Onere della prova nel risarcimento del danno da demansionamento

Francesco Meiffret
05 Febbraio 2015

Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno per demansionamento deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa e che può essere fornita anche a mezzo di presunzioni relative alla natura, all'entità, alla durata del demansionamento e alle circostanze del caso concreto
Massima

Cass. Civ., Sez. Lav., sent., 21 agosto 2014 n. 18121

“Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno per demansionamento deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa e che può essere fornita anche a mezzo di presunzioni relative alla natura, all'entità, alla durata del demansionamento e alle circostanze del caso concreto”.

Sintesi del fatto

Un dirigente aveva presentato le dimissioni ritenendo di essere stato adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle per cui era stato assunto. Per questo motivo aveva deciso di ricorrere in Tribunale per ottenere il risarcimento del danno derivante dal demansionamento. Le sue richieste erano state accolte sia dal Tribunale sia dalla Corte d'Appello. Avverso quest'ultima sentenza il datore di lavoro, Ferrovie dello Stato, aveva presentato ricorso in Cassazione deducendo che il lavoratore non avesse fornito alcuna prova del danno cagionato dal demansionamento.

Tale ricostruzione del ricorrente veniva respinta dalla Suprema Corte. Infatti, oltre alla dimostrazione dell'avvenuto demansionamento, il lavoratore aveva fornito argomenti di prova dai quali era possibile dedurre l'esistenza del danno derivante dal dequalificazione.

In motivazione

«[…] diversamente da quanto osservato dalla ricorrente, la Corte di merito ha preso in esame il motivo di appello relativo al danno, rilevando che esso non conseguiva automaticamente alla avvenuta dequalificazione, ma era fondato su elementi presuntivi, tenuto conto che il F. era stato assunto, quale dirigente, per lo svolgimento di mansioni di responsabile di un'ampia struttura in Roma (servizio di call center) e per coordinare il relativo gruppo di lavoro, e che le sue aspettative erano rimaste frustrate dall'assegnazione, diversamente da quanto previsto nel contratto individuale, a mansioni inferiori, e più precisamente al servizio di "telesportello", struttura questa avente il solo scopo di raccogliere informazioni e reclami degli utenti.

Al riguardo va richiamato il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno per demansionamento deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa e che può essere fornita anche a mezzo di presunzioni relative alla natura, all'entità, alla durata del demansionamento e alle circostanze del caso concreto» (Cass. 13 maggio 2004, n. 9129; Cass. 6 dicembre 2005, n. 26666; Cass. 26 giugno 2006, n. 14729; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 17 settembre 2010, n. 19785; Cass. 23 marzo 2012, n. 4712).

La questione

La questione giuridica affrontata è se “il danno all'identità professionale sul luogo di lavoro” debba essere considerato in re ipsa, ovvero conseguenza automatica del demansionamento e, quindi, liquidabile dal Giudice in via equitativa senza la necessità che il danneggiato debba dimostrarne l'esistenza, la natura e l'entità, oppure se sia richiesta la prova in concreto.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento accoglie l'orientamento, impostosi a seguito della sentenza delle Sezioni Unite, la n. 6572 del 2006, della necessaria dimostrazione in concreto del danno da dequalificazione. Tuttavia, prima di descrivere le argomentazioni giuridiche alla base della sentenza testé indicata, è necessario effettuare un breve excursus sulla disciplina delle mansioni e sulla natura della responsabilità da demansionamento.

Le mansioni costituiscono l'oggetto della prestazione a carico del lavoratore nel contratto di lavoro. La norma cardine è l'art. 2103 c.c che disciplina il mutamento di mansioni nel corso del rapporto. Non di meno è necessario sottolineare che, l'identificazione delle mansioni ed i criteri di inquadramento dei lavoratori, sono demandati alla contrattazione collettiva.

Come anticipato, l'art. 2103 c.c. regola lo ius variandi, manifestazione del potere direttivo del datore. Dalla lettura della norma si evince come il potere di modifica unilaterale delle mansioni sia privo di vincoli solamente se mosso sull'asse orizzontale. Balza subito all'occhio dell'interprete il problema su quali parametri debba essere valutata l'equivalenza delle mansioni. L'unico previsto dalla norma è l'eguaglianza retributiva. Tuttavia, secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, bisogna inoltre valutare se, le nuove mansioni impartite al lavoratore, permettano l'utilizzo e l'ampliamento del proprio “bagaglio professionale” (v. Cass. S.U., 24 novembre 2006, n. 25033).

Le condizioni per modificare le mansioni originarie sull'asse verticale sono piuttosto rigide. Per quanto riguarda la c.d. “mobilità verso il basso”, il comma 2 dell'art. 2013 c.c. dispone la nullità di qualsiasi patto contrario. In realtà la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile il demansionamento del lavoratore qualora costituisca l'unico modo per salvaguardare il posto di lavoro. In questo caso prevale, dunque, il mantenimento del posto di lavoro rispetto alla tutela della professionalità.

Un'ultima, e non per importanza, possibilità di ius variandi è stata disciplinata recentemente dal Legislatore con l'art. 8 del d.l. 138/2011 convertito in L. 148/2011 che prevede che, i contratti collettivi di lavoro, aziendali o territoriali, sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda, possano realizzare specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro nero. Per la prima volta si permette che gli accordi, purché con le finalità e i requisiti di rappresentatività testé descritti, possano derogare in peius norme indisponibili, proprio come l'art. 2103 c.c.. Ciò significa che tali accordi, definiti di prossimità, possono prevedere ulteriori casi in cui il lavoratore può essere demansionato.

Per quanto riguarda la mobilità verso l'alto, l'art. 2013 c.c. sancisce che, il lavoratore, adibito a mansioni superiori, abbia diritto alla relativa retribuzione. Inoltre, prevede che l'assegnazione diventi definitiva decorsi tre mesi dal mutamento o quell'altro termine inferiore previsto dai contratti di lavoro. L'unica eccezione alla promozione automatica sussiste nel caso in cui l'assegnazione a mansioni superiori sia stata necessaria per sostituire un lavoratore con diritto alla conservazione del posto.

Al di fuori di questi casi, il lavoratore può rifiutarsi di adempiere mansioni diverse rispetto a quelle per le quali è stato assunto utilizzando l'eccezione d'inadempimento ex art.1460 c.c. con conservazione del diritto a percepire la retribuzione e al mantenimento del posto di lavoro. Ovviamente è necessario che il lavoratore manifesti la propria disponibilità ad eseguire le mansioni contrattualmente stabilite.

La possibilità di sollevare l'eccezione d'inadempimento preannuncia come l'orientamento predominante della giurisprudenza, consolidato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 6572 del 2006, sia di inquadrare la responsabilità da demansionamento in quella contrattuale.

La dequalificazione costituisce un inadempimento contrattuale da parte del datore basato sulla violazione dell'art. 2103 c.c. che prevede come sanzione il pagamento della retribuzione prevista per lo svolgimento delle mansioni per il quale il lavoratore è staro assunto. Qualora il lavoratore voglia ottenere un ulteriore risarcimento per violazione dell'art. 2087 c.c. (obbligo del datore di lavoro di tutelare la salute fisica e l'integrità morale del lavoratore), dovrà dimostrare l'esistenza del danno. L'inadempimento datoriale è qualcosa di diverso rispetto al danno: a dimostrazione di quanto sostenuto è necessario richiamare l'art. 1223 c.c. che consente di risarcire il danno non ogniqualvolta vi sia inadempimento, ma soltanto nel caso in cui da questo derivi un danno che sia conseguenza immediata e diretta. Un'interpretazione diversa, secondo le Sezioni Unite, creerebbe un varco dal quale potrebbe fare ingresso il concetto di "danno punitivo". Infatti, il principio cardine del nostro sistema risarcitorio è ristorare il danneggiato dal pregiudizio subito. Nel caso in cui non sussista una diminuzione patrimoniale a seguito dell'illecito civile, o sotto forma di perdita o di mancato guadagno, non vi deve essere risarcimento. In caso contrario non vi sarebbe un ripristino della situazione economica antecedente all'evento, bensì un arricchimento del danneggiato.

Appurato l'obbligo per il lavoratore di dimostrare l'esistenza del danno, occorre brevemente descrivere che cosa sia il danno da demansionamento per poi evidenziare quali siano gli elementi idonei a dimostrare il danno subito.

La locuzione "danno da demansionamento" costituisce una macrocategoria all'interno della quale sono riconducibili varie voci di danno. Oltre al danno da mancata retribuzione e da perdita di chanche, il demansionamento può essere causa di un danno non patrimoniale a sua volta suddivisibile nel danno biologico, nel danno all'immagine e nel danno esistenziale. Ad esclusione del danno biologico, per il quale è possibile, dal punto di vista medico, dimostrare una lesione psicofisica, le Sezioni Unite sottolineano come, il danno all'immagine e quello esistenziale, trattandosi di beni immateriali, possano essere dimostrati anche tramite presunzioni. Pertanto i fatti noti che il lavoratore deve allegare, e dai quali il Giudice potrà desumere l'esistenza di tali voci di danno, sono la durata e la gravità del demansionamento, la conoscibilità di quest'ultimo da parte di terzi, la frustrazione delle aspettative di uno sviluppo della propria carriera, l'alterazione degli assetti relazionali e l'induzione a scelte di vita diverse. Ovviamente il lavoratore dovrà inoltre dimostrare il nesso di causalità con l'inadempimento.

Osservazioni e suggerimenti pratici dell'Autore

La breve ricostruzione dello “stato dell'arte” della giurisprudenza è probabile che possa essere a breve superata. In primo luogo dal descritto art. 8 del d.l. n. 138 del 2011 che permette ai contratti di prossimità di derogare alla legge. Al momento l'utilizzo di tale prerogativa è stato formalmente paralizzato dall'accordo interconfederale del 28 giugno 2011. L'espressione formale è quanto mai opportuna perché in questi anni vi sono stati vari episodi di accordi tra le associazioni di categoria basati sull'art.8.

In secondo luogo l'intera disciplina del mutamento delle mansioni rientra nell'oggetto della legge delega del c.d. “Jobs act” (legge delega 183/2014): l'art. 1 comma 7 lett. e) lascia aperta l'ipotesi per il Legislatore delegato di prevedere il demansionamento del lavoratore in casi specifici di riorganizzazione, ristrutturazione e conversione aziendale. Resta da capire se tale possibilità verrà consentita solo nei casi in cui il demansionamento costituisca l'unica alternativa al licenziamento, normativizzando l'orientamento giurisprudenziale consolidatosi in questi anni, oppure, ipotesi più probabile e ispirata da qualche isolata pronuncia della Cassazione (v. Cass. 12 luglio 2002, n. 10187), anche nel caso in cui le esigenze aziendali richiedano di adibire il lavoratore a mansioni inferiori.

Inoltre, nell'attuare la delega è possibile stabilire che, i contratti collettivi, anche aziendali ovvero di secondo livello, stipulati con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria, possano concordare ulteriori ipotesi derogatorie. Quest'ultima ipotesi non costituisce una novità considerato che lo stesso scopo è perseguibile mediante l'applicazione del più volte citato art. 8 d.l. n. 138, convertito in legge 148 del 2011.

Quanto sopra descritto sul “Jobs act” costituisce solamente un'ipotesi di attuazione della delega, la quale, sul tema dello ius variandi, è stata scritta in maniera generica, in modo da permettere al Legislatore delegato di poter trovare un punto d'incontro tra le varie forze politiche nel decreto attuativo al momento non ancora promulgato.

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