Danno non patrimoniale da illecito endofamiliare: applicazione “adattata” delle Tabelle milanesi

03 Maggio 2017

In caso di disgregazione del rapporto matrimoniale imputabile ad uno dei coniugi, il danno non patrimoniale patito dal consorte va liquidato prendendo come parametro di riferimento la tabella del Tribunale di Milano.
Massima

In caso di disgregazione del rapporto matrimoniale imputabile, quale fatto illecito, ad uno dei coniugi, il danno non patrimoniale patito dal consorte va liquidato prendendo come parametro di riferimento la tabella del Tribunale di Milano – relativa alla perdita del rapporto parentale a causa di morte – previa applicazione di coefficienti correttivi idonei ad adattare i valori tabellari a tale diversa fattispecie.

Il caso

Particolarmente penosa appare la vicenda affrontata dal Tribunale di Palermo nella sentenza in commento, che riguarda le vicissitudini di una donna rimasta legata per anni – nonostante i ripetuti tentativi di separazione- ad un marito violento, che la maltratta e talvolta abusa sessualmente di lei. Non solo: l'uomo calpesta la dignità della consorte violando in maniera plateale l'obbligo di fedeltà, fino al punto di far vivere in una delle residenze di famiglia la sua amante e di pretendere che la moglie faccia da serva alla coppia adulterina.

Un simile comportamento sarà oggetto di pronuncia in sede penale, dove risulteranno accertati in capo all'uomo vari reati, con riguardo agli atti di violenza sessuale e ai maltrattamenti compiuti nei confronti della moglie. La drammatica vicenda risulta, altresì, affrontata in sede civile nell'ambito del ricorso per separazione giudiziale, che si concluderà con la pronuncia di addebito in capo all'uomo, per aver costretto la moglie a subire violenze fisiche e morali, abusi sessuali, profonde umiliazioni e plateali tradimenti.

A fronte delle continue vessazioni subito nell'ambito di tale tormentato mènage, la donna lamenta di aver riportato una grave patologia di carattere psichico, tale di ripercuotersi sul versante morale ed esistenziale, in vista del grave stato di prostrazione ed abbattimento patito dalla vittima e della modificazione dei normali ritmi di vita e della propria sfera relazionale. Di qui l'azione in sede civile, volta ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale patito ad opera dell'ex-marito.

La questione

La sentenza rileva che le drammatiche vicende riguardanti il vissuto coniugale delle donna hanno trovato definitivo accertamento sia in ambito penale, tramite sentenza passata in giudicato, che in sede civile, nel giudizio di separazione personale conclusosi con l'addebito della responsabilità in capo al marito, in virtù del comportamento contrario, per diversi e gravi aspetti, ai doveri che derivano dal matrimonio: vale a dire in relazione alla ripetuta e particolarmente umiliante violazione dell'obbligo di fedeltà, alla mancata osservanza degli obblighi di collaborazione morale e materiale, nonché al venir meno del rispetto che si porta verso ogni persona umana. Si considera, pertanto, provato il comportamento antigiuridico dell'uomo, concretatosi in reiterati atti lesivi dell'integrità morale, della libertà e della dignità della moglie.

Gli interrogativi che vengono affrontati dalla sentenza appaiono fondamentalmente due.

Il primo si colloca sul piano dell'an, e riguarda l'ammissibilità di un'azione risarcitoria nei confronti del consorte che abbia violato i doveri previsti dall'art. 143 c.c. Si tratta, in particolare, di chiarire quali siano le caratteristiche che deve assumere una violazione del genere al fine di poter essere qualificata nei termini di fatto illecito rilevante ex art. 2043 c.c.

In seconda battuta, una volta sciolta in senso positivo tale questione, emerge la necessità di procedere alla quantificazione del pregiudizio, eminentemente di natura non patrimoniale, che scaturisce da tale illecito comportamento.

Le soluzioni giuridiche

Le pretese risarcitorie della donna vengono affrontate dal Tribunale nella prospettiva del danno non patrimoniale derivante da reato, sottolineandosi a tale proposito la necessità circa la prova della sussistenza di un effettivo pregiudizio. Si osserva, in ogni caso, che – in presenza di una condotta penalmente rilevante – è possibile fare ricorso ad elementi presuntivi, constatando, in particolare, come le aggressioni fisiche e morali siano suscettibili di provocare nella generalità dei casi un turbamento d'animo, più o meno intenso, valutabile nei termini di danno morale.

Per quanto riguarda il caso di specie, la comprovata condizione di sottomissione ed umiliazione in cui era stata costretta a vivere per anni viene, dalla vittima, prospettata quale causa di una grave patologia di carattere psichico, fonte di ripercussioni biologiche permanenti, nonché di compromissioni di carattere morale ed esistenziale. La richiesta relativa al ristoro del danno biologico permanente verrà tuttavia respinta dal Tribunale, poiché viene negato dalla consulenza tecnica d'ufficio che il disturbo psichico riscontrato in capo alla donna rivesta caratteristiche di persistenza e cronicità. Il Tribunale non ritiene possa essere risarcito nemmeno un danno biologico di carattere temporaneo, non essendo stata formulata dalla parte attrice alcuna specifica richiesta in tal senso.

Una volta esclusa la risarcibilità del danno biologico, la sentenza rileva essere comunque configurabile la ricorrenza di un danno morale soggettivo, considerato che «una sofferenza di tipo morale, che si origini dalla violazione di un diritto costituzionalmente tutelato o da un illecito penalmente rilevante e che non dia luogo ad una manifestazione patologica clinicamente accertabile può allora costituire senz'altro un'autonoma posta risarcitoria, senza incorrere nel rischio di non consentite duplicazioni, purché adeguatamente allegata e dimostrata anche attraverso presunzioni». Viene, dunque, considerato risarcibile il pregiudizio morale e relazionale patito dalla donna a causa del ménage coniugale altamente conflittuale, segregante ed avvilente imposto dal marito.

La sentenza ritiene poi necessario soffermarsi sulla questione riguardante la rilevanza risarcitoria della violazione dei doveri coniugali previsti dall'art. 143 c.p.: questione con riguardo alla quale viene segnalato il superamento dell'orientamento tradizionale negativo, propenso a sostenere l'esclusiva attivabilità dei rimedi tipici previsti dal diritto di famiglia. A tale proposito, si sottolinea l'avvenuto riconoscimento circa l'ammissibilità della tutela risarcitoria quale reazione agli illeciti endofamiliari da parte della stessa giurisprudenza di legittimità. In particolare, con riguardo alla violazione del dovere di fedeltà, va rammentata Cass. civ., sez. I, 1 giugno 2012, n. 8862, ove si sottolinea che sul piano risarcitorio la violazione non rileva in quanto tale, ma deve comportare l'aggressione a beni inerenti la persona umana, come la salute, la privacy e i rapporti relazionali e Cass. civ., 15 settembre 2011, n. 18853, la quale individua la ricorrenza di un fatto illecito esclusivamente ove emerga la lesione di un diritto costituzionalmente protetto, come la salute o la dignità della persona (nei medesimi termini v. Cass. civ., 17 gennaio 2012, n. 610; v., inoltre, per un caso specifico di lesione della dignità Cass. civ., ord., 28 settembre 2015, n. 19193).

Nel solco di tale orientamento si colloca anche la sentenza in commento, ove – una volta constatato che «l'obbligo di fedeltà assurge a dovere giuridico reciproco, cui corrisponde il diritto dell'altro coniuge alla correttezza e lealtà del rapporto coniugale» – si afferma che la violazione di tale dovere, ove avvenuta con modalità tali da pregiudicare i diritti fondamentali del consorte, incarna un illecito fonte di responsabilità sul piano risarcitorio. Gli estremi di una simile fattispecie vengono ravvisati ricorrere senz'altro nel caso esaminato, per cui si riconosce il ristoro di un danno non patrimoniale (scandito nelle voci del pregiudizio morale e relazionale), ritenuto esistente in via presuntiva in quanto allegato con sufficiente concretezza.

Per quanto concerne infine la liquidazione del danno non patrimoniale derivante dalla violazione dei doveri coniugali, il Tribunale osserva che la quantificazione del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti della persona diversi dalla salute sconta necessariamente un più elevato grado di approssimazione, in mancanza di criteri liquidatori uniformi. Al fine di ancorare la valutazione equitativa a indicazioni ricavabili dall'ordinamento, il Tribunale ritiene costituisca appropriato parametro di riferimento la tabella giurisprudenziale adottata dal Tribunale di Milano per il caso di perdita del rapporto parentale. Si tratta di agganciarsi a quelle indicazioni, modulandole mediante «l'applicazione di coefficienti correttivi idonei ad adattare i valori tabellari alla diversa ipotesi della disgregazione del rapporto matrimoniale attuata da uno dei coniugi, attraverso la sistematica violazione dei doveri di solidarietà, assistenza morale e materiale, fedeltà». Presa a riferimento la forbice pervista dalla tabelle milanesi, il tribunale ritiene di liquidare un importo corrispondete a poco più della metà del valore minimo ivi considerato, pervenendo alla liquidazione della somma - successivamente assoggettata a rivalutazione – di 85.000 euro. Si rammenta che in termini analoghi – sia pure con riguardo alla violazione non già del rapporto coniugale, bensì di quello genitoriale - si è pronunciato il Tribunale di Milano (Trib. Milano, sentenza 23 luglio 2014), determinando il risarcimento dovuto alla figlia abbandonata alla nascita dal padre in una somma pari a ¼ dell'importo minimo previsto dalla tabella milanese per la perdita del genitore (v., altresì, Trib. Roma 26 agosto 2014 e - per una conferma dell'utilizzabilità di tale parametro - Cass. civ., 22 luglio 2014, n. 16657).

Osservazioni

La sentenza affronta la controversa questione riguardante la violazione dei doveri coniugali quale fonte di un danno risarcibile (si rinvia, per la ricca bibliografia sul punto, a FACCI, Il danno da adulterio, in Resp. civ. prev., 2012, 1481 ss.). La tematica risulta essere affrontata dalla giurisprudenza nella prospettiva del fatto illecito (anche se non sono mancate prese di posizione dottrinali favorevoli a sancire la ricorrenza di una responsabilità contrattuale: v., in tal senso, PARADISO, Famiglia e responsabilità civile endofamiliare, in Fam. Pers. Succ., 2011, 14).

Bisogna chiarire in quali casi sia configurabile la ricorrenza di un danno ingiusto in presenza della violazione dei diritti di natura familiare correlati ad un certo rapporto, rendendosi attivabile – oltre ai rimedi propri del diritto di famiglia – la tutela aquiliana.

Talora, come fa la sentenza in commento, la giurisprudenza richiama la necessità della violazione di un diritto fondamentale; altre volte è stato evocato il superamento di una certa soglia di gravità della condotta (Cass. civ., 10 maggio 2005, n. 9801).

Entrambe le vie non sembrano, tuttavia, pienamente soddisfacenti. In una prospettiva del primo tipo si finisce per far capo a un illecito diverso e ulteriore rispetto a quello consistente nella violazione del rapporto familiare, in quanto si tratta comunque di ravvisare l'autonoma lesione di un diritto costituzionalmente protetto.

Del pari, poco appagante risulta l'orientamento che evoca il riferimento alla particolare gravità della violazione, in quanto esso apre la strada a un discutibile ingresso dei danni bagatellari in seno alla comunità familiare, delineando un'area di immunità a fronte della quale sarebbe ritenuto accettabile che lo svolgersi del rapporto possa avvenire attraverso l'inflizione di pregiudizi che il congiunto è tenuto a tollerare.

Si ritiene, allora, preferibile imboccare una terza via, mirante ad affermare che la tutela risarcitoria sarà esperibile esclusivamente laddove il comportamento del congiunto si collochi al di fuori delle dinamiche che governano usualmente le relazioni familiari. Ad essere rilevante non sarà qualunque violazione, destinata di per sé a trovare una serie di sanzioni già in seno alle regole del diritto di famiglia, ma solo quella che trascenda la logica che governa i rapporti tra congiunti. In questa prospettiva vi è chi ha intravisto un parallelismo tra la tematica in questione e quella della responsabilità sportiva, delineando in ordine ad entrambi i comparti l'esistenza di una sfera di rischio accettato (v. GAUDINO, La responsabilità civile endofamiliare, in Resp. civ. prev., 2008, 1238).

Ai fini aquiliani, si tratterà di riferirsi (non già alla gravità del comportamento del congiunto in sé considerata, né alla necessaria ricorrenza della lesione di un diritto fondamentale, bensì) alla situazione in cui la violazione degli obblighi familiari si collochi al di là di quel confine entro il quale devono essere applicate esclusivamente le “regole del gioco”.

Passando al piano del quantum, la sentenza delinea la necessità di ancorare la valutazione equitativa agli importi individuati dalle tabelle del Tribunale di Milano riguardanti il danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto coniugale a causa di morte del coniuge, applicando agli stessi dei correttivi.

Non si comprende, tuttavia, perché - una volta individuato un determinato coefficiente percentuale di riduzione, in ragione della diversità ricorrente fra le due situazioni - non si provveda a spaziare entro l'ampio range determinato dalla tabella. Ben diverse possono, in effetti, presentarsi le compromissioni derivanti dalla violazione del rapporto familiare in ragione del tipo di situazione presa in esame; sicché nel caso di specie, considerata la gravità dei comportamenti tenuti dal marito, sarebbe stato opportuno applicare il coefficiente di riduzione non già all'importo corrispondente al livello minimo previsto dalla tabella, bensì a quello più elevato.

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