Alla Corte Costituzionale il nodo sul "ne bis in idem" affermato dalla CEDU sugli abusi di mercato
10 Giugno 2015
Massima
E' non manifestamente infondata: a) in via principale: la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell'art. 117 Cost., comma 1, in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione per la salvaguardia di Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 187-bis, comma 1 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi della L. 6 febbraio 1996, n. 52, artt. 8 e 21) nella parte in cui prevede “Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato” anziché “Salvo che il fatto costituisca reato”; b) in via subordinata: la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell'art. 117 Cost., comma 1, in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione per la salvaguardia di Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, dell'art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nel caso in cui un imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli. Il caso
In data 16 gennaio 2013 la Corte di Appello di Milano aveva confermato la responsabilità penale già individuata in primo grado di un imputato tratto a giudizio per rispondere del delitto di abuso di informazioni privilegiate, previsto dall'art. 184 D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria: d'ora in poi TUF). Avverso la sentenza della Corte d'Appello, veniva proposto ricorso per Cassazione. Consob, costituita parte civile, depositava memoria nella quale esaminava la compatibilità della disciplina italiana rispetto all'art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione per la salvaguardia di Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali (di seguito Cedu) alla luce della sentenza della Corte EDU, sez. II, 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri. La parte civile sosteneva l'esclusione dell'operatività, nel caso di specie, del parametro di costituzionalità previsto dall'art. 117 Cost., comma 1, in considerazione del principio di stretta legalità formale in materia penale ex art. 25 Cost., comma 2 (ove si prevede una nozione formale di reato, secondo cui di deve considerare reato solo ciò che è previsto dalla legge come tale) e del principio di obbligatorietà dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost., atteso che il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio sulle sanzioni amministrative verrebbe a paralizzare la prosecuzione dell'azione penale da parte del P.M. Nelle more del giudizio, la difesa dell'imputato aveva prodotto la sentenza della Corte di Appello di Roma – nel frattempo passata in giudicato – con cui veniva rigettata l'opposizione proposta dall'imputato avverso la delibera della Consob che aveva applicato la sanzione pecuniaria per la violazione dell'art. 187-bis TUF. Le questioni
Prima di esaminare i temi affrontati dalla Corte di Cassazione, pare opportuno richiamare il cuore dei dicta della sentenza Grande Stevens. In tale decisione la Corte EDU ha stabilito, sinteticamente, che: i) l'attuale sistema del c.d. doppio binario, amministrativo e penale, previsto dall'ordinamento nazionale per la repressione degli abusi di mercato viola il diritto individuale al ne bis in idem, riconosciuto dall'art. 4 Prot. 7 CEDU (si veda il par. 92 sent.); ii) la procedura amministrativa, al di là dei nomina iuris utilizzati dal legislatore nazionale, costituisce invero una “accusa in materia penale” (cfr. par. 101 sent.); cioè è altresì dimostrato dal fatto che le gravi sanzioni pecuniarie e interdittive ivi previste denotano un'evidente funzione dissuasiva delle medesime, che è tipica delle sanzioni sostanzialmente penali, indipendentemente dalla loro qualificazione nell'ordinamento di provenienza (si tratta dell'applicazione dei c.d. “criteri di Engel”: cfr. par. 96 sent.); iii) di conseguenza, devono trovare applicazione tutte le garanzie previste dal sistema convenzionale in materia penale, tra le quali, oltre al diritto ad un processo equo ai sensi dell'art. 6 CEDU, anche il divieto di un secondo giudizio su fatti già giudicati in via definitiva; iv) si ha violazione di tale divieto allorchè, come nella specie, un soggetto già giudicato in sede (formalmente) “amministrativa” sia successivamente sottoposto ad un processo penale per “fatti che sono sostanzialmente gli stessi” (cfr. par. 219 e ss. e 227 sent.); v) nel caso di specie, a seguito del passaggio in giudicato delle condanne inflitte dalla CONSOB, gli imputati “dovevano essere dunque considerati come <già condannati per un reato a seguito di una sentenza definitiva> ai sensi dell'art. 4 del Prot. 7”; vi) i giudici di Strasburgo hanno ritenuto non sufficiente la garanzia costituita dal c.d. principio di specialità previsto dalla legge 689/1981 al fine di evitare che un medesimo fatto sia punito due volte (bis in idem).Infatti, come il presente caso dimostra, il sistema italiano non proibisce l'apertura di una procedura penale in idem dopo l'adozione di una decisione definitiva di condanna per infrazioni “amministrative” – ma di fatto penali – da parte della giurisdizione competente. Infine occorre segnalare come non vi sia dubbio che il dictum della sentenza Grande Stevens trascenda il singolo caso concreto e vincoli lo Stato ad assicurare la medesima tutela a tutti coloro che si trovino in una situazione identica (si veda sul punto Cass. Pen., SS.UU., 19 aprile 2012, n. 34472, Ercolano, che ha ammesso la possibilità di estendere la ratio decidendi già enunciata dalla Corte Europea in riferimento ad un singolo caso - si trattava, nello specifico del caso c.d. Scoppola - anche a tutti gli altri casi in cui si è verificata la violazione in concreto riscontrata dalla Corte medesima). A fronte di queste premesse, la Corte di Strasburgo, pur non indicando misure di carattere generale che lo Stato dovrebbe adottare ex art. 46 CEDU (cfr. par. 235 sent.), si è interrogata su quali debbano essere le conseguenze obbligatorie, nei confronti dello Stato italiano, della sentenza Grande Stevens, divenuta, come si è detto, definitiva. L'indicazione che sul punto proviene della Corte EDU è nettissima: a condizione che si sia in presenza di un precedente provvedimento definitivo (amministrativo o emesso dal Giudice penale), occorrerà trovare il modo di porre fine immediatamente al (secondo) processo (si veda G.I.P. Trib. Milano, 5 giugno 2014, in F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell'art. 50 della Carta?, in Diritto Penale Contemporaneo, 10 e F. Viganò, Ne bis in idem: la sentenza Grande Stevens è ora definitiva, in Diritto Penale Contemporaneo, 8 luglio 2014 ). In siffatto contesto, si inserisce l'ordinanza della Suprema Corte in commento che dimostra come le attuali formulazioni letterali sia dell'art. 187-bis TUF sia, seppure in subordine, dell'art. 649 c.p.p. non consentano interpretazioni costituzionalmente orientate che rendano tali disposizioni conformi al decisum di Grande Stevens: quanto alla norma amministrativa, l'inciso di apertura dell'art. 187-bis, comma 1, TUF (“Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato”) non può essere interpretato in senso diverso dalla previsione del cumulo della sanzione penale e di quella amministrativa, anche alla luce della sancita autonomia tra il procedimento avanti la CONSOB e quello penale (cfr. art. 187-duodecies TUF); quanto all'art. 649 c.p.p., la norma presuppone la comune riferibilità all'autorità giudiziaria penale dei diversi procedimenti che determinano il bis in idem, di talchè non può essere applicata in presenza di un giudicato dell'autorità giudiziaria penale e di un provvedimento amministrativo definitivo. In tali condizioni la Cassazione ritiene percorribile solo la soluzione “normativa”, che ripristini il rispetto del divieto, di rango costituzionale, del ne bis in idem: da qui la scelta di devolvere le questioni al giudice delle leggi, con un preciso rapporto di subordinazione tra le due prospettate soluzioni del problema. Preliminarmente, la Corte osserva che l'assetto del c.d. “doppio binario” non proviene da vincolanti disposizioni in tal senso della normativa europea. Il legislatore europeo, infatti, ha individuato nella sanzione amministrativa la risposta generale per gli abusi di mercato (purchè tale misura sia efficace, proporzionata e dissuasiva), lasciando agli stati membri la possibilità di comminare sanzioni penali per gli illeciti in questione (Corte di giustizia, Terza sezione, 23 dicembre 2009, Spectro Photo Group BV, C-45/08. Peraltro non può sottacersi che il cumulo delle sanzioni è suggerito dalla direttiva 2003/6/CE, sicchè l'ordinamento comunitario è ben consapevole della possibile interferenza tra le due sanzioni (amministrativa e penale). In tale quadro, osserva la Cassazione, si inserisce anche una diversa descrizione della portata del principio del bis in idem in seno alle due Corti europee: la Corte di giustizia – in ciò distinguendosi dalla Corte EDU – fa riferimento alla necessaria valutazione circa l'adeguatezza delle rimanenti sanzioni rispetto ai predetti principi di effettività, proporzione e dissuasività e ciò impedisce l'applicabilità diretta dell'art. 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea, in tema di divieto di secondo giudizio a di seconda condanna per il medesimo fatto. Ricorda poi la Cassazione che il recente Regolamento UE n. 596/2014, oltre a stabilire l'abrogazione della direttiva 2003/6/CE con effetto a partire dal 3 luglio 2016, ha previsto la comminatoria di una serie di sanzioni amministrative per fatti di abuso di mercato, precisando però che gli Stati membri potranno non introdurre tali sanzioni se i fatti in questione sono già puniti dall'ordinamento penale nazionale. Tale previsione si salda poi con la direttiva 2014/57/UE (che l'Italia dovrà recepire entro il 3 luglio 2016) che sostanzialmente capovolge il rapporto tra sanzione amministrativa e sanzione penale delineato con la direttiva del 2003: i fatti più gravi di abuso di mercato, commessi con intenzionalità, dovranno essere puniti dal diritto penale, mentre le sanzioni amministrative avranno carattere, sostanzialmente, sussidiario. La Corte quindi espone le ragioni che inducono a ritener come principale la questione di legittimità dell'art. 187-bis TUF in luogo di quella, sollevata in via subordinata, afferente l'art. 649 c.p.p.. Anzitutto, sostituendo la clausola che prevede il cumulo sanzionatorio con quella che attribuirebbe carattere sussidiario alla fattispecie amministrativa, la pronuncia manipolativa assicurerebbe l'immediato adeguamento della fattispecie alla citata direttiva 2014/57/UE. Del pari, anche i canoni di dissuasività e proporzionalità ed effettività risulterebbero salvaguardati, anche in ragione della possibilità di ricorrere agli efficaci mezzi di ricerca della prova disciplinati dal codice del rito penale. Viceversa, la soluzione basata sulla questione di legittimità dell'art. 649 c.p.p., pur se anch'essa sollevata dalla Corte, come si è detto, viene ritenuta incongruente dal Collegio. La dilatazione operativa dell'art. 649 c.p.p. - nel senso di ricomprendervi anche i procedimenti amministrativi - trasformerebbe l'istituto in questione da rimedio di una distorsione patologica dell'attività giurisdizionale nello sbocco processuale ineludibile a seguito dell'instaurazione, per il medesimo fatto, di un procedimento da parte della CONSOB e da parte del pubblico ministero. Pur a fronte di tale incongruenza, tuttavia, la Corte indica nella subordinata questione di legittimità dell'art. 649 c.p.p. la via per rimuovere nei singoli casi concreti (e non in via generale, come per la questione principale) l'incompatibilità del “doppio binario” con il divieto convenzionale del bis in idem. Osservazioni
La decisione della Corte di Cassazione, chiamata ad intervenire su un tema con risvolti delicati rispetto alla concreta operatività dell'adeguamento automatico dell'ordinamento interno a quello comunitario, approda a decisioni del tutto condivisibili. La questione di legittimità principale, che invoca una pronuncia manipolativa dell'art. 187-bis TUF, appare la via più idonea ad assicurare un assetto normativo coerente con le indicazioni legislative e giurisprudenziali che provengono dall'UE. La soluzione, peraltro, sconta le medesime controindicazioni che già oggi compromettono i rapporti fra i delitti di abusi di mercato (artt. 184 e 185 TUF) ed i corrispondenti illeciti amministrativi (artt. 187-bis e 187-ter TUF): tutte le fattispecie indicate, infatti, presentano, sul piano oggettivo, i medesimi elementi costitutivi, differenziandosi in relazione all'elemento soggettivo in capo all'agente (il dolo specifico). Il (solo) elemento psicologico, tuttavia, può rivelarsi nella pratica un discrimen particolarmente debole per la corretta distinzione tra fattispecie penale ed amministrativa, con le prevedibili conseguenze che ne derivano anche in punto di certezza del diritto. La puntualizzazione, peraltro, pare importante anche alla luce delle incertezze che, in qualche modo, sono provenute anche da CONSOB: basti pensare alla Comunicazione DME/5078692 del 29 novembre 2005, in cui si affermava che “laddove un esempio sembri prevedere in un determinato comportamento dell'agente la presenza dell'intento manipolativo o del dolo specifico ciò non implica in alcun modo che in mancanza dell'intento manipolativo o del dolo specifico quel comportamento non possa rientrare nella definizione di manipolazione del mercato fornita dal Testo unico”. La questione dell'interpretazione “additiva” dell'art. 649 c.p.p. pare senz'altro una strada percorribile, nel segno, tuttavia, tracciato dal Collegio, che inquadra l'effettività della soluzione solo in riferimento a casi specifici (e non generali come nella prima ipotesi) che si manifestano all'esito due procedimenti, di cui uno risulti definito in modo irrevocabile. Qualche perplessità, invece, può destare la decisione della Cassazione di non ritenere direttamente applicabile l'art. 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea. Il divieto di bis in idem, infatti, oltre ad essere previsto dal citato art. 4 Prot. 7 CEDU, è altresì stabilito dall'art. 50 della Carta, norma di diritto primario dell'Unione (cfr. art. 6 par. 3 Trattato UE), idonea a effetto diretto negli ordinamenti degli Stati membri, con carattere di primazia rispetto ad eventuali norme interne ritenute contrastanti. Tale soluzione sarebbe percorribile sulla base del duplice presupposto secondo cui, da un lato la disciplina degli abusi di mercato rientra nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione, dall'altro che il predetto art. 50 CDFUE mostra la medesima estensione applicativa rispetto al divieto previsto dall'art. 4 Prot. 7 CEDU: sul punto la dottrina penalistica ha osservato che “l'art. 50 CDFUE dovrà essere letto come incorporante almeno l'insieme delle garanzie enucleate dalla corte di Strasburgo in sede di interpretazione dell'art. 4 Prot. 7 CEDU (incluse quelle dedotte in Grande Stevens […]) e come tale dovrà essere direttamente applicato dal Giudice italiano” (F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell'art. 50 della Carta?, in Diritto Penale Contemporaneo, 21). Conclusioni
In definitiva l'impostazione adottata dalla Corte Suprema appare la più corretta in vista di un generale riassetto dei rapporti tra i giudizi scaturenti per delitti di abusi di mercato ed i procedimenti per le corrispondenti fattispecie di illecito amministrativo alla luce dei principi espressi dalla CEDU nella sentenza Grande Stevens. Infatti la clausola di riserva in favore dell'ordinamento penale, laddove espressa nella sentenza manipolativa invocata dalla Corte dell'art. 187-bis TUF (alla quale, chiaramente dovrà far seguito analoga modifica - tema la Corte non ha potuto sollevare per carenza di rilevanza nel caso di specie - dell'art. 187-ter TUF, che prevede l'illecito amministrativo legato alla manipolazione del mercato) dovrebbe inibire la apertura (contemporanea o successiva) di due procedimenti (penale ed amministrativo) per il medesimo fatto. D'altra parte occorre tenere presente che affidare all'art. 649 c.p.p. - nel senso devoluto dalla Cassazione alla Consulta - la soluzione dei rapporti tra giudicato penale ed amministrativo innescare disparità di trattamento tra chi sia stato condannato prima in una sede piuttosto che nell'altra, considerata la gravità delle sanzioni penali applicabili alla fattispecie di abuso di informazioni privilegiate (da due a dodici anni di reclusione e multa da euro 40.000 ad euro 10.000.000 a seguito del raddoppio disposto dalla L. n. 262/2005). |