Danno on line e diffamazione da file sharing

10 Agosto 2015

La presenza di immagini compromettenti di un terzo casualmente immesse in automatico nelle proprie cartelle di condivisione (e quindi pubbliche) dal programma di file sharing non costituisce diffamazione in quanto manca l'elemento soggettivo del dolo. Nell'ipotesi in cui, invece, queste immagini vengano consapevolmente e volontariamente riutilizzate per creare nuove cartelle di file sharing, atte a divulgarle e diffonderle unitamente al nome del terzo, si tratta di diffamazione aggravata in quanto è ampiamente integrato l'elemento soggettivo del dolo.
La massima

La presenza di immagini compromettenti di un terzo casualmente immesse in automatico nelle proprie cartelle di condivisione (e quindi pubbliche) dal programma di file sharing non costituisce diffamazione in quanto manca l'elemento soggettivo del dolo.

Nell'ipotesi in cui, invece, queste immagini vengano consapevolmente e volontariamente riutilizzate per creare nuove cartelle di file sharing, atte a divulgarle e diffonderle unitamente al nome del terzo, si tratta di diffamazione aggravata in quanto è ampiamente integrato l'elemento soggettivo del dolo.

Il caso

Una donna, utilizzando il programma di file sharing eMule, entra in condivisione di immagini pornografiche in cui il soggetto femminile assomiglia molto a una propria conoscente di 17 anni. Le indagini della Polizia Postale rilevano che la donna, una volta scaricate le foto da eMule, ha creato delle cartelle rubricate con il nome della diciassettenne e le ha rimesse in condivisione on line mediante eDonkey, altro programma di file sharing. Così operando, ha volontariamente diffuso le immagini compromettenti imputandole alla malcapitata ragazza. Alla diffusione si è aggiunta inoltre la “pubblicità” dell'esistenza di questo materiale on line eseguita mediante più sms inoltrati ad un'amica in cui si legge testualmente: «dobbiamo scrivere la sua storia e la mettiamo su internet tipo melissa p.». A seguito dell'istruttoria si è verificato che le foto erano state falsamente attribuite in quanto il soggetto femminile ritratto non era l'indicata diciassettenne.

Il Tribunale, come anche la Corte di Appello, non hanno avuto dubbi: si è trattato di diffamazione aggravata ex art. 595 c.p.. L'imputata ricorre in Cassazione eccependo la mancanza dell'elemento soggettivo come di solito avviene per il semplice file sharing. La Suprema Corte però rigetta il ricorso. In questo caso - osservano puntualmente gli Ermellini - la creazione di nuove cartelle di condivisione su eDonkey rinominate appositamente per imputare le immagini osée alla vittima prova chiaramente la consapevole volontà offensiva della donna (dolo) diretta a divulgare e diffondere i file lesivi.

In motivazione

«Certamente non è ravvisabile il reato di diffamazione per il solo motivo (e sulla base della sola prova) che i file siano procurati attraverso un programma di condivisione tipo eMule, essendo necessaria anche la prova di una volontà consapevole del soggetto diretta a divulgare o diffondere il file; nel caso di specie, però, tale prova è stata acquisita, giacchè (l'imputata) dopo aver completamente scaricato le immagini pornografiche in questione, le ha volontariamente inserite in cartelle contenenti i file destinati alla condivisione, perfino rinominando le immagini con specifici riferimenti alla ignara (vittima)».

La questione

La linea di demarcazione tra file sharing “buono” e file sharing “cattivo” in punto di lesioni della persona è la questione fondante della pronunzia in commento. Quali sono dunque le ipotesi in cui in concomitanza con l'uso del file sharing si perfeziona il reato di diffamazione?

Le soluzioni giuridiche

La soluzione giuridica sulla distinzione tra file sharing “buono” e file sharing “cattivo” si rileva in un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato.

Le ipotesi in cui in concomitanza con l'uso del file sharing si perfeziona il reato registrano l'esistenza di condotte umane intervenute consapevolmente sui materiali “piovuti” nelle cartelle di condivisione dell'utente. Spiega magistralmente questo orientamento degli Ermellini la Cass.pen., sez. fer., 7 agosto 2014, n. 46305 in materia di detenzione e diffusione di materiale pedopornografico a mezzo file sharing:

«non ignora la Corte la sua giurisprudenza secondo la quale, "ai fini della configurazione dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 600-ter c.p., dalla volontà di procurarsi e detenere file a contenuto pedopornografico non può ricavarsi automaticamente la presenza di un dolo diretto a diffonderli, che deve invece risultare da elementi precisi e inequivocabili tra i quali non può annoverarsi il semplice fatto che il soggetto abbia adoperato un programma di condivisione”. (…)Sussiste il dolo generico di diffondere, per via telematica, materiale pedopornografico nella condotta del navigatore in internet che (…) operi una selezione del materiale estratto per dare ad una parte di esso una specifica e personalizzata destinazione tramite la creazione di apposita cartella di condivisione; in tal caso, infatti, alle attività automaticamente compiute dal programma informatico si aggiungono operazioni di libera elezione dell'agente nella consapevole volontà di operare in ambito condiviso da altri utenti e, quindi, di contribuire anche di propria iniziativa alla diffusione di materiale pornografico minorile».

Osservazioni

I reati consumati nell'internet appartengono a condotte reali che a volte feriscono assai di più di un pugno negli occhi. In dinamiche lesive quali ad esempio la diffamazione on line o anche il cyberstalking le conseguenze dannose ricadono nella vita reale della vittima sotto forma di danno biologico (ove documentalmente provato con perizia medico-legale) e/o sotto forma di danno alla vita di relazione (provato con testimoni, con perizia sul danno psichico, con stringenti allegazioni). Il danno on line è una realtà divenuta ormai gravissima. Pensiamo agli adolescenti suicidi a causa delle condotte di cyberbullismo. Pensiamo ancora alle donne che insieme a moltitudini imprecisate di netizen si sono viste, loro malgrado, proiettate nel web dall'ex vendicativo come “amanti focose” in cerca di incontri.

Ricordiamo Cass. pen., sez. III, 1° luglio 2004, n. 28680 sulla pubblicazione e diffusione on line senza consenso dello spogliarello e dell'utenza cellulare della ex con implicazioni di stalking da terzi sconosciuti:

«con sentenza del 22 marzo 2002 la Corte d'appello di Torino ha integralmente confermato quella resa il 28 giugno 2001 dal Gip del Tribunale torinese che – procedendo col rito abbreviato – aveva condannato A.M. alla pena di quattro mesi di reclusione, con i doppi benefici di legge nonché al risarcimento dei danni a favore della parte civile avendolo riconosciuto colpevole in particolare dei seguenti reati: - art. 35, commi 2 e 3, L. n. 675/1996 [attuale art. 167 Codice privacy -Trattamento illecito dati] perché allo scopo di recarle danno ed effettivamente procurandole un nocumento – aveva diffuso su un sito Internet, senza il consenso dell'interessata, immagini di (... Tizia) tratte da una videocassetta contenente un suo “spogliarello”, pubblicando altresì il numero telefonico dell'utenza cellulare della stessa».

Da segnalare che in questo caso la ragazza avrebbe potuto richiedere un danno maggiore (le venne riconosciuto un danno di circa 2.000 euro) perché a causa dell'evento lesivo aveva subito non solo un danno morale enorme ma anche un gravissimo danno esistenziale in quanto tutta la sua vita era stata sconvolta da questo episodio. Basti pensare che di solito si trovava sotto casa degli uomini sconosciuti ad attenderla e che per questo era costretta a farsi accompagnare ovunque dai familiari che addirittura andavano a riprenderla perfino a lavoro.

Ricordiamo Cass. pen., sez. III, 15 febbraio 2005, n. 5728, per il furto di identità informativa della ex. È il caso dell'uomo che ha aperto il dominio Internet e due indirizzi di posta elettronica a nome di una donna iscrivendola poi a un sito di messaggistica erotica e di fatto eseguendo un furto di identità informativa o digitale.

Ricordiamo Cass. pen., sez. VI, 30 agosto 2010 n. 32404, che rappresenta un vero e proprio leading case per la materia del cyberstalking. In seguito ad una relazione amorosa finita con la sua ex un soggetto aveva cominciato ad inviarle, tramite Facebook, filmati, video, messaggi e foto hard che li ritraevano durante i loro rapporti sessuali. Uno di tali filmati era stato inviato anche al nuovo compagno della donna e sul posto di lavoro della malcapitata. Dopo la denuncia l'uomo finisce in carcere e in primo grado i giudici gli concedono gli arresti domiciliari.

«Questo comportamento azionato nell'Internet ha un effetto dirompente nella vita fisica della vittima che colta da un grave stato di ansia e di vergogna è costretta a dimettersi dal lavoro».

Perché queste vittime non hanno chiesto il risarcimento danni?

È vero infatti che ancora pochi sono i casi in cui, a fronte di reati così gravi, viene attivata l'azione risarcitoria. Perché la ragazza diciassettenne della sentenza in commento non ha chiesto il risarcimento danni? Vedersi ingiustamente svergognata in pubblico avrà prodotto in lei una sofferenza morale, un disagio psichico, un cambiamento delle abitudini di vita?

Inquadrare giuridicamente la posizione della parte offesa-danneggiata non è un problema. Il problema effettivo è la scarsa consapevolezza della vittima di avere diritto non solo alla riparazione morale derivante dalla condanna penale dell'offensore ma di avere anche diritto al risarcimento del danno. Si tratta dunque più di una questione culturale che di un vero e proprio problema tecnico-giuridico.

Una campagna di sensibilizzazione giuridico-culturale sul “danno on line” avrebbe due ottimi risultati: le vittime potrebbero ottenere i denari per curarsi e i carnefici avrebbero l'ulteriore deterrente dell'esborso economico a loro carico.

Guida all'approfondimento

Nell'intenzione di suggerire alcuni spunti di riflessione, sia consentito fornire qualche cenno di bibliografia. Un'ottima lettura che disegna un ampio scenario sulla cultura giuridica dell'Internet è U. Pagallo, l diritto nell'età dell'informazione. Il riposizionamento tecnologico degli ordinamenti giuridici tra complessità sociale, lotta per il potere e tutela dei diritti, Torino, 2014. Un primo approccio ai casi di danno on line alla persona si può rinvenire in D. Bianchi, Il quantum e la prova nei casi di danno da comunicazione elettronica, Internet, capitolo CV, p.2640 in (a cura di) P. Cendon, La prova e il quantum nel risarcimento del danno, tomo III, Torino, 2013. Un caso molto importante si trova in E. Falletti, Foto oscene falsamente attribuite pubblicate on line: il danno esistenziale arriva su Internet. Tribunale di Roma, 24 giugno 2005 in Diritto dell'Internet, 2006, n.1, p. 35. Sia consentito rimandare per ulteriori approfondimenti e aggiornamenti sui casi a D. Bianchi Internet e il danno alla persona. Casi e ipotesi risarcitorie", Torino, 2012; D. Bianchi Danno e Internet. Persona, impresa, Pubblica Amministrazione, Milano, 2013; D. Bianchi Difendersi da Internet, Milano, 2014.

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