Nuove frontiere dell’autonoma responsabilità degli enti
23 Dicembre 2015
Massima
Può configurarsi la responsabilità dell'ente ex art. 8, d.lgs. n. 231/01 anche quando l'autore del reato presupposto non è individuato e perseguito, in quanto all'ente è mosso un autonomo addebito di colpa, che consiste nel non aver ottemperato all'obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione dei reati tipizzati dagli artt. 24 ss. mediante la predisposizione di un idoneo, e dunque efficace, modello organizzativo. Il caso
La vicenda è complessa. Il relationship manager di una banca e quest'ultima erano tratti a giudizio in quanto al primo era addebitato il fatto di cui agli artt. 110 c.p. e 2637 c.c., costituente presupposto della responsabilità sanzionatoria della seconda ex art. 25-ter d.lgs. n. 231/01, per avere, in tesi d'accusa, nella qualità di responsabile della gestione ordinaria dei rapporti con un noto gruppo industriale, diffuso notizie su un contratto di associazione in partecipazione ad un tempo false ed idonee a provocare una sensibile alterazione dei titoli quotati e degli strumenti finanziari relativi alla principale società del gruppo: invero dette notizie erano preordinate a mascherare al mercato la reale natura di finanziamento del contratto, in modo da occultare l'effettiva situazione debitoria del gruppo, che per pertanto beneficiava della possibilità di non subire un decremento del rating. Il funzionario veniva assolto per non aver commesso il fatto; ne era fatta derivare altresì l'assoluzione della banca.
Proposto ricorso dal P.M. rispetto alla posizione di quest'ultima, la S.C., con sentenza della Sez. V addì 4 aprile 2013, n. 20060, annullava con rinvio, prescrivendo che si procedesse in concreto all'esame degli elementi costitutivi dell'illecito alla stessa contestato. Il giudice di rinvio, ribaltando la precedente decisione di merito, perveniva ad una statuizione di condanna. In particolare, riteneva provato che un comunicato del gruppo – frutto dell'intesa tra i suoi funzionari ed i funzionari della banca, cui, quanto a quest'ultima, il relationship manager era rimasto estraneo ma aveva preso parte il responsabile per l'Italia dei rapporti con i clienti, figurante agli atti con nome e cognome – aveva contenuto decettivo, siccome perseguente lo scopo di occultare al mercato la circostanza che la banca, ben al corrente della grave crisi del gruppo, si era limitata a fornirgli mezzi finanziari dietro prestazione di sostanziose, ma taciute, garanzie, così da far apparire di aver invece deciso di condividerne le sorti mediante un'associazione in partecipazione.
Nonostante le acute censure difensive, intese a denunziare come la condanna avesse indebitamente esteso alla situazione di individuazione di un diverso responsabile del reato presupposto il portato dell'art. 8 d.lgs. n. 231/01, avente invece un'applicazione circoscritta ai casi di cui si occupa, la S.C., con la sentenza in commento, rigetta il ricorso della banca, ribadendo segnatamente che “l'illecito addebitabile all'ente ai sensi del d.lgs. n. 231/01 non consiste in una responsabilità sussidiaria per il fatto altrui, sulla falsariga della responsabilità civile ordinaria da reato del dipendente o proposto, ovvero di quella delineata dall'art. 197 c.p.”, ma in una responsabilità per il fatto proprio frutto di una colpa di organizzazione (par. 8 delle motivazioni in diritto). La questione
L'autonomia della responsabilità degli enti
A fronte dell'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 231/01, a termini del quale “la responsabilità dell'ente sussiste anche quando: a) l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia”, la peculiarità del caso che ne occupa discende da ciò che il reato di aggiotaggio, non attribuibile al relationship manager originariamente tratto a giudizio, lo è ad un altro funzionario della banca, di cui lo scambio di corrispondenza con quelli del gruppo rivela il nome ed il cognome. Sorge dunque questione in ordine all'interpretazione della portata della mancata identificazione dell'autore del reato presupposto. Astrattamente, infatti, due sono le opzioni ermeneutiche possibili: per la prima, la circostanza che la “la responsabilità dell'ente sussiste anche quando (…) l'autore del reato non è stato identificato” equivale ad affermare che detta responsabilità prescinde dall'identificazione dell'autore; per la seconda, l'identificazione deve essere stata tentata, risultando impossibile, atteso che “la responsabilità dell'ente sussiste” non “anche quando (…) l'autore del reato non è identificato” ma “anche quando (…) l'autore del reato non è stato identificato”.
In contesa, salve le tesi che si esporranno in prosieguo, parrebbero esservi due diversi modi di intendere la responsabilità dell'ente, nell'un caso scollegata da quella penale della persona fisica al punto tale da poter prescindere dalla sua identificazione, nell'altro scollegata da essa sì ma solo per quel che tanto che impedisce di attribuire un volto alla persona fisica, dalla cui responsabilità penale, nondimeno, la responsabilità dell'ente dipende. Così impostato il discorso, par chiaro che solo accedendo alla seconda prospettiva l'individuazione di un autore diverso da quello originariamente attinto dall'accusa è suscettibile di generare un mutamento dell'addebito mosso all'ente rilevante agli effetti dell'art. 521 c.p.p.; di più: potrebbe persino opinarsi che, nell'ipotesi in cui l'autore diverso non sia o non sia stato perseguito, la rinunzia alla contestazione al medesimo della responsabilità penale implica altresì la rinunzia alla contestazione all'ente della responsabilità penale-amministrativa, perché è l'autore, con la propria condotta, a far sorgere la responsabilità su due fronti, quello penale, che è personale, e quello penale-amministrativo, che, in quanto pertiene all'ente, è altrui rispetto alla prospettiva della stessa persona fisica (di cui infatti la medesima non risponde ex art. 27 Cost., ma risponde l'ente). Par forse il caso di avvertire che non deve necessariamente opinarsi per la configurazione di una responsabilità penale-amministrativa dell'ente accessoria o derivata da quella penale della persona fisica, dacché può concepirsi il reato ascrivile a quest'ultima come matrice unica delle due forme di responsabilità, di guisa che quella penale-amministrativa, sovrapponendosi a quella penale, cade ogni qual volta essa cade, salvo il limite – ex art 8, comma 1, d.lgs. n. 231/01 – di una responsabilità penale sussistente, ma imperfetta, nell'impossibilità di attribuirla ad un autore determinato per un fatto attualmente punibile. Cass., Sez. V, n. 20060/13, cit., già ha dato una prima risposta a siffatti interrogativi, affermando che, “all'assoluzione della persona fisica imputata del reato presupposto per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest'ultimo, non consegue automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente per la sua commissione, poiché tale responsabilità, ai sensi dell'art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001, deve essere affermata anche nel caso in cui l'autore del suddetto reato non sia stato identificato”.
La sentenza in commento (al par. 8) porta a compimento la parabola argomentativa. Vero è che la colpa dell'ente, consistente nel non aver ottemperato all'obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione dei reati di cui alla “lista nera” ex artt. 24 ss. d.lgs. n. 231/01, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale conformi ad un modello che l'ente stesso si dà per individuare i rischi e delineare le misure atte a contrastarli, viene ad emersione solo per l'effetto della commissione di uno specifico fatto integrante un altrettanto specifico reato compreso nella predetta “lista nera”. Ma è altrettanto vero che il collegamento con il singolo fatto di reato, che non è dell'ente ma della persona fisica, non mina la natura autonoma – ed in certo qual modo “personale” alla maniera dell'art. 27 Cost. – dell'ente stesso, in quanto riferibile ad un deficit organizzativo proprio di quest'ultimo in punto di mancata adozione di un modello ad indefinita caratura precauzionale. Il modello, infatti, deve essere idoneo a prevenire non solo e non tanto la singola rottura dello schema legale realizzata dall'autore del reato presupposto, ma le carenze strutturali e sistematiche che essa, quale evento tra gli eventi, manifesta.
Osservazioni
Il modello della responsabilità degli enti Strutturalmente la responsabilità ex d.lgs. n. 231/01 contempla come presupposto la commissione di un reato compreso tra quelli previsti dagli artt. 24 ss. ad opera di una persona fisica in posizione apicale o subordinata ai sensi rispettivamente degli artt. 6 e 7, purché, secondo il criterio generale di cui al comma 1 dell'art. 5, il reato sia commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, tant'è che il comma 2 dello stesso art. 5 esclude la responsabilità dell'ente se la persona fisica ha agito nell'esclusivo interesse proprio o di terzi. Il collegamento eziologico tra il fatto di reato e l'interesse o vantaggio dell'ente fa trasparire la centralità dell'inadeguatezza del modello di organizzazione di cui l'ente si è dotato o avrebbe dovuto dotarsi per neutralizzare le condotte illecite, distintamente, delle persone fisiche che occupano posizioni apicali e di quelle che occupano posizioni subordinate. Nessun dubbio, dunque, sussiste sull'autonomia della responsabilità dell'ente, a patto tuttavia di circoscrivere il predicato di autonomia alla trama di tale responsabilità, che segue, specificamente, le declinazioni concernenti la mancata adozione o la mancata attuazione di un modello di organizzazione completo ed efficace a fronte di reati ascritti alla persona fisica in applicazione dei criteri generali dell'art. 43 c.p. Ciò detto, tuttavia, la trama della responsabilità è concetto distinto dalla coloritura di essa come penale o amministrativa, che, però, secondo gli schemi tradizionali del diritto sostanziale, dovrebbe spiegare riverberi anche sulla sua ricostruzione in conseguenza di un fatto proprio o altrui o solo parzialmente altrui in quanto anche parzialmente proprio. Sotto tale profilo, viene in rilievo l'autonomia come predicato di un fatto che può essere o originariamente collegato con l'ente oppure dall'ente condiviso in tutto o in parte con la persona fisica. La dottrina, ben conscia che i temi di cui si tratta concernono, al fondo, l'estensione dei principi di stretta legalità ex art. 25 Cost. e di responsabilità personale ex art. 27 Cost. anche all'ente, propone tutte e tre le strade percorribili: taluni paiono propendere per una qualificazione penale della sua responsabilità (Paliero, Il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi, “societas deliquere (et puniri) potest”, in Corr. Giur., 2001, 845; Musco, Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e misure interdittive, in Dir. giust., 2001, 8; Travi, La responsabilità della persona giuridica nel d. lgs. 231/2001: prime considerazione di ordine giuridico, in Soc., 2001, 1306); taluno ritiene trattarsi di responsabilità amministrativa (Romano, La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni: profili generali, in Riv. soc., 2002, 393); talaltro ancora propone il paradigma di un tertium genus a metà strada tra la responsabilità penale e quella amministrativa (De Vero, Struttura e natura giuridica dell'illecito di ente collettivo dipendente da reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 1126). Non è questa la sede per addentrarsi in complesse analisi sistematiche. Pare solo opportuno cogliere lo spunto di riflessione offerto dalla sentenza in commento nella parte, già in precedenza riassunta, in cui afferma la diretta rimproverabilità all'ente di un fatto costituente colpa di organizzazione, evocandone l'idoneità ad ossequiare il principio di personalità ex art. 27 Cost. in termini identici a quelli usualmente proposti in relazione alla responsabilità penale. Tale asserto, che fa proprio l'insegnamento di Cass., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343, secondo cui “la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto”, è condivisibile. Ma il punto sta in ciò che il principio di personalità, connaturato alla responsabilità penale se si opina che penale sia responsabilità degli enti, ben lungi dall'essere derogato, è rispettato anche dall'affermazione della natura amministrativa o mista di detta responsabilità. Né personalità significa – o implica – autonomia, dacché distinti sono i piani di estrinsecazione delle due nozioni: la prima qualifica la responsabilità, la seconda entra nella responsabilità soltanto sotto il profilo dell'imputazione del reato o, secondo le prospettive non penalistiche, semplicemente dell'illecito al soggetto che, pur in un rapporto complesso, è chiamato a sopportarne le conseguenze.
La responsabilità degli enti come una sorta di responsabilità da concorso nel reato Alla stregua di quel che si è sostenuto per affermare la confiscabilità in capo all'ente del profitto di reati tributari, potrebbe opinarsi che, “nei rapporti tra (...) la persona fisica, alla quale è addebitato il reato, e la persona giuridica, chiamata a risponderne, non può che valere lo stesso principio applicabile a più concorrenti nel reato stesso, secondo il quale a ciascun concorrente devono imputarsi le conseguenze di esso” (Cass., Sez. III, 11 aprile 2012, n. 17485; Cass., Sez. VI, 27 gennaio 2011, n. 7178). Ove si generalizzasse tale linea di pensiero, non potrebbe farsi a meno di considerare che l'ente non è un concorrente qualsiasi, sia perché non è una persona fisica, sia perché, a fronte dell'art. 5 d.lgs. n. 231/01, giammai potrebbe sostenersi che esso partecipi al concorso secondo le regole dell'equiparazione della responsabilità ex art. 110 c.p. Ciò, tuttavia, non impedirebbe di ritenere che l'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 231/01 costituisca – non l'estensione, ma – la proiezione sugli enti del blocco di disciplina relativo al concorso di persone nel reato ex artt. 110 ss. c.p., con un grado di dettaglio sufficientemente accurato da tener conto, non solo della necessità che comunque un reato sia stato commesso, giusta quel che esige l'art. 115 c.p. in punto di materialità, offensività e, per quel che qui più interessa, presupposizione, ma anche dell'indifferenza delle vicende relative alla punibilità di taluno dei concorrenti, stante la regola dell'art. 119 c.p. circa l'incomunicabilità delle “circostanze soggettive le quali escludono la pena”. Così ragionando, però, nonostante il tenore della rubrica dell'art. 8 d.lgs. n. 231/01, comunque sarebbe inappropriato parlare di una responsabilità tecnicamente autonoma: si tratterebbe, infatti, di una responsabilità che presuppone pur sempre la commissione di un reato previsto dagli artt. 24 ss. d.lgs. n. 231/01, sicché l'autonomia si risolverebbe semplicemente nella possibilità che detta responsabilità prescinda dalla punibilità dell'autore del fatto stesso, ancorché distinguendosi dal diritto comune per l'aggiunta in chiave specializzante degli elementi di struttura – e quindi non di mero dettaglio – sia oggettivi sia soggettivi degli artt. 5 e, rispettivamente, 6 e 7. Il dialogo con il diritto comune resterebbe aperto attraverso la finestra che consente al legislatore di esercitare la deroga alla specialità, in forza di quella clausola di salvezza finale di cui all'art. 15 c.p. (“Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”) logicamente inapplicabile se (come generalmente ma banalmente si ritiene) il riferimento fosse alla sola specialità tra fattispecie e sottofattispecie. Nella prospettiva in commento, l'autonomia di cui all'art. 8 d.lgs. n. 231/01 andrebbe collocata nell'ambito del diritto sostanziale, sotto il profilo della specialità rispetto alla regola generale della punibilità di tutti i concorrenti per il fatto commesso, quand'anche a titolo diverso. Ne risulterebbe la peculiarizzazione dell'idealtipo della criminalità di impresa collettiva in termini più stringenti rispetto al diritto comune, perché per l'ente vi sarebbe sempre meritevolezza in astratto e necessità in concreto di sanzione in presenza di un reato appartenente alla “lista nera” che risulti ad un tempo commesso da un soggetto di cui agli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231/01 e rimproverabile all'ente. La S.C., che nella sentenza in commento non prende posizione sulla qualifica della responsabilità ex d.lgs. n. 231/01, limitandosi a dire che “la circostanza che siffatta colpa – ossia la colpa d'organizzazione – venga ad emersione, e assuma rilievo ai fini della imputazione dell'illecito che riguarda l'ente, solo per effetto della commissione di uno specifico fatto[-]reato che deve corrispondere per titolo a quelli espressamente compresi nel catalogo dei reati presupposto dal D.Lgs. n. 231[/01], non ne mina la natura ‘personale', e perciò autonoma, riferibile a un deficit organizzativo (…)” (ult. capov. del solito par. 8, cit.). Nondimeno, avesse inteso accogliere l'approccio ermeneutico dianzi tratteggiato, la S.C. avrebbe dovuto ribadire sì che la responsabilità dell'ente è personale, ma specificare che lo è “quand'anche” – ossia “anche se” – autonoma, non già utilizzando la congiunzione coordinante conclusiva “perciò” tra la natura personale della responsabilità e la struttura autonoma della medesima. La S.C. attinge il problema laddove non rinviene nella selezione dei reati rilevanti attraverso la “lista nera” una “minaccia” per la natura “personale” della responsabilità dell'ente, ma la personalità non è l'inveramentodell'autonomia, né l'autonomia il germe della personalità.
Presupposti concettuali per una responsabilità penale degli enti tecnicamente autonoma Spingendo oltre il discorso, par di potersi affermare che non potrebbe aversi una responsabilità tecnicamente autonoma a meno di accedere all'una o all'altra delle seguenti alternative: o ammettere la capacità penale dell'ente e con essa una lettura dell'art. 27 Cost. lata a tal punto da consentire che la personalità della responsabilità penale sia riferibile, oltreché alle persone fisiche, a quelle strutture che ne replicano la soggettività in chiave antropomorfa, assumendo su di sé le conseguenze delle azioni delle persone fisiche abilitate a spenderne la soggettività; oppure configurare il reato, pur commesso separatamente dalla persona fisica, come evento di un'ipotesi omissiva impropria, rispetto alla quale il rimprovero mosso all'ente consisterebbe nel mancato impedimento del reato-evento nonostante il potere e perciò il dovere di prevederlo e prevenirlo. Insoddisfatta o l'una o l'altra di tali premesse, si ricadrebbe in una non consentita punizione dell'ente per il fatto della persona fisica. Se non nei termini esposti, infatti, di responsabilità tecnicamente autonoma potrebbe parlarsi solo attraverso il paradigma della “responsabilità da garanzia” del tipo di quella prevista per le sanzioni amministrative dall'art. 6, comma 3, l. n. 689/81: paradigma che, tuttavia, presupporrebbe la necessaria colpevolezza di una persona fisica identificata giust'appunto per far scattare una garanzia non incerta e perciò non priva di causa (Alessandri, Attività d'impresa e responsabilità penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 541).
Tesi della responsabilità amministrativa degli enti Le considerazioni dinanzi esposte in relazione alla difficoltà di derivare il carattere dell'autonomia della responsabilità degli enti da una ricostruzione della stessa in termini di specialità rispetto alla all'ordinaria responsabilità da concorso ex art. 110 c.p. potrebbero non valere per il caso in cui si ritenesse di operarne una qualificazione in termini di responsabilità sanzionatorio-amministrativa. Varrebbero, se si opinasse che detta responsabilità si appoggia sulla responsabilità penale della persona fisica, condividendone la scaturigine ma mutandone il registro, e quindi il titolo, a motivo dell'incompatibilità di un concetto di personalità nato per la persona fisica ad una struttura fatta di più persone fisiche diverse che occupano posizioni giuridiche diverse (sulla base anzitutto della summa divisio tra funzioni apicali e non ex artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231/01). Non varrebbero, però, se si opinasse che detta responsabilità riguarda l'ente in quanto ente, per un fatto proprio dell'ente, ma complesso, in quanto inglobante il reato commesso dalla persona fisica (nella duplice alternativa di soggetto apicale o non). In tal caso, infatti, per un verso, non si rinverrebbe alcun ostacolo nell'art. 27 Cost. pur restrittivamente interpretato perché l'ente sfuggirebbe dal suo cono d'ombra; per altro verso, il fatto proprio dell'ente potrebbe essere ricostruito a prescindere da una caratterizzazione omissiva impropria, giacché la commissione del reato da parte della persona fisica sarebbe uno dei presupposti di un'architettura più ampia.
Lettura processuale dell'autonomia Quale che sia la teoria della responsabilità degli enti cui si accede, pare corretta l'affermazione, sia pure incidentale, della S.C. nella sentenza in commento relativamente allo scandaglio di una portata prettamente processuale dell'art. 8, comma 1, d.lsg. n. 231/01. Si ribalti l'ordine delle lettere del comma 1 medesimo: ne deriva che l'art. 8 prevede che la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è punibile per estinzione del reato per causa diversa dall'amnistia; così come sussiste anche quando il medesimo non è punibile, non solo perché non imputabile, ma anche perché non identificato. Ciò legittima l'affermazione per cui l'ente è chiamato a rispondere di un reato inserito nella “lista nera” purché accertato, senza che ricorrano indicazioni circa l'esigenza che l'accertamento sia spinto al massimo grado, quello della forza di giudicato, registrandosi invece segnali che indicano la strada della sufficienza di un mero accertamento incidentale. Processualmente, dunque, la responsabilità dell'ente è autonoma, in quanto l'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 231/01 scinde il piano dell'accertamento della responsabilità della persona fisica, che per forza di cose sfocia nel giudicato, dal piano dell'accertamento della responsabilità dell'ente, che non presuppone né il giudicato relativo all'accertamento della responsabilità della persona fisica né, in pendenza di giudizio nei confronti di quest'ultima, il “simultaneus processus”. L'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 231/01 si configura quale diposizione tutt'altro che particolare. Il limite alla sua generale operatività è rappresentato soltanto dall'ipotesi in cui il reato presupposto non esiste nella sua materialità storica (con conseguente efficacia paralizzante del giudicato della sentenza assolutoria della persona fisica con la formula dell'insussistenza del fatto). Ciò non determina alcun vulnus alla stretta legalità del diritto penale-amministrativo degli enti, perché il fatto, costituente reato anche agli effetti del catalogo ex artt. 24 ss. d.lgs. n. 231/01, seguita ad essere il motore della responsabilità che loro pertiene, senza, oltretutto, che siano ammissibili spacchettamenti. Infatti, “qualora il reato commesso nell'interesse o a vantaggio di un ente non rientri tra quelli che fondano la responsabilità ex d.lgs. 231 del 2001 di quest'ultimo, ma la relativa fattispecie ne contenga o assorba altra che invece è inserita nei cataloghi dei reati presupposto della stessa, non è possibile procedere alla scomposizione del reato complesso o di quello assorbente al fine di configurare la responsabilità della persona giuridica” (Cass., Sez. II, 29 settembre 2009, n. 41488, in Riv. dir. trib., 2010, 119, con nota di Toma, Confisca per equivalente e responsabilità amministrativa degli enti: riflessioni a margine di una condivisibile pronuncia della Corte di Cassazione). Nondimeno, anche quando trova applicazione l'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 231/01, pur per le teorie secondo le quali la responsabilità dell'ente deve essere personale, detta responsabilità resta, senza equivoci, tale (in quanto normale nell'essenza rispetto all'unità di materia di riferimento, pur se speciale nella disciplina). Né degrada ad oggettiva per il sol fatto che la punibilità dell'ente sussiste nonostante le vicende di trasformazione soggettiva tipiche del diritto commerciale e fallimentare: trattandosi di trasformazione e non di estinzione dell'ente, è prioritaria, in termini di prevenzione generale e speciale, sia in ragione dei beni giuridici tutelati sia in ragione dello scopo del d.lgs. n. 231/01, la repressione efficace del fenomeno della criminalità d'impresa, subdola, perché spersonalizzata e mascherata dietro la complessità organizzativa, nonché particolarmente nociva, perché produttiva di incontrollabili conseguenze e devastanti ricadute sociali (quantunque il principio di legalità esiga l'identità di qualificazione del reato, a sua volta rilevante agli effetti dell'inserimento nella “lista nera”, sicché, come specificato da Cass., Sez. Un., 25 settembre 2014, n. 11170, deve escludersi che, a seguito del fallimento di una società e della sopravvenuta imputazione della persona fisica per bancarotta societaria impropria, non inclusa in tale lista, possa continuare a procedersi nei confronti della persona giuridica per quelli di cui agli artt. 2621 ss. e 2632 c.c., originariamente contestati ma assorbiti nel delitto di bancarotta). Il punto centrale che l'interprete deve indagare è, pertanto, l'an della responsabilità personale, alla medesima stregua di quanto avviene per la qualificazione e la valutazione dei reati mononucleari commessi dalle persone fisiche. Conclusioni
L'irrilevanza, rispetto al tema dell'autonomia, dell'opzione teorica circa la qualifica della responsabilità degli enti è colta dalla S.C. nel passaggio in cui spiega che il “simultaneus processus” non è condizione essenziale per procedere nei confronti dell'ente, “non essendovi ragione per discostarsi, in materia, dalle regole generali del processo di cognizione che ammettono in ogni ipotesi di connessione, persino nei confronti di coimputati del medesimo fatto, la possibilità di procedere separatamente quando lo sviluppo processuale determina la divaricazione delle singole posizioni” (par. 9).
La giurisprudenza ha già esplorato le ricadute dell'autonomia procedimentale quando ha stabilito che sulla responsabilità – convenzionalmente personale – dell'ente non incide la prescrizione del reato presupposto, dal momento che “il giudice, ai sensi dell'art. 8, comma primo, lett. b) d.lgs. n. 231 del 2001, deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso, che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato” (Cass., Sez. VI, 25 gennaio 2013, n. 21192). Ai fini dell'individuazione di una prospettiva di continuità, significativo è che sia stata proprio Cass., Sez. V, n. 20060/13, cit., ossia la prima pronuncia della S.C. nella vicenda che ne occupa, a ricordare come la prescrizione del reato presupposto dopo la contestazione all'ente dell'illecito non ne determini l'estinzione, “giacché il relativo termine, una volta esercitata l'azione, non corre fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento nei confronti della persona giuridica”.
La sentenza che si commenta chiude il cerchio, individuando un'ulteriore ricaduta dell'autonomia procedimentale, che arricchisce lo scibile interpretativo perché la ricollega ad una forma anche sostanziale di autonomia, tuttavia sotto il limitato cono d'ombra di quella che più sopra s'è definita come la trama della responsabilità degli enti. Essa, infatti, attraverso un'analisi puntuale dell'imputazione, nega che nel caso concreto i giudici di merito abbiano ascritto all'ente una responsabilità diversa da quella oggetto di contestazione per aver mandato assolto il relationship manager con una motivazione che ricostruisce il fatto, non già quale semplice diffusione – cui egli si è rivelato estraneo – di una notizia non corrispondente al vero mediante un comunicato decettivo, ma quale previa intesa – partecipata da un altro funzionario dell'ente, non perseguito – in vista della predisposizione del contenuto di detto comunicato. La mancata apertura di un procedimento penale e prima ancora la mancata identificazione di tale funzionario rientrano nella scia dell'irrilevanza delle vicende della punibilità che contrassegnano la persona fisica di cui agli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231/01 al cospetto dei meccanismi processuali di accertamento della responsabilità dell'ente. Né tale conclusione rompe le maglie di una pretesa tassatività delle ipotesi contemplate dall'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 231/01, che, come detto, tutt'al contrario, è espressione di una generale autonomia processuale dell'ente sul fondamento di un accertamento del fatto di reato possibile anche solo incidenter tantum. Ma tale conclusione neppure infrange la stretta legalità sostanziale, che si affaccia sul piano processuale plasmando il fatto nei due momenti della qualificazione giuridica e della descrizione storica. A fronte invero di una descrizione storica sufficientemente ampia da ricomprendere il percorso di confezionamento della notizia decettiva, l'ente, secondo la Corte, seguita ad essere punito per un fatto proprio: assunto condivisibile anche agli effetti, dell'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 231/01, essendo mosso all'ente un “rimprovero” fondato, non sul reato di per sé considerato, ma sul rilievo che il reato esprime una politica aziendale deviante e deviata ed è comunque frutto di una colpa di organizzazione. |