La diligenza esigibile dalla Pubblica Amministrazione e la responsabilità per provvedimento illegittimo

01 Dicembre 2015

La diligenza esigibile dalla Pubblica amministrazione nel compimento dei propri atti va valutata comparando la condotta tenuta nel caso concreto con quella che in teoria avrebbe tenuto nelle medesime circostanze un'amministrazione media, per tale intendendosi una Pubblica amministrazione «efficiente, zelante, solerte e che conosca ed applichi la legge».
Massima

La diligenza esigibile dalla Pubblica amministrazione nel compimento dei propri atti va valutata comparando la condotta tenuta nel caso concreto con quella che in teoria avrebbe tenuto nelle medesime circostanze un'amministrazione media, per tale intendendosi una Pubblica amministrazione «efficiente, zelante, solerte e che conosca ed applichi la legge». In questo modo, richiamando espressamente gli art. 1176, comma 2, c.c. e art. 97 Cost., la Cassazione ha tracciato il profilo dell'amministrazione virtuosa, ovvero il modello alla stregua del quale deve essere valutata la colpa della Pubblica amministrazione nello svolgimento della sua attività, compresa quella provvedimentale. Nella specie, i giudici di legittimità hanno cassato la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto non colposa la condotta di un Comune il quale, dopo aver rilasciato una concessione per costruire un immobile, aveva posto in essere una serie di interruzioni illegittime costringendo il privato a completare nel 1994 i lavori iniziati nel 1981.

Il caso

I fratelli Tizio e Caio presentavano ricorso in Cassazione avverso una sentenza di accoglimento della Corte di Appello, con la quale i giudici di secondo grado avevano ritenuto che i provvedimenti amministrativi adottati dal Comune, benché illegittimi, non fossero stati emanati con dolo e colpa, mancando così l'elemento soggettivo dell'illecito.

Il Comune aveva rilasciato ai due fratelli ricorrenti una concessione edilizia per costruire un immobile da adibire in parte ad opificio, in parte ad abitazione. I predetti avevano avviato i lavori circa un anno dopo. Negli anni successivi, il Comune stesso aveva adottato quattro provvedimenti. Con la prima ordinanza aveva annullato la concessione, ritenendola contraria al Piano regolatore. Con la seconda aveva sospeso l'efficacia della concessione per difformità dei lavori eseguiti da quelli autorizzati. Con la terza aveva dichiarato gli interessati decaduti dalla facoltà di costruire, perché i lavori non erano stati ultimati entro i termini stabiliti dalla concessione. Con la quarta aveva sospeso l'efficacia della concessione per difformità tra le opere eseguite e quelle consentite.

I quattro provvedimenti erano stati impugnati dai predetti fratelli con ricorso al giudice amministrativo, che aveva annullato l'ordinanza di decadenza e di annullamento della concessione edilizia e aveva rilevato l'inefficacia delle due ordinanze di sospensione, poiché esse non erano state seguite da provvedimenti amministrativi definitivi nel termine di 30 giorni dalla loro emanazione.

I due fratelli avevano convenuto il comune e il sindaco pro tempore dinanzi al Tribunale per richiedere il risarcimento dei danni, lamentando la tardiva conclusione dei lavori relativi all'immobile, a seguito dell'adozione dei provvedimenti illegittimi e il consequenziale danno patrimoniale subito.

Il Tribunale aveva accolto la domanda e condannato i convenuti al risarcimento. Questi ultimi avevano impugnato la sentenza dinanzi alla Corte d'Appello, che, a sua volta, aveva riformato la sentenza di primo grado, ritenendo che i provvedimenti adottati dal Comune, ancorché illegittimi, non erano stati emanati con dolo o colpa. Pertanto, non sussisteva l'elemento soggettivo dell'illecito.

A questo punto, i fratelli avevano presentato ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.

La Corte di Cassazione pronunciava una sentenza di accoglimento del terzo e quarto motivo del ricorso, cassando la sentenza e rinviando la causa alla Corte d'Appello.

La questione

La questione in esame è la seguente: il giudice ordinario può accertare la responsabilità aquiliana della P.a. derivante dall'adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, senza che l'illegittimità di questi sia stata previamente dichiarata dal giudice amministrativo? Quando la condotta della Pubblica Amministrazione e del pubblico impiegato può definirsi diligente?

Le soluzioni giuridiche

I ricorrenti sostenevano di essere titolari di un diritto soggettivo perfetto, leso dai provvedimenti comunali amministrativi illegittimi.

Essi lamentavano che la Corte d'appello aveva qualificato la situazione giuridica soggettiva di cui erano titolari come interesse legittimo, pretendendo la prova della colpa della PA ex art. 2043 c.c.. Inoltre, la Corte d'Appello con la sentenza aveva violato il giudicato, poiché non aveva considerato che i provvedimenti amministrativi di sospensione o decadenza della concessione edilizia erano stati annullati dal giudice amministrativo.

In ultimo, aveva erroneamente ritenuto che la domanda di risarcimento del danno causato dalla PA a seguito di provvedimento illegittimo presupponesse necessariamente l'accertamento dell'illegittimità da parte del giudice amministrativo.

La Cassazione riteneva infondate in parte le predette censure per le seguenti motivazioni:

  1. la diversa qualificazione può costituire al massimo un error in iudicando;
  2. la pronuncia del giudice amministrativo ha statuito sull'illegittimità dell'atto, mente la Corte d'Appello sulla sussistenza della colpa aquiliana in capo al Comune;
  3. la responsabilità della P.A., a seguito dell'adozione di un provvedimento amministrativo illegittimo è una responsabilità per colpa, non una responsabilità oggettiva, che presuppone l'onere della prova in capo al danneggiato;
  4. l'illegittimità dell'atto non comporta necessariamente la grave negligenza dell'Amministrazione;
  5. tali regole non mutano nel caso in cui il danno sia una lesione del diritto soggettivo piuttosto che di un interesse legittimo, poiché occorre dimostrare a fini risarcitori che da esso sia derivata una perdita patrimoniale o non patrimoniale;
  6. i ricorrenti avrebbero dovuto impugnare per cassazione soltanto in relazione al profilo del vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, c.p.c. e non ex art. 360, n. 3, c.p.c.;
  7. l'errore di sussunzione non può essere sanato, poiché non rileva, nel caso di specie, un inequivoco riferimento.

Riteneva fondata, invece, l'ultima censura illustrata per violazione dell'art. 2043 c.c., poiché l'annullamento dell'atto amministrativo non è un presupposto necessario, né essenziale della responsabilità provvedimentale della P.A..

Pertanto, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: «l'accertamento della responsabilità aquiliana della Pubblica Amministrazione, derivante dall'adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, non esige che l'illegittimità di questi sia stata previamente dichiarata dal giudice amministrativo», secondo il quale la Corte d'Appello deve riesaminare la sussistenza della colpa in capo al Comune.

Con il terzo e quarto motivo del ricorso i fratelli lamentavano che la sentenza impugnata fosse affetta sia da un vizio di violazione di legge ex art. 350, n. 3, c.p.c., sia da un vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, c.p.c., poiché la Corte d'Appello aveva valutato l'illegittimità degli atti amministrativi dichiarata dal Consiglio di Stato quale indice presuntivo della negligenza della P.A., escludendo che con l'ordinaria diligenza il Comune avrebbe potuto avvedersi dell'illegittimità degli stessi.

La Cassazione ha ritenuto fondati i due motivi per violazione degli art. 2043 c.c., che definisce la colpa civile quale deviazione da una regola di condotta, e art. 1176 c.c., che è una nozione che rappresenta l'inverso logico di quella della colpa.

La Corte evidenzia che occorre confrontare la condotta concretamente tenuta dalla P.A. con quella che avrebbe tenuto nelle medesime circostanze l'homo eiusdem generis et condicionis, ovvero «una PA che rispetta la legge; agisce in modo efficiente e senza inutili aggravi per i cittadini;non perde tempo, non si balocca e agisce a ragion veduta; è composta da funzionari preparati, efficienti, prudenti e zelanti.

All'uopo pronuncia il seguente secondo principio di diritto: «la diligenza esigibile dalla Pubblica Amministrazione nel compimento dei propri atti, ivi compresa l'adozione di provvedimenti amministrativi, va valutata con il criterio dettato dagli artt. 1176, comma 2, c.c., e art. 97 Cost.; ovvero comparando la condotta tenuta nel caso concreto, con quella che - idealmente - avrebbe tenuto nelle medesime circostanze un'amministrazione “media”, per tale intendendosi non già una Pubblica Amministrazione mediocre, ma una Pubblica Amministrazione efficiente, zelante, solerte e che conosca ed applichi la legge».

Osservazioni

Con il primo principio di diritto la Cassazione ribadisce la propria posizione in ordine alla cd. «pregiudiziale amministrativa», confermando la costruzione dell'azione risarcitoria, quale azione autonoma basata sull'esistenza di un danno da chiunque causato.

Il giudice ordinario può conoscere dell'illegittimità dell'atto ai fini della valutazione della responsabilità aquiliana della P.A. e dell'ingiustizia del danno, senza subordinare la propria pronuncia all'annullamento del provvedimento da parte del giudice amministrativo.

Con il secondo principio essa ha esteso l'applicazione della regola generale di valutazione della colpa, dettata dall'art. 1176, comma 2, c.c. alla Pubblica Amministrazione.

Ha definito, altresì, i caratteri che deve rivestire la condotta della stessa e del pubblico impiegato , affinché possa considerarsi diligente, delineando, così, un modello astratto di buona amministrazione.

Il parametro di riferimento per valutare il comportamento dell'Amministrazione nell'adozione di provvedimenti amministrativi come diligente, è la comparazione della condotta concretamente tenuta con quella che avrebbe tenuto nelle medesime circostanze un'Amministrazione media, ovvero tempestiva, senza aggravi peri cittadini, solerte, che conosca e applichi la legge.

Parimenti, il criterio di riferimento per definire diligente un pubblico impiegato è la comparazione dell'azione concreta dello stesso con quella che avrebbe posto in essere nelle medesime circostanze un funzionario preparato, prudente, zelante ed efficiente.

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