Fusione per incorporazione e responsabilità da reato degli enti: tra diritto civile e diritto sanzionatorio-amministrativo
26 Aprile 2016
Massima
In tema di responsabilità da reato degli enti, nel caso di fusione per incorporazione, la società incorporante, da considerarsi soggetto terzo, può sottrarsi agli effetti pregiudizievoli del sequestro finalizzato alla confisca disposto nei confronti della società incorporata qualora alleghi la propria estraneità al fatto di reato consumatosi in seno a quest'ultima, per non avervi partecipato e comunque per non averne ritratto alcun vantaggio od alcuna utilità, e la propria buona fede, per non essere stata in grado, nonostante un'ordinaria diligenza, di attingere la derivazione della propria posizione soggettiva dalla commissione di detto fatto di reato. Il caso
La sentenza della Sez. V Penale, 27 ottobre 2015, n. 4064, verte su un caso di fusione per incorporazione di una banca locale in una banca nazionale. La Corte di Cassazione è stata investita da quest'ultima della questione relativa all'estensione a sé degli effetti pregiudizievoli derivanti da un sequestro preventivo su somme di denaro disposto nei confronti della prima per fatti di market abuse. Al fine dell'individuazione della natura di tale sequestro, poiché quella di cui si discute è l'ultima tranche di un'annosa vicenda giudiziaria, è essenziale una minima ricostruzione in retrospettiva. Già con la sentenza del 12 marzo 2014, n. 14600, la Sezione II Penale, adita dalla banca locale, aveva reputato legittimo il sequestro delle ridette somme, facendone risalire alla stessa la disponibilità nonostante l'incorporazione, siccome confiscabili in suo pregiudizio nel contempo a titolo di prezzo ex art. 240 c.p., in quanto soggetto non estraneo al reato, ed a titolo di profitto ex art. 187 T.U.F. in combinato disposto con gli artt. 25-sexies e 53 D.Lgs. n. 231/01, in quanto, viepiù, ente nel cui interesse il reato era stato commesso. Invero era risultato che essa, incassate ingenti commissioni a seguito di operazioni commesse da suoi legali rappresentanti in occasione della quotazione di una società, le aveva subitaneamente impiegate per ripianare croniche perdite di bilancio, per la prima volta, da tempo, riportato in attivo. La sentenza n. 14600 del 2014 faceva perno sull'insegnamento di Cass. Pen., Sez. Un., 30 gennaio 2014, n. 10561 (tra l'altro in Cass. pen., 2014, 2797 (s.m.), con note di Todaro e Varraso), secondo cui “è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l'ente una persona estranea al detto reato”, onde trarne conseguenze omogenee in punto di confiscabilità di due entità eterogenee quali il prezzo ed il profitto:
Le questioni giuridiche: inquadramento dogmatico del sequestro oggetto di giudizio: la distinzione tra prezzo e profitto
Nella fase del procedimento esitata con la sentenza n. 4064/2015 è la banca nazionale, cogliendo lo spunto operativo tratteggiato nella sentenza n. 14600/2014, a spendere la propria legittimazione per dolersi della legittimità del sequestro in quanto vincolo idoneo ad estendere la propria operatività in forza della fusione anche nei suoi confronti, nonostante la sua pacifica estraneità ai fatti di reato costituenti matrice della responsabilità della banca locale ex D.Lgs. n. 231/01. Sicché il terreno di sviluppo della decisione che ci si accinge ad analizzare resta circoscritto al sequestro, siccome originariamente disposto, in vista della confisca, sì, ma diretta di un quid contemporaneamente suscettibile di qualificazione come prezzo e come profitto. Quantunque il punto non risulti approfondito in motivazione, v'è materia su cui riflettere.
Una prima prospettiva d'indagine porta a sottolineare che altro è il prezzo ed altro il profitto. Quanto al prezzo, è lo stesso art. 240, comma 2, n. 1), c.p. a farne oggetto di autonoma previsione nel prescriverne la confisca obbligatoria, per l'effetto distinguendolo tanto dal prodotto, perché non è l'esito del reato, quanto dal profitto, perché non è un vantaggio che promana dal reato, ma è il corrispettivo dato o promesso – rectius la controprestazione percepita o anche solo pattuita – per la sua commissione (Cass. pen., S.U., 3 luglio 1996, n. 9149). L'importanza della distinzione tra prezzo e profitto spiccava sotto la vigenza del comma 1 dell'art. 322-ter c.p. nella versione anteriore alla L. n. 190/2012, siccome legittimante l'ablazione soltanto in relazione al prezzo [Cass. pen., S.U., 25 giugno 2009, n. 38691, in Cass. pen., 2010, 90 (s.m.), con nota di Manes]; tuttavia conserva validità ancora oggi, giacché, come reso evidente proprio dal caso che ne occupa, l'art. 187 T.U.F. impone la confisca, anche per equivalente, del prodotto o del profitto, ma non del prezzo. L'ambito fattuale del prezzo è votato ad un allargamento a discapito del profitto se si considera che – per Cass. pen., 15 aprile 2013, n. 39039 – il prezzo comprende “anche il denaro indebitamente procurato dall'agente pubblico a terzi, nella parte da questi riversata al primo, a titolo di corrispettivo per la commissione dell'illecito”; d'altronde, simmetricamente e coerentemente, si ritiene che “il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l'effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo: occorre cioè una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l'oggetto di questo, escludendosi qualsivoglia estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall'illecito” (Silvestri, Questioni aperte in tema di profitto confiscabile nei confronti degli enti: la confiscabilità dei risparmi di spesa, la individuazione del profitto derivante dal reato associativo, in Cass. pen., 2014, 1538). Ampliando lo sguardo, le disomogeneità previsionali si acuiscono nel raffronto con l'art. 19 D.Lgs. n. 231/01, che introduce una forma di confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo o del profitto – con la conseguenza che, questa volta, si perde per strada il prodotto – viepiù per la sola parte che non può essere restituita al danneggiato, con salvezza dei diritti acquisiti dai terzi in buona fede (comma 1).
Il profitto è il guadagno o più genericamente il vantaggio, purché economico, ricavato dall'illecito. Tradizionalmente si contendono il campo due tesi opposte: quella estensiva, che riconduce ad esso anche i beni acquistati e le utilità comunque realizzate dall'autore del reato, come effetto mediato e indiretto della sua attività criminosa, definibili alla stregua di surrogati del profitto; e quella restrittiva, che invece reputa indispensabile l'esistenza di un nesso di causalità procedente dalla condotta al bene da confiscare. Il contrasto pare attraversare le stesse Sezioni Unite della Corte. Cass. pen., S.U., 25 ottobre 2007, n. 10280, tra l'altro in Foro it., 2009, II, 225 (s.m.), con nota di Nicosia, intervenuta in relazione alla fase della cautela nel contesto di un procedimento per concussione in cui emergeva che il danaro era stato richiesto da un ufficiale di polizia giudiziaria per l'acquisto di un immobile, fa propria la tesi estensiva, sostenendo che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall'art. 322-ter c.p., costituisce profitto anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l'impiego del denaro è causalmente collegabile al reato e soggettivamente attribuibile all'autore di quest'ultimo. La tesi più restrittiva è fatta propria dal Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008, n. 26654, tra l'altro in Cass. pen., 2008, 4544 (s.m.), con nota di Pistorelli, che, proprio in relazione al sequestro preventivo finalizzato alla confisca ai sensi degli artt. 19 e 53 D.Lgs. n. 231/01, afferma che il profitto è costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato nell'ambito del rapporto sinallagmatico con l'ente. Vi è però un'altra e più profonda prospettiva di indagine, che attiene alla sovrapponibilità della confisca di prezzo e profitto concentrata su un'unica res. Se è vero che la confisca ex art. 240 c.p. si atteggia ancora oggi a misura di sicurezza patrimoniale così com'è nata, nel sistema del D.Lgs. n. 231/01, la confisca, segnatamente del profitto, ma per vero indifferentemente del prezzo e del profitto, costituisce una vera e propria sanzione. Al riguardo non possono sussistere dubbi, giacché l'art. 19 va letto in rapporto all'art. 9, il cui comma 1 è perentorio nello statuire che quattro sono le tipologie sanzionatorie per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, ricomprendendovi la confisca [lettera c)] a fianco delle sanzioni pecuniarie [lettera a)], di quelle interdittive [lettera b)] e della pubblicazione della sentenza [lettera d)]. Siffatta acquisizione – che appartiene ormai da tempo alla giurisprudenza di legittimità, la quale si spinge sino al punto di evidenziare che “la confisca del profitto del reato prevista dagli artt. 9 e 19 D.Lgs. n. 231/01 si configura come sanzione principale, obbligatoria ed autonoma rispetto alle altre previste a carico dell'ente, e si differenzia da quella configurata dall'art. 6, comma 5, del medesimo decreto, applicabile solo nel caso difetti la responsabilità della persona giuridica, la quale costituisce invece uno strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato presupposto, i cui effetti sono comunque andati a vantaggio dell'ente” (Cass. pen., S.U., n. 26654 del 2008, cit.) – è coerente con la logica per cui il delitto non deve pagare (Picotti, Punti critici della confisca e prospettiva europea, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2010, 360): logica particolarmente efficace nella politica di contrasto della criminalità degli enti, il cui allontanamento dai binari della legalità nasconde sempre un retroscena di illecita locupletazione.
Peraltro, sotto il profilo non già dell'ablazione di per se stessa considerata, bensì del suo oggetto, un avvicinamento prospettico tra prezzo e profitto è predicato nell'ormai celebre Cass. pen., S.U., 26 giugno 2015, n. 31617, a termini della quale “il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell'art. 240, comma secondo, n. 1, cod. pen., la confisca del prezzo e, ai sensi dell'art. 322 ter cod. pen., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l'accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell'imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio”. L'equiparazione del profitto al prezzo agli effetti della confisca diretta (e, di contro, agli effetti dell'esclusione della confisca per equivalente nell'ipotesi di maturata prescrizione) poggia sull'intendimento di un'unica finalità di ristabilimento dell'ordine economico violato mettente capo, pur nella loro ontologica diversità, all'ablazione di entrambi: afferma invero il Massimo Consesso che “la logica che coinvolge e giustifica la obbligatoria confisca del prezzo del reato in base alla generale previsione dettata dall'art. 240, secondo comma, c.p. non risulta diversa da quella che ha indotto il legislatore ad introdurre previsioni speciali di confisca obbligatoria anche del profitto del reato, sul rilievo che la evocabilità del prezzo, inteso come retribuzione promessa o corrisposta per la commissione del reato, rappresentasse una evenienza riconducibile soltanto ad alcune fattispecie, ma non pertinente – secondo l'id quod plerumque accidit – rispetto ad altre, ove, appunto, viene più frequentemente in discorso il profilo del lucro desunto dal reato, inteso come vantaggio economico ottenuto in via diretta ed immediata dalla commissione del reato, e quindi legato da un rapporto di pertinenzialità diretta con l'illecito penale”; necessitate, per l'effetto, le conclusioni in direzione dell'“attrazione, accanto al prezzo, anche del profitto del reato, all'interno di un nucleo per così dire unitario di finalità rispristinatoria dello status quo ante, secondo la medesima prospettiva volta a sterilizzare, in funzione essenzialmente preventiva, tutte le utilità che il reato, a prescindere dalle relative forme e dal relativo titolo, può aver prodotto in capo al suo autore, e con specifico riferimento a figure di reato per le quali il legislatore ha ritenuto necessario optare per una simile scelta” (par. 10 delle motivazioni in diritto).
Il punctum pruriens – che entra anche nella dinamica della sentenza n. 4064 del 2015 in commento – sta in ciò che il profitto condivide con il prezzo l'assoggettamento a confisca diretta se cade su saldi attivi di conto corrente, posto che, “qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato”.
È noto che la dottrina criticamente ragiona di un “inedito marchingegno escogitato dalla S.C.” consistente “nel qualificare come ‘diretta' e non ‘per equivalente' l'ablazione di somme corrispondenti all'imposta indebitamente evasa, muovendo dal duplice assunto che il denaro di cui consta siffatto profitto è un bene fungibile non suscettibile di identificazione storica nel patrimonio dell'ente, e che quest'ultimo non può reputarsi persona estranea al reato (non operando, dunque, la preclusione stabilita dall'art. 322 ter, comma 1, c.p.) …[; ma], così opinando, da un lato si è capovolta d'emblée la consolidata visione che discerneva nella confisca di valore il naturale strumento di ablazione di qualsiasi vantaggio immateriale (e quindi anche di un mero risparmio di spese) …; e dall'altro si è giunti de facto ad ammettere una generalizzata confiscabilità dei benefici economici che una società può ritrarre da illeciti penal-tributari” [Mongillo, Confisca (per equivalente) e risparmi di spesa: dall'incerto statuto alla violazione dei principi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 739 s.].
In aggiunta alle considerazioni che precedono, può proporsi un supplemento di riflessione sulla differente natura della confisca del prezzo quale misura di sicurezza ex art. 240 c.p. e la confisca del prezzo o del profitto quale sanzione ex artt. 187 T.U.F. e 19 D.Lgs. n. 231/01, proprio alla luce del tema dei soggetti, rispettivamente, autore della violazione e pregiudicato dall'ablazione. Affermare che la divaricazione tra questi ultimi è ammissibile solo in relazione alla prima, preordinata a colpire la res in quanto pericolosa, e non anche in relazione alla seconda, preordinata a colpire la res in quanto nella disponibilità dell'autore della violazione, sarebbe riduttivo. Invero, la formula del comma 3 dell'art. 240 c.p., secondo cui la confisca obbligatoria del prezzo non opera se la res “appartiene a persona estranea al reato”, fa bensì perno su un concetto corrispondente ad una sorta di contraltare del concorso ex art. 110 c.p., siccome focalizzato sulla dinamica del fatto, per l'effetto distinguendosi dalla previsione dell'ultimo periodo del comma 1 dell'art. 19 D.Lgs. n. 231/01, che codifica una semplice clausola di salvezza dei “diritti acquisiti dai terzi in buona fede”; nondimeno la circostanza che la buona fede faccia il paio all'estraneità nella funzione di segnare il confine della confiscabilità sottintende che la declinazione sanzionatoria non si discosta dal prototipo della misura di sicurezza laddove ammette, a contrario, che l'ablazione, quantunque connotata in senso afflittivo, possa estendersi altresì a chi, versando semplicemente in mala fede, comunque non è autore della violazione.
V'è però una marcata differenza tra l'art. 240 c.p. e l'art. 19 D.Lgs. n. 231/01, atteso che solo quest'ultimo, al comma 2, chiude il cerchio con la prescrizione che il giudice proceda a confisca obbligatoria per equivalente “quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma 1”: compreso all'evidenza – e qui sta la cifra del discorso – il caso dell'acquisto del diritto, non però di credito [Cass. pen., S.U., 25 settembre 2014, n. 11170, in Cass. pen., 2015, 3014 (s.m.), con nota di: Di Geronimo], ad opera di un terzo in buona fede. Il giudicato cautelare
Nel caso oggetto della sentenza n. 4064/15, le questioni inerenti la legittimità del sequestro, che in ipotesi avrebbero potuto lambire anche i profili dianzi lumeggiati, non sono entrate nel perimetro del thema decidendum perché, secondo i Supremi Giudici, su validità ed efficacia del vincolo si sarebbe maturata una “preclusione endoprocessuale” conseguente al giudicato cautelare sceso con la sentenza n. 14600/2014 (par. 4 delle motivazioni in diritto). Nondimeno detta preclusione non avrebbe assunto dimensioni tali da includere anche il “rilevante profilo dell'estensibilità del sequestro” – rectius, degli effetti pregiudizievoli del sequestro – alla banca nazionale, nella qualità di incorporante, posto che l'affermazione della sentenza n. 14600 del 2014 secondo cui la medesima avrebbe dovuto in ogni caso rispondere dei fatti della banca locale ex art. 2504-bis c.c. è confinata al rango di mero obiter dictum (par.4.1 in particolare). Sorge qualche perplessità.
Il dato di fondo è che la banca nazionale, di per se stessa, ossia al netto di ogni ragionamento sull'incorporazione, non ha partecipato al giudizio promosso dalla banca locale, in esito al quale la sentenza n. 14600/2014 ha sancito la legittimità del sequestro. Ciò, se, quanto al problema della deducibilità da parte della banca nazionale delle doglianze inerenti la legittimità dell'estensione in suo pregiudizio degli effetti del sequestro, è teoricamente suscettivo di colorare di ultroneità la qualifica di obiter dictum attribuita all'affermazione contenuta nella sentenza n. 14600/2014 circa l'estensione alla predetta della responsabilità ex art 2504-bis c.c., quanto al ritenuto effetto preclusivo scaturente dal giudicato sulla legittimità in sé del sequestro, dovrebbe indurre a prendere le distanze da alcuna endoprocedimentalità, che giammai può ricorrere nei confronti di un soggetto rimasto estraneo al contraddittorio. Il punto è meritevole di considerazione per gli sviluppi critici che sollecita. Come visto, ritiene invece la S.C. che si versi in ipotesi di preclusione endoprocedimentale. Tale assunto è coerente con la ricostruzione dell'avvicendamento dell'incorporante all'incorporata alla stregua del comma 1 dell'art. 2504-bis c.c., che, nella formulazione attuale, risultante dalla riforma del diritto societario, recita: “La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”. Rilevato che “l'art. 2504-bis c.c., nel prevedere la prosecuzione dei rapporti giuridici, anche processuali, in capo al soggetto unificato, quale centro unitario di imputazione di tutti i rapporti preesistenti, risolve la fusione in una vicenda non estintiva ma evolutivo-modificativa, che comporta un mutamento formale di un'organizzazione societaria già esistente ma non la creazione di un nuovo ente che si distingua dal vecchio”, il punctum pruriens attiene alle sorti dell'iniziativa procedimentale assunta dall'incorporata o contro di essa, per la vocazione della medesima a ridondare anche nella sfera giuridica dell'incorporante: a mo' di svolgimento della premessa teorica, per esempio, si è giudicato ammissibile l'“appello proposto nei confronti della società incorporata, che, nonostante la cancellazione dal registro delle imprese, sopravvive in tutti i suoi rapporti, anche processuali, alla vicenda modificativa nella società incorporante” (Trib. Milano, Sez. VII, 3 marzo 2015, n. 2901).
L'assunto dell'endoprocedimentalità è coerente però anche con la previgente formulazione del comma 1 dell'art. 2504-bis c.c., a termini del quale il fenomeno era da inquadrarsi bensì sub specie di una successione universale, ma peculiare. Per convincersene, basti considerare che, già secondo il paradigma successorio puro, l'incorporante, una volta maturatasi (con le prescritte formalità) la successione, subentra all'incorporata nell'interezza dei rapporti procedimentali anche pendenti che la riguardano, subendone stato ed esiti [Cass. civ., S.U., 28 dicembre 2007, n. 27183, in Foro it., 2008, I, 2920 (s.m.), con nota di nota di Desiato: “La fusione di società mediante incorporazione avvenuta prima della riforma del diritto societario (…) ed all'introduzione dell'art. 2504 bis cod. civ., realizza una situazione giuridica corrispondente a quella della successione universale e produce gli effetti, tra loro indipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo a questa, della società incorporante, per cui quest'ultima, al pari di qualsiasi successore universale, assume la stessa posizione processuale dell'attore, con tutte le limitazioni ed i divieti ad essa inerenti. Ne consegue che la stessa non può proporre domande nuove per l'attribuzione di diritti autonomi ed indipendenti dal diritto successorio, mentre le si debbono riconoscere i diritti fatti valere dal dante causa, anche quelli azionati prima della successione, ma acquisibili solo nel corso del tempo. Spetta quindi alla società incorporante il risarcimento dei danni derivanti da illecito permanente (nella specie illecita captazione di acque pubbliche), iniziato prima della fusione i cui effetti dannosi si siano però protratti anche successivamente”]. A ciò aggiungasi che consistenti approdi della giurisprudenza civile, pur ribadendo il principio per cui l'odierno art. 2504-bis c.c. ha natura innovativa e non interpretativa [con la conseguenza che lo schema elaborato da Cass. civ., S.U., 8 febbraio 2006, n. 2637, tra l'altro in Riv. not., 2006, 1135 (s.m.), con note di Scalabrini e, Trimarchi, a proposito della mera modificazione dell'incorporata la quale “conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo”, non vale per le fusioni anteriori all'entrata in vigore della riforma del diritto societario (1.1.2004)], sottolineano però anche che il fenomeno successorio in parola si diversifica dalla classica successione mortis causa, “perché la modificazione dell'organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, sicché quella che viene meno non è pregiudicata dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza, né alcun pregiudizio subisce la incorporante (o la società risultante dalla fusione), che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole, neppure applicandosi, a dette fusioni, la disciplina dell'interruzione di cui agli artt. 299 e segg. c.p.c.” [così Cass. civ., 26 gennaio 2016, n. 1376, che, nella scia di Cass. civ., S.U., 17 settembre 2010, n. 19698, in Foro it., 2011, I, 472 (s.m.), con nota di Dalfino, segna il passo rispetto alla tesi, poc'anzi illustrata, di Cass. civ., Sez. Un., n. 27183 del 2007, cit., peraltro recentemente ripresa da Cass. civ., 5 febbraio 2015, n. 2063, e da Cass. civ., 25 febbraio 2011, n. 4740].
Venendo al dunque, lo stato dell'arte in punto di interpretazione dell'art. 2504-bis c.c. non costituisce un corpo estraneo rispetto al sistema del D.Lgs. n. 231/01, che, pur anteriore alla riforma del diritto societario, anticipa nel proprio ambito opzioni disciplinari poi dalla stessa generalizzate (Riccio, Nella fusione di società si ha, dunque, continuità dei rapporti giuridici anche processuali, in Contr. impr., 2005, 483). Prova ne è che l'art. 42 D.Lgs. n. 231 del 2001, dedicato alle “vicende modificative dell'ente nel corso del processo”, statuisce che, “nel caso di trasformazione, di fusione o di scissione dell'ente originariamente responsabile, il procedimento prosegue nei confronti degli enti risultanti da tali vicende modificative o beneficiari della scissione, che partecipano al processo, nello stato in cui lo stesso si trova, depositando la dichiarazione di cui all'articolo 39, comma 2”. In disparte la sfasatura tra “procedimento” e “processo”, il principio è pianamente quello della piana prosecuzione del procedimento nei confronti del soggetto nuovo, evitando soluzioni di continuità che troverebbero formalistica giustificazione solo nella ritenuta estinzione del soggetto precedente. Considerato che quella di “procedimento” è nozione sì ampia da comprendere anche il sub-procedimento cautelare reale, i conti tornano così nel contesto del dritto sanzionatorio degli enti come in quello del diritto civile tout court.
Alla luce di quanto precede, nella lettura della sentenza n. 4064/2015, l'attenzione è catturata nuovamente da quel passaggio secondo cui nessuna preclusione i Supremi Giudici hanno ritenuto di ravvisare sulla questione dell'estensibilità del sequestro alla banca nazionale poiché quest'ultima, in tesi terza, non ha partecipato al precedente giudizio.
Accantonato per un attimo il tema dell'affermata terzietà per i riflessi di diritto sostanziale che esso implica, su un piano prettamente procedimentale, ci si permette di osservare che quello della mancata partecipazione dell'incorporante al precedente giudizio, in cui parte era (formalmente) solo l'incorporata, è irrilevante al cospetto dell'art. 42 D.Lgs. n. 231/2001 come dell'odierno art. 2504-bis c.c.; a voler essere precisi, lo sarebbe finanche qualora si ritenesse di proporre un'interpretazione dell'art. 42 D.Lgs. n. 231/2001 adesa alla pregressa versione dell'art. 2504 bis c.c., con riferimento alla quale l'opinione evolutivamente propugnata dalla Cassazione in sede civile indica una strada ex se sufficiente ad assicurare l'estensione del contraddittorio altresì all'incorporante, da cui però deve promanare la richiesta di partecipazione al procedimento (nel sistema del D.Lgs. n. 231/01 mediante deposito della dichiarazione di cui art. 39, comma 2): essa, invero, può non solo intervenire nel giudizio pendente (formalmente) solo nei confronti dell'incorporata ma persino impugnare la decisione sfavorevole.
Portando siffatto insegnamento alle estreme conseguenze, nel caso di specie, la banca nazionale, ritenuto di non intervenire (non nel giudizio ma) nel segmento procedimentale promosso dalla banca locale, sarebbe stata pur tuttavia legittimata all'impugnazione, viepiù in considerazione del duplice assunto, espresso dalla sentenza n. 14600/2014, secondo cui, pretesamente non legittimata la banca locale a far valere una posizione in titolarità di quella nazionale, la responsabilità di quest'ultima comunque dovrebbe farsi risalire all'operatività – sul piano sostanziale in parallelo a quello processuale – dell'art. 2504 bis c.c. Si è così giunti al nocciolo della questione, concernente la responsabilità da reato degli enti nel caso di fusione segnatamente per incorporazione. La conclusione che la responsabilità si concentra in capo all'incorporante parrebbe dover conseguire de plano, prima ancora che dal comma 1 dell'art. 2504-bis c.c., secondo cui la società risultante dalla fusione o quella incorporante assumono non solo i diritti ma anche gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, dall'art. 29 D.Lgs. n. 231/01, secondo cui, “nel caso di fusione, anche per incorporazione, l'ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione”.
Eppure, nella sentenza n. 4064/2015, i Supremi Giudici stigmatizzano la decisione adottata dal tribunale del riesame, che aveva ancorato l'affermazione della responsabilità della banca nazionale all'art. 2504 bis c.c., sostenendo che essa, dotata di una motivazione “più apparente che reale”, si risolverebbe nell'applicazione “in maniera meccanicistica” di “una disposizione civilistica agli effetti penali, omettendo di confrontarsi con i principi che, proprio in tema di confisca (e, quindi, di sequestro preventivo ad essa finalizzato) vanno applicati nei confronti del terzo estraneo al reato, titolare di diritti su beni soggetti a confisca, essendo tale la posizione rivendicata da[lla banca nazionale]”.
Il ragionamento prosegue con il richiamo di Cass. pen., S.U., n. 11170/2014, cit., a termini della quale i diritti del terzo prevalgono sulla “sanzione della confisca” nel caso, oggettivamente, di estraneità al reato, che ricorre qualora il terzo “non solo non abbia partecipato alla commissione del reato”, ma altresì “da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità”, nonché, soggettivamente, di buona fede, che ricorre qualora il terzo, pur facendo uso dell'ordinaria diligenza, non sia posto in grado di attingere il rapporto di derivazione del suo diritto dal reato. In conclusione, escluso “che la confisca … disposta nei confronti della società che ha partecipato alla fusione per incorporazione si estenda automaticamente alla società incorporante solo sulla base della regola, fissata in sede civilistica dall'art. 2504 bis c.c., secondo cui ‘la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione …'”, nel caso di specie, andrebbe verificato “se, attraverso la fusione per incorporazione, [la banca nazionale] abbia o meno conseguito un vantaggio o un'altra apprezzabile utilità” e “se, all'atto della fusione, [essa …] si trovasse o meno in una condizione di buona fede …” (par. 4.2 delle motivazioni in diritto).
Si ritiene di dire che l'apprezzabile sforzo dei Supremi Giudici nel dare una risposta alla doglianza difensiva intesa a sollevare una violazione del principio di legalità sotto il profilo dell'attribuzione alla banca nazionale di una responsabilità per fatto altrui ha oltrepassato il segno, tanto più in quanto incentrato sulla sola confisca-sanzione, fatta assurgere a modello fagocitante anche la tradizionale confisca-misura di sicurezza.
Nondimeno, pur limitato l'orizzonte alla confisca-sanzione, vien fatto di osservare che la responsabilità dell'incorporante non è mera derivazione di una meccanicistica trasposizione dell'art. 2504-bis c.c. al settore penale. Premesso che nel sistema del D.Lgs. n. 231/01 non di diritto penale ma di diritto sanzionatorio-amministrativo si deve ragionare, è proprio quel sistema ad essersi dotato, con l'art. 29 cit., di una disposizione che duplica (peraltro, come accennavasi, ante litteram) la previsione civilistica. Sgombrato pertanto il campo da alcuna insussistente violazione del principio di legalità sotto il profilo della necessaria previsione di legge, dacché il D.Lgs. n. 231/01 ha rango di fonte primaria, lo si deve sgombrare anche dalla suggestione che sanzionare l'incorporante significherebbe farla rispondere del fatto illecito di un soggetto altrui quale si ipotizza sia l'incorporata. Anzitutto rileva che l'incorporante risponde, prima ancora che sul terreno della confisca, sul terreno delle sanzioni interdittive, con riferimento alle quali gode peraltro di due mitigazioni:
Ciò detto, rispetto tanto alle sanzioni quanto alla confisca, il nodo gordiano sta nella qualifica di terzietà dai Supremi Giudici riservata all'incorporante. L'incorporante non è terza rispetto all'incorporata a tal punto che, nella prospettiva dell'odierno art. 2504-bis c.c., anticipata dall'art. 29 D.Lgs. n. 231/01, la seconda seguita a vivere in seno alla prima quasi sciogliendosi in essa, che la ingloba e metabolizza; ma per vero non sarebbe stata terza neppure nella prospettiva del vecchio art. 2504-bis c.c., atteso che, a fronte dell'estinzione dell'incorporata, si è sempre ritenuto che (non la sua soggettività ma scuramente) l'intero fascio dei suoi rapporti, i.e. l'intero suo patrimonio, transitasse per successione nell'incorporante, per l'effetto subentrante in ciascuno di essi e nel patrimonio tutto in vece, ossia in luogo, dell'incorporata. Rebus sic stantibus, l'accertamento sulla circostanza che l'incorporante non abbia tratto vantaggi od utilità dall'incorporazione e, all'atto della stessa, versasse in buona fede, oltreché non previsto dalla legge, introduce un fattore di destabilizzazione.
Valga rilevare che fusioni ed incorporazioni altro non sono che operazioni economiche, le quali per di più vivono nel mondo del diritto sotto forma di contratti: talché la sussistenza di un'apprezzabile giustificazione economica – che sostanzia il requisito della causa – è addirittura prescritta a pena di nullità del corrispondente contratto (artt. 1325 e 1418 c.c.). D'altronde, fermare il tempo dell'indagine alla convergenza della volontà dell'incorporante sull'acquisizione dell'incorporata significa valutare un posterius rispetto al fatto di reato consumato all'interno di questa e, a fortiori, rispetto alla mancata attuazione da parte sua di un efficace apparato prevenzionistico.
La rispondenza a realtà di tali assunti è confermata dalla constatazione che una società perfettamente allineata ai canoni della legalità può stimare proficuo, causa cognita, incorporare una società responsabile per taluno dei fatti previsti e puniti dagli artt. 24 ss. D.Lgs. n. 231/01, non tanto per appropriarsi dell'illecito vantaggio o comunque degli effetti profittevoli dell'illecito interesse dalla medesima conseguito (art. 5), posta l'operatività, non a caso, della confisca obbligatoria anche per equivalente sia del prezzo sia soprattutto del profitto in guisa da sterilizzare una volta per tutte la convenienza del malaffare (art. 19), ma per acquisire (a maggior ragione nella prospettiva di un risanamento rilevante agli effetti dell'art. 31) avviamento e settori di mercato dalla medesima posseduti. Coerenza vuole che il prezzo a sua volta si uniformi alle condizioni giuridiche dell'incorporata, sul cui passivo sono destinate a gravare le sanzioni ex D.Lgs. n. 231/01, confisca compresa, non diversamente dalle più comuni sanzioni tributarie o amministrative in senso stretto. Né il prezzo nasce dal nulla, atteso che normalmente è la risultante di una lunga e faticosa due diligence, in cui anche i profili opachi vengono riportati alla luce: ciò che, per inciso, differentemente da quanto sostenuto nella sentenza n. 4064 del 2015, toglie rilevanza a qualsiasi indagine sulla buona fede disancorata dalla buona fede civilistica nella fase pre-contrattuale ex art. 1337 c.c. ai limitati fini – si badi – di eventuali responsabilità risarcitorie. Conclusioni
La ricostruzione teorica che si è cercato di esporre tiene alla prova della logica.
Vero è che l'ordinamento, all'art. 41, comma 1, Cost., accorda preminente rilievo alla libertà di iniziativa economica, di cui è espressione anche l'organizzazione giuridica e fattuale che regge l'esercizio dell'impresa; ma è parimenti vero che essa “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà o alla dignità umana” (comma 2). Sostenere che l'incorporante possa, sia pure nel teorico spazio di un'avulsione sia dal fatto di reato sia però anche dal governo delle sue conseguenze, non rispondere delle violazioni dell'incorporata significherebbe aprire una breccia nel continuum sanzionatorio del D.Lgs. n. 231/01, perché, dalla prospettiva dell'incorporata, equivarrebbe ad ammettere che una società responsabile per un fatto inserito nella lista nera ex artt. 24 ss. possa liberarsi delle relative conseguenze semplicemente trovando un'altra società disposta ad incorporarla o a dar vita per fusione ad un soggetto di diritto solo nominalmente terzo.
Torna in mente l'insegnamento di Cass. pen., 3 marzo 2004, n. 18941, tra l'altro in Cass. pen., 2004, 4046, con nota di Di Geronimo, ed in Dir. prat. soc., 2004, 72, con nota di Bricchetti, secondo cui, “quanto alla tematica delle vicende modificative che possono interessare i soggetti dì diritto metaindividuali (e cioè le operazioni di riorganizzazione dell'ente o delle sue risorse capaci di incidere in vario modo sulla sua identità, potendone derivare ora una più o meno radicale ‘trasfigurazione', o addirittura la ‘scomparsa' dell'ente stesso quale autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, con correlata traslazione dell'universo dei suoi rapporti in capo ad uno o più differenti organismi), le apposite previsioni di cui agli artt. 28 e ss. del decreto legislativo n. 231 puntano proprio ad evitare che tali vicende (che, generalmente, dipendono da libere iniziative degli interessati) si traducano in strumenti di elusione dei meccanismi sanzionatori di nuovo conio”. |