Il danno morale e il danno biologico vanno distinti e liquidati separatamente

04 Gennaio 2016

Le tabelle del Tribunale di Milano, modificate nel 2009 e applicabili dai giudici di merito su tutto il territorio nazionale, non hanno cancellato il danno morale per riassorbirlo nel danno biologico, ma hanno provveduto ad una liquidazione congiunta del danno non patrimoniale derivante da lesione permanente all'integrità psicofisica e del danno non patrimoniale derivante dalla stessa lesione in termini di dolore e sofferenza soggettiva
Massima

Le tabelle del Tribunale di Milano, modificate nel 2009 e applicabili dai giudici di merito su tutto il territorio nazionale, non hanno cancellato il danno morale per riassorbirlo nel danno biologico, ma hanno provveduto ad una liquidazione congiunta del danno non patrimoniale derivante da lesione permanente all'integrità psicofisica e del danno non patrimoniale derivante dalla stessa lesione in termini di dolore e sofferenza soggettiva; che la fattispecie del danno morale, da intendersi come “voce” integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale, trova conferma e rinnovata espressione in recenti interventi normativi, quali il D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 e il D.P.R. 30 ottobre 2009, n. 181, che distinguono, concettualmente ancor prima che giuridicamente, tra la “voce” di danno biologico e la “voce” di danno morale; che da tale distinzione il giudice del merito non può prescindere, trovando essa la sua giustificazione in una fonte abilitata a produrre diritto (Cass. civ. sez. III, 12 settembre 2011 n. 18641; Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2008 n. 20191, che parimenti esclude l'applicabilità di meccanismi semplificativi di liquidazione di tipo automatico, tramite la rigida quantificazione del danno morale in una quota minore e proporzionale del danno alla salute).

Il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest'ultimo e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto normativamente stabilito dall'art. 5, lett. c), D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37, ma in ragione della differenza ontologica fra le due voci di danno, che corrispondono a due momenti essenziali della sofferenza dell'individuo: il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana (Cass. civ., sez. III, 3 ottobre 2013 n. 22585; Cass. civ.. sez. lav., 16 ottobre 2014, n. 21917).

Il caso

Tizio, alla guida della propria autovettura, si scontrava con un autocarro guidato da Mevio riportando gravissime lesioni personali. Tizo, con atto di citazione del 2002 conveniva, quindi, innanzi al Tribunale di Trieste Mevio, la Alfa s.c.a.r.l., rispettivamente conducente e proprietaria dell'autocarro, nonché la Beta s.p.a., in qualità di compagnia assicuratrice di Mevio al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti. Esperita l'istruttoria anche tramite Ctu sulla dinamica del sinistro e sulla persona dell'attore il giudice di prime cure dichiarava Mevio quale unico responsabile dell'incidente e condannava i convenuti in via solidale al pagamento della somma complessiva di euro 1.898.490,00 in favore di Tizio, di cui era stata accertata l'inabilità permanente in misura pari al 90% del totale. Proposto appello principale dai danneggiati e incidentale dalla compagnia assicuratrice, la Corte di appello di Trieste confermava la sentenza di primo grado quanto all'accertamento della responsabilità ma riducendo ad euro 1.469.364,63 la somma complessivamente spettante all'infortunato, riunendo in un'unica voce i danni biologici e i danni morali.

Avverso quest'ultima decisione Tizio ricorreva per cassazione facendo valere dieci motivi di censura. In particolare, con il primo ed il secondo motivo il ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia violato il principio per cui il risarcimento dei danni non patrimoniali deve essere integrale ed effettivo, nel capo in cui ha riassorbito il risarcimento dei danni morali nella somma attribuita all'infortunato in risarcimento del danno biologico.

Gli Ermellini, ritenuti fondati i predetti motivi, precisano che la motivazione con cui la Corte di appello aveva ridotto l'importo liquidato dal Tribunale in favore di Tizio era in parte illogica e in parte lacunosa. In particolare, i giudici di legittimità rilevano come l'esigenza di includere in un'unica somma le varie voci risarcitorie che compongono i danni non patrimoniali conseguenti all'inabilità fisica e quella di evitare duplicazioni risarcitorie, non valgono ad escludere che la somma complessivamente liquidata al danneggiato debba essere integralmente satisfattiva. Né – continuano gli Ermellini – la Corte d'appello era esonerata dal dare conto delle ragioni per cui aveva ritenuto inadeguata per eccesso la somma liquidata dal giudice di primo grado.

La Suprema Corte, perciò, accoglie il ricorso, cassa l'impugnata sentenza e rinvia alla Corte d'appello di Trieste, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

La questione

La questione in esame è la seguente: il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico è o meno ricompreso in quest'ultimo e - di conseguenza - va o meno liquidato autonomamente?

Le soluzioni giuridiche

La tematica del danno alla persona ha registrato, in tempi recenti, una compiuta sistemazione dalla quale risulta profondamente mutata la sua fisionomia. Per la risoluzione della questione prospettata, si impone una breve disamina circa la evoluzione storica della materia.

Nella fase di consolidamento e di formazione del diritto privato, per danno si intende normalmente l'alterazione negativa del patrimonio, ovvero una perdita di tipo economico.

Successivamente, alla categoria del danno patrimoniale o danno in senso proprio si contrappose quella del danno morale a seguito dell'idea che ha titolo al risarcimento non solo chi sia stato danneggiato nel patrimonio ma anche chi ha subito un pregiudizio di tipo morale. Si tratta allora di risarcire sia le conseguenze economiche del fatto lesivo sia le conseguenze che invadono la sfera psichica della vittima. All'equiparazione tra danno cagionato e danno da risarcire, che governava la disciplina del danno patrimoniale, veniva assimilata l'equiparazione ideale tra danno morale e denaro, ben espressa dalla formula del pretium doloris. Per almeno un trentennio dopo l'entrata in vigore del codice civile la nozione di danno continuava ad essere costruita, nell'esperienza giuridica italiana, intorno al dualismo tra danno patrimoniale, regolato dall'art. 2043 c.c. e danno morale, regolato dall'art. 2059 c.c.. Il risarcimento di quest'ultima forma di danno, tuttavia, può avvenire, come testualmente dispone l'art. 2059 c.c., nei soli casi espressamente previsti dalla legge e all'epoca dell'emanazione del codice civile l'unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell'art. 185 c.p., concernente il danno da reato.

Con l'avvento della Costituzione e, dunque, con l'emergere di un nuovo sistema di valori, in cui la persona umana è il bene primario che l'ordinamento giuridico deve prendere in considerazione e deve tutelare, muta la portata del concetto di danno patrimoniale e di danno non patrimoniale.

Furono sollevate numerose questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c. nella parte in cui limitava il danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge. La Corte costituzionale con la pronuncia C. cost., n. 184/1986 ha escluso l'incostituzionalità della norma de qua ed ha prescelto come opzione ermeneutica quella di non demolire l'assetto del nostro codice civile, ma di reinterpretarlo alla luce del dato costituzionale, conferendo diretta valorizzazione precettiva alle norme della Costituzione con riferimento ai rapporti interprivati. Con tale arresto giurisprudenziale si ammette al risarcimento il danno biologico, con il quale si dà rilevanza risarcitoria alla lesione della integrità psico-fisica in sé considerata, indipendentemente dalle conseguenze patrimoniali o morali che ne siano derivate. Segnatamente, la Consulta, per evitare di risarcire il danno biologico con il limite dell'art. 2059 c.c., ha specificato, da un lato, che tale ultima norma, anche se rubricata danni non patrimoniali, deve riferirsi solo ai danni morali puri da pena e sofferenza; dall'altro che il fondamento della risarcibilità del danno biologico risiede nell'art. 2043 c.c. in combinato disposto con l'art. 32 Cost.. Viene così rotto il bipolarismo tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale attraverso la tripartizione dei danni in cui il danno biologico diviene una species del danno ingiusto previsto dall'art. 2043 c.c.. Il danno biologico, pertanto, quale figura destinata a comprendere tutti i danni non incidenti sul reddito e sul patrimonio derivanti dalla lesione della salute, si riferisce alla perdita e alla compromissione delle potenziali manifestazioni della personalità del soggetto. Esse sono dunque legate , in termini dinamici, all'esplicazione della vita in tutti i suoi molteplici aspetti. Successivamente, la Suprema Corte già a partire dalle cosiddette sentenze gemelle, Cass. civ., sez. III, sent., 31 maggio 2003 n. 8827 e Cass. civ., sez. III, sent., 31 maggio 2003 n. 8828, rivede in termini innovativi il rapporto esistente tra l'art. 2059 c.c. e l'art. 185 c.p. al fine di superare gli angusti limiti che le due disposizioni pongono in tema di risarcimento del danno non patrimoniale. Muta il modo di interpretare il rinvio alla legge contenuto nell'art. 2059 c.c.; difatti, si afferma che quando siano stati lesi diritti inviolabili della persona, riconducibili all'art. 2 Cost., l'imperatività della norma costituzionale supera la mancata menzione di una espressa e testuale previsione di risarcimento del danno non patrimoniale. In altri termini, il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, configurandosi in tal modo un “caso determinato dalla legge”, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale. Conseguenza di tale modo di operare è l'inclusione del danno biologico tra i danni non patrimoniali e, dunque, la sua risarcibilità non più per effetto del collegamento tra l'art. 2043 c.c. e l'art. 32 Cost., bensì attraverso l'art. 2059 c.c..

In seguito intervengono le Sezioni Unite con le cosiddette quattro sentenze gemelle di San Martino del novembre 2008, che, con un articolato di motivazioni, affermano che il danno patrimoniale deve essere liquidato unitariamente, non potendosi distinguere tra diverse voci di danno ai sensi dell'art. 2059 c.c., se non con valenza descrittiva. Più in dettaglio, per quanto ci occupa, il supremo Collegio precisa che il danno non patrimoniale costituisce una categoria ampia e omnicomprensiva, all'interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sottocategorie, se non con valenza descrittiva. È, pertanto, scorretto e non conforme al dettato normativo pretendere di distinguere il cosiddetto danno morale soggettivo, inteso quale sofferenza psichica transeunte, dagli altri danni non patrimoniali: la sofferenza morale non è che uno dei molteplici aspetti di cui il giudice deve tener conto nella liquidazione dell'unico ed unitario danno non patrimoniale.

Tuttavia, proprio intorno al danno morale, le sezioni semplici delle Cassazione, a distanza di soli tre mesi, – v. Cass. civ., sez. III, sent., 12 dicembre 2008 n. 20191 – contraddicendo espressamente le Sezioni Unite, tornano ad affermarne l'autonomia ontologica e la necessità di un risarcimento distinto rispetto al danno biologico. Lo stesso Legislatore, con due diversi interventi normativi, mette in dubbio la costruzione delle Sezioni Unite, postulando, seppur in specifici settori, la diversità strutturale, ai fini del risarcimento, tra danno biologico e danno morale. Si tratta del D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 e il D.P.R. 30 ottobre 2009, n. 181, - peraltro richiamati nel decisum in rassegna – che distinguono, concettualmente ancor prima che giuridicamente, tra la “voce” di danno cosiddetto biologico e la “voce” di danno morale; che da tale distinzione il giudice del merito non può prescindere, trovando essa la sua giustificazione in una fonte abilitata a produrre diritto.

Più esplicitamente, in recenti arresti, la Suprema Corte ha ribadito che il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest'ultimo e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto normativamente stabilito dall'art. 5, lett. c), D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37, ma in ragione della differenza ontologica fra le due voci di danno, che corrispondono a due momenti essenziali della sofferenza dell'individuo: il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana.

Nel caso di specie, il danneggiato, diciottenne alla data del sinistro, ha riportato un grado di invalidità permanente del 90%, con marcato danno psichico, comprensivo di grave deficit alla memoria, e gravissimo pregiudizio alla funzione deambulatoria. Quindi - sottolineano i supremi giudici – trattasi di lesioni in linea di principio idonee a far ipotizzare che l'infortunato abbia risentito sofferenze e danni esclusivamente morali di notevole entità e meritevoli di un compenso aggiuntivo, rispetto a quello che gli è stato attribuito per il solo danno biologico, il quale ultimo tiene conto solo delle limitazioni collegate alla perdita del “valore d'uso” del proprio corpo.

In conclusione, pertanto, il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest'ultimo e va liquidato autonomamente.

Osservazioni

Secondo la prassi giudiziaria, in corso da oltre venti anni, nei casi di lesioni dell'integrità psicofisica il risarcimento integrale si realizza attraverso la liquidazione di due poste distinte di danno non patrimoniale: il danno biologico ed il danno morale. Sin dalla pronuncia Cass. n. 8827/2003 i giudici di legittimità hanno ritenuto opportuno distinguere tra quanto va riconosciuto a titolo di danno morale soggettivo e quanto a titolo di ristoro dei pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera sofferenza psichica, ovvero quanto deve essere liquidato a titolo di risarcimento del danno biologico in senso stretto se una lesione all'integrità psico-fisica sia riscontrata. Ancora da ultimo la Suprema Corte – Cass. civ., sez. III, sent., 12 settembre 2011 n. 18641 - pronuncia peraltro richiamata nel decisum che qui ci occupa - precisa che la fattispecie del danno morale, da intendersi come “voce” integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale, trova conferma e rinnovata espressione in recenti interventi normativi, quali il D.P.R. 3 marzo 2009 n. 37 e il D.P.R. 30 ottobre 2009, n. 181, che distinguono, concettualmente ancor prima che giuridicamente tra la “voce” di danno biologico e la “voce” di danno morale; che da tale distinzione il giudice del merito non può prescindere, trovando essa la sua giustificazione in una fonte abilitata a produrre diritto. Peraltro, la distinzione, giuridicamente rilevante, fra danno biologico e danno morale è il “diritto vivente” lapalissiano per tutti i giudici del merito e gli uffici di liquidazione: come noto, le tabelle elaborate dai tribunali prevedono tutte la concomitante corresponsione del danno biologico e del danno morale. Tuttavia – aggiungono ancora gli Ermellini nell'odierno decisumle tabelle di liquidazione offrono i parametri di base ai quali attenersi, in vista di valutazioni tendenzialmente unitarie; ma l'esigenza dell'integrale e adeguato risarcimento dei danni impedisce di attribuire loro efficacia vincolante e inderogabile ed impone di valutarne l'adeguatezza ad assicurare al danneggiato l'integrale risarcimento, tenuto conto delle peculiarità del caso.

Spetta allora al giudice valutare caso per caso ed, eventualmente, personalizzare in modo adeguato il risarcimento: la duplicazione dell'indennizzo si verifica solo quando venga liquidata due volte la stessa voce, sia pure sotto nomi diversi. E, come precisano i giudici di legittimità in una recentissima pronuncia – v. Cass. civ., sez. III, sent., 29 settembre 2015 n. 19211 – sebbene nella gran parte dei casi il ristoro venga quantificato in tutta Italia, sulla scorta delle cosiddette tabelle milanesi, questo non significa che il risarcimento possa essere determinato eccezionalmente secondo altri criteri ad personam; comunque, in tali casi il giudice che non le applica deve darne adeguata motivazione anche al fine di evitare disparità di trattamento nei diversi contesti territoriali.

De jure condendo, il Legislatore ha presentato, in data 19 febbraio 2015, un corposo disegno di Legge contenente importanti modifiche nel settore assicurativo. Per quanto qui ci occupa, questo progetto legislativo propone la modifica degli artt. 138 e 139 Cod. Ass. con conferma sostanziale degli attuali contenuti salvo introdurre una delimitazione del risarcimento massimo del danno non patrimoniale complessivo, prevedendo soglie rigide per l'eventuale personalizzazione. In presenza di una materia che resta sostanzialmente instabile sia per la continua presentazione di progetti legislativi di modifica degli assetti vigenti, sia per la ormai riconosciuta seria difficoltà del sistema nomofilattico a creare diritto vivente in questo comparto normativo, il contenzioso italiano in materia di danno alla persona continua a trovare la sua sede elettiva di composizione solo nelle aule di giustizia e non raramente esaurendo tutti i gradi di giudizio come appunto esemplificato dal caso in rassegna.

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