Liquidazione equitativa del danno derivante dal mancato inserimento nell’elenco telefonico del numero del professionista

Vincenza Di Cristofano
02 Marzo 2016

In sede di liquidazione equitativa del lucro cessante ciò che necessariamente si richiede è la prova, anche presuntiva, della sua certa esistenza, in difetto della quale non vi è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale.
Massima

In sede di liquidazione equitativa del lucro cessante ciò che necessariamente si richiede è la prova, anche presuntiva, della sua certa esistenza, in difetto della quale non vi è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale, attenendo il giudizio equitativo solo all'entità del pregiudizio medesimo in considerazione dell'impossibilità o della grande difficoltà di dimostrarne la misura.

Il caso

Un avvocato conveniva in giudizio una compagnia telefonica al fine di fare accertare l'inadempimento della stessa ed ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali.

Nello specifico, l'istante asseriva di essere titolare di un'utenza telefonica (relativa al proprio studio professionale) e che la compagnia telefonica convenuta aveva omesso di inserire, nell'anno 2002, i dati relativi alla sua utenza telefonica nell'elenco degli abbonati. La convenuta avrebbe successivamente inserito l'utenza nel detto elenco, omettendo, però, la dicitura di “Studio Legale”. Tali condotte, a detta dell'istante, gli avrebbero cagionato una serie di danni.

Il giudice di prime cure accoglieva parzialmente le domande attoree, accertando l'inadempimento della convenuta e, per l'effetto, condannando la stessa al pagamento di una somma (€ 3.500,00) a titolo di danno patrimoniale.

Avverso tale sentenza veniva proposto gravame dinanzi alla Corte d'Appello di Catanzaro che accoglieva il gravame, ritenendo la documentazione prodotta dal professionista inidonea a dimostrare il danno lamentato.

Il professionista proponeva, quindi, ricorso per Cassazione avverso la pronuncia della Corte d'Appello, affidandosi a due motivi; a tale ricorso resisteva la compagnia telefonica.

La questione

Con i motivi di impugnazione dedotti nel ricorso per Cassazione viene in rilievo la tematica della liquidazione in via equitativa del danno patrimoniale.

Nello specifico, i due motivi di censura sollevati mettono in evidenza il medesimo profilo problematico, i.e. la mancanza di prova del danno per il quale viene invocata la liquidazione equitativa del giudicante.

Pertanto il quesito giuridico cui risponde la Suprema Corte è il seguente: la liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. sopperisce alla mancata prova del danno nell'an?

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione respinge il ricorso confermando la correttezza dell'iter argomentativo seguito dalla Corte territoriale. Infatti la Suprema Corte ritiene che la Corte d'Appello abbia fatto corretta applicazione dell'ormai consolidato principio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, in sede di valutazione equitativa del lucro cessante, ciò che necessariamente si richiede è la prova, anche presuntiva, della sua certa esistenza, in mancanza della quale non vi è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale. La valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. attiene solo all'entità del pregiudizio, in considerazione dell'impossibilità o della grande difficoltà di dimostrarne la misura (Cass. civ., sez. III, sent., 11 maggio 2010, n. 11353; Cass. civ., sez. I, 29 luglio 2009, n. 17677).

Osservazioni

La pronuncia che si commenta evidenzia la tematica inerente alla liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c..

Risulta necessario, in via preliminare, chiarire il corretto ambito di applicazione di tale norma, nonché i suoi presupposti, così da poter svolgere delle brevi considerazioni sull'ormai frequente “distorsione interpretativa” della norma de qua ad opera di chi invoca il risarcimento del danno dinanzi all'autorità giurisdizionale.

L'art.1226 c.c. dispone, infatti, che «Se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa». La stessa norma rinvia all'art. 1223 per quel che riguarda il concetto di liquidazione del danno, e quindi ai principi di danno emergente e lucro cessante come criteri guida nella determinazione della somma da risarcire, mentre non definisce l'espressione "valutazione equitativa".

Giova subito chiarire che l'equità in questione viene definita “integrativa” o “correttiva”, da distinguersi dall'equità c.d. decisoria. La prima si concreta in un apprezzamento finalizzato a colmare lacune, altrimenti insuperabili, nell'iter della determinazione dell'equivalente pecuniario del danno (espressione del potere riconosciuto al giudice ex art. 115 c.p.c.), mentre l'equità “decisoria” consente, invece, al giudicante di definire una controversia non secondo diritto. La decisione del giudice non secondo diritto è suscettibile di applicazione soltanto nel caso in cui sia la stessa legge ad attribuire al giudice tale potere (art. 113 c.p.c.), ovvero quando le parti ne facciano concorde e espressa richiesta (art. 114 c.p.c.).

L'equità integrativa di cui all'art. 1226 c.c. va, quindi, ricondotta nell'alveo dell'art. 115 c.p.c. che, in materia di disponibilità delle prove, prevede che il giudice possa, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Il potere di cui all'art. 1226 c.c. non si concretizza in un giudizio di equità, bensì in un apprezzamento del giudice volto ad ovviare all'obiettiva indeterminabilità del quantum debeatur.

Il punto che differenzia l'equità integrativa da quella decisoria risiede soprattutto nel ruolo suppletivo e sussidiario che la prima svolge nel giudizio, intervenendo solo in fase di determinazione del quantum del ristoro dovuto da una parte all'altra, fermo restando che l'esistenza del danno deve essere stata già accertata. Il presupposto per la valutazione equitativa del danno è, infatti, la certezza della sussistenza dello stesso (an), ricadendo l'incertezza solo sull'entità del pregiudizio (quantum).

Ciò detto, nella fattispecie oggetto della pronuncia in esame, il professionista che ha agito nei confronti della compagnia telefonica per inadempimento aveva allegato l'inadempimento della compagnia telefonica convenuta rispetto al contratto (omesso inserimento dell'utenza nell'elenco abbonati) e il calo del fatturato quale danno patito. La Suprema Corte rileva, al riguardo, come il danno relativo al calo del fatturato non sia stato adeguatamente provato così come il nesso eziologico (che ex art. 1223 c.c. deve necessariamente sussistere) tra lo stesso e l'inadempimento della compagnia telefonica. A detta del Supremo Collegio, la Corte territoriale avrebbe affermato con motivazione congrua e logica la mancanza di prova del danno lamentato nonché della sua derivazione causale dalla condotta inadempiente. Nello specifico il preteso danneggiato avrebbe, in maniera assertiva e del tutto generica, basato la sua richiesta risarcitoria su un preteso nesso automatico tra mancato inserimento dei dati e diminuzione del fatturato, peraltro scarsamente documentato; per tale ultima circostanza, prosegue la Suprema Corte, risulta incongruo richiamare le “nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.

In conclusione, si evidenzia come la norma di cui all'art. 1226 c.c. venga erroneamente invocata dal danneggiato per supplire alla carenza probatoria del danno sofferto. In realtà, tale norma autorizza il giudicante a ricorrere ai criteri equitativi non già per la decisione del merito della controversia (an relativo al pregiudizio lamentato), bensì per supplire all'incompletezza della prova del danno risarcibile e, dunque, alle lacune probatorie inerenti al solo quantum. Ciò è però possibile soltanto quando sia certo, perché provato (anche in via presuntiva) o incontestato, il verificarsi di un pregiudizio suscettibile di risarcimento (Cass. civ, sez. I, sent., 25 febbraio 2000, n. 2148) e la sua riconducibilità eziologica alla condotta del danneggiante.

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