Responsabilità della struttura ospedaliera e del primario per mancata diagnosi dell’ipoacusia del neonato

Ivan Dimitri Calaprice
03 Giugno 2016

La problematica affrontata dal Giudice pesarese contempla, implicandole in sincrono, valutazioni di carattere tecnico-giuridico e valutazioni di carattere politico, non potendosi determinare l'emergenza di responsabilità civilistiche con uno sguardo distratto rispetto allo stato organizzativo della sanità pubblica in Italia sul tema della diagnosi neonatale della sordità congenita.
Massima

La responsabilità civile (ed il correlato obbligo risarcitorio) della struttura ospedaliera e del primario per mancata diagnosi dell'ipoacusia del neonato al momento della nascita va determinata – in mancanza di ascrivibilità ai c.d. Livelli Essenziali di Assistenza previsti dalla Legislazione nazionale - avendo riguardo agli standard di screening audiometrico previsti dalle singole leggi regionali. In quest'ottica non esiste, in difetto di un'articolazione organizzata dello stesso su base locale, una aspettativa legittima della esecuzione di uno screening all'avanguardia delle funzionalità uditive del neonato, invero rilevando – nell'esecuzione del contratto di spedalità - una soglia esigibile di diligenza in linea con il solo livello di efficienza definito dalla normativa specialistica in vigore.

Il caso

La vicenda giudiziaria in questione trae origine dalla domanda di una coppia che, in proprio, e nella qualità di esercente la responsabilità genitoriale sul proprio figlio, citava in giudizio un'azienda ospedaliera della Regione Marche nonché il primario in organico presso la struttura di pediatria e neonatologia a questa riferita, ove la nascita del minore si era registrata.

Gli attori riferivano che il minore, dopo una normale gravidanza, era stato dimesso ad appena tre giorni dalla nascita e che all'età di venti mesi, tuttavia, resisi essi conto che lo stesso non rispondeva agli stimoli sonori e aveva un ritardo nelle capacità linguistiche, decidevano di richiedere una serie di visite pediatriche specialistiche all'esito delle quali emergeva una diagnosi di “ipoacusia neurosensoriale bilaterale di grado profondo”.

Alla luce di tali risultanze gli stessi sostenevano che la patologia in parola avrebbe potuto e dovuto essere rilevata sin dalla nascita, disponendo la struttura stessa (ed il primario ad essa in organico) di un dispositivo medico idoneo a verificare l'esistenza e il livello di gravità immediatamente dopo la sua venuta alla luce, dispositivo che, nella occasione non era stato utilizzato.

In quest'ottica gli stessi chiedevano un risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale adducendo che una diagnosi tempestiva avrebbe potuto evitare a loro e al loro stesso figlio i pregiudizi invero patiti fino alla definitiva scoperta della problematica medica de qua.

Si costituiva quindi l'Azienda Ospedaliera rilevando, in sostanza:

i) che il dispositivo medico effettivamente utilizzato non aveva segnalato l'esistenza di particolari anomalie acustiche e che, in tutta probabilità il deficit auditivo di cui il minore era affetto si era sviluppato progressivamente e non era accertabile alla nascita;

ii) che la legge regionale delle Marche, in materia di screening audiometrico si limitava a prescrivere l'uso di “apparecchiatura idonea” senza dettagliare l'obbligatorietà dell'adozione di particolari metodiche cliniche;

iii) che i genitori del piccolo avevano taciuto ai sanitari l'esistenza di un rapporto di parentela fra loro stessi, così celando un elemento di potenziale aggravamento di rischio;

iv) che in base alle leges artis l'impianto protesico alle orecchie del bambino avrebbe potuto comunque effettuarsi intorno all'età di diciotto/venti mesi di vita e che, pertanto, alcun pregiudizio effettivo poteva essere fondatamente lamentato.

Il primario, una volta costituitosi, suffragava e replicava gli argomenti difensivi della Azienda Ospedaliera aggiungendo che l'esame otorinolaringoiatrico del minore era stato svolto in seno a reparto diverso da quello affidato alla propria responsabilità.

L'esame della CTU disposto dal Giudice di prime cure evidenziava che la sordità del minore era probabilmente congenita nonché che la intempestività della diagnosi era imputabile alla mancata organizzazione del servizio sanitario nazionale, esistendo tecniche di rilevazione audiologica più precise e all'avanguardia rispetto a quelle utilizzate nel caso specifico ma che al tempo stesso esse non erano obbligatorie. Lo stesso Professionista incaricato nel giudizio stabiliva infine che non sarebbe stato comunque possibile rilevare empiricamente (ergo: al solo esame visivo) la patologia del minore prima del decorso di diciotto mesi e che, comunque, solo a quest'ultima età avrebbe potuto darsi seguito ad un intervento di c.d. “impianto cocleare”.

Il Giudice, fatte proprie le conclusioni dedotte nella consulenza tecnica d'ufficio, decideva la causa orientandosi al rigetto della domanda.

La questione

La problematica affrontata dal Giudice pesarese contempla, implicandole in sincrono, valutazioni di carattere tecnico-giuridico e valutazioni di carattere politico, non potendosi determinare l'emergenza di responsabilità civilistiche con uno sguardo distratto rispetto allo stato organizzativo della sanità pubblica in Italia sul tema della diagnosi neonatale della sordità congenita.

Da questa prospettiva muove il percorso argomentativo del provvedimento in commento che, prima di mettere a fuoco processi e protocolli medico-ospedalieri del caso concreto, sviluppa la pellicola di altra immagine, quella, latente e meno nitida, della regolazione normativa della diagnosi della patologia in esame.

Il pensiero fondativo dell' analisi del Giudicante è che la diligenza nell'esecuzione della prestazione ospedaliera finalizzata all'accertamento diagnostico di una patologia non deve essere valutata in astratto, considerando la migliore indagine clinica potenzialmente esperibile, ma, piuttosto, calibrata in concreto studiando i dettagli della procedura organizzativa dello screening stabilita dalla legge.

In altri termini: occorre prendere atto che la sanità pubblica è viziata da falle organizzative, espresse non solo dai casi – mediaticamente più penetranti e giuridicamente (forse) più lineari – di malpractice medica ma anche, più banalmente, da inefficienze tecniche nella strutturazione delle norme poste a presidio della salute pubblica.

La disamina che il Tribunale svolge sorprende per la sua impietosa e lucida obiettività: manca una normativa di livello nazionale che regolamenti in maniera uniforme il tema e, al contempo, la legislazione di livello regionale è poco attenta – anche nella comparazione con altre norme omologhe di altre Regioni italiane – nel concepire e strutturare livelli di adeguatezza organizzativa idonei ad assicurare efficienza ed effettività dei sistemi di screening neonatale.

Con vincoli tecnico-protocollari particolarmente laschi non può dunque configurarsi alcuna responsabilità della struttura o del medico che si sia attenuto strettamente agli stessi, non potendo altresì esigersi dagli stessi approcci diagnostici di maggiore qualità tecnica, ove normativamente non prescritti.

Le soluzioni giuridiche

Il nerbo dell'intera enunciazione del Tribunale pesarese è senza dubbio la relazione medico-legale, letta tuttavia, non autonomamente quanto al filtro di un istituto ministeriale di cui – all'epoca dei fatti di causa – il Tribunale registra la mancata attuazione con riguardo ai livelli di qualità dell'accertamento della patologia uditiva in esame.

Si tratta dei c.d. Lea, acronimo per “Livelli essenziali di assistenza”, introdotti per la prima volta dall'art. 1 d.P.C.M. 29 novembre 2001 e successivamente rimaneggiati a più riprese.

Si tratta di una sorta di disciplinare tecnico delle prestazioni minime della sanità pubblica che, ormai da quasi un ventennio, enuclea assai analiticamente le aree di intervento in relazione alle quali la Sanità pubblica si dichiara obbligata a garantire l'erogazione dei propri servizi.

Da anni l'art. 1 del Decreto che - di volta in volta - rinnova contenuti e struttura di tale documento individua tre macroaree di intervento:

a) Prevenzione collettiva e sanità pubblica;

b) Assistenza distrettuale;

c) Assistenza ospedaliera.

Nel coordinare i temi portati al proprio esame il Giudice mette in guardia, anzitutto, su un tema: lo “screening audiometrico universale” ovvero l'esame idoneo a garantire una tempestiva ed immediata diagnosi dell'ipoacusia neonatale è stato riferito ai Lea solo nel 2006 ma poi mai reso effettivamente esecutivo.

Da ciò la cogenza di assumere quale criterio discretivo per la risoluzione dei fatti di causa altro apparato normativo, individuato nella legge della Regione Marche 23 febbraio 2000, n. 11.

L'esito della causa pare giocarsi essenzialmente qui.

L'art. 2 di questa legge, infatti, fa menzione di screening audiometrici per la funzione uditiva mediante “idonea apparecchiatura”.

E allora, quale accezione semantica riferire alla nozione di “idoneità” ?

Gli esiti della CTU – condotta, rileva il Giudice, da uno dei massimi luminari della materia in Italia – evidenziano proprio la miseria concettuale di questa perimetrazione giuridica giacchè la norma non mette in luce la criteriologia da adottare per l'esame, non puntualizza le figure professionali abilitate a svolgerlo né descrive i protocolli medici da seguire per effettuarlo.

La conclusione drammatica è che si tratta – scrive l'Autorità marchigiana – di una vera e propria “norma in bianco”.

Da ciò l'assunto del Professionista incaricato, richiamato dalla sentenza, secondo cui al di là di una “lodevole intenzionalità”, la Regione Marche «non sembra aver strutturato in maniera vincolante la complessa macchina organizzativa necessaria per lo screening universale neonatale della sordità».

Il precipitato logico-giuridico di questa conclusione è intuibile: come può concepirsi una responsabilità civile per mancata adozione di una metodica e consequenziale difetto di diagnosi tempestiva in mancanza di una regimentazione dei protocolli descrittivi delle tecniche di esame per la patologia?

Certo – e il testo del provvedimento lo evidenzia più volte – la scienza e la tecnica già all'epoca dei fatti consentivano metodiche accertative della patologia ben più avanzate e capillari nella loro strutturazione protocollare di quelle effettivamente implementate nel caso concreto.

Tuttavia nessuna di esse risultava prescritta dalle norme sicchè – ed è il dato conclusivo dell'intera vicenda – la diagnosi tardiva della sordità del minore non può che essere inferita alla inefficienza del sistema pubblico regionale e locale di screening della sordità.

In questa prospettiva si comprende bene il puntiglio del Tribunale nel ricordare che – rebus sic stantibus – neanche l'uso di un macchinario diverso da quello utilizzato avrebbe potuto garantire una diagnosi tempestiva ed immediata posto che il suo stesso utilizzo va inquadrato in seno ad un sistema di accertamento medico-clinico che richiede professionalità, sistemi protocollari e accorgimenti logistici all'epoca dei fatti non obbligatori. E dunque non esigibili.

Osservazioni

La vicenda in esame induce a più riflessioni, di segno eterogeneo.

In primis – sul piano squisitamente tecnico processuale – l'intera sentenza – a contenuto robustamente descrittivo della “storia” del tema – rappresenta un utile memento circa la necessità di verificare preliminarmente – nell'ottica di invocare responsabilità medico-sanitarie in tema di diagnosi intempestiva - la riferibilità della prestazione lamentata a regole protocollari compiutamente descritte nei Lea ovvero nelle leggi regionali di riferimento, anche contestualizzando il “luogo” in cui essa sarebbe stata resa o “resa male”.

Non è un caso, infatti, che l'Estensore del provvedimento in commento abbia evidenziato la diversità del trattamento per la stessa problematica in distinte regioni italiane.

Quasi a voler significare che se la vicenda si fosse svolta altrove essa avrebbe potuto approdare ad esiti e a riflessioni di matrice diversa.

Non di secondaria rilevanza è anche altro dato, di cui il Giudice pesarese non manca di segnalare, tra le righe, la decisività ai fini della pronuncia finale.

Ci si riferisce all' incontrovertibile importanza della qualità della tecnica nomopoietica prediletta dal Legislatore, anche regionale.

Perché se è vero che – talvolta – non residuano spazi di tutela a favore del destinatario dei servizi del sistema sanitario nazionale in ragione di scelte politico-economiche di contenimento dei costi è anche vero – e questo caso lo dimostra ampiamente – che la genericità nella scelta delle parole di un testo di legge può determinare finanche un depotenziamento radicale della sua effettività.

Non è un caso – preme ribadirlo – che il Giudice richiami una “lodevole intenzionalità” della Regione Marche seccamente (e tristemente) annichilita, dipoi, da una sciatteria espressiva che – ove teoricamente neutralizzata – avrebbe potuto rendere meno labili e incerti i confini applicativi di una norma.

La lettura di questa pronuncia ispira almeno un paio di regole auree.

La prima è che il tema della diagnosi della malattia congenita neonatale non può essere sbrigativamente riferito all'esigenza di uno standard quali-quantitativo omogeneo delle indagini da effettuarsi. La sanità pubblica è infatti un sistema complesso ed articolato in cui vengono in linea di conto da un lato le regole di competenza concorrente fra Stato e Regioni di cui all'art. 117 Cost. e dall'altro le diversità operative e le sensibilità politiche delle singole legislazioni dei distretti regionali.

Con ciò dovendosi evidentemente concludere che i livelli di tutela possono anche variare in base alla singola strutturazione normativa dei livelli di accertamento di ogni fattispecie diagnostica.

La seconda, non minore, è che, evidentemente, i profili di responsabilità medica e sanitaria devono fare i conti anche con dinamiche scivolose che spesso sfuggono al diritto annidandosi, inaspettatamente, nella scarsa ponderazione – quando non superficialità tecnica - della politica che ne detta le logiche. A volte – il Tribunale marchigiano ce lo insegna bene - con una sintassi pericolosa.

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