Le valutazioni dei crediti in bilancio: limiti e doveri imposti agli amministratori
09 Giugno 2015
Massima
In tema di iscrizione in bilancio dei crediti delle società, ai sensi dell'art. 2425, n. 6, c.c. (nel testo anteriore al d.lgs. n. 127/1991), il criterio legale del "valore presumibile di realizzazione" deve essere esercitato dagli amministratori alla stregua del canone generale della ragionevolezza della valutazione (o svalutazione) operata, con prudente apprezzamento della situazione patrimoniale ed economica del debitore e della sua solvibilità, sicché essi sono tenuti a formulare una prognosi "ex ante" circa il grado di probabilità del futuro adempimento, pieno e tempestivo, del debitore, di modo che il valore nominale dei crediti costituisce soltanto un parametro, da correggere prudenzialmente tenendo conto di tutti i suoi caratteri "e latere debitoris", senza che assuma rilievo quanto attiene alla sfera giuridica del creditore. Il caso
La pronuncia della Suprema Corte, che accoglie in punto di diritto le doglianze dei ricorrenti, rinviando, nel merito, alla competente Corte d'Appello, attiene all'azione giudiziale proposta da alcuni azionisti di una finanziaria quotata in Borsa nei confronti di amministratori, membri del collegio sindacale ed organo di revisione della detta società. Tale azione era finalizzata ad ottenere, ai sensi dell'art. 2395 c.c., il risarcimento del danno cagionato agli azionisti dalle false informazioni patrimoniali in tema di valutazione dei crediti risultanti dai bilanci della società nel biennio 1997/1998. Più precisamente, l'indebita sovrastima dei crediti risultanti nei bilanci di cui supra, a parere dei ricorrenti, li avrebbe indotti, nel successivo esercizio 1999, a convertire le proprie obbligazioni in azioni, il cui valore si era tuttavia azzerato a causa delle ingenti svalutazioni di crediti registrate solamente nel bilancio chiuso al 31 dicembre 1999. La sentenza della Corte d'Appello di Milano, impugnata innanzi alla Suprema Corte, sanciva invece la correttezza dei bilanci della società, confermando la decisione di rigetto dei Giudici di prime cure. Più precisamente, la Corte d'Appello meneghina affermava che se negli esercizi 1997 e 1998 le valutazioni dei crediti di dubbia esigibilità erano fondate sulle possibilità di adempimento dei debitori, nel successivo esercizio 1999, a seguito della sopravvenuta intenzione di cedere sul mercato i detti crediti nell'ambito di un'operazione di cartolarizzazione, si era reso necessario effettuare una sensibile svalutazione dei crediti de quibus al fine di adeguarne il valore di bilancio allo stimato minor prezzo di cessione, determinato anche in base alle “offerte a fermo” ricevute da primarie istituzioni creditizie internazionali. Le questioni
La Corte di Cassazione sancisce una serie di principi in tutto condivisibili in tema di valutazione civilistica dei crediti, giungendo, peraltro, a conclusioni in tutto coerenti con quanto in proposito stabilito dai principi contabili nazionali, cui la società, ancorché finanziaria ed ammessa alla quotazione di Borsa, risultava, all'epoca dei fatti, tenuta ad uniformarsi. In particolare, la Suprema Corte rimarca in primis l'esistenza di un unico criterio di valutazione dei crediti a disposizione del redattore di un bilancio, individuabile nel “valore di presumibile realizzazione” ex art. 2426, n. 8), c.c., in tutto applicabile anche agli Enti finanziari giusto il disposto dell'art. 20, comma 4, d.lgs. 87/1992. In sede di determinazione del presumibile valore di realizzo dei crediti, gli Amministratori non godono di assoluta discrezionalità, dovendo attenersi al postulato della prudenza, oltre che della ragionevolezza della stima operata. Più precisamente, in ossequio al principio della prudenza, la Sentenza in commento rimarca che i crediti, allorché di dubbia o difficile esazione, non debbono trovare iscrizione in bilancio secondo l'originario valore nominale, bensì nella minore misura che, secondo un prudente apprezzamento, si presume di poter realizzare. Quanto affermato dalla Suprema Corte trova peraltro integrale conferma nell'ambito del Documento OIC n. 15, così come recentemente aggiornato dall'Organismo Italiano di Contabilità. Tale Documento stabilisce infatti che il valore nominale dei crediti è rettificato tramite un fondo di svalutazione per tenere conto della possibilità che il debitore non adempia integralmente ai propri impegni contrattuali, posto che le perdite per inadempimento devono gravare non già sui bilanci degli esercizi in cui si manifesteranno con certezza bensì, proprio in ossequio ai principi di determinazione del valore di realizzo e della prudenza, sui bilanci degli esercizi in cui le dette perdite si possono ragionevolmente prevedere. Sempre in conformità con i dettami propri dei corretti principi contabili, la sentenza de qua agitur, richiamando il postulato della ragionevolezza, sancisce che la stima in ordine alle prevedibili perdite insite nel valore nominale di un credito deve essere effettuata dagli amministratori avutoesclusivo riguardo alla situazione patrimoniale ed economica del debitore ed alle sue prospettiche capacità di regolare adempimento,tenuto conto di tutti gli elementi del credito(importo, scadenza, garanzie, moneta di riferimento, esperienze pregresse, ecc.). In tale contesto, la Suprema Corte definisce la materia del contendere confermando in toto la bontà dei principi di valutazione di cui supra, specie in ordine alla esclusiva rilevanza delle caratteristiche “oggettive” del credito, anche qualora i crediti da valutare risultino oggetto di programmate operazioni di cessione. Infatti, nell'ottica di determinare il presumibile valore di realizzo di una posta creditoria di bilancio oggetto di probabile futura vendita, il relativo eventuale minor prezzo di cessione atteso rispetto al valore nominale di libro deriva pur sempre, in via principale, dai rischi di inadempimento insiti nel credito oggetto della prospettata cessione. In altri termini, quale che sia la prospettiva di un credito di dubbia esigibilità iscritto in bilancio – mantenimento o cessione sul mercato – il relativo presumibile valore di realizzo risulta in tutto correlato alle caratteristiche “oggettive” del credito medesimoed alla solvibilità del debitore, come tali capaci di influenzare, ad evidenza, anche il prezzo di cessione. Di conseguenza, conclude condivisibilmente la Suprema Corte, l'operazione di cartolarizzazione dei crediti in sofferenza sopravvenuta nel 1999 insieme alle relative offerte di acquisto, non poteva giustificare, ex se, le esorbitanti svalutazioni dei crediti operate dagli amministratori nel bilancio dello stesso esercizio 1999 in ragione del minor prezzo di cessione atteso. Infatti, in mancanza di dimostrata prova contraria, è ragionevole attendersi che le negative prospettive di realizzo dei crediti de quibus – dipendenti, come tali, non già dalla programmata cartolarizzazione, bensì dalle oggettive peculiarità di detti crediti – sussistessero, quanto meno, sin già dal biennio precedente. In relazione alla disciplina fiscale delle perdite su crediti, ancorché non oggetto del contenzioso de quo, la Suprema Corte ha incidentalmente ribadito il proprio costante pensiero secondo cui la perdita derivante dalla cessione di credito pro soluto non integrerebbe i requisiti di “certezza” e “precisione” all'uopo stabiliti dall'art. 101, comma 5, T.U.I.R. ai fini della relativa deducibilità, permanendo in capo al contribuente l'onere di dimostrare l'esistenza di elementi certi e precisi alla base dell'irrecuperabilità del credito, come se il trasferimento non fosse avvenuto (v., ex multis, Cass. n. 20450/2011). Osservazioni
La commentata sentenza ha il pregio di rimarcare, una volta di più, i presupposti civilistici alla base della corretta valutazione dei crediti cui l'organo di amministrativo di una società di capitali è tenuto ad uniformarsi secondo ragionevolezza e prudenza; in tale contesto, viene diffusamente illustrato il concetto di “presumibile valore di realizzo” di un credito, in assoluta conformità a quanto al riguardo stabilito dai principi contabili nazionali. In ragione di simili postulati, la Suprema Corte sancisce, in maniera del tutto condivisibile, che il presumibile valore di realizzo di un credito, quand'anche oggetto di programmata cessione, deriva pur sempre dalla solvibilità del debitore, da cui dipende, ad evidenza, anche lo stesso eventuale minor prezzo di cessione atteso. Ai fini fiscali, la posizione della sentenza de qua, intesa a negare che la perdita derivante dalla cessione pro soluto di un credito possa integrare i requisiti di “certezza” e “precisione” previsti dalla legge ai fini della relativa deducibilità, appare quanto meno discutibile. Ci si riferisce, in particolare, alla recente riformulazione dell'art. 101, comma 5, T.U.I.R. secondo cui gli elementi certi e precisi alla base della deducibilità delle perdite su crediti sussistono anche “in caso di cancellazione dei crediti dal bilancio operata in applicazione dei principi contabili”. In forza di tale novella normativa, la perdita derivante dalla cessione pro soluto di un credito – in quanto fattispecie che impone, secondo il Documento OIC n. 15, la cancellazione del credito dal bilancio – dovrebbe garantire la ricorrenza dei requisiti di “certezza” e “precisione” previsti ex lege ai fini della deducibilità, come del resto recentemente riconosciuto anche dalla stessa Amministrazione Finanziaria (v. Circ. Agenzia Entrate 14/2014). Conclusioni
La sentenza de qua ripercorre sapientemente i presupposti alla base della corretta valutazione dei crediti in bilancio, addivenendo a conclusioni in tutto condivisibili e conformi alla prassi più autorevole. Sotto il profilo fiscale, per quanto solo incidentalmente trattato, sarebbe stato forse auspicabile che la Suprema Corte adottasse una posizione intesa a meglio valorizzare le più recenti novità normative in tema di perdite su crediti, così da limitare i rischi di contestazione in capo a quei contribuenti che, senza dissimulare alcuna liberalità, realizzano ed ammettono in deduzione una perdita in conseguenza della cessione pro soluto di un proprio credito. |