La prova del danno da occupazione abusiva di immobili

08 Gennaio 2016

La perduta disponibilità di un immobile non costituisce un danno in re ipsa, nel senso che, provata l'occupazione abusiva, non può dirsi per ciò solo provata l'esistenza di un danno risarcibile. Tale danno può tuttavia essere dimostrato ricorrendo a presunzioni semplici e può consistere anche nell'utilità teorica che il danneggiato avrebbe potuto ritrarre dall'uso diretto del bene.
Massima

La perduta disponibilità di un immobile non costituisce un danno in re ipsa, nel senso che, provata l'occupazione abusiva, non può dirsi per ciò solo provata l'esistenza di un danno risarcibile. Tale danno può tuttavia essere dimostrato ricorrendo a presunzioni semplici e può consistere anche nell'utilità teorica che il danneggiato avrebbe potuto ritrarre dall'uso diretto del bene, durante il tempo per il quale è stato occupato da altri.

Il caso

Tizia convenne in giudizio Caio e Caia per sentirli condannare a titolo di responsabilità extracontrattuale al risarcimento del danno da questi ultimi causatole per non aver rilasciato un fondo di sua proprietà, fondo occupato illegittimamente da Caio e Caia nonostante questi ultimi fossero stati condannati al rilascio di tale fondo con sentenza passata in giudicato.

La domanda fu accolta in prime cure, con sentenza tuttavia integralmente riformata in secondo grado, avendo la Corte d'appello ritenuto che Tizia non avesse né allegato né provato la sussistenza di un danno risarcibile.

Tizia ha quindi proposto ricorso per cassazione prospettando il vizio di violazione di legge e, segnatamente, degli artt. 1226, 2043 e 2056 c.c. per non avere il giudice di secondo grado considerato la natura di danno in re ipsa del danno da occupazione illegittima di un immobile, danno per la cui liquidazione in via equitativa ella aveva peraltro fornito idonei elementi indicativi e che poteva comunque essere stimato facendo ricorso al criterio del c.d. danno figurativo.

La Corte di cassazione ha accolto il ricorso, sul presupposto che il giudice del gravame, pur avendo correttamente escluso la configurabilità nella specie di un danno in re ipsa, avesse malgovernato il principio di cui all'art. 1226 c.c. laddove ha escluso la ricorrenza di un'idonea allegazione e prova del danno sulla base dell'erroneo assunto che un immobile non possa avere altro uso che la vendita o la locazione.

In motivazione:

- il danno da occupazione abusiva di un immobile non può ritenersi sussistente in re ipsa, in quanto non può dirsi coincidente con il mero fatto dell'occupazione;

- l'occupazione non integra infatti il danno prodotto dalla condotta antigiuridica, ma costituisce anzi proprio (e solo) la condotta eventualmente produttiva di tale danno;

- il preteso danneggiato è dunque onerato della prova della concreta lesione arrecata al proprio patrimonio da tale condotta, ossia della dimostrazione di non aver potuto effettivamente potuto godere del bene illegittimamente occupato (ad esempio dandolo in locazione, utilizzandolo direttamente, trasferendolo a terzi e così via);

- il sopra delineato onere probatorio può essere assolto anche ricorrendo alle presunzioni semplici, non sussistendo alcuna implicazione necessaria tra il negare l'ammissibilità di danni in re ipsa ed il negare il ricorso alla prova presuntiva.

La questione

La sentenza in commento esamina la questione di diritto relativa alle modalità di accertamento e di stima del danno da occupazione sine titulo di immobili.

Le soluzioni giuridiche

Come diffusamente esposto nella sentenza in esame, sussiste nella giurisprudenza di legittimità un contrasto di orientamenti in materia di accertamento e di stima del danno da occupazione abusiva di immobili.

Secondo un primo orientamento la compressione o la soppressione delle facoltà di godimento e di disposizione del bene causate dall'occupazione abusiva determinerebbero di per sé sole la sussistenza di un danno risarcibile (in ragione dell'utilità normalmente conseguibile nell'esercizio di tali facoltà) e tale danno potrebbe essere inoltre concretamente liquidato facendo ricorso al c.d. danno figurativo (coincidente con il valore locativo dell'immobile occupato).

In buona sostanza tale orientamento ritiene operante in siffatte fattispecie una vera e propria praesumptio hominis, fondata sulla natura normalmente fruttifera dei beni immobili e superabile solo con la dimostrazione, a carico del preteso danneggiante, che il proprietario, anche se non ne fosse stato privato, non avrebbe in alcun modo inteso utilizzare il bene (Cass., sez. III, sent. n. 9137/2013, Cass., sez. II, sent. n. 14222/2012; Cass., sez. II, sent. n. 24100/2011; nonché, in tema di risarcimento del danno da abusive imposizione di una servitù a seguito della violazione della normativa in tema di distanze legali, Cass., sez. II, sent. n. 25475/2010).

A tale ricostruzione si oppone un diverso orientamento giurisprudenziale, a mente del quale l'occupazione costituirebbe non il danno ma il presupposto dello stesso, consistendo appunto nella condotta antigiuridica astrattamente idonea a produrlo: ne deriverebbe, per il danneggiato, la necessità di dimostrare il pregiudizio concretamente subito, eventualmente facendo ricorso, anche in via esclusiva, alle presunzioni semplici (Cass., sez. III, sent. n. 15111/2013).

La sentenza in esame si pone nel solco di tale secondo orientamento, nell'ambito del quale opportunamente chiarisce sia che escludere la sussistenza di un danno in re ipsa non preclude in alcun modo il ricorso alle presunzioni per provare l'esistenza del danno subito sia che le facoltà di godimento di un immobile astrattamente suscettibili di essere pregiudicate a seguito dell'occupazione sine titulo non si esauriscono nella sola vendita e locazione dell'immobile stesso.

Quanto al primo profilo viene infatti precisato che, dovendo qualificarsi come danno in senso giuridico le sole conseguenze della lesione di un diritto (e non la lesione in sé), il giudice ben potrà risalire al fatto ignorato dell'esistenza di un danno risarcibile muovendo dal fatto noto del tipo, della quantità e della qualità della lesione del diritto patita dalla vittima.

Quanto al secondo profilo viene inoltre specificato come i beni siano suscettibili anche di uso diretto da parte del proprietario, quale modalità di fruizione non priva di contenuto economico (ad esempio in termini di risparmio di spesa) e suscettibile dunque di essere risarcita ex art. 1226 c.c. laddove non sia dimostrabile nel suo esatto ammontare.

Nel dare conto di tali contrastanti orientamenti e nell'attesa di un'eventuale pronunzia delle Sezioni Unite (il cui intervento, allo stato non sollecitato da alcuna ordinanza di rimessione, potrebbe risultare opportuno anche in considerazione delle diversità di Sezioni chiamate a pronunciarsi in materia), si reputa significativo sottolineare come la posizione assunta dalla corte di legittimità nell'arresto qui in esame risulti, a ben vedere, maggiormente coerente con la posizione assunta dalla medesima giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno derivante dalla lesione di altre tipologie di diritti assoluti.

In particolare, con riguardo ai diritti della personalità ed in genere ai diritti inviolabili della persona, nonché con riguardo alle materie dei diritti di privativa, dell'illecito trattamento dei dati personali, dell'equa riparazione per irragionevole durata del processo e della responsabilità civile della pubblica amministrazione, la giurisprudenza di legittimità può ormai ritenersi consolidata nel senso di escludere la configurabilità di un danno in re ipsa e di ritenere invece necessario che il preteso danneggiato dimostri il danno patrimoniale o non patrimoniale conseguenza della lesione del proprio diritto secondo i principi generali che regolano le conseguenze del fatto illecito (si vedano, tra le altre, Cass., sez. I, sent. n. 17791/2015, Cass., sez. III, sent. n. 24474/2014, Cass., sez. III-VI, sent. n. 18812/2014, Cass., sez. I, sent. n. 23194/2013; Cass., sez. VI – I, ord. n. 21865/2013, Cass., sez. L, sent. n. 7471/2012, Cass., sez. I, sent. n. 25730/2011, Cass., sez. III, sent. n. 22508/2011).

Di converso, in tema di risarcimento del danno da lesione di diritti reali - forse anche per ragioni storiche collegate alla ritenuta intrinseca redditività dei beni oggetto di tali diritti ed all'ampiezza delle facoltà del proprietario - persiste ancora all'attualità il contrasto tra i due sopra esaminati orientamenti.

Ed infatti non solo la Corte di legittimità, con pronunzia di diversa sezione di poco successiva a quella in questa sede esaminata (Cass., sez. II, sent. n. 20823/2015), ha ribadito come il danno da occupazione illegittima di immobili sia in re ipsa (derivando dalla perdita temporanea delle utilità normalmente conseguibili tramite l'esercizio delle facoltà di godimento e di disponibilità del bene), ma risulta anche consolidato, in tema di risarcimento del danno da occupazione usurpativa, l'orentamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il proprietario ha diritto al risarcimento del danno consistente nella mancata percezione del reddito durante il periodo dell'abusiva detenzione pari all'ammontare dei frutti naturali non goduti nel periodo dell'occupazione, salva la prova del maggior danno a carico del proprietario (Cass., sez. I, sent. n. 7320/2008).

Osservazioni

L'elaborazione giurisprudenziale sul danno in re ipsa non muove, a ben vedere, dalla necessità di addivenire ad una rimeditazione della struttura dell'illecito civile sul piano della teoria generale del diritto, ma viene ad esistenza nei sopra menzionati orientamenti giurisprudenziali come possibile strumento per far fronte alle difficoltà incontrate dalla parte nella prova dell'an del danno, anche tenuta in considerazione l'impossibilità di ricorrere allo scopo all'istituto di cui all'art. 1226 c.c., il quale, com'è noto, opera sul solo profilo del quantum risarcibile e presuppone quindi il già intervenuto accertamento dell'esistenza del danno.

Può anzi affermarsi non solo che l'orientamento giurisprudenziale a favore della configurabilità del danno in re ipsa non trova il suo fondamento in una previa rivisitazione della struttura dell'illecito civile, ma anche che tale orientamento non produce a ben vedere quello “stravolgimento” della struttura dell'illecito civile che ad esso viene imputato dai sostenitori dell'orientamento contrario.

Ciò in quanto anche secondo l'orientamento favorevole alla configurabilità del danno in re ipsa il danno non è rappresentato dalla lesione del diritto in sé, postulandosi sempre la ricorrenza di un danno – conseguenza, quale elemento distinto dell'illecito la cui prova viene però ritenuta in sé esistente a seguito della lesione del diritto (tanto che viene comunque ammessa la prova contraria a cura del danneggiante).

Ecco quindi che, ad avviso di chi scrive, il fulcro del problema non è costituito tanto dalle diverse conseguenze in punto di teoria generale dei due contrastanti orientamenti, quanto piuttosto dalle diverse conseguenze in punto di ripartizione dell'onere della prova da illegittima occupazione di un bene immobile.

Segnatamente, secondo l'orientamento favorevole alla configurabilità di un danno in re ipsa il danneggiato non dovrebbe né allegare né provare il danno, spettando al danneggiante convenuto eccepire e dimostrare l'inesistenza dello stesso. Occorre tuttavia sottolineare che, nelle diverse pronunzie che si sono occupate del tema, non si rinviene una specifica presa di posizione sulla natura dell'eccezione in esame, pur ritenendosi preferibile, sempre ad avviso di chi scrive, qualificare la stessa come eccezione in senso lato e non, in assenza di disposizioni normative da cui enucleare una riserva di eccezione al solo interessato, come eccezione in senso stretto (con conseguente possibilità di rilievo d'ufficio di tale eccezione previa instaurazione del contraddittorio sul punto).

Di contro, secondo l'orientamento contrario alla configurabilità di un danno in re ipsa, sarà il danneggiato a dover provare l'esistenza del danno ed il danneggiante potrebbe quindi limitarsi, in termini di mera difesa, a contestare la ricorrenza di uno dei requisiti di fondatezza della domanda.

Questa differente ripartizione dell'onere di allegazione e di prova costituisce quindi il vero discrimine tra le due diverse posizioni considerato che, come sopra esposto, le distinzioni in punto di teoria generale sono molto meno significative di quanto prima facie emergente e che il ricorso alle presunzioni ben può essere ammesso sia per la prova dell'esistenza del danno a carico del danneggiato sia per la prova dell'inesistenza dello stesso a carico del danneggiante (come peraltro evincibile proprio dalla sentenza in commento laddove nella motivazione svincola correttamente sul piano logico la possibilità di utilizzare le presunzioni dalla natura in re ipsa o non del danno).

Ecco dunque che, argomentando dai principi generali che regolano le conseguenze del fatto illecito (e, in particolare, dalla natura riparatoria e non sanzionatoria della relativa responsabilità) oltre che dal notevole aggravio che potrebbe derivare alla posizione del convenuto danneggiante ove si qualificasse l'eccezione di inesistenza del danno come eccezione in senso stretto, ad avviso di chi scrive risulta maggiormente condivisibile l'orientamento fatto proprio dalla sentenza in questa sede esaminata.

Tuttavia onde evitare che, mediante il ricorso alle presunzioni, la negazione del danno in re ipsa si risolva in un vuoto ossequio alla struttura tradizionale dell'illecito civile e che, per tale via, venga dato ingresso ad una nozione sostanzialmente “astratta” di danno risarcibile, si ritiene che ricada sul danneggiato l'onere di allegare e provare i fatti noti a fondamento delle presunzioni, non potendosi certo presumere “a monte” che un bene immobile sia sempre utilizzato o che sia utilizzato in un dato modo rispetto ad un altro (essendo all'evidenza diverso il danno liquidabile, anche ex art. 1226 c.c., a seconda della specifica modalità concreta di utilizzazione del bene).

Solo tramite una rigorosa individualizzazione del danno subito potrà infatti scongiurarsi il rischio di ogni indebita locupletazione del danneggiato in sede risarcitoria.

Ciò non toglie che, proprio in tema di danno da occupazione illegittima di un immobile, l'ampiezza delle facoltà esercitabili dal proprietario comporti un ampliamento dei danni astrattamente producibili ed un corrispondente incremento delle tipologie di indizi utilizzabili per la relativa prova.

In particolare, proprio in casi come quello oggetto della pronunzia in esame (in cui il bene è stato illegittimamente occupato per numerosi anni prima del passaggio in giudicato della sentenza di rilascio), il danneggiato, in ipotesi non utilizzante il bene prima dell'indebita occupazione, ben potrebbe richiedere, in termini di perdita di chance, il ristoro del danno a lui derivante dalla sopravvenuta impossibilità di iniziare a fruirne fino all'esecuzione della condanna al rilascio.

Ed infatti, in considerazione della notevole durata dei giudizi e della dubbia possibilità di ricorrere allo strumento di cui all'art. 614-bis c.p.c. in caso di obblighi per i quali la legge prevede tutele in forma specifica, è ben lecito dubitare del fatto che le modalità (in ipotesi inesistenti) di utilizzazione del bene anteriormente all'occupazione esauriscano l'intera area del danno potenzialmente risarcibile e determinino quindi ipso facto l'esclusione dello stesso.

Ne consegue che, fermi restando a carico del danneggiato il puntuale onere di allegazione di tale particolare pregiudizio e l'onere della prova dello stesso in termini di elevata probabilità (e non di mera potenzialità), la notevole ampiezza delle facoltà del proprietario astrattamente suscettibili di essere menomate può essere compatibile con la negazione della teoria del danno in re ipsa, ma sfugge sempre ad un'individuazione, in termini di numero chiuso e tipizzato, dei possibili danni concretamente risarcibili.

Sarà pertanto ed in conclusione indispensabile che nel corso del giudizio sia fatto buon governo delle presunzioni, ossia del procedimento logico – deduttivo tramite cui il giudice raggiunge la prova del fatto ignorato basandosi sugli indizi di cui all'art. 2729 c.c., ragionamento che, com'è noto, non deve collegare il fatto ignoto agli indizi in termini di conseguenza univoca ed ineluttabile, ma deve far discendere il primo dai secondi in termini di conseguenza probabile alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit.

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