Il risarcimento del danno da infondata denuncia: la responsabilità è limitata ai soli casi di calunnia

Donatella Salari
05 Novembre 2015

La denuncia di un reato perseguibile d'ufficio non è fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, ai sensi dell'art. 2043 c.c., anche in caso di proscioglimento o di assoluzione, se non quando essa possa considerarsi calunniosa.
Massima

La denuncia di un reato perseguibile d'ufficio non è fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, ai sensi dell'art. 2043 c.c., anche in caso di proscioglimento o di assoluzione, se non quando essa possa considerarsi calunniosa.

Il caso

La vicenda risarcitoria trae la sua origine da una denuncia nei confronti dell'odierno ricorrente – rivelatisi poi infondata – diretta all'autorità giudiziaria ad opera di due funzionari di una banca e riguardante l'acquisto, ad opera del ricorrente medesimo, di un certificato di deposito per € 105.000.000 con denaro contante versato, subito dopo essere stato, lo stesso ricorrente, avvistato nella sede della banca, mentre si aggirava in compagnia di altro soggetto protagonista di precedenti truffe per ingenti somme di denaro in danno della stessa banca. La Corte, riaffermata la giurisprudenza precedente in termini di esclusione di responsabilità aquiliana per denunce non calunniose, ha rigettato il ricorso.

La questione

La questione affrontata dalla Cassazione riguarda la configurabilità di conseguenze risarcitorie legate al profilo eventualmente diffamatorio di un denuncia.

Le soluzioni giuridiche

La decisione appare in linea con la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione che ha sempre ritenuto che la denuncia di un reato perseguibile d'ufficio, laddove l'accertamento del giudice penale esiti in una statuizione di proscioglimento o assoluzione, non possa dar luogo a responsabilità per danni a carico del denunciante ex art. 2043 c.c., salvo il carattere calunnioso della denuncia stessa. In sostanza, fuori dal caso di calunnia che esige, oltre alla volontà dell'incolpazione, anche l'elemento psicologico della consapevolezza circa l'innocenza della persona incolpata, la denuncia sporta non sarà fonte di risarcimento dovendosi escludere la rilevanza della colpa, anche grave, considerato che il reato di calunnia è punito solo a titolo di dolo. Ne consegue che non può ritenersi, fonte di responsabilità aquiliana, neanche la semplice proposizione di una denuncia sporta senza la minima diligenza, ovvero in maniera poco ponderata anche nel caso di ingiusta lesione di un valore alla persona costituzionalmente garantito, ovvero previsto dalla legge interna o comunitaria (art. 2059 c.c.) con conseguente risarcimento del danno non patrimoniale, salvo, comunque, ravvisare un'ipotesi di diffamazione, come ipotizzato con un obiter sull'infondata critica alla ratio decidendi della sentenza impugnata.

La giurisprudenza di legittimità, sul punto, giustifica una simile limitazione di responsabilità con il rilievo che l'attività pubblicistica dell'organo titolare dell'azione penale si sovrappone, in questi casi, all'iniziativa del denunciante, interrompendo così ogni nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato (Cass.n. 6554/2014; Cass. 26 gennaio 2010, n. 1542; Cass. n. 22020/2007; Cass. n. 21498/2005; Cass.n. 10033/2004; Cass. n. 15646/2003). Ciò significa che la denuncia, l'esposto o la querela non costituiscono fonte di responsabilità e di risarcimento del danno, non solo per la necessaria correlazione della denuncia stessa all'ipotesi della calunnia, con tutte le conseguenze in termini di volontà dolosa dell'autore con conseguente onere del danneggiato di dimostrare tutti i presupposti dell'illecito addebitato al convenuto, cioè non solo la materialità delle accuse, ma anche la consapevolezza della loro falsità e infondatezza ( v. Cass., n. 300/2012), ma anche in termini di politica giudiziaria perché la calunnia ovvero l'autocalunnia, nonché la simulazione di reato (Cass. pen., 11 giugno 2010, n. 29237) che pure consentono la limitazione di responsabilità in esame costituiscono fattispecie di reato plurioffensivo, ossia fattispecie di rilevanza penale attraverso le quali l'ordinamento tutela sia la l'amministrazione della giustizia, sia il diritto alla reputazione e all'onore dell'incolpato e la sua stessa libertà (Cass. pen., n. 21789/2010; Cass., n. 10535/2007). Ne consegue che solo apparentemente tale limitazione di responsabilità sembrerebbe ledere una sicura tutela - comprensiva anche del danno morale - dei diritti della personalità di rango costituzionale al di fuori dell'ambito dell'art. 185 c.p..

Il principio è stato ritenuto applicabile anche agli esposti diretti ad organi amministrativi sulla base del loro obbligo di riferirne comunque all'Autorità Giudiziaria, a norma dell'art. 368 c.p..

Dunque potrebbe non essere fonte di responsabilità aquiliana anche la denuncia o la querela, o l'istanza, o la richiesta diretta ad autorità diversa da quella giudiziaria, con la conseguenza (art. 361 c.p. e art. 331 c.p.p) che anche l'esposto calunnioso, presentato al Consiglio dell'Ordine degli avvocati può escludere la responsabilità extracontrattuale dell'autore secondo il principio dell'interruzione del nesso causale da parte dell'organo titolare dell'azione penale, salvo il carattere calunnioso dell'iniziativa del denunciante – esponente (Cass. n. 560/2005).

La sentenza in commento abborda, come detto, sia pure in riferimento concreto al caso scrutinato – la possibile rilevanza dell'elemento psicologico della colpa in un'ipotesi diffamatoria (nel caso di specie sul c.d. “interpello formale” di cui al pregresso procedimento penale) (cfr Cass. 10285/2015) che certamente rileva nell'ipotesi diversa della diffamazione.

In tal caso la motivazione della sentenza lascia emergere l'apertura verso la configurabilità di conseguenze risarcitorie legate al profilo semplicemente diffamatorio della denuncia, ove tale iniziativa così qualificata abbia causato un danno ingiusto, in ossequio al principio consolidato in giurisprudenza di legittimità che la diffamazione dolosa in campo penale può essere meramente colposa in campo civile, anche laddove la semplice colpa non sia ancora prova del pregiudizio alla reputazione che l'offeso abbia subito perchè: «.. .Ove il fatto illegittimo abbia dato luogo ad una lesione della reputazione personale (intesa come reputazione che il soggetto gode come persona umana, tra gli altri consociati; altrimenti detta, più propriamente, onore e prestigio), la quale va valutata in abstracto, cioè con riferimento al contenuto della reputazione quale si è formata nella comune coscienza sociale di un determinato momento e non quam suis, e cioè alla considerazione che ciascuno ha della sua reputazione ("amor proprio"), una volta provata detta lesione, il danno è in re ipsa, in quanto si realizza una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o dalla privazione di un valore (per quanto non patrimoniale)della persona umana alla quale il risarcimento deve essere commisurato (C. cost. n. 372/1994), sia pure in tema di danno biologico. Varia pertanto l'estensione degli oneri probatori a seconda che si versi in ipotesi di lesione di reputazione personale o di reputazione professionale, ma, in entrambi i casi non è sufficiente la prova del "fatto altrui" (dichiarazione non veritiera o offensiva)per ritenersi provato anche l'evento lesivo subito dal danneggiato.. ( Cass. n. 6507/2001, in un caso di comunicazione da parte di un terzo al datore di lavoro di notizie sul dipendente non veritiere e offensive

In sostanza può dirsi che la Suprema Corte attui in queste motivazioni quel conflitto tra interessi individuali e generali che secondo Jhering attribuiscono al diritto quella composizione di finalità divergenti ben rappresentata dall'evoluzione della dimensione sociologica del diritto medesimo. Diversamente, sorge concreto il rischio che il timore di una responsabilità futura per le proprie dichiarazioni freni il senso civico di chi voglia investire la Pubblica Autorità di una notizia di possibile rilevanza penale della quale sia venuta a conoscenza. Ogni denuncia peraltro, concretando una "notitia criminis" (qualificata), si realizza necessariamente nell'attribuzione a taluno di un reato. Ne consegue che, allora, diviene estremamente difficile investire le Pubbliche Autorità di un fatto penalmente rilevante senza riferire a qualcuno una condotta potenzialmente non commendevole, salvo indagare ex art. 41 c.p. sulla equivalenza delle cause, accertando di volta in volta il nesso causale tra denuncia infondata e ipotesi accusatoria ( Cfr. Cass. n. 18266/2014 che ha ritenuto assorbito questo motivo d'impugnazione nell'esclusione del carattere calunnioso della denuncia).

Osservazioni

La questione ha una sua attualità in relazione al moltiplicarsi delle denunce in materia di responsabilità medica tutte le volte che emerga un uso distorto degli strumenti risarcitorio– assicurativi rispetto alla reputazione professionale della classe medica laddove la denuncia prodromica alle iniziative risarcitorie si riveli temeraria causando un danno ulteriore rispetto a quello sanzionabile in sede processuale civile attraverso la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.., problema che rimane con tutte le sue implicazioni anche sul piano dei costi sociali degli strumenti assicurativi, pur dopo la legge c.d. Balduzzi del 2012, che ha tentato di alleggerire gli oneri probatori della classe medica stabilendo, attraverso l'accentuazione del carattere aquiliano della responsabilità medica, che non è più il sanitario a dover provare l'adeguatezza della propria condotta professionale, ma è il paziente che deve provare la colpa del medico.

Insomma, a fronte di una tematica così complessa occorrerebbe approfondire l'ipotesi del dolo eventuale in qualche improvvida iniziativa (ai fini della configurabilità della calunnia) ovvero il fatto colposo, quanto meno nell'ipotesi di colpa grave come mancanza di diligenza minima in denunce di stampo diffamatorio, fermo restando la dimostrazione ex art. 2697 c.c. tra la condotta ascritta all'autore e il pregiudizio di un interesse meritevole di tutela che ha determinato quelle conseguenze immediate e dirette che ne scaturiscono secondo la categoria del danno conseguenza ex art. 1223 c.c. che si estende, a sua volta, attraverso il mancato richiamo all'art. 1225 c.c. da parte dell'art. 2056 c.c. anche alle conseguenze imprevedibili al momento della commissione del fatto.

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