Risarcimento del danno morale da Stalking

01 Giugno 2016

Scopo della norma di cui all'art. 612-bis c.p., introdotta con l. 23 aprile 2009, n. 38, è di sanzionare determinati episodi di minacce o molestie reiterate, prima che queste possano degenerare in condotte ancora più gravi, quali violenze sessuali o addirittura l'omicidio come nel caso esaminato. Aspetto fondamentale che si evidenzia dalla lettura della sentenza riguarda i riflessi civilistici di tale reato.
Massima

Circa il danno patrimoniale, la giurisprudenza della Suprema Corte è notoriamente rigorosa in punto di onere della prova a riguardo tanto quanto al danno emergente quanto al lucro cessante e anche in relazione a perdite di chances di vendita del cespite per effetto della condotta censurata. In particolare si esige la prova, anche presuntiva, dell'esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (Cass. 11 maggio 2010, n. 11353), onere non assolto nel caso di specie. Circa il danno non patrimoniale, non essendo nemmeno stata allegata l'esistenza di un danno biologico, va qualificato nella specie come danno morale. Tale voce di danno è risarcibile nei limiti dell'art. 2059 c.c., ossia dei casi previsti dalla legge, inclusa la legge penale qual è l'art. 612-bis c.p..

Il caso

Tizio evocava in giudizio, avanti al Tribunale di Milano, la moglie Caia per sentir accogliere, in via principale, la domanda di revoca per ingratitudine della donazione indiretta degli immobili oggetto degli atti di compravendita e così ottenerne la restituzione.

La convenuta si costituiva in giudizio, contestando nel merito la domanda avversaria e chiedendone il rigetto. In via riconvenzionale, chiedeva la condanna di Tizio al risarcimento degli ingenti pregiudizi e danni cagionati per atti persecutori commessi nei suoi confronti, per i quali aveva sporto denuncia-querela.

Il danno allegato dalla convenuta per effetto del comportamento “ingiustamente” tenuto dal coniuge Tizio nei suoi confronti, successivamente alla messa in vendita dell'immobile oggetto di contestazione nel presente giudizio, «si comporrebbe di una voce di danno patrimoniale, derivante dall'esercizio pretestuoso di azioni legali poste in essere per impedire di vendere l'immobile e che le avrebbe cagionato danni «derivanti dal mantenimento dell'immobile attualmente abitato, dai costi sostenuti per i finanziamenti e prestiti ai quali la medesima si è vista costretta a ricorrere, oltre a tutte le voci di danno connesse e derivanti da ciò», nonché di una voce di danno non patrimoniale, derivante da «una situazione di grave turbativa a danno della medesima attraverso la strumentalizzazione tanto del diritto di visita dei figli».

Alla prima udienza le difese delle parti dichiaravano che la convenuta era deceduta a seguito di un'aggressione perpetrata dall'attore e il processo veniva dichiarato interrotto.

Il processo veniva, quindi, riassunto dall'attore e dai figli minori della de cuius, in proprio e quali eredi della de cuius, contestando nel merito la domanda attorea, facendo proprie le difese della de cuiuis e chiedendo in via riconvenzionale la condanna del padre Tizio al risarcimento dei danni patiti dalla madre Caia per le condotte poste in essere «nonché al risarcimento di quelli ulteriori sopportati dai medesimi eredi».

La questione

La fattispecie di reato di atti persecutori (o stalking) e i suoi profili civilistici. Quale voce di danno è risarcibile? Quali criteri di determinazione deve seguire il giudice civile nella liquidazione del danno?

Le soluzioni giuridiche

Il delitto di atti persecutori (o stalking), introdotto dall'art. 7 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni nella l. 23 aprile 2009, n. 38, ha avuto dalla sua entrata in vigore numerosissime applicazioni giurisprudenziali.

Nel caso in esame il Tribunale di Milano, a seguito dell'inammissibilità parziale della domanda risarcitoria proposta autonomamente e tardivamente dagli eredi del de cuius, ha motivato la sentenza esclusivamente sulla pretesa risarcitoria originariamente promossa dalla convenuta iure proprio e riproposta, iure hereditatis, dai convenuti in riassunzione.

Una pretesa risarcitoria rappresentata, nello specifico, da due voci di danno: danno patrimoniale, derivante dall'esercizio pretestuoso di azioni legali poste in essere dall'attore per impedire a Caia di vendere l'immobile ovvero danni «derivanti dal mantenimento dell'immobile attualmente abitato, dai costi sostenuti per i finanziamenti e prestiti ai quali la medesima si è vista costretta a ricorrere, oltre a tutte le voci di danno connesse e derivanti da ciò», nonché di una voce di danno non patrimoniale, derivante da «una situazione di grave turbativa a danno della medesima attraverso la strumentalizzazione tanto del diritto di visita dei figli».

Quanto al danno patrimoniale, il Tribunale di Milano richiama l'orientamento consolidato della giurisprudenza della Suprema Corte, «notoriamente rigorosa in punto di onere della prova a riguardo tanto quanto al danno emergente quanto al lucro cessante, anche in relazione a perdite di chances di vendita del cespite per effetto della condotta censurata. In particolare, si esige la prova, anche presuntiva, dell'esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (Cass. 11 maggio 2010, n. 11353). Onere della prova non assolto nel caso di specie».

Discorso diverso per quanto riguarda il danno non patrimoniale, il quale viene qualificato dal Giudice come danno morale, non essendo stata allegata dalla parte convenuta l'esistenza di un danno biologico, risarcibile ex art. 2059 c.c., ossia nei limiti previsti dalla legge inclusa la legge penale quale è l'art. 612-bis c.p..

Successivamente il Giudice esamina la struttura del reato di cui all'art. 612-bis c.p. sia nella parte oggettiva, articolata sulla reiterazione delle condotte di minaccia o di molestia e sulla verificazione dei tre episodi di atti persecutori denunciati dalla vittima, sia nella parte soggettiva con particolare attenzione alle pronunce della giurisprudenza di legittimità in materia.

In merito all'elemento oggettivo del reato, il delitto di atti persecutori (o stalking), ex art. 612-bis c.p., va qualificato come fattispecie causale, «connotata da condotte alternative e da eventi disomogenei, ognuno dei quali è idoneo ad integrarla, oggetto di rigoroso e puntuale accertamento del giudice» (App. Milano, sez. V pen., dep. 13 gennaio 2012).

Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, si tratta di un «reato abituale di evento, a struttura causale e non di mera condotta» che si caratterizza, per la produzione di un evento di "danno" (consistente, appunto, nell'alterazione delle abitudini di vita, in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero, di un fondato timore per l'incolumità propria, di un prossimo congiunto o di una persona alla quale il soggetto è legato da relazione affettiva), «per la cui sussistenza, dunque, è sufficiente il verificarsi di uno degli eventi previsti» (Cass. n. 17082/2015).

Il giudice espone in motivazione che le molteplici azioni riscontrate, articolatesi tra l'aprile 2011 ed i primi mesi del 2012, «per la loro gravità e sistematicità costituiscono evento generante senza dubbio alcuno il fondato timore per l'incolumità propria della vittima e dei suoi figli». E ancora «La minaccia di un pericolo incombente è stata fortemente avvertita dalla vittima, come confermato dai testi (…), al punto di spingerla a redigere testamento già il 5 agosto 2011 (…) ed è stata percepita come tale anche da terzi, in particolare dall'avvocato difensore, dal fratello e dalle baby sitter, che l'hanno assistita in questo tentativo di difesa da una ripetizione di azioni persecutorie indipendenti e frequentemente reiterate nell'arco di molti mesi».

Per quanto riguarda, invece, l'elemento soggettivo in capo all'autore del reato, secondo il Giudice estensore non sussiste alcun dubbio essendo l'autore «persona pienamente capace, dotata di istruzione e responsabilità professionali al tempo dei fatti». Si tratta nella fattispecie concreta di dolo generico, «consistente nell'aver voluto coscientemente ogni singolo atto persecutorio sopra dimostrato e la stessa condotta risultante da tali atti nel loro complesso, avendo voluto sottoporre abitualmente la convenuta alla condotta offensiva (…)».

Non è necessaria dunque una rappresentazione anticipata del risultato finale, ovvero la coscienza dello scopo che si vuole ottenere, «essendo al contrario sufficiente la costante consapevolezza, nello sviluppo progressivo della situazione, dei precedenti attacchi e dell'apporto che ciascuno di essi arreca alla lesione dell'interesse protetto» (Cass. n. 20993/2013).

In sostanza, bastano la coscienza e la volontà delle singole condotte con la consapevolezza che ognuna di esse andrà ad aggiungersi alle precedenti formando un insieme di comportamenti offensivi (Cass. n. 29859/2015); il dolo si svilupperà dunque in "itinere" quale rappresentazione di tutti gli episodi già posti in essere, della loro frequenza e del nesso che li collega all'ulteriore apporto criminoso.

Per il Tribunale di Milano, dunque, sussistono tutti i requisiti oggettivi e soggettivi per configurare la fattispecie criminosa di atti persecutori, di cui all'art. 612-bis c.p., da parte dell'attore e a danno della vittima. Atti idonei a ingenerare nella vittima il timore fondato per la sua stessa vita e per quella dei suoi figli, così compromettendo il normale svolgimento della sua vita quotidiana.

Per la giurisprudenza costante della Suprema Corte, non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità (Cass. n. 7042/2013).

In punto di quantificazione del danno, nel caso affrontato, il Giudice si è avvalso di criteri di determinazione equitativa, facendo riferimento a dati di comune esperienza.

Al tal fine il Giudice ha tenuto conto dell'odiosità della condotta lesiva nei confronti di una persona in posizione di debolezza (la vittima ha perso il lavoro e ha dovuto in queste condizioni provvedere moralmente e materialmente ai tre figli minori), dell'intensità della condotta lesiva, della durata della condotta denunciata (protrattasi per oltre un anno), oltre alla rilevanza del clima di intimidazione creato nell'ambiente familiare dal comportamento dell'attore, dal peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare della convenuta, tenuto conto anche dell'importanza per la danneggiata di trasmettere serenità ai figli pur in un clima di ansia e di paura per la incolumità propria e degli stessi in presenza di scene non episodiche di grave violenza fisica oltre che psicologica e per l'impossibilità per la danneggiata di condividere il peso di questa responsabilità con il padre dei figli, autore della condotta.

In conclusione, il Tribunale di Milano quantifica, sulla base di criteri sopra menzionati, il danno morale subito dalla convenuta e trasmesso iure hereditatis ai figli in € 150.000,00, oltre interessi al tasso legale. Il Tribunale condanna, altresì, l'attore per la responsabilità aggravata ex art. 96, comma 1, c.p.c., sussistendo in capo allo stesso i presupposti della colpa grave. Tale danno viene quantificato nella misura non inferiore al 10% della condanna risarcitoria.

Osservazioni

Scopo della norma di cui all'art. 612-bis c.p., introdotta con l. 23 aprile 2009, n. 38, è di sanzionare determinati episodi di minacce o molestie reiterate, prima che queste possano degenerare in condotte ancora più gravi, quali violenze sessuali o addirittura l'omicidio come nel caso esaminato. Il fenomeno cosiddetto dello stalking (derivante dal verbo inglese to stalk: inseguire, pedinare, fare la posta) configura l'insieme di «comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali attenzioni e comportamenti non graditi» c.d. atti persecutori. Il quid pluris che caratterizza il reato rispetto alle minacce ed alle molestie è costituito da due elementi:

a) la reiterazione;

b) l'idoneità della condotta a cagionare un grave e perdurante stato di ansia o di paura o a ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da una relazione affettiva o a costringere lo stesso a alterare le proprie abitudini di vita.

Quando la condotta è reiterata? Secondo “una interpretazione letterale” al secondo atto di minaccia o molestia vi è già reiterazione; secondo un'altra ipotesi si parla di “reato abituale”. La locuzione “reato abituale” non si rinviene nel codice, ma è un concetto di elaborazione dottrinale che individua la ripetizione intervallata nel tempo di più condotte tra loro omogenee, le quali in sé prese possono essere penalmente irrilevanti (reato abituale proprio), oppure costituiscono già, in sé considerate, un reato diverso (reato abituale improprio). Figura tipica del reato abituale è quella dei maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli. Proprio la dottrina e la giurisprudenza relative ai maltrattamenti in famiglia hanno evidenziato, con varie connotazioni, la reiterazione come nota qualificante del reato: la condotta deve svolgersi per un apprezzabile arco di tempo, coerentemente col fine della norma incriminatrice di evitare che la vita in famiglia diventi intollerabile o penosa. Un solo atto non è sufficiente ad integrare il reato (così F. Pisano, Riflessioni critiche sul (nuovo) reato di stalking).

La dottrina penalistica, invero, non è rimasta pienamente soddisfatta della formulazione del nuovo reato, segnalando che la fattispecie, da un lato, si presenta piuttosto carente dal punto di vista della determinatezza dei presupposti del reato – prestando così il fianco al rischio di applicazioni discordanti, se non addirittura in contrasto tra loro – e, dall'altro, attribuisce eccessiva discrezionalità al giudice nella determinazione della sanzione, la cui meritevolezza si appunta su di un dato del tutto spiritualizzato, necessariamente destinato ad acquisire sfumature diverse, finanche in ragione del peculiare livello di suggestionabilità del soggetto passivo e, quindi, spesso in sé incapace di riflettere note di autentica serietà penalistica (R. Garofoli, Manuale di diritto penale, Roma, 2009, 318 ss.).

La Corte costituzionale (C. cost., 11 giugno 2014, n. 172), di recente chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale dell'art. 612-bis c.p., ha escluso che la norma incriminatrice violi il principio di determinatezza della fattispecie di cui all'art. 25, comma 2, Cost..

La questione di legittimità costituzionale dell'art. 612-bis c.p. era stata sollevata dal Tribunale ordinario di Trapani, sezione distaccata di Alcamo, con ordinanza del 24 giugno 2013: in particolare, secondo il giudice rimettente, l'impugnata norma incriminatrice, innanzitutto, non definirebbe in modo sufficientemente determinato il minimum della condotta intrusiva temporalmente necessaria e sufficiente affinché possa dirsi integrata la persecuzione penalmente rilevante; inoltre, neppure risulterebbe sufficientemente determinato cosa debba intendersi per perdurante e grave stato di ansia o di paura, così come in alcun modo definiti sarebbero i criteri per stabilire quando il timore debba considerarsi «fondato». Estremamente ampio ed eccessivamente elastico sarebbe poi il concetto di «abitudini di vita», di cui il legislatore non avrebbe perciò sufficientemente individuato i confini.

«La Consulta fa notare, innanzitutto, che la fattispecie di cui all'art. 612-bis c.p. si configura come specificazione delle condotte di minaccia o di molestia già contemplate dal codice penale, sin dalla sua originaria formulazione, agli artt. 612 e 660 c.p.. La lunga tradizione applicativa di tali fattispecie in sede giurisdizionale, da un lato, agevola l'interpretazione della disposizione in discorso e, dall'altro, offre la riprova che la descrizione legislativa corrisponde a comportamenti effettivamente riscontrabili (e riscontrati) nella realtà: la condotta di minaccia, infatti, oltre ad essere elemento costitutivo di diversi reati (si pensi, ad esempio, alla violenza privata ex art. 610 c.p., alla rapina ex art. 628 c.p. o all'estorsione ex art. 629 c.p.), è oggetto della specifica incriminazione di cui all'art. 612 c.p. e, nella tradizionale e consolidata interpretazione che ne è data, in piena adesione al significato che il termine assume nel linguaggio comune, essa consiste nella prospettazione di un male futuro; molestare significa, invece, sempre secondo il senso comune, alterare in modo fastidioso o importuno l'equilibrio psichico di una persona normale e questo è sostanzialmente il significato evocato dall'art. 660 c.p., in cui viene fatto riferimento alla molestia per definire il risultato di una condotta. Sottolinea la Corte, inoltre, che occorre tenere conto del fatto che si è ormai consolidato un “diritto vivente” che qualifica il delitto di cui all'art. 612-bis c.p. come reato abituale di evento, per la cui sussistenza occorre una condotta reiterata, idonea a causare nella vittima una delle conseguenze descritte e, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, richiede il dolo generico, il quale è integrato dalla volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime a produrre almeno uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice (ex plurimis, Cass. pen., sez. V, sent., n. 20993/2012 e n. 7544/2012): ciò confermerebbe – secondo la Consulta – quanto risulta evidente già dalla formulazione legislativa del precetto e, cioè, che il reato in questione non attenua in alcun modo la determinatezza della incriminazione rispetto alle fattispecie di molestie o di minacce, di cui costituisce una specificazione».

I principi affermati dalla Consulta nella decisione sopra esaminata, sebbene – come sopra rilevato – non siano stati del tutto condivisi dalla dottrina, sono stati pienamente recepiti dalla successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. V, sent., 6 luglio 2015, n. 28703, Cass. pen., 11 novembre 2015, n. 45184 e Cass. 27 novembre 2015, n. 47195).

Un altro aspetto fondamentale che si evidenzia dalla lettura della suesposta sentenza riguarda il reato di stalking e i suoi riflessi civilistici.

Nel caso in esame la vittima denuncia il coniuge per atti persecutori (o stalking) che si trasformano successivamente in condotte più atroci quali l'omicidio.

Il reato di stalking, ex art. 612-bis c.p., non è stato oggetto della condanna penale inflitta all'attore dal Gip presso il Tribunale di Milano, in conseguenza del reato molto più grave di omicidio volontario commesso alcuni mesi dopo la querela e dopo il radicamento del procedimento civile.

Il giudice civile, laddove non sia intervenuta una sentenza penale suscettibile di far stato ai fini civili ex artt. 651 e 652 c.p.p., investito della domanda di risarcimento del danno da reato deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità con pienezza di cognizione.

Il reato può essere accertato dal giudice civile incidenter tantum, con cognizione piena in merito alla sussistenza di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi che compongono la fattispecie criminosa e sulla base delle acquisizioni probatorie effettuate secondo le regole proprie del giudizio civile.

A tale accertamento può conseguire la condanna del soggetto agente al risarcimento dei danni recati alla parte offesa dal reato, sia di natura non patrimoniale, con riferimento ai danni non patrimoniali inerenti alla sofferenza morale avvertita ed all'eventuale alterazione delle proprie «abitudini di vita» cui questa sia stata costretta, sia di contenuto patrimoniale.

Il tribunale meneghino ha accertato incidentalmente le molteplici azioni commesse dall'attore e ritenuto, per la loro gravità e sistematicità, evento generante il fondato timore per l'incolumità propria della vittima e dei suoi figli, tali da configurare la fattispecie di reato di cui all'art. 612-bis c.p.. Il tribunale ha ravvisato, altresì, la sussistenza di un danno non patrimoniale qualificato nella specie come danno morale e quantificato in via equitativa, ex art. 2059 c.c., in euro 150.000,00, oltre alla rifusione delle spese processuali.

Pertanto, non solo è possibile esercitare l'azione risarcitoria in sede civile, anziché nel processo penale, ma una scelta di tal genere non pregiudica in alcun modo i diritti della persona offesa dal reato, poiché l'accertamento del giudice civile a tale riguardo non è soggetto a limitazioni di sorta e soggiace, anche per ciò che attiene ai mezzi di prova ed ai criteri di valutazione della prova, alle normali regole del processo civile. Detto accertamento dovrà esser condotto dal giudice civile «secondo la legge penale» (Cass. civ., 25 settembre 2009, n. 20684, in Giust. civ. Mass., 2009, 9, 1359) e dovrà avere ad oggetto quindi la sussistenza di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi che compongono la fattispecie del reato di «atti persecutori».

Come ha avuto modo di chiarire la Cassazione civile, in questo caso, l'accertamento della «sussistenza degli elementi costitutivi del reato... in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, ivi comprese eventuali cause di giustificazione» è «logicamente preliminare alla indagine sulla sussistenza in concreto (alla prova) del danno lamentato» dalla vittima del reato (Cass. civ., 11 giugno 2012, n. 9445).

La decisione del Tribunale di Milano che si è commentata è certamente un caso, non singolare, di approccio civilistico alla peculiare fattispecie di illecito in esame.

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