Dichiarazione di fallimento: la Cassazione riconosce la funzione di condizione oggettiva di punibilità
23 Maggio 2017
Massima
Nell'ambito dei reati fallimentari, la dichiarazione di fallimento ha funzione di mera condizione oggettiva di punibilità ai sensi dell'art. 44 c.p., determinando anche il dies a quo della prescrizione e radicando la competenza per territorio. Il caso
La Corte di Cassazione ritorna sul tema della natura giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento e del suo rapporto con i reati fallimentari analizzando anche l'applicazione di diversi istituti sostanziali e processuali (tempo necessario a prescrivere, amnistia, competenza per territorio etc.) influenzati dalla sua qualificazione come condizione oggettiva di punibilità. La decisione in commento nasce a seguito del ricorso promosso da un imprenditore individuale avverso la sentenza della Corte d'Appello di Lecce, resa in data 10 febbraio 2016, con la quale era stata confermata la condanna di primo grado per il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, ai sensi dell'art. 216 l. fall.. L'imputato aveva promosso ricorso per Cassazione censurando l'omessa motivazione della Corte territoriale in relazione al motivo d'appello concernente la mancata valutazione del nesso eziologico tra le condotte contestate ed il fallimento nonché dell'elemento psicologico del reato rispetto al dissesto della società. La questione giuridica
Nel ricorso per Cassazione si era dedotto che la sentenza dichiarativa di fallimento rappresenta un elemento costitutivo del reato: di conseguenza l'integrazione del delitto di bancarotta distrattiva pre-fallimentare è subordinata alla previsione ed alla volontà del fallimento stesso, quantomeno a titolo di dolo eventuale. Si tratta - come la Corte ha ben chiarito nella decisione in commento – di un orientamento che si contrappone all'opinione maggioritaria in dottrina, che assegna alla sentenza dichiarativa del fallimento il ruolo di condizione obiettiva di punibilità, sottraendo la stessa ad ogni sindacato tanto sull'eziologia delle condotte contestate in rapporto al fallimento stesso quanto sull'accertamento del nesso psicologico del delitto. La soluzione
La Corte di Cassazione ha dunque riconosciuto che la dichiarazione di fallimento, rispetto al reato di bancarotta patrimoniale pre-fallimentare, costituisce condizione obiettiva (estrinseca) di punibilità, ai sensi dell'art. 44 c.p. Tale soluzione conduce a chiare implicazioni nei confronti di altri istituti di diritto penale sostanziale e processuale. Tra tutti, per prima, la disciplina della prescrizione posto che, ai sensi dell'art. 158, comma 2, c.p., quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata (e non già dal momento di commissione delle condotte distrattive considerate, come si avrebbe nel caso in cui si fosse accolta la tesi che vede la sentenza dichiarativa di fallimento alla stregua di un elemento costitutivo del reto). In secondo luogo, il verificarsi della condizione di punibilità (che “assume rilievo determinante”), momento di piena consumazione del delitto, radica anche la competenza per territorio dell'Autorità Giudiziaria, prevista dall'art. 8 c.p.p., così comportando la coincidenza tra tempus e locus commissi delicti. Osservazioni
La decisione della Corte offre una ricostruzione storico-sistematica del tema della natura della sentenza dichiarativa di fallimento, con l'intento di conciliare (per la prima volta) le posizioni di dottrina e giurisprudenza, rimaste, sino ad ora, del tutto antitetiche. Per la migliore comprensione dell'accennato contrasto e dei significativi effetti applicativi, si rendono necessarie alcune premesse. Come noto, le condizioni obiettiva di punibilità sono disciplinate dall'art. 44 c.p., a tenore del quale «quando per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l'evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto». Secondo l'orientamento tradizionale, la condizione obiettiva di punibilità è elemento estrinseco alla condotta dell'agente: rispetto ad essa si pone come avvenimento ulteriore e successivo, sicché ne discende la sua irrilevanza rispetto (i) al perfezionamento del reato il cui intero disvalore è espresso dall'esistenza degli elementi costitutivi tipici e (ii) al nesso psicologico con l'agente. D'altra parte, diversamente dalle condizioni obiettive di punibilità, gli elementi costitutivi del reato devono, in ossequio al superiore principio di colpevolezza, essere tutti ‘coperti' dall'elemento psicologico del reato, come affermato dalle note pronunce della Corte Costituzionale nn. 364 e 1085 del 1988. Due i criteri individuati dalla dommatica per la distinzione tra condizioni obiettive di punibilità e elementi costitutivi del reato:
Ebbene, date tali premesse, la giurisprudenza, sin dalle Sezioni Unite Mezzo del 1958, ha affermato in maniera pressoché monolitica che nel quadro dei reati di bancarotta pre-fallimentare la dichiarazione giudiziale di fallimento, lungi dall'essere condizione obiettiva di punibilità, si connoterebbe per essere elemento costitutivo del fatto tipico di reato. Ciò perché, mentre le prime «presuppongono un reato già strutturalmente perfetto, la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce una condizione di esistenza del reato o, per meglio dire, un elemento al cui concorso è legata l'esistenza del reato». La giurisprudenza formatasi successivamente ha tratto da tale indicazione la conseguenza che la dichiarazione di fallimento, pur essendo elemento costitutivo del reato non ne rappresentasse l'evento, sicché la stessa non dovesse necessariamente essere collegata al nesso psicologico. Coerentemente, la Suprema Corte ha per tempo largamente affermato che il dolo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione non comprende la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa poi fallita, bensì (solo) la rappresentazione della pericolosità della condotta distrattiva rispetto alla garanzia patrimoniale e, dunque, del rischio di lesione degli interessi creditori. In tale contesto giurisprudenziale, l'isolata sentenza ‘Corvetta' (Cass. Pen. n. 47502/2012) - dando l'illusione di un inaspettato revirement della Sezione V della Suprema Corte, per vero altrettanto repentinamente smentito - ha affermato il principio, del tutto antitetico, secondo cui lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce l'evento del reato di bancarotta patrimoniale e, come tale, non può non essere collegato al nesso psicologico. Seppure, come detto, immediatamente smentite, le conclusioni della sentenza ‘Corvetta' hanno avuto, secondo autorevole dottrina (MUCCIARELLI, Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta: davvero incolmabile il divario fra teoria e prassi, in Dir. Pen. cont., 4/2015, 390 e ss.), il merito di far emergere con chiarezza i reali termini della questione: se la sentenza dichiarativa di fallimento è elemento costitutivo del reato, allora nei suoi confronti deve trovare applicazione lo statuto della colpevolezza penale di cui alle citate sentenze della Corte Costituzionale; breve: lo stato di insolvenza dell'impresa non potrebbe sfuggire all'accertamento in punto di elemento soggettivo del reato. Per vero, la dottrina penalistica (non si considera qui la minoritaria posizione che condivide gli assunti della sentenza Corvetta) ben consapevole, per voce dei suoi più autorevoli esponenti, dei limiti di quella che è stata definita come una «connotazione dogmaticamente ambigua» (PEDRAZZI, Reati fallimentari, in C. Pedrazzi-A. Alessandri-L. Foffani-S. Seminara-G. Spagnolo, Manuale di diritto penale dell'impresa, II, Bologna, 1998, 107 e ss.) - con ciò riferendosi alla soluzione offerta dalle Sezioni Unite Mezzo nel qualificare la sentenza dichiarativa di fallimento come ‘elemento costitutivo improprio' - ha da tempo sostenuto che la sentenza dichiarativa di fallimento è condizione obiettiva di punibilità. Senza considerare le notazioni di natura letterale-formale connesse alla formulazione dell'art. 216 l.fall. (che punisce «se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che [...]» - evidente l'uso di una formula ipotetica), seguendo il criterio sostanziale-funzionale si è affermato che «il disvalore penale dei fatti di bancarotta non è un riflesso retrospettivo del fallimento, ma si carica in una carica offensiva ad essi immanente, nella violazione di regole gestionali poste a protezione delle ragioni creditorie. L'imperativo violato dal bancarottiere non vieta di fallire, vieta di porre in essere condotte , sul piano patrimoniale e documentale, atte a soddisfare il pieno soddisfacimento dei creditori» (PEDRAZZI, op. cit., 107). Come infatti pure notato, a differenza che nei reati contro il patrimonio, in cui le condotte ricadono su beni di terzi, le condotte di bancarotta ricadono sui beni propri dell'imprenditore fallito che, tuttavia, nell'esercizio della propria libertà di esercizio dei beni dell'impresa, trova un limite nelle garanzie dei creditori: appunto, il nucleo essenziale della tutela prestata. Chiaro, perciò, che la dichiarazione giudiziale di fallimento, nulla aggiungendo, al disvalore del fatto di reato già perfettamente integrato dalle condotte distrattive, non possa che configurarsi come condizione di punibilità ad esso estrinseca. D'altra parte, come da tempo già osservato, un elemento logico, ancor prima che giuridico, giustifica la scelta del legislatore di subordinare la punibilità al provvedimento giudiziale: diversamente opinando, infatti, l'avvio dell'azione penale in una situazione imprenditoriale ancora ‘viva', ben potrebbe determinare il rischio di incidere negativamente sulle possibili iniziative economiche private. Inoltre, la natura di condizione obiettiva di punibilità della sentenza dichiarativa del fallimento sarebbe stata, a detta della Corte di Cassazione, già implicitamente affermata anche dalle Sezioni Unite, con la sentenza Passarelli che, pur non qualificandola espressamente, «tale ruolo le hanno, inequivocamente, assegnato (evento successivo ed estraneo cui è subordinata la punibilità)», così superando l'antica sentenza delle Sezioni Unite n. 2 del 25 gennaio 1958, Mezzo (Cass. Pen. n. 22474/2016, in questo portale con nota di Zanchi, Rubino, Langè, Il controverso concetto di “verità” e di “fatto materiale” nelle false comunicazioni sociali). Quanto agli aspetti applicativi conseguenti a tale qualificazione, secondo la sentenza in commento, non verrebbero a determinarsi significativi mutamenti nelle regole operative sin qui seguite. Ciò è senz'altro vero, con riferimento alla disciplina della prescrizione, alla luce dell'art. 158, comma 2, c.p., a mente del quale, quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata. A detta della Corte, peraltro, non mancano indici che consentono di rinvenire nel sistema della legge fallimentare la volontà di radicare la competenza territoriale presso il tribunale del luogo nel quale è stato dichiarato il fallimento. In proposito, infatti, soccorrono i riferimenti «che si possono trarre dall'esigenza di concentrare nel medesimo circondario il luogo in cui devono essere depositate le scritture contabili e quello nel quale compiere l'accertamento dei fatti di penale rilevanza), tutti espressivi del medesimo principio di prossimità sul quale riposa la regola dettata dall'art. 8 cod. proc. pen.». Un'ultima notazione merita la compatibilità della ricostruzione offerta dalla Suprema Corte con il principio di colpevolezza. In proposito, richiamando la sentenza della Corte Costituzionale n. 1085/1988, è noto che l'evento costitutivo della condizione obiettiva di punibilità rimane estraneo alla volizione dell'agente e neppure occorre che sia dovuto a colpa: «soltanto gli elementi estranei alla materia del divieto [penale] (come le condizioni estrinseche di punibilità che, restringendo l'area del divieto condizionano appunto quest'ultimo o la sanzione alla presenza di determinati elementi oggettivi) si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27, primo comma, Cost.» (Corte Cost. n. 1085/1988). Conclusioni
Tanto considerato, la Corte di Cassazione ritiene che «la dichiarazione di fallimento non aggrava in alcun modo l'offesa che i creditori soffrono per effetto delle condotte dell'imprenditore; anzi, se mai, garantisce una più efficace protezione delle ragioni dei creditori stessi. In realtà, a tutto voler concedere, il mero aggravamento degli effetti dell'offesa può derivare dall'insolvenza, ossia dall'incapacità del debitore di adempiere le proprie obbligazioni. […] La dichiarazione di fallimento, in definitiva, in quanto evento estraneo all'offesa tipica e alla sfera di volizione dell'agente, rappresenta una condizione estrinseca di punibilità». La pronuncia in commento, sposando gli argomenti dell'autorevolissima dottrina citata rappresenta, dunque, in tentativo di superare «l'atteggiamento di persistente chiusura» (D'ALESSANDRO, Reati bancarotta e ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento: la Suprema Corte avvia una revisione critica delle posizioni tradizionali?, in Dir. Pen. cont., 3/2013, 356 e ss.) sin qui assunto dalla giurisprudenza.
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