Un illecito civile determina la morte non immediata della vittima: qualificazione, quantificazione e prova del “danno catastrofale”

03 Luglio 2014

In caso di illecito civile che abbia determinato la morte della vittima, il danno cosiddetto "catastrofale", conseguente alla sofferenza dalla stessa patita - a causa delle lesioni riportate - nell'assistere, nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, alla perdita della propria vita (danno diverso sia da quello cosiddetto "tanatologico", ovvero connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, sia da quello rivendicabile "iure hereditatis" dagli eredi della vittima dell'illecito, poi rivelatosi mortale, per avere il medesimo sofferto, per un considerevole lasso di tempo, una lesione della propria integrità psico-fisica costituente un autonomo danno "biologico", accertabile con valutazione medico legale) deve comunque includersi, al pari di essi, nella categoria del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., ed è autonomamente risarcibile in favore degli eredi del defunto. (Rigetta, App. Genova, 29 novembre 2011).
Massima

Cass. civ., sez. III, sent.,

21

marzo

2013 n.

7126

In caso di illecito civile che abbia determinato la morte della vittima, il danno cosiddetto "catastrofale", conseguente alla sofferenza dalla stessa patita - a causa delle lesioni riportate - nell'assistere, nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, alla perdita della propria vita (danno diverso sia da quello cosiddetto "tanatologico", ovvero connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, sia da quello rivendicabile "iure hereditatis" dagli eredi della vittima dell'illecito, poi rivelatosi mortale, per avere il medesimo sofferto, per un considerevole lasso di tempo, una lesione della propria integrità psico-fisica costituente un autonomo danno "biologico", accertabile con valutazione medico legale) deve comunque includersi, al pari di essi, nella categoria del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., ed è autonomamente risarcibile in favore degli eredi del defunto. (Rigetta, App. Genova, 29 novembre 2011).

Sintesi del fatto

Una ragazza di 16 anni, B.S., alla guida del proprio ciclomotore, veniva in collisione col motociclo condotto da A.T.. Per le lesioni riportate nell'occorso, B.S. decedeva dopo nove ore durante le quali veniva ricoverata in ospedale dove venivano effettuati alcuni esami diagnostici e un intervento chirurgico nel tentativo di evitare il decesso. I genitori e il fratello della vittima proponevano azione di risarcimento – a titolo di danni sia “iure proprio” che “iure hereditatis” – nei confronti di A.T. e di XX quale Compagnia Assicuratrice per la R.C.A. del suo motociclo. I convenuti, all'atto della costituzione, contestavano l'”an” e A.T. avanzava a sua volta domanda per il risarcimento del danno patito nell'occorso chiamando in giudizio YY quale Compagnia Assicuratrice per l'R.C.A. del ciclomotore condotto da B.S..

Il Tribunale di Massa, con sentenza n. 294/04, riconosceva la prevalente responsabilità di A.T. nella causazione del sinistro con un concorso da parte di B.S. quantificato in misura del 30%. Il giudice di primo grado condannava in solido A.T. e la Compagnia XX al risarcimento, a titolo di danno morale, di € 100.000 in favore di ciascun genitore della vittima, € 40.000 al fratello e € 300.000 in favore degli eredi a titolo di “danno biologico iure hereditatis”.

La sentenza veniva confermata in sede di gravame in tutti i suoi punti con la sola eccezione della modifica apportata dalla Corte di Appello alla qualifica della tipologia di danno risarcita iure hereditatis in riferimento alla quale così veniva statuito: “… ritiene questa Corte che la cifra liquidata nella gravata decisione globalmente agli eredi legittimi “per danno biologico jure hereditatis” debba ritenersi impropriamente indicata, a fronte del risarcimento invece spettante per il danno morale, trasmissibile dalla vittima jure hereditatis”.

La questione

In caso di illecito civile che abbia determinato la morte non immediata della vittima, quali sono le caratteristiche delineate dalla giurisprudenza di legittimità idonee al fine della risarcibilità del cosiddetto “danno catastrofale” da intendersi quale danno subito dalla vittima nell'assistere, nel lasso di tempo compreso tra l'evento e la morte, alla perdita della propria vita?

Le soluzioni giuridiche

La questione affrontata dalla Corte di Cassazione in questa decisione è stata diffusamente dibattuta in dottrina e giurisprudenza nell'ultimo ventennio.

Allo scopo di meglio delineare i tratti della sentenza in esame, riteniamo utile volgere brevemente lo sguardo allo sviluppo della tematica, quantomeno nei suo tratti essenziali.

I diversi aspetti risarcitori del danno mortale trovano un antico precedente giurisprudenziale in una decisione della Corte di Cassazione a SS.UU. (Cass. S.U., 22 dicembre 1925 n. 3475) che per prima delineò una netta distinzione tra “bene salute” e “bene vita”. Tale distinzione è stata ripresa e ulteriormente ribadita anche dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n.372del 1994 (C. cost., 23 ottobre 1994, n. 372) nei seguenti termini: “la lesione dell'integrità fisica con esito letale non può considerarsi una semplice sottoipotesi di lesione alla salute in senso proprio”. Questa costruzione giuridica è stata fatta propria dalla giurisprudenza successiva di Cassazione al fine di escludersi un risarcimento in caso di lesione del “bene vita” ammettendosi invece la risarcibilità del “bene salute” con peculiarità articolate laddove la sopravvivenza del soggetto, a seguito di incidente, non portasse alla guarigione dello stesso ma bensì al suo decesso (si vedano, tra le altre, Cass.

c

iv., sent.

27 dicembre 1994 n. 11169

, in Foro It., 1195, I, 1852;

Cass.

c

iv., sez. III, sent.

30 ottobre 1998 n. 10896
; Cass. civ., sez. III, sent. 10 settembre 1998, n. 8970).

Col solo riferimento ai danni patiti dalla vittima nel lasso di tempo intercorrente tra lesioni e decesso, la situazione giurisprudenziale di legittimità sul finire degli anni '90 portava a una situazione così sintetizzabile: in caso di morte istantanea o molto prossima (poche ore) al fatto, la risarcibilità di poste di danno in capo alla vittima trasmissibili iure hereditatis veniva esclusa essendo il lasso di tempo troppo breve al fine del consolidarsi di qualsivoglia pregiudizio valutato sotto la lente del “danno alla salute o biologico”; nei casi in cui la morte fosse sopraggiunta dopo un “apprezzabile lasso di tempo” (la valutazione del quale era rimessa al giudice di merito), la risarcibilità del danno veniva ammessa iure hereditatis con risarcibilità ammessa “limitatamente al periodo di sopravvivenza” (fra le tante, Cass.

c

iv., sez. III, sent.

14 marzo 1996

,

n. 2117

,;

Cass.

c

iv., sez. III, sent.

30 giugno 1998, n. 6404). Tra le sentenze del periodo che hanno riconosciuto il cosiddetto “danno biologico terminale” sofferto nel periodo intercorso tra il sinistro e la morte si può citare Cass.civ., sez. III, sent. 25 febbraio 1997, n. 1704: in questa sentenza viene legittimata la risarcibilità in caso di sopravvivenza protrattasi per 30 giorni avvalorando così un criterio “cronometrico” relativamente all'apprezzabilità del “lasso di tempo intercorso” tra lesioni e decesso. L'utilizzo del “criterio cronometrico” ha portato naturalmente a una certa confusione presso le corti di merito ben descritta da alcuni autori (fra gli altri, M. Bona, Il danno da perdita della vita: osservazioni a sostegno della risarcibilità, in Danno e Responsabilità, n. 6/1999).

Nei casi in cui la voce di danno sopra descritta trovava accoglimento, i criteri risarcitori valutati in sede di Cassazione registravano un orientamento prevalente volto ad ancorarne la quantificazione al concetto di inabilità temporanea (non essendosi ancora cristallizzate in invalidità permanente le lesioni che anzi porteranno al decesso della vittima) debitamente adeguata o “personalizzata” con riferimento alle condizioni e alle sofferenze realmente patite dal soggetto nell'arco temporale di sopravvivenza. Significativa in tal senso la sentenza Cass. civ., sez. III,16 maggio 2003,n. 7632 in cui – nel negare l'ingresso per intero nel patrimonio del de cuius del diritto al risarcimento del danno biologico attesa la sopravvivenza per dieci giorni – la Corte precisava che il risarcimento è da liquidarsi “in relazione alla effettiva menomazione della integrità psicofisica da lui patita per il periodo di tempo indicato (…). Se la morte è stata causata dalle lesioni, l'unico danno biologico risarcibile è quello correlato dall'inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso concepibile un danno biologico da invalidità permanente”. Altro aspetto molto importante sottolineato in questa decisione riguardava l'affermata necessità che tale liquidazione non potesse essere quantificata con “somme irrisorie”: ne conseguiva la possibilità di censurare l'esercizio del potere equitativo del giudice di merito ogni qualvolta in cui la liquidazione del danno morale potesse apparire manifestamente simbolica o per nulla correlata con le premesse di fatto in ordine alla natura ed all'entità del danno dallo stesso giudice accertate. La Corte riteneva pertanto adeguata la liquidazione effettuata in sede di Appello pari a L. 6.250.000 al giorno per un soggetto di 17 anni sopravvissuto per dieci giorni al contrario di quanto fatto dal giudice di primo grado che aveva liquidato la sola somma di L. 63.000 al giorno parametrando quindi l'inabilità temporanea al solo dato tabellare senza apportare alcun adeguamento da ritenersi necessario considerata la presumibile “intensità” della sofferenza.

In questo panorama giurisprudenziale, si iniziano a registrare anche spinte provenienti da corti di merito e volte a configurare una risarcibilità a titolo iure hereditario sulla base di un apprezzamento del “lasso di tempo” non tanto nella sua dimensione quantitativa ma piuttosto sotto la lente di un apprezzamento “qualitativo” della sofferenza ammettendone la risarcibilità anche in casi di sopravvivenza di solo poche ore (Sent. Tribunale di firenze 9 novembre 1995 citata da F. D. Busnelli, I problemi attuali del danno alla salute, in Danno e Responsabilità n. 6/1996).

Un primo segnale di mutamento di indirizzo in seno alla Corte di Cassazione è rappresentato dalla sentenza del 2 aprile 2001 n. 4783 (in Danno e Responsabilità, n. 8-9/2001 con commento di M. Bona), nella quale si inizia a scardinare il principio “cronometrico” in favore di un apprezzamento della sofferenza “esistenziale” patita dal soggetto che abbia “atteso lucidamente l'estinzione della propria vita”. Nel caso di specie la Corte cassava la decisione della Corte d'appello di Catanzaro che, sulla base dell'orientamento consolidato sopra esposto, aveva rigettato la richiesta di risarcimento del danno biologico patito dalla vittima nelle quattro ore di sopravvivenza considerando non “accurata e circostanziata” la parte di motivazione espressasi sulla sussistenza di tale danno non solo in riferimento alla durata dell'agonia ma all'intensità della stessa. La corte concludeva affermando che “le lesioni mortali, conducono, secondo la esperienza medico legale e psichiatrica, alla presenza di un danno «catastrofico», per intensità, a carico della psiche del soggetto che attende lucidamente l'estinzione della propria vita (…). Nel danno psichico non è solo il fatto durata a determinare la patologia, ma è la stessa intensità della sofferenza e della disperazione”.

Tale concetto viene in qualche modo ribadito e affinato con alcune pronunce successive (Cass.

c

iv.

, III sez., sent.

31 maggio 2005

,

n. 11601

, in Riv. It. Med. Leg., 2006, 694;

Cass.

civ., sent. 6 agosto 2007, n. 17177, in Arch. Giur. Circ., 2008, 35) in cui anche una breve agonia di poche ore viene risarcita considerato che il soggetto “abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni e patire dunque una sofferenza il cui diritto al risarcimento, sotto il profilo del danno morale, era entrato a far parte del suo patrimonio quando è sopravvenuta la morte e può dunque essere fatto valere dagli eredi”.

Si arriva così alla vera svolta in materia determinata da un paragrafo delle note sentenze quadrigemine della Corte di Cassazione a SS.UU. del 2008 (Cass. S.U., 11 novembre 2008 nn. 26972-26973-26974-26975); laddove la Corte supera definitivamente il criterio “cronologico” in favore di una valutazione maggiormente orientata al riferimento all'intensità e all'apprezzabilità, da parte della vittima, dell'agonia e della “lucida attesa della propria morte”. La Corte stabilisce che “Il giudice potrà correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione”.

Questo intervento in materia delle Sezioni Unite ha naturalmente determinato una successiva giurisprudenza che ha sotto questa nuova ottica valutato casi con sopravvivenze anche molto limitate sotto l'aspetto temporale ma con peculiarità tali da far ritenere sussistente, perché provato o presunto su basi talvolta piuttosto solide altre quantomeno discutibili, lo stato di coscienza e “lucida attesa” da parte della vittima e il conseguente “danno catastrofale” (Cass. civ., sent. 21 luglio 2009 n.16914 con decesso di persona in seguito a sinistro stradale in cui viene cassata la sentenza di secondo grado che aveva liquidato, a titolo di danno morale iure hereditario, la somma di L.5.000.000 in virtù di una sopravvivenza di quindici ore in cui la vittima era rimasta “lucida e cosciente” - secondo la Cassazione “il danno morale è stato quantificato in misura irrisoria e senza tener conto dell'effettiva consistenza delle sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso”) e Cass. civ., 8 aprile 2010, n. 8360 in cui è stato riconosciuto un danno quantificato in € 90.000 per sopravvivenza di circa mezz'ora durante la quale vi sono state richieste d'aiuto attestanti, secondo l'organo giudicante , la “lucida e cosciente” agonia della vittima).

Alla luce di quanto suesposto, passiamo all'esame della Sentenza n. 7126/2013 per la quale possiamo osservare quanto segue.

Nel valutare le doglianze esposte dai ricorrenti, la Corte di Cassazione ha qui modo di riaffermare alcuni principi suesposti, nella loro ultima evoluzione e in termini piuttosto chiari e schematici, sebbene, a parere di chi scrive, gli stessi non siano perfettamente aderenti al caso concreto e alla decisione resa dalla Corte d'Appello e sottoposta al vaglio di legittimità.

La Corte di Cassazione, nel rigettare i ricorsi, ha confermato la Sentenza della Corte di Appello di Genova n. 1189/2011 che ha a sua volta rigettato gli appelli principale e incidentale avanzati dalle parti nei confronti della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Massa (n. 294/2004). Esaminando nel dettaglio i tre motivi di ricorso principale, vediamo come questi siano tutti incentrati sulla voce di danno cosiddetta “catastrofale iure hereditatis”. La Corte di Cassazione ne ha riunito la trattazione rigettando i ricorsi nel loro complesso.

Il primo motivo di ricorso denuncia vizi di motivazione in merito alla liquidazione del “danno morale iure hereditatis”.

Relativamente a questo aspetto, la corte di Massa aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno iure hereditatis in capo ai congiunti della vittima di un incidente stradale sopravvissuta per 9 ore dopo l'incidente. Tale voce risarcitoria è stata qualificata in primo grado come “danno biologico iure hereditatis” e quantificata nella somma di € 300.000. A questo proposito la Corte d'Appello, in sede di decisione, solo ha provveduto a modificare il nome della voce di danno in quanto il breve lasso di tempo, “ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclude viceversa che la medesima (vittima) abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto al cui risarcimento, sotto il profilo del danno morale, risulta, pertanto, già entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte, e può conseguentemente essere fatto valere jure hereditatis” (App. Genova, 29 novembre 2011, n. 1189).

La Corte di Cassazione, nel legittimare questo passaggio giuridico, effettua un primo interessante passaggio in cui viene ben circoscritto e definito il “danno catastrofale” affermando “Per come e' dimostrato dal tenore della motivazione e dai precedenti di legittimità richiamati, la Corte d'Appello, a sua volta, ha così riconosciuto il risarcimento di una voce di danno indubbiamente ascrivibile alla categoria del danno non patrimoniale, che viene definito anche danno c.d. catastrofale. La nozione di quest'ultimo che risulta dall'evoluzione della giurisprudenza di questa Corte è infatti quella di danno non patrimoniale conseguente alla sofferenza patita dalla persona che, a causa delle lesioni sofferte, nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, assiste alla perdita della propria vita (cfr., da ultimo, Cass., n. 8360/2010,; Cass., n. 19133/2011). Siffatta definizione che si intende qui confermare, comporta che tale ultimo danno, per un verso, debba essere distinto dal danno c.d. tanatologico (danno connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute), il cui risarcimento non risulta essere stato mai chiesto nel corso del presente giudizio; per altro verso, si distingua - distinzione, che bene ha evidenziato la Corte d'Appello di Genova - dal danno biologico rivendicato iure hereditatis dagli eredi di colui che, sopravvissuto per un considerevole lasso di tempo ad un evento poi rivelatosi mortale, abbia, in tale periodo, sofferto una lesione della propria integrità psico-fisica autonomamente considerabile come danno biologico (cfr. Cass. n. 28423/2008,; Cass.n. 458/2009), quindi accertabile (ed accertata) con valutazione medicolegale e liquidabile alla stregua dei criteri adottati per la liquidazione del danno biologico vero e proprio. Con la precisazione che trattasi, in tutti i casi, di danni riconducibili alla più generale categoria del danno non patrimoniale, come risultante dalla ricostruzione operata dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 26972 del 2008(Cass., S.U., n. 26972/2008)”.

A parere di chi scrive, questo primo aspetto della sentenza 7126/2013 appare in linea con il principale ultimo orientamento della Cassazione nonché con la pronuncia delle Sezioni Unite del 2008 – opportunamente e doverosamente richiamata dal collegio giudicante – che chiama gli operatori, quando si analizza la sfera non patrimoniale del danno, a uno sforzo di superamento delle diverse figure risarcitorie, utili ai soli fini descrittivi, di volta in volta prese in considerazione. In questo caso, d'altro canto, il “lasso di tempo” intercorso tra lesioni e decesso risultava relativamente breve e quindi non adeguato al cristallizzarsi di un “danno biologico terminale” così come elaborato dalla giurisprudenza sopra esaminata.

Meno aderente al caso concreto appare la costruzione giuridica effettuata nella sentenza in commento con riferimento agli ulteriori due motivi di ricorso. Col secondo motivo, infatti, si sostiene da parte ricorrente che la sentenza della Corte di Appello si sarebbe limitata ad individuare “una situazione di innegabile drammaticità della vittima”, senza però fornire alcun elemento in merito alle condizioni di lucidità o meno della stessa, elemento imprescindibile, aggiungiamo noi, per una precisa individuazione della figura di “danno catastrofale”. La Corte, dopo aver preliminarmente sottolineato il vizio “di inammissibilità del motivo per non essere stato espressamente denunciato il vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n.5”, successivamente si pronuncia comunque sul punto affermando la correttezza della sentenza di appello laddove espressamente motiva in punto di “sussistenza della lucidità della vittima, che assiste allo spegnersi della propria vita” richiamandosi a atti dell'USL ed esiti di esami diagnostici effettuati nel periodo di sopravvivenza della ragazza nonché all'intervento chirurgico cui venne sottoposta. In sede di legittimità, naturalmente, non può essere effettuata una nuova lettura delle risultanze istruttorie sulle quali il giudice di merito ha fondato le proprie conclusioni di fatto e la Corte respinge quindi il ricorso.

Tuttavia, esaminata nel suo complesso la sentenza della Corte di Appello di Genova, qualche perplessità emerge con riferimento alle argomentazioni espresse sul punto nella sentenza 7126/2013. Pur risultando condivisibili le premesse in merito alla non correttezza del ricorso proposto ex art. 360 c.p.c. n. 5, ciò che non appare convincente è la motivazione espressa in riferimento alla coerenza del giudizio finale della Corte d'Appello con le risultanze raccolte in sede istruttoria. Si afferma infatti nella sentenza di Appello: “non ritiene questa Corte che possa essere escluso qualche momento di lucidità e consapevolezza, da parte di B.S., dal momento della collisione a quello della fine della sua vita. Infatti né risulta che la vittima sia deceduta sul colpo, né risulta provato che le sue condizioni siano subito risultate disperate, ma si evince dalla documentazione medica che dopo l'incidente la predetta si aggravò progressivamente, come mostrato dai risultati della seconda TAC rispetto a quelli della prima, tanto è vero che venne effettuato immediatamente un intervento chirurgico”. A parere di chi scrive tale motivazione non risulta idonea al riconoscimento della voce di danno “catastrofale” come delineata dalla Corte di Cass. S.U., n. 26972/2008 e da successive pronunce sopra menzionate. Essendo infatti il periodo di sopravvivenza molto ristretto, un corretto inquadramento del danno in questione richiederebbe quantomeno la certezza di una “lucida agonia” ancorché limitata a una frazione delle nove ore medesime. La corte di appello perviene invece a conclusioni basate non già su presunzioni ma su mere supposizioni che non trovano peraltro riscontro in altro materiale probatorio allegato dalle parti attrici.

La costruzione giuridica effettuata in sede motiva dalla Corte di Appello di Genova e confermata in sede di Cassazione, risulta ancor più censurabile, a nostro avviso, in ottica del terzo motivo di ricorso sottoposto al vaglio di legittimità laddove si valuta, questa volta sulla base di un ricorso correttamente presentato da parte ricorrente, l'idoneità della motivazione espressa in sede di decisione con riferimento alla quantificazione del “danno catastrofale”. Se è vero infatti che la liquidazione del “danno catastrofale”, per la sua stessa natura, non può che essere effettuata con modalità equitative “pure”, è altresì vero che le stesse devono tenere in debita considerazione tutte le circostanze del caso concreto nelle quali non è possibile non includere, accanto alla giovane età della vittima e alle circostanze dell'evento, anche concreti dubbi in merito alla percezione da parte della vittima stessa della propria situazione e del probabile esito mortale sia delle lesioni che dei tentativi di rianimazione effettuati. In questo caso, come già menzionato, in sede di motivazione viene utilizzato un argomento “a contrario” indicando che non si può escludere la sussistenza di momenti di lucidità, argomento che pare alquanto debole al fine della ricostruzione di uno stato di lucida agonia così come richiesto dalla giurisprudenza più recente e in particolare dalle SS.UU. del 2008. Tutto ciò rileva ancora maggiormente laddove la somma risarcita è di assoluto rilievo (€ 300.000) se parametrata agli usi e ai parametri risarcitori utilizzati all'epoca della decisione (2004). La Corte di Cassazione, al contrario, ha ritenuto la motivazione della Corte di Appello adeguata in base al seguente principio: “Sebbene la motivazione sia stringata, non per questo soltanto può essere definita inadeguata, sol che si consideri che dal tenore complessivo della motivazione risulta che il giudice di merito abbia avuto presenti, quali "modalità del fatto", la gravità delle lesioni, le cure effettuate e le sofferenze patite durante il ricovero, il periodo intercorso tra l'incidente e la morte, lo stato di coscienza in tale arco temporale di nove ore”.

Osservazioni e suggerimenti pratici

La tematica deve necessariamente essere trattata, a nostro avviso, tanto in fase di proposizione della domanda da parte del legale quanto in fase di valutazione da parte dell'organo giudicante, con il massimo rigore. Il legale dovrà aver cura di allegare ogni elemento utile che possa consentire al giudice incaricato della valutazione di un eventuale “danno catastrofale” un giudizio puntuale e concreto che, considerati gli ultimi orientamenti della giurisprudenza di Cassazione, dovrà per lo più essere orientato alla valutazione della sussistenza di effettive capacità cognitive in capo alla vittima nel periodo intercorso tra fatto lesivo e decesso. Questa valutazione dovrà essere la base anche per addivenire a una puntuale quantificazione del danno stesso che tenga altresì in debita considerazione il tempo trascorso tra incidente e decesso in quanto, a parità di percezione psichica del danno, ovviamente la quantità di tempo durante il quale la vittima ha sopportato tale situazione deve incidere sulla quantificazione finale del danno. Questa quantificazione non potrà sicuramente essere “irrisoria” ma d'altro canto non potrà non essere parametrata al tempo effettivo di durata dell'agonia.

Conclusioni

Per quanto suesposto, è possibile ipotizzare che, in futuro, sarà sempre più rigoroso l'onere della prova del “danno catastrofale” in tutte le sue diverse componenti dovendosi necessariamente restringere l'ambito di prova per presunzioni. Ciò anche in ragione della complessità e delicatezza della materia in cui pare difficile il profilarsi di ulteriori e diversi interventi giurisprudenziali, e ancor meno legislativi, che possano porre regole chiare di immediata e facile applicazione stante la drammatica varietà dei casi concreti ipotizzabili.

La sentenza 7126/2013, in conclusione, se può apparire criticabile per alcuni aspetti che ci siamo permessi di evidenziare relativi a una mancanza di coerenza tra principi di diritto esposti e situazione giuridica posta al vaglio di legittimità, ha altresì l'indubbio merito di aver delineato con una certa chiarezza espositiva i “confini” della figura del “danno catastrofale” tanto è vero che risulta già ampiamente citata e presa quale modello in diverse sentenze di merito depositate poche mesi dopo. Citiamo a questo proposito la Sentenza del Tribunale di Trento del 19 settembre 2013, in cui viene risarcito il “danno catastrofale” – quantificato in € 120.000 – per un soggetto giunto in pronto soccorso “vigile ed orientato” e rimasto tale per almeno 9 ore e solo successivamente caduto in stato di coma irreversibile, e la sentenza del Tribunale di Milano, sez. XI, del 13 giugno 2013 in cui viene risarcita tale tipologia di danno – quantificata in € 100.000 – a fronte di una sopravvivenza di 4 ore e mezza ma col soggetto che giungeva in ospedale “sveglio, con risposta vocale orientata e lamentando dolori” facendo quindi propendere l'organo giudicante per una lucidità protrattasi quantomeno per due ore e mezza.

Riteniamo utile effettuare un'ultima annotazione di stampo comparatistico sottolineando come la medesima figura di danno sia stata di recente evidenziata e risarcita anche nel sistema francese. Dopo alcune decisioni di Cassazione in cui sono stati riconosciuti risarcimenti (solitamente liquidati con somme inferiori ai 50.000€) in casi di decessi avvenuti dopo quello che potremmo definire, con espressione a noi nota, “un apprezzabile lasso di tempo”, da ultimo, con sentenza del 23 ottobre 2012 (Cass. Crim., 23 ottobre 2012, n. 11-83.770), è stato riconosciuto il danno definito da “angoscia per la morte imminente” in un caso in cui è stata provata un'agonia particolarmente lucida e travagliata (risarcimento quantificato in ca. € 50.000). La giurisprudenza francese, al fine di riconoscere tale ultima voce di danno, prevede un onere della prova molto rigoroso in capo a parte attrice.

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