione azionaria, non finiscono per annullare del tutto i diritti patrimoniali del socio: si pensi alle categorie speciali di azioni e, in particolare, alle azioni privilegiate, il cui contenuto può essere liberamente determinato nello statuto sociale, salvi i limiti imposti dalla legge. Ciò che la legge, e in particolare l'art. 2265 c.c., pone come limite invalicabile all'autonomia statutaria, non è né la limitazione o gradazione dei diritti patrimoniali delle azioni, né il mancato bilanciamento tra questi e i diritti amministrativi, ma l'esclusione in modo assoluto e sostanziale, in capo al socio, dei rischi della perdita e del diritto agli utili (tale principio è stato sancito anche dalla giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass., 21 gennaio 2000, n. 642). Nel caso di specie, si tratta, quindi, di comprendere se un'opzione put a prezzo predefinito a scopo di finanziamento della società prevista all'interno di un patto parasociale sia riconducibile o meno alle fattispecie oggetto del divieto e a quali condizioni. Secondo l'opinione prevalente in dottrina, simili clausole sarebbero nulle, stante l'inderogabilità del binomio rischio-partecipazione sociale sopra descritto (cfr. in proposito, tra gli altri, G. Minervini, cit., 771 ss.; F. Delfini, Opzioni put con prezzo predeterminato “a consuntivo”, arbitraggio della parte e nullità, in Giur. comm., 2012, 739 ss.; A. Ciaffi, cit.; D. Batti, Il patto leonino nell'ambito delle partecipazioni a scopo di finanziamento, in Soc., 1995, 178 ss. In senso favorevole alla validità delle clausole put e call a prezzo predefinito, seppur entro certi limiti: G. Penzo, cit., 146 ss.; E. Barcellona, Clausole di put & call a prezzo predefinito: fra divieto di patto leonino e principio di corrispettività, Milano, Giuffrè, 2004; M.M. Pratelli, Rinnovo dei patti parasociali e opzione put & call, in Giur. comm., 2010, I, 940 ss.). In giurisprudenza, invece, i criteri per un corretto giudizio di applicabilità del divieto di patto leonino sono stati individuati dalla già più volte citata sentenza della Corte di Cassazione del '94. Tale pronuncia, che costituisce pietra miliare della recente giurisprudenza in argomento, ha stabilito quanto segue: in primis, la pattuizione dovrebbe contenere un'esclusione assoluta (non soggetta a termine o a condizione – una cesura forte, dunque, della correlazione tra potere gestorio e rischio d'impresa) e costante del socio dalla partecipazione agli utili o alle perdite ovvero da entrambe (c.d. requisiti sostanziali); l'effettiva violazione del divieto deve essere vagliata non già in via meramente formale, bensì sostanziale: sarebbero affette da nullità le clausole che condizionassero la partecipazione agli utili e alle perdite a eventi di impossibile realizzo. In secondo luogo, occorrerebbe verificare se il socio titolare del diritto di opzione possa effettivamente influire o meno sulla gestione, in senso lato, della società: potrebbe, infatti, ritenersi valido il patto parasociale in forza del quale un socio venga tenuto indenne da eventuali perdite nella misura in cui tale socio non partecipi alla formazione della volontà sociale (cfr. G. Penzo, cit., 148). Infine, una volta verificata la potenziale portata lesiva della previsione, occorrerebbe verificare che la previsione, se contenuta in una pattuizione extrastatutaria, abbia una sua funzione autonoma e meritevole di tutela ex art. 1322 c.c. A tal proposito, infatti, a differenza delle opzioni a prezzo determinatocontenute nello statuto sociale, che sarebbero nulle tout court se integrati i requisiti sopra menzionati, le medesime previsioni contenute in patti extrastatutari sarebbero soggette al vaglio di meritevolezza dell'art. 1322 c.c. La Corte d'Appello di Milano facendo propria detta impostazione, procede, nel caso in esame, al vaglio della sussistenza dei requisiti dell'assolutezza e della costanza dell'esclusione dalla partecipazione alle perdite in favore di DeA. La stessa ritiene integrato il primo requisito, sul presupposto che, laddove nel periodo tra stipulazione dell'accordo e termine per procurare la cessione, fosse intervenuto l'azzeramento del capitale sociale o comunque una riduzione al di sotto del minimo legale, DeA avrebbe in ogni caso potuto votare l'aumento del capitale sociale, evitando la messa in liquidazione, al fine di conservare il proprio investimento. Tale conclusione sarebbe avvalorata dall'individuazione di un solido nesso tra la modifica apportata al patto parasociale il 23 giugno 2008, con cui le parti avevano previsto l'inclusione nel prezzo della put «[…] degli importi corrisposti […] come corrispettivo per aumenti di capitale, finanziamenti a fondo perduto o altri conferimenti senza diritto di rimborso», e i successivi aumenti di capitale, peraltro occorsi dopo poco tempo dalla prima. Da tali premesse, i giudici d'Appello ricavano altresì l'integrazione del requisito della costanza: a seguito della modifica della clausola, DeA avrebbe potuto versare qualsiasi importo, e in ogni caso votare in assemblea senza alcun rischio né di diluizione né di perdita del proprio investimento. Gli stessi giudici rigettano l'obiezione sollevata dalla difesa del ricorrente secondo cui la pattuizione avesse durata circoscritta posto che Sopaf era tenuta ad attivarsi entro una certa data, individuando nella pattuizione una intrinseca potenzialità elusiva del divieto di patto leonino. A ben vedere, le argomentazioni della Corte d'Appello non appaiono del tutto lineari: non pare sufficiente, infatti, il solo diritto di voto in assemblea al fine di mantenere il proprio investimento, ma è comunque necessaria la sottoscrizione dell'aumento di capitale (seppur per l'importo necessario a raggiungere il minimo legale) ed il relativo versamento per capitale e sovrapprezzo. Al di là dell'iter argomentativo seguito dal giudice meneghino, tuttavia, non pare potersi giungere nel caso di specie a diversa conclusione: come detto, infatti, a seguito della modifica del patto parasociale del 23 giugno 2008, anche nell'ipotesi di azzeramento o riduzione del capitale per perdite, l'esborso economico del socio che avrebbe dovuto sottoscrivere e versare parte del capitale, sarebbe comunque stato recuperato una volta esercitata l'opzione.Il ragionamento della Corte si spinge poi a valutare l'eventuale sussistenza di un interesse meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., che sia idoneo a salvare la pattuizione dalla declaratoria di nullità. Vengono enucleati gli interessi reciproci dei contraenti, riconoscendo la particolare complessità della vicenda: all'interesse di DeA a una partecipazione a scopo di finanziamento, viene contrapposto l'interesse industriale di medio e lungo periodo di Sopaf. Il rilascio dell'opzione put a prezzo fisso come originariamente previsto, dunque, sarebbe stata lecita secondo la Corte, trovando motivo nelle sopravvenute difficoltà ad ottenere l'autorizzazione di Banca d'Italia. Tuttavia, la modifica del 2008, incidendo sul testo dell'opzione e irrimediabilmente trasformando la stessa in una put a prezzo non solo indeterminato, ma addirittura indeterminabile, avrebbe comportato il venir meno dell'interesse del socio-finanziatore all'incremento del valore della propria partecipazione, posto che lo stesso era ormai garantito dalla certezza che ogni eventuale e futuro esborso sarebbe stato liquidato insieme con il prezzo originariamente corrisposto. Conclusioni
La conclusione cui perviene il giudice del gravame non deve ritenersi esente da possibili critiche. Come già accennato, infatti, sebbene maggioritario, non è univoco l'indirizzo che estende alle società di capitali il divieto di patto leonino, espressamente sancito per le società di persone. Anche aderendo a tale impostazione – e ammettendo quindi l'applicabilità di tale principio alle società di capitali e, al di là del dettato dello statuto sociale, alle pattuizioni tra soci – le valutazioni circa la meritevolezza di tali pattuizioni ai sensi dell'art. 1322 c.c. sono rimesse alla discrezionalità del giudice di merito e sono estremamente soggettive. Non è un caso, infatti, che in un'altra recente pronuncia, il Tribunale meneghino, anche facendo leva sulla valutazione di meritevolezza della pattuizione incriminata, sia giunto a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle del caso in esame (cfr. Trib. Milano, 3 ottobre 2013; e sempre ad un diverso esito rispetto a quello della sentenza in esame, giungono Trib. Milano, 13 settembre 2011, in Soc., 2012, 1163 ss. e Trib. Milano, 9 febbraio 2012, in Soc., 2012, 369 ss., con commento di V. Salafia). Le tre pronunce del Tribunale di Milano sopra menzionate mostrano come, sebbene le considerazioni svolte dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza di legittimità sembrino in teoria convincenti, si registri una crepa tra le stesse e le esigenze dettate dall'attuale prassi di mercato: l'utilizzo di tali clausole, infatti, è spesso volto non tanto all'esclusione del socio dalla partecipazione alle perdite, con conseguente rischio di un'amministrazione azzardata della società, quanto a consentire l'ingresso nella compagine sociale di un nuovo soggetto, anche al fine di apportare risorse alla società (in tal senso, G. Penzo, cit., 147, che arriva addirittura a porre in dubbio la teoria secondo cui il socio che non partecipa alle perdite sarebbe incentivato a tenere comportamenti azzardati). Per le ragioni sopra esposte, la pronuncia in esame suscita non poca apprensione negli operatori economici. Al contempo, tuttavia, la stessa induce ad una riflessione, al fine di identificare il miglior approccio negoziale e le più idonee tecniche redazionali per scongiurare o quantomeno limitare il rischio di futuri contenziosi giudiziari ed eventuali declaratorie di nullità: ad esempio, al fine di neutralizzare i requisiti dell'assolutezza e della costanza, sarebbe opportuno evitare la previsione di un'opzione esercitabile ad nutum ovvero priva di limiti temporali e prevedere invece delle condizioni sospensive o risolutive, che leghino l'opzione al verificarsi o meno di determinati eventi. Ad integrare il requisito di meritevolezza di cui all'art. 1322 c.c. potrebbe, invece, valere collegare l'acquisto della partecipazione da parte del socio-finanziatore a un interesse definito, ad esempio correlato a una complessa fase di start-up o a specifici programmi di sviluppo e/o risanamento e ristrutturazione d'impresa, predisponendo al contempo meccanismi di riequilibrio a favore del socio concedente l'opzione.
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